Prescrizione: dem in trincea, pronti a votare con B. e Iv

A un certo punto della giornata di ieri Alfredo Bazoli e Walter Verini, componenti della commissione Giustizia del Pd (il primo è il capogruppo) hanno deciso che era il caso di aggiungere la loro presenza a quella (massiccia) dei forzisti, durante la maratona oratoria dell’Unione camere penali contro la riforma Bonafede. Da lunedì scorso (e fino a domani) di fronte alla Corte di Cassazione a Roma, circa mille avvocati si esprimono contro il blocco della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, che entra in vigore il primo gennaio 2020. “Abbiamo valutato che fosse il caso di chiarire in quella sede il nostro punto di vista”, spiega Bazoli. E attacca: “Sulla prescrizione abbiamo fatto una battaglia contro il precedente governo e abbiamo ereditato questa norma. Il confronto nella maggioranza è aspro: speriamo di ottenere risultati per garantire la ragionevole durata dei processi”. Oggi alla manifestazione dei penalisti ci sarà pure una delegazione di Italia viva, dopo che Matteo Renzi ha annunciato che voterà la proposta di legge Costa per cancellare la riforma Bonafede.

Dopo settimane e settimane di vertici, di incontri informali, di messaggi prima morbidi, poi sempre più perentori, il Pd ha deciso che sulla prescrizione non vuole mollare. E Nicola Zingaretti e Andrea Orlando hanno annunciato che – se non si trova un accordo – i dem presenteranno una loro proposta di legge. “Presenteremo degli emendamenti al testo di Costa e li voteremo”, spiegano fonti vicine al segretario. Il voto sulla proposta del deputato di Forza Italia è previsto prima della fine dell’anno a Montecitorio. Dunque, alla Camera si potrebbe arrivare a un sì unitario di Pd, Italia Viva e FI. Tra le altre opzioni prese in considerazione, l’idea di infilare nel Milleproroghe il rinvio della Spazzacorrotti. O presentare una proposta di legge autonoma. Perché poi va detto che – a questo punto – non ci sono neanche i tempi tecnici per fermare l’entrata in vigore della legge. I cui effetti, comunque, non si avranno prima di 3 o 4 anni. Quella del Pd sembra soprattutto una battaglia di bandiera. Che poi sia una strana (e sospetta) bandierina per il Pd al Nazareno lo sanno. Per cui, le prime motivazioni che si danno sono politiche.

La prescrizione è il prestesto per dare battaglia, piuttosto che il tema più rilevante del momento. “Noi non possiamo continuare a cedere su tutto. Non possiamo lasciare che i Cinque Stelle facciano il bello e il cattivo tempo. Se il governo deve andare avanti, non può essere in questo modo”, spiegano ai vertici del Nazareno. Per dirla con Verini: “Perché Di Maio alza muri, delegittima e indebolisce il tentativo di sintesi del presidente del Consiglio?”.

Il Pd governista guarda con speranza alle parole pronunciate ieri da Giuseppe Conte a Londra, sulla necessità di trovare una soluzione. Ma i dem in blocco non si fidano di Luigi Di Maio, e neanche della tenuta del Movimento e della capacità di Conte di tenere tutto. Quindi, meglio evitare di continuare a ingoiare, pure in vista di un’eventuale campagna elettorale.

Oggisi riunisce la “cabina di regia” per decidere come procedere nel merito. Oltre a Bazoli, ci saranno l’ex Guardasigilli, Andrea Orlando, Andrea Giorgis, Roberta Pinotti, Franco Mirabelli e Michele Bordo. L’idea di partenza è quella di lavorare a una proposta che stabilisca una durata massima per i processi, dal secondo grado in poi. Una soluzione che non prescrive il reato, ma estingue il processo. Bonafede ha già detto di non essere d’accordo.

Ma, al netto della situazione politica generale, perché il Pd si impicca alla prescrizione? “Forse perché il blocco è incostituzionale?”, suggerisce il capogruppo alla Camera, Graziano Delrio. E poi ribadisce: “Si è detto che si può fare la prescrizione, ma con correttivi sulla durata del processo”. Ma non era una battaglia del Pd antiberlusconiano? “Sì, ma le regole le abbiamo cambiate con la riforma Orlando”, dice. Stesso ragionamento fa la Pinotti. “La riforma Bonafede è un salto nel buio. Noi non vogliamo allungare i processi, ma evitare il collasso del sistema e garantire la certezza della pena”.

In serata interviene Bonafede. Per ribadire il punto: “Mi aspetto lealtà dal Pd. Se si tratta di lavorare per garantire tempi certi del processo ho già dato disponibilità mille volte”. Ma le sue proposte (in sintesi, introdurre un regime sanzionatorio per la durata eccessiva) non hanno convinto il Pd. Risponde Orlando: “Sin qui l’unico segno di lealtà l’abbiamo dato noi negando l’urgenza sulla proposta Costa. Dunque, “ora tocca al ministro proporre delle soluzioni perché quelle fin qui avanzate non garantiscono certezza dei tempi del processo. Ci deve dire se delle nuove proposte intende farle lui altrimenti le faremo noi”.

Fino a che punto si arriverà? Bonafede accusa: “È assurdo che su una conquista di civiltà di questo tipo ci si possa interrogare sulla durata del governo”. Ma per ora non ci sono neanche vertici di maggioranza sul tema.

Insaputismi

Un un misto di indignazione e ilarità ha accolto l’autodifesa di Anastasiya Kylemnyk, la fidanzata di Luca Sacchi assassinato il 23 ottobre a Roma. Davanti al gip che la interrogava sull’indagine a suo carico per spaccio di droga, la ragazza ha dichiarato in lacrime: “Non sapevo di avere 70 mila euro nello zaino”. Ora, è vero che ogni tanto la Procura di Roma è di bocca buona: quando De Benedetti confidò al suo broker Bolengo di aver saputo in anteprima dal premier Renzi che stava uscendo il decreto Banche e gli commissionò un investimento sicuro di 5 milioni, i pm riuscirono a indagare Bolengo e non l’Ingegnere (che negava di aver detto ciò che aveva detto) nè il premier. Cioè l’unico che non aveva fatto niente, anziché l’autore e il beneficiario della soffiata. Ma queste sono fortune riservate ai potenti, non ai quidam de populo. Dunque è altamente improbabile che i giudici credano a una ragazza con lo zainetto imbottito di soldi che giura di non essersene accorta: sia per il peso e l’ingombro di 70mila euro in contanti, sia perché gironzolare con lo zainetto vuoto e ritrovarselo riempito da un munifico passante con 700 banconote da 100 euro o con 1400 da 50 o con 3500 da 20 o con 7000 da 10 è un sogno che raramente si avvera. A meno che uno non si chiami Claudio Scajola: allora tutto è possibile, anche che un costruttore gli paghi 1,1 milioni per una casa da 1,7 con vista Colosseo senza dirgli niente, lasciandolo convinto di averla pagata 600 mila euro e di aver fatto un affarone. Infatti, appena lo scoprì, Scajola si dimise sgomento, spiegando giustamente che “un ministro non può sospettare di abitare un’abitazione pagata in parte da altri”.

Eppure, a ben guardare, l’alibi di Anastasiya è infinitamente più verosimile, o meno inverosimile, di quelle che ogni giorno escono di bocca ai politici-gnorri. Tipo Salvini che, in 26 riunioni, non s’era accorto del Mes. L’altroieri è fallito miseramente l’ennesimo tentativo delle Iene di sbugiardare il premier Conte sui suoi rapporti con lo studio Alpa nel 2002, ai tempi della sua promozione, decisa da una commissione presieduta da Alpa, a professore di Diritto privato: la fattura che doveva smentirlo non era una fattura, ma un progetto di parcella; riguardava Alpa e non Conte, che in quella causa sostituì Alpa in alcune udienze senza farsi pagare; e non può inficiare il concorso del 2002 per conflitti d’interessi perché risale al 2009, sette anni dopo il concorso, in cui peraltro Conte fu promosso da 5 commissari su 5. Ieri naturalmente il Giornale e La Verità hanno rilanciato la bufala (“La bugia di Conte”, “La parcella che inchioda Conte”).

E tal Renzi ha dichiarato al Messaggero: “Se quello che viene contestato a Conte fosse stato contestato a me, i 5Stelle chiederebbero le dimissioni e scatenerebbero i social contro di me. Non so cosa sia successo tra Conte e Alpa. Penso che sarà Conte il primo ad aver interesse a chiarire”. A parte che Conte l’ha fatto per l’ennesima volta con un’intervista alle Iene, è curioso che Renzi dica di “non sapere quel che è successo tra Conte e Alpa”: se non lo sa, come può fare paragoni con quello che viene contestato a lui? E quando mai ha chiarito quel che viene contestato a lui, infinitamente più grave di quel che veniva contestato a Conte, visto che Conte, Alpa e nessun loro amico o parente sono indagati, mentre Renzi ha padre e madre condannati in primo grado e tutti i fedelissimi indagati e/o imputati (Lotti, Carrai, Bianchi, Bonifazi, i coniugi leopoldi Donnini-Mammoliti, Vannoni, Del Sette, Saltalamacchia, ecc.). Quindi il suo periodo ipotetico del secondo tipo (“se fosse contestato a me… chiederebbero…”) può tranquillamente declinarlo all’indicativo presente: alla sue fondazioni Big Bang, Open ed Eyu, sono contestate cose molto gravi. Tipo aver tirato su milioni su milioni da 40 imprenditori, perlopiù coperti dalla privacy, alcuni destinatari di marchette governative, mentre il Pd finiva in bolletta, cassintegrava i dipendenti e chiudeva l’Unità. E lui non ha mai dato la benchè minima spiegazione. Appena si apre un’inchiesta sui suoi cari, Renzi attacca pipponi infiniti sulle querele che sporgerà. Poi parla dei pm che ce l’hanno con lui, mentre di solito è il contrario (i suoi fidi al Csm tentarono di cacciare il pm Woodcock da Napoli in base ad accuse false, il suo amico Lotti tentò di stroncare la carriera al pm fiorentino Creazzo, e così via). Infine si scusa con gli indagati e i perquisiti per le indagini e le perquisizioni (cioè sempre per cose che non ha fatto lui, mai per quelle che ha fatto o fatto fare lui). E non spiega nulla sull’oggetto dell’indagine.

I suoi parenti e amici continuano a finire nei guai – come il povero Paolo Berlusconi che finiva in galera al posto di Silvio o il povero broker che finiva indagato al posto di De Benedetti e Renzi – e lui fa lo gnorri, fischietta e parla d’altro. Un caso di insaputismo ancor più spudorato di quello di Scajola, che almeno mentiva sul merito della casa e del prodigioso finanziamento alle sue spalle; Renzi invece nel merito non entra mai, agevolato dalla stampa più serva del mondo che glielo consente con interviste all’italiana: senza domande. Quindi, siccome ormai vale tutto, noi riteniamo un tantino più credibile l’alibi di Anastasiya, ignara dei 70mila euro nel suo zainetto: sicuramente pensava di essere uscita inavvertitamente col ferro da stiro sulle spalle. Un alibi di ferro che fa il paio con quello sfoderato a suo tempo da Sara Tommasi, protagonista di film porno a sua insaputa. Il suo fidanzato di allora, il celebre avvocato-scrittore Alfonso Marra, li attribuì all’abuso di droghe. Ma lei lo smentì con un argomento decisivo: “É colpa delle entità aliene che mi hanno impiantato un microchip nel cervello”. Strano che non abbia ancora aderito a Italia Viva.

Non solo tutela del patrimonio: si rischia di essere al servizio della repressione

Da quando faccio parte del comitato scientifico degli Uffizi, mi ero ripromesso di non scrivere di materie che avremmo dovuto esaminare in quella sede istituzionale. Ma, col passare dei mesi, mi sono reso conto che l’autonomia che la riforma Franceschini fornisce al direttore è così larga, e la discrezionalità con la quale il direttore Eike Schmidt se ne avvale è così incondizionata, che di certi temi non parleremo mai. E così che pochi giorni fa ho appreso dai giornali che Schmidt aveva siglato un accordo con il dipartimento culturale del governo di Hong Kong che prevede l’invio di numerosi dipinti di Sandro Botticelli e di “dozzine” di altri quadri di suoi contemporanei. Tutto per il 2020: praticamente domani. La prima domanda è: cosa ci sta a fare un comitato scientifico se non può vagliare accordi di questa portata prima che siano firmati? La domanda investe la sicurezza del “patrimonio storico e artistico della nazione”: decisioni di questa portata possono essere prese da una persona sola, che non ha nessuna precedente esperienza di direzione di un museo, ed è stata nominata da un ministro non tecnico dopo essere stato selezionato da una commissione controllata dal potere politico attraverso un esame dei titoli durato 9 minuti e un colloquio inferiore ai 15?

Ma forse non siamo stati consultati perché non si tratta di un accordo scientifico: e dunque non c’è nulla che possa essere esaminato da un consesso di storici dell’arte. Come nel caso del prestito alla Francia dell’Uomo Vitruviano di Leonardo, si tratta di una questione politica: il governo italiano chiede agli Uffizi di fare un favore al governo di Hong Kong (quello che i dimostranti definiscono il “fantoccio di Xi Jinping”’). E gli Uffizi obbediscono tirando fuori l’argenteria. Se le cose stanno così, nascono altre due domande.

Una riguarda la sicurezza delle opere. Molti osservatori internazionali pronosticano un’evoluzione tutt’altro che pacifica della rivolta dei giovani democratici di Hong Kong, ritenendo che il regime di Pechino abbia tutto l’interesse a provocare una escalation violenta che giustifichi l’invio dei carri armati che dallo scorso maggio stazionano nell’interno. Speriamo che non finisca così. Ma, in ogni caso, siamo sicuri che spedire “dozzine” di fragili opere del Rinascimento in un teatro così instabile sia una buona idea? Cosa ne è della responsabilità verso un patrimonio di cui siamo solo “depositari e consegnatari”, come fu detto in Assemblea costituente? E che ne è del principio di prudenza col quale tutti noi amministriamo le nostre cose private? Davvero manderemmo oggi a Hong Kong i nostri beni più preziosi? L’altra domanda è la più importante. Poche settimane fa, la National Gallery of Scotland ha rinunciato alle donazioni di British Petroleum in nome della sostenibilità ambientale: perché pensa che un museo debba interrogarsi sul mondo che vogliamo. Ora, possiamo pensare che gli Uffizi non si curino dei diritti umani e di quelle libertà civili e politiche che sono riconosciute come fondamentali dalla nostra Costituzione, e che il governo totalitario cinese sta clamorosamente violando a Hong Kong? Io penso di no. Si badi, qua non si dice di rinunciare, per ragioni politiche, a un progetto scientifico di lungo corso: ma esattamente il contrario. E cioè di non dar corso a un progetto evidentemente tutto promozionale e politico nel momento politico sbagliato. Intervistato dalla Fondazione Feltrinelli, Joshua Wong – uno dei volti di questa meravigliosa protesta senza leader – ha chiesto all’Italia di non pensare solo agli scambi commerciali con l’immenso mercato cinese, e di schierarsi invece con i ragazzi che manifestano per la dignità della persona umana. La risposta degli Uffizi è desolante: se Mussolini aveva messo Botticelli al servizio del fascismo (titolo di un famoso saggio di Francis Haskell) oggi siamo capaci di mettere Botticelli al servizio della repressione totalitaria dei nostri stessi ideali di libertà e democrazia. Un vero capolavoro.

Accordo tra gli Uffizi e Hong Kong: Botticelli parla cinese

Il direttore degli Uffizi, Eike Schmidt, ha preso una decisione che non passerà inosservata: una partnership di cinque anni tra le Gallerie degli Uffizi e Hong Kong. La prima missione non è da poco: per la prima volta in Cina, dal settembre 2020 al gennaio 2021, una grande mostra dedicata a Sandro Botticelli e la pittura fiorentina del ’400.

Si tratta di una questione aperta da decenni: studiosi e dirigenti culturali divisi tra una “chiusura” conservativa dei nostri incommensurabili beni e un’apertura verso il mondo. Sandro Botticelli (1445-1510), pittore rinascimentale, generoso, idealista e sfaccettato, vissuto tra la Firenze dei Medici e i dissidi della Chiesa romana, fu molto prolifico. In questo caso non lasceranno gli Uffizi i suoi capolavori identitari come la Venere, la Primavera, l’affresco staccato dell’Annunciazione, la Madonna del Magnificat e la Madonna della Melagrana o altre opere di grandi dimensioni. In Cina arriveranno solo alcuni dipinti di piccole e medie dimensioni e decine di lavori di artisti coevi, una lista ancora in corso di elaborazione. Schmidt ne è entusiasta: “Gli Uffizi compiono una grande operazione internazionale”. Nelle scorse settimane, sempre a Oriente, grande successo per la mostra, prima a Vladivostok e attualmente all’Hermitage di San Pietroburgo che vede protagonista La Madonna della Loggia, una delle opere giovanili di Botticelli. Sia la mostra in Russia che la futura a Hong Kong rappresentano un’occasione per presentare la straordinaria bellezza dell’arte rinascimentale nell’Estremo Oriente. Due iniziative dal grande valore simbolico, che portano la nostra cultura nei luoghi più distanti, ma che non mettono affatto d’accordo tutti gli studiosi (come dimostra il commento di Tomaso Montanari in questa pagina). L’intesa è stata firmata con il Dipartimento dei Servizi per la cultura (Lcsd) della grande metropoli asiatica, che sosterrà economicamente la missione e le attività strategiche degli Uffizi, in particolare per Botticelli con un contributo di 600mila euro. Ne è orgoglioso Vincent Liu, direttore di Lcsd: “Hong Kong ambisce ad avere un ruolo di punta nello sviluppo del settore museale e la partnership con gli Uffizi stabilirà un modello positivo di collaborazione”. Gli Uffizi collaboreranno infatti anche per organizzare altre esposizioni a Hong Kong nei prossimi cinque anni e predisporre scambi culturali, visite reciproche e occasioni di studio tra i funzionari dei due poli attraverso un programma di gemellaggio museale, oltre ad una serie di visite di gruppi di giovani ambasciatori dell’arte di Hong Kong a Firenze.

Dal canto suo, il Dipartimento dei Servizi per la Cultura sosterrà in maniera sostanziale le attività degli Uffizi, attraverso larghi contributi finanziari, compreso il già citato di 600 mila euro per la sola mostra di Botticelli.

Il direttore degli Uffizi ne è convinto: “Siamo entusiasti di annunciare questa collaborazione con il sistema museale di Hong Kong. Dopo le nostre recenti imprese in Russia e Polonia, questo progetto strategico sarà strumentale per aumentare la conoscenza della cultura italiana nel mondo e per assicurare che l’Italia sia in primo piano negli scambi culturali nel XXI secolo”.

Salomon, i colori e il lager. Un’autobiografia d’artista

Sopravvive all’epidemia di famiglia – quella dei morti suicidi –, ma non alla furia nazista: Charlotte Salomon viene ammazzata nel campo di concentramento di Auschwitz a soli tre giorni dal suo ingresso. Ha 26 anni, è sposata da una dozzina di settimane e incinta di cinque mesi. “Dunque è questa la vita”.

Grazie a Castelvecchi esce ora finalmente in Italia Vita? O teatro?, un’autobiografia che ha la raffinatezza del libro d’arte e il respiro del romanzo illustrato, e infatti è stata paragonata a un proto-graphic novel, con tavole pittoriche che si inseriscono nel solco dell’espressionismo tedesco, più echi di Munch, dei Fauves e di altre disgraziate avanguardie del 900.

Nata a Berlino nel 1917 e morta nel lager nel 1943, Charlotte è l’ultima studentessa ebrea dell’Accademia di Belle arti di Berlino: a causa delle sue radici fatica a entrarci, e l’insegnante di disegno continua a bacchettarla perché “sbaglia sempre il numero delle foglie del cactus”. Nel 1938 – dopo la notte dei cristalli – fugge in Costa Azzurra, vicino a Nizza, dai nonni materni, proprio quel ramo della famiglia infettato dal virus della depressione e dell’autolesionismo, che, per ultima, uccide la nonna, “chiamata a portare la sofferenza del mondo, il dolore del destino”. È così che la nipote scopre la lunga catena di suicidi, dalla madre alla zia (di cui porta il nome), al fratello della nonna. Eppure, proprio in Francia, la giovane si riscatta da un destino segnato e sceglie la vita, anche grazie all’amore.

Suo grande amore – grande perché non corrisposto – è (nell’autofiction) Amadeus Daberlohn, anch’egli artista, ma già fidanzato e con un debole per la matrigna di Charlotte, Paula, seconda moglie del patriarca Albert Salomon. “Amandeus” è l’unico, però, a credere nel talento artistico dell’acerba pittrice, donandole “la forza e il coraggio di divenire vivente”: è il suo Orfeo, che la guida nella creazione. E per fortuna lei non è Euridice; perciò si salva dall’ennesima, autoinflitta morte.

Vita? O teatro? viene alla luce negli anni febbricitanti dal 1940 al 1942, in cui Salomon – rifugiata all’estero – dipinge oltre mille tempere con i soli tre colori primari e il bianco; alla fine, selezionerà 781 tavole per comporre, insieme a fogli dattiloscritti, il “romanzo della sua vita”: Un Singspiel, letteralmente una “recita cantata”, un’operetta comica “composta di un preludio, una parte principale e un epilogo”. Comica, sì, di una levità e ironia commoventi.

L’autobiografia copre gli anni dal 1913 al 1940, cioè da prima della nascita alla solitudine francese, quando Charlotte rimane col nonno “reso insensibile dalle tragedie… È il destino di questa famiglia. Sono tutti così innaturali”. I nomi di parenti e amanti sono storpiati nel libro, ma facilmente identificabili: in primis, la matrigna nonché cantante lirica “Paulinka”, che soffia alla ragazza il succitato spasimante Amadeus, ma le salva il padre dal lager grazie alle conoscenze nei salotti del potere berlinese. Nel 1933 è l’inizio della fine: “Qui si può osservare come questo colpisse diverse anime, al tempo stesso umane ed ebraiche… Ne ho abbastanza di questa epoca”. Eppure, persino il nazismo – persino il “signor Hitler” – è trasfigurato dal tocco lirico, innamorato e incantato di Salomon, che nella sua incoscienza si ribella e salva una prima volta dal campo di prigionia col nonno ottantenne.

Irrequieta, malata di “malinconia cosmica”, Charlotte ha un talento versatile e vulcanico, che spazia dalla pittura alla musica, dalla letteratura al teatro; crede che la “vita più vera” sia quella della finzione e dell’arte, perciò nell’autobiografia si concede parecchie licenze poetiche: “Ho imparato a percorrere ogni strada e ne sono diventata una anche io”.

Non solo la vita di Charlotte, ma anche il ritrovamento delle sue opere è rocambolesco: custodite dal medico di famiglia, il dottor Moridis, vengono poi consegnate a Ottilie Moore, l’americana che offre ospitalità ai Salomon in Francia e che restituisce i materiali al padre Albert e alla seconda moglie Paula nel 1947. I due, nel frattempo, erano anch’essi scappati dalla Germania e rifugiati ad Amsterdam: lì un certo Otto Frank, loro amico, è il primo a suggerire di donare le tele e gli scritti di Charlotte a un editore o a un museo. Così ha appena fatto lui con il libro della figlia, Il diario di Anna Frank, ma i Salomon non sono persuasi e conserveranno il malloppo ancora per molto tempo, dentro a cinque scatole di lino rosso. Nel 1959 il lascito è affidato al Rijksmuseum e poi nel 1971 allo Joods Historisch Museum; dopodiché una serie di mostre, film, documentari, biografie farà conoscere e riscoprire al mondo il nome della giovane artista berlinese.

“Un po’ d’amore, qualche legge, una ragazza, un lettone. Dopo tante sofferenze, dopo tante morti, è la vita ed è bene”: l’opera di Salomon è una benedizione, un inno alla gioia, un inno alla vita. O al teatro. O all’arte. Nonostante tutto.

“Abuso di potere: impeachment per Trump”

Donald Trump merita la procedura di impeachment, la quarta nei 243 anni di storia americana, per aver “ostruito la giustizia” e “abusato del suo potere” sollecitando “l’interferenza di un governo straniero, quello dell’Ucraina, per trarre vantaggio nella sua rielezione”, mettendo così “i suoi interessi politici e personali al di sopra di quelli degli Stati Uniti”. Una campagna “durata mesi” che ha coinvolto il vicepresidente Mike Pence, il segretario di stato Mike Pompeo, il chief of staff Rick Mulvaney e altri alti dirigenti.

La scontata ma pur sempre imbarazzante conclusione del rapporto della commissione intelligence della Camera arriva nel pieno del vertice Nato a Londra, dove il presidente duella aspramente con Emmanuel Macron e gli alleati senza dimenticare il fronte interno: “È una bufala, penso che ciò che i Democratici hanno messo in scena sia molto antipatriottico”, denuncia, attaccando come “pazzo e malato” il presidente della commissione intelligence Adam Schiff, che finora ha condotto le udienze.

Il rapporto di 300 pagine è il frutto di oltre due mesi di indagini e interrogatori sul Kievgate, le pressioni del presidente sul governo ucraino affinché indagasse sul suo rivale nella corsa alla Casa Bianca Joe Biden e suo figlio Hunter, che sedeva nel board della società energetica ucraina Burisma a 50 mila dollari al mese quando il padre gestiva la politica Usa in quel Paese. Pressioni alimentate con il blocco degli aiuti militari americani.

Il rapporto verrà ora trasmesso alla commissione giustizia della Camera, incaricata di redigere gli articoli per la messa in stato d’accusa. Prima udienza mercoledì, con l’audizione di blasonati costituzionalisti che aiuteranno i deputati a capire le basi storiche e giuridiche per l’impeachment.

Secondo il Washington Post, alcuni membri della stessa commissione e altri deputati più liberal stanno discutendo la possibilità di includere nei capi d’accusa anche l’ostruzione della giustizia ed altri “gravi reati” che ritengono siano chiaramente enunciati nel rapporto del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate. O le accuse che Trump ha ricevuto illeciti vantaggi personali in contrasto con la sua carica pubblica. Ma l’idea incontra la resistenza dei dem più moderati, timorosi di un effetto boomerang dei collegi elettorali più conservatori, e della stessa leadership, che preferirebbe mantenere il focus sull’Kievgate.

La Judiciary committee ha invitato a partecipare anche Trump, ma l’avvocato della Casa Bianca – che ieri ha commentato: il rapporto “non è riuscito a produrre alcuna prova di illeciti” – Pat Cipollone ha comunicato che il tycoon non ci sarà alla prima udienza, riservandosi la facoltà per le successive, anche se appare improbabile: una presenza del presidente rischierebbe di legittimare un procedimento considerato sino a oggi da lui e dai repubblicani “ingiusto”. Previsione che sembrerebbe confermata dall’annuncio di Trump al vertice Nato: “I dirigenti della mia amministrazione testimonieranno al Senato, dove il processo sarà giusto”. Nella camera alta la maggioranza è dei repubblicani, che alla Camera hanno già ‘scagionato’ il tycoon nel loro rapporto di minoranza, escludendo qualsiasi profilo di reato. Ed è proprio al Senato che Trump conta di essere assolto.

Prima però dovrà essere completato l’iter alla Camera, dove i dem sperano di votare gli articoli messi a punto dalla commissione giustizia entro la terza settimana di dicembre, lasciando sotto l’albero di Natale della Casa Bianca un pacco dono poco gradito.

“Mi faceva girare tra gli ospiti come fossi un vassoio di frutta”

Pubblichiamo un estratto dell’intervista-testimonianza esclusiva di Virginia Roberts Giuffre alla trasmissione Panorama andata in onda sulla BBC. Ancora oggi il principe Andrew nega di aver conosciuto la vittima.

“Sono stata abusata da quando avevo appena 7 anni. L’infanzia mi è stata rubata in fretta. Ero piccola, ma già distrutta dentro, così sono scappata di casa. Nel 2000 avevo 16 anni e lavoravo come inserviente nel resort di Donald Trump a Mar-a-Lago. Ghislaine Maxwell (compagna di Epstein, ndr) mi vede e mi offre un impiego da massaggiatrice.

Corro da mio padre, che era addetto ai campi da tennis e mi aveva trovato il lavoro lì. “Non ci crederai, papà – gli dissi – mi hanno appena proposto un colloquio. Se andrà bene diventerò una vera massaggiatrice”. Il colloquio è nella villa di Epstein a Palm Beach. Ghislaine mi accompagna su per le scale e vedo quest’uomo nudo, steso su un lettino per i massaggi. La cosa mi stupisce, ma penso: “Ok, suppongo che qui funzioni così”. Lui guarda Ghislane, lei mi dice: “Qui ci sono le lozioni, qui gli oli, spalmati le braccia, tieni sempre le mani addosso alla persona che stai massaggiando”. […]

Sembravano brave persone, quindi mi fidai e raccontai loro che avevo avuto una vita difficile, che ero scappata di casa perché abusavano di me. È stato un errore terribile, perché ho svelato loro quanto fossi vulnerabile. Gli ho fatto un regalo, era ciò che volevano.

Ghislaine si spoglia e mi ordina di fare lo stesso. Cominciano a toccarmi, a chiedermi di fare cose su di lui, e io le faccio. Mi sentivo annullata, pensavo che la vita non potesse offrirmi altro che quello. […]

Prima mi violentava solo lui, poi iniziò a farmi girare tra i suoi ospiti. Passavo da uno all’altro come un vassoio, un vassoio di frutta. Il più delle volte volevano essere davvero massaggiati, poi sfogavano le loro voglie sessuali. […]

Volavo su jet privati, visitavo posti che non avrei mai immaginato.

Nel 2001 mi portarono a Londra, arrivammo il 9 marzo, ripartimmo due giorni dopo. Il principe Andrew venne a farci visita a casa di Ghislane. Prendemmo il tè, Andrew parlava di Fergie, la sua ex moglie. Io stavo seduta in silenzio come mi era stato detto. “Stai seduta, non parlare se non ti rivolgono la parola. Sii educata, ridi alle battute”.

Una sera andammo al Tramp, un night club. Andrew mi chiese di ballare. Ballava nel modo più orribile che avessi mai visto. Mi sudava addosso, sembrava piovesse. Ma sapevo che dovevo farlo contento, perché era quello che Jeffrey e Ghislaine si aspettavano da me. A un certo punto Ghislaine arriva e dice: “Torniamo a casa adesso, Andrew viene con noi. Lui era in un’altra macchina, e Ghislaine mi disse che avrei dovuto fargli quello che facevo a Jeffrey. Mi sono sentita malissimo. Non me lo aspettavo da un membro della famiglia reale, una persona rispettata e ammirata.

Quando fummo a casa chiesi a Epstein di farmi una foto con Andrew da far vedere alla mia famiglia. Poi obbedii alle istruzioni.

C’era una vasca da bagno, è cominciato lì. Poi siamo andati in camera da letto. Non è durato molto. Quando ha finito si è alzato e mi ha detto grazie. È uscito dalla stanza e io sono rimasta sul letto schifata, mi vergognavo, mi sentivo sporca. Il giorno dopo Ghislaine mi disse che avevo fatto un ottimo lavoro. “Era davvero contento”, mi fece.

È stato un periodo orribile, spaventoso. Ero appena stata violentata da un membro della famiglia reale. Ero incatenata, anche se non in senso fisico: quelle persone, così potenti, erano le mie catene.

In tutto ho fatto sesso tre volte con il principe Andrew. Una volta a casa di Ghislaine a Londra, un’altra in quella di Jeffrey a New York e la terza sull’isola privata di Jeffrey ai Caraibi, St. James. In quest’ultimo caso fu un’orgia con altre otto ragazze”.

(Traduzione di Paolo Frosina)

La Grosse Koalition rischia il ko

La Grosse Koalition potrebbe avere i giorni contati: due, per l’esattezza. Tanti, infatti, sono i giorni che mancano al congresso dell’Spd, una convention decisiva che potrebbe mettere la parola “fine” all’attuale esperienza di governo in Germania. È lo scenario che s’è aperto con la vittoria della coppia di semi-sconosciuti Saskia Esken e Norbert Walter-Borjans sabato a Berlino, al termine del referendum per la leadership socialdemocratica.

Esken, deputata al Bundestag ed esperta d’informatica, e Walter-Borjans, noto per essere un cacciatore d’evasori come ministro delle Finanze nel Nord Reno Westfalia, chiedono un update del contratto di coalizione con gli alleati conservatori della Cdu-Csu. “Per la democrazia la Grosse Koalition è una schifezza” e “c’è la necessità di governare in altre costellazioni”, ha detto Esken nella prima intervista tv dopo l’elezione. In particolare, la neo coppia punta sulla cosiddetta “clausola di revisione” contenuta nell’accordo di coalizione siglato a marzo 2018, secondo la quale al mutare delle condizioni socio-economiche, il contratto deve essere aggiornato. Esken e Walter-Borjan vogliono uscire dalla politica del pareggio di bilancio, dato il raffreddamento della congiuntura economica, e chiedono un programma d’investimenti pubblici decennale da 450 miliardi da impiegare nel risanamento delle infrastrutture: scuole, strade, ferrovie.

A uscire sconfitta dal referendum dell’Spd è la linea del ministro delle Finanze Olaf Scholz, strenuo difensore dello schwarze Null (il pareggio di bilancio) introdotto dal predecessore Wolfgang Schäuble, e ultimo superstite di peso della linea filo-GroKo, dopo le dimissioni dell’ex leader Andrea Nahles e il ritiro di Sigmar Gabriel. La base del Partito socialdemocratico si è scoperta molto più a sinistra della dirigenza. Una sorpresa a metà, a dire il vero. Dal momento che buona parte dell’Spd era già stata tirata dentro alla terza coalizione con la Cdu-Csu, dopo le elezioni del 2017. Ma se il partito esulta, il governo trema e gli alleati di coalizione chiudono su tutta la linea. “Una nuova trattativa del contratto di coalizione non è in programma” fa sapere il portavoce della cancelliera Angela Merkel, Steffen Seibert. Dello stesso tenore le dichiarazioni della leader Cdu, Annegret Kramp-Karrenbauer, che sottolinea l’assenza di margini di trattativa sul pareggio di bilancio, e con la finanziaria appena varata. “Siamo lontani da un crollo dell’economia”, fa sapere Akk, e non c’è alcun bisogno di un aggiornamento del contratto. “Sta all’Spd decidere se andare avanti o no con la coalizione”, incalza Kramp-Karrenbuaer.

È proprio ciò che dovrà decidere l’Spd, nel congresso che si aprirà a Berlino, da venerdì a domenica, e s’annuncia epocale. Il 6 è San Nicola e “Am Nikolaus ist das Groko-aus” (per San Nicola si esce dalla Grosse Koalition), si diceva all’ultimo congresso dei giovani socialdemocratici, gli Juso. L’organizzazione giovanile guidata da Kevin Kuehnert – considerato il “padre putativo” di questa elezione – ha sostenuto Esken-Walter-Borjans ed è contraria alla terza Grosse Koalition, prevedendo un’ipotetica intesa con Linke e Verdi. L’intero gruppo dei parlamentari Spd, invece, è a favore della coppia Olaf Scholz-Klara Geywitz e in genere della linea pro-GroKo. Del resto i risultati hanno evidenziato un partito spaccato in due: il 45,33% ha votato contro i vincitori, che hanno raccolto il 53,06% dei consensi. Questo partito, al limite dell’implosione, si confronterà con la consapevolezza e la responsabilità che uscire dalla Grosse Koalition significherebbe elezioni in primavera, per non incorrere nei 6 mesi di presidenza europea della Germania che iniziano il 1° luglio.

Ricerca precaria: ora è guerra contro i tagli alle assunzioni in manovra

Due anni e mezzo fa, una legge dello Stato ha promesso loro un posto fisso, eppure ieri mattina i precari “storici” dei centri pubblici di ricerca sono ancora una volta dovuti scendere in piazza con gli striscioni per chiedere che quell’impegno venga mantenuto. In circa 2 mila ancora oggi risultano esclusi dalle stabilizzazioni. Sempre più precari, insomma, e sempre più “storici”. A maggior ragione vista la norma contenuta nella manovra finanziaria che – se approvata – renderebbe più incerto il loro futuro poiché ridurrebbe la spesa da destinare al personale nel bilancio degli enti di ricerca. Ecco perché sindacati e comitati che rappresentano gli studiosi “a scadenza”, con in testa i Precari uniti Cnr, hanno manifestato in piazza Montecitorio: per convincere il Parlamento a rivedere quanto scritto dal governo nella legge di stabilità.

La fetta più grossa del precariato è ancora nell’istituto più grande, il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Gli altri sono sparsi, per citarne alcuni, tra gli enti di ricerca di Agricoltura (Crea), Fisica nucleare (Infn) e Vulcanologia (Ingv). Nel 2017 – dopo l’approvazione della legge Madia – al Cnr erano in 2.500 a reclamare un posto permanente. In buona parte l’hanno ottenuto, ma 900 di loro sono ancora fuori. I requisiti per il diritto a essere stabilizzati sono diversi: fondamentale è l’anzianità minima di tre anni maturata con contratti precari. Per quelli inquadrati come dipendenti dell’ente è possibile la trasformazione automatica del rapporto di lavoro, da tempo determinato a tempo indeterminato. Quelli invece reclutati come collaboratori o assegnisti di ricerca sono dovuti passare da una prova riservata: il Cnr ha bandito il concorso ad hoc, ma ben 458 tra gli idonei non sono ancora stati assunti. La legge, tra l’altro, non prevedeva alcuna via per la stabilizzazione dei ricercatori arruolati con chiamata diretta (al Cnr sono 52). Ora questo potrebbe essere risolto con un emendamento alla legge di stabilità che consenta anche per questa categoria una selezione riservata. Inoltre, dovrebbe essere prorogata la finestra per le stabilizzazioni: per completarle dovrebbe esserci tempo fino a tutto 2021 (e non fino a dicembre 2020).

Resta il problema principale: la manovra uscita dal Consiglio dei ministri ha portato dall’80% al 70% la percentuale di bilancio che i centri di ricerca possono destinare alle spese di personale. Questo riduce di fatto i fondi per le stabilizzazioni. Lo stesso ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti ne ha preso le distanze. In Parlamento sembrano esserci margini di manovra per piccoli correttivi che alleggeriscano la tagliola, ma l’impianto della norma dovrebbe restare lo stesso.

L’economia può essere né di destra né di sinistra?

Né di destra né di sinistra è uno degli slogan caratterizzanti del pensiero economico di base del M5S. Certo non più incisivo delle “5 stelle” originarie, che erano: acqua pubblica, ambiente, mobilità sostenibile, sviluppo econnettività, di cui pochi ormai si ricordano. Ma su cosa voglia dire lo slogan “né di destra né di sinistra”, che invece oggi è ben presente, occorre una riflessione.

Rimanendo nella dimensione economica, in prima ipotesi immaginiamo che voglia dire che non si prende posizione sulla ridistribuzione del reddito (la sinistra è a favore, la destra molto meno). Ma questo è impossibile: ogni azione politica in ambito economico (tasse e spese) è orientata in una delle due direzioni. Questa, in una situazione di crescente concentrazione della ricchezza, si può però ritenere una posizione “conservatrice”, forse anche di più di alcune posizioni liberali.

I 5S non sembrano essere, di conseguenza, né pro-mercato né pro-Stato. Attualmente tuttavia sembrano molto anti-mercato, e anche Trump e Salvini lo sono, come da sempre però lo sono anche i partiti di sinistra vera. E il mercato e la concorrenza sono oggi particolarmente impopolari in occidente, dato il peso della competizione da parte dei grandi paesi emergenti, che con la concorrenza sono usciti dalla povertà estrema, ma hanno impoverito in alcuni casi classi lavoratrici e classi medie dei paesi sviluppati, con la conseguente crescita “reattiva” di posizioni sovraniste e protezioniste (per inciso, oggi si incomincia ad assaggiare il buon sapore del protezionismo quando arrivano i dazi di Trump sui prodotti italiani).

Certo i 5S sembrano avere nel loro Dna qualche tradizione no-global (vedi Di Battista). Sono pro-Europa, ma solo recentissimamente, con il voto per la Von der Leyen. E si dimostrano anche tiepidi nel rispettarne i vincoli. Infatti sono fieramente anti-tasse ma anche anti-tagli, cioè in favore di incrementi di spesa pubblica, soprattutto in consumi (reddito di cittadinanza e quota 100). Si può essere dubbiosi su questa strategia, dato il debito italiano e il calo degli investimenti, ma non sul fatto che crei consenso immediato.

Sul ruolo economico dei migranti, sono per i porti chiusi. Adesso sembra abbiano ammorbidito questa posizione, ma non fino ad approvare lo “ius soli” o lo “ius culturae” (certo nessuna forza politica italiana sembra in grado oggi di esprimere una strategia di integrazione credibile, alla tedesca, per intenderci).

Sulle Grandi Opere hanno dato il peggio di sè: prima estremo rigore, “nessuno spreco sarà ammesso”. Poi liberi tutti e tutto, fiumi di soldi a piaggia senza fiatare, esattamente come i nuovi alleati del Pd. Avevano cambiato idea anche prima, quando hanno visto in che direzione andava il consenso elettorale. Ma invano, non erano più “spendaccioni credibili”.

Il grido “onestà, onestà” non è stato scalfito da vicende giudiziarie, ma non si può dimenticare che oggi una forma rilevantissima di corruzione è legale, ed è costituita dallo scambio di voti con soldi (dei contribuenti), senza andare tanto per il sottile nel controllare se quei soldi sono spesi bene o buttati dalla finestra. Basta che aumentino il consenso, qui e adesso.

Allora forse possiamo tradurre lo slogan “né di destra né di sinistra” con un termine meno benevolo: opportunismo di breve periodo. Forse un po’ ce ne è stato anche nella politica delle alleanze. La democrazia è anche questo, per carità. È uno dei prezzi da pagare a questo sistema inefficiente, ma di cui tutti gli altri sono peggio.

Il problema è la programmatica mancanza di una strategia economica di lungo termine. E in Italia probabilmente una qualche strategia serve, visto la gravità dei problemi che abbiamo di fronte (debito e mancata crescita, strettamente connessi).

La drammatica perdita di consenso da quando sono al governo sembrerebbe però evidenziare che l’assenza di una strategia economica sia oggi un problema serio. La Lega solo in apparenza manca di una strategia credibile: guadagna consensi sia al governo che all’opposizione, promettendo tutto a tutti, con una totale mancanza di scrupoli nei confronti di rischi di uscita dall’euro. Scrupoli che invece i 5S sembrano oggi manifestare, con un cambio di rotta che li allontana dal sovranismo, ma che è letto forse da molti loro elettori come manifestazione di una debolezza acquisita, piuttosto che del fatto che questo cambio di rotta sia sensato.

Forse l’assenza di una strategia può essere connessa all’obiettivo originario di democrazia diretta, che nega visioni e progetti strategici decisi da una qualche forma di mediazione degli interessi contrapposti. Mediazioni che non a torto sono viste, marxianamente, come sempre funzionali al capitalismo. Si veda anche il loro originario antiparlamentarismo (la “scatola di tonno”, che ricorda un po’ “l’aula sorda e grigia” definita molti anni fa da un altro signore antiparlamentare).

Il problema è che le inefficienze e le oscillazioni connesse con questo “atomismo democratico” (l’“uno vale uno”) possono generare tanti e tali problemi che a un certo punto un “mediatore” arriva, e può essere poco simpatico e poco democratico. Forse l’abbiamo già in vista. E può esser stato percepito come una soluzione anche da una parte degli elettori 5S.