L’austerità fa male alla salute e al Servizio sanitario

Ribadire l’ovvio può essere noioso, ma utile. Farlo con una discreta messe di dati – come fa Lo stato della sanità in Italia dell’Ufficio parlamentare di bilancio – è senz’altro utile. E allora com’è messa la sanità? Bene, ma non benissimo. Bene, perché il nostro Ssn è universale, nella media (ma le medie si sa…) discretamente efficiente e meno costoso di “altri sistemi, basati su mutue e assicurazioni pubbliche (Francia o Germania) o su una preponderanza del privato (Usa)”. D’altra parte, i tagli hanno comportato “conseguenze sull’accesso fisico ed economico (alle cure, ndr), soprattutto durante la crisi, e uno spostamento di domanda verso il mercato privato”.

Spesa. Ci dice l’Autorità di controllo sui conti pubblici: “Il Ssn spende in media 2.545 dollari per ogni cittadino, un importo molto lontano dai 5.289 dollari della Norvegia e dai 5.056 della Germania (gli 8.949 dollari degli Stati Uniti includono la spesa delle assicurazioni individuali obbligatorie)”. La spesa pro capite reale, cioè al netto dell’inflazione, è oggi più bassa di quella del 2010 in tutta l’Europa del Sud. E ancora: il tasso di crescita della spesa pubblica per la salute “di poco inferiore al 7 per cento in media tra il 2003 e il 2005, si riduce al 2,8 per cento tra il 2006 e il 2010 e mostra un valore sostanzialmente nullo nel periodo 2011-15, per superare l’1 per cento nel triennio successivo”. Dal 2011, in buona sostanza, la spesa aumenta meno dei prezzi: è un taglio.

tagli. I due settori più colpiti sono posti letto ospedalieri e personale. I primi, calcolandoli ogni mille abitanti, sono passati “da 3,9 nel 2007 a 3,2 nel 2017, contro una media europea diminuita da 5,7 a 5”. I dipendenti del Ssn a tempo indeterminato sono diminuiti in dieci anni di 42.800 unità (scarseggiano soprattutto gli infermieri). Insieme al blocco dei contratti, questo ha comportato un taglio “in valore assoluto di quasi 2 miliardi tra il 2010 e il 2018”. La conseguenza è stata “una dilatazione degli orari di lavoro” che, insieme ad altri fattori, “hanno alimentato il disagio nel personale”. Tanto più che il blocco del turn over ha comportato un aumento dell’età media: “Da 43,5 anni nel 2001 e a 50,7 nel 2017”.

Spesa privata e poveri. Ticket e altre forme di “compartecipazione alla spesa” hanno aumentato “la quota di cittadini che hanno rinunciato a visite mediche per il costo eccessivo, passata, secondo dati Eurostat, dal 3,9% nel 2008 al 6,5 nel 2015”. Calcolando solo il 20% di popolazione più povera si passa “dal 7,1% nel 2004 al 14,5 nel 2015”. Nel frattempo la spesa privata per la salute “aumentava in media da 710 dollari pro capite a 776 (dal 2,1 al 2,3% del Pil)”.

Due Ssn. Sono “ampi i divari territoriali che mettono a rischio l’erogazione dei Lea (livelli essenziali di assistenza) sul territorio”. Ad esempio nessuna Regione del Sud assicura i Lea (ma neanche Lazio, provincia di Bolzano, Valle d’Aosta e, per la prevenzione, Friuli Venezia Giulia). “In Italia le differenze dovute a variabili socio-economiche sono superate da quelle geografiche”. Insomma, chi sta messo peggio sono i poveri del Sud.

Rischio dissoluzione.Ticket, lunghe liste d’attesa, mancanza di prestazioni sul territorio tendono “a spostare la domanda verso il privato” e “nello stesso senso vanno le agevolazioni fiscali concesse alle misure di welfare aziendale. Queste misure favoriscono un sistema categoriale-corporativo alternativo al servizio pubblico (…) Assecondare questa tendenza e contemporaneamente continuare nella compressione del finanziamento del servizio pubblico potrebbe mettere in discussione l’universalità del sistema vigente”. E poi? “Nel medio-lungo periodo il mercato privato tende a farsi più aggressivo, sfruttando i margini di prezzo resi disponibili”.

Dopo la cessione dei gioielli Unicredit fa 8 mila esuberi

La parola chiave è sovracapacità (overbanking). È il problema che, insieme alla richiesta di rendimenti più alti da parte degli azionisti, ha scatenato l’ultimo dramma bancario italiano. Alla presentazione del nuovo piano industriale Team 23, ieri l’amministratore delegato di UniCredit Jean Pierre Mustier ha annunciato l’ennesimo taglio della forza lavoro pari al 10% nei prossimi quattro anni: 8mila dipendenti in meno. Il salasso colpirà soprattutto la Penisola dove sono previste circa 5.500 uscite, che si assommano alle 500 rimaste del precedente piano Transform 2019, e la chiusura di altre 450 filiali.

Gli obiettivi del piano Team 23 sono quattro: rafforzamento della base clienti, massimizzazione della produttività, attenzione al rischio, gestione del capitale. Proprio sul fronte del capitale, nel quadriennio 2020-23 Mustier prevede di remunerare gli azionisti con 16 miliardi: 6 miliardi sotto forma di dividendi, 2 con il riacquisto di azioni (buyback) e altri 8 sotto forma di incremento del patrimonio netto tangibile. Se il piano di Mustier sarà realizzato, uscirebbe il 14,5% degli attuali 38mila bancari italiani. Le filiali in Europa occidentale sono circa 2.870 di cui 2.400 in Italia: il programma prevede la chiusura di una ogni sei. La banca vuole ridurre i costi di un miliardo nell’Europa occidentale, pari a un taglio del 12% sui conti 2018. Per realizzare i suoi obiettivi di risparmio, Mustier prevede di spesare 1,4 miliardi di euro di costi di ristrutturazione: 1,1 miliardi di questi riguarderanno l’Italia (il 78% del totale) e solo 300 milioni l’Austria e la Germania, dove tagli pesanti erano stati realizzati negli esercizi precedenti. Immediate le reazioni dei sindacati dei bancari italiani, impegnati nelle trattative con l’Abi per il difficile rinnovo del contratto di categoria, che hanno già dichiarato irricevibile il piano e sono pronti alle barricate.

Per UniCredit quello proposto da Mustier non è il primo progetto “lacrime e sangue”. Nel piano Transform 2016-19, ultimato a fine settembre, i costi netti sono calati di 2,1 miliardi con il taglio del 21% dei dipendenti (14mila uscite) e la chiusura di una filiale ogni quattro nei “mercati maturi”. Al 30 settembre scorso il gruppo contava 84.652 dipendenti, dei quali 24.308 nell’Europa centrorientale e 60.345 in quella occidentale, ma nel 2007, quando UniCredit acquisì Capitalia, ne contava circa 170mila. Da allora la forza lavoro si è dimezzata: dal 2007 UniCredit solo in Italia ha realizzato 26.650 uscite, quasi tutti prepensionamenti incentivati spesati dal Fondo di solidarietà del settore finanziato solo da banche e lavoratori, e probabilmente punta ora a gestire le nuove uscite attraverso Quota 100. La riduzione del personale è stata dovuta in parte anche alle cessioni: sotto la gestione Mustier UniCredit ha ceduto Fineco, la polacca Bank Pekao, è uscita dalla banca turca Yapi Kredi e dall’ucraina Ukrsotsbank, ha venduto l’asset manager Pioneer e le attività nelle carte in Italia, Germania e Austria, ha liquidato la quota in Mediobanca. Il tutto per sostenere la redditività languente delle attività core e saziare gli inestinguibili appetiti degli azionisti. Nei giorni scorsi Alessandro Mazzucco, presidente della Fondazione CariVerona che controlla l’1,8% di UniCredit, aveva chiesto che il nuovo piano contenesse “una manovra straordinaria” per remunerare gli azionisti. A Piazza Affari il piano di Mustier però non ha scaldato il titolo UniCredit che ha chiuso la seduta a -0,45% a fronte di un indice Ftse Mib invariato.

Ma è l’intero settore a dover fronteggiare problemi irrisolti, dovuti non tanto ancora alla disruption in arrivo dal fintech – che comunque incombe – quanto alla sovracapacità bancaria, un fenomeno che ha tre dimensioni interconnesse: l’offerta di credito, le pressioni concorrenziali e l’infrastruttura (personale e filiali). Secondo una ricerca della Bce pubblicata a novembre, l’Italia è quinta tra le principali 26 economie mondiali dopo Germania, Giappone, Austria e Francia per peso della sovracapacità bancaria. Non a caso proprio Italia, Germania e Austria sono i principali mercati di UniCredit.

Aramco si quota, la posta in gioco della più grande privatizzazione della storia

Mancano poche ore a quella che potrebbe essere la più grande privatizzazione del mondo: il valore della società del petrolio saudita Saudi Aramco oscillerebbe tra i 2.000 miliardi di dollari secondo il suo principale sponsor, il principe Mohammed bin Salman che ne ha messo sul mercato l’1,5%, e i 1.600 miliardi secondo le banche d’affari. Venerdì si conoscerà la valutazione ufficiale dell’azienda che incarna l’era del petrolio. Potrebbe raccogliere fino a 25,6 miliardi di dollari, più di Alibaba, che nel 2014 ne aveva raccolti 25.

Aramco è la società che macina più ricavi al mondo: 110 miliardi di dollari nel 2018 al netto delle tasse, quasi il doppio di Apple. Il motivo è semplice: il petrolio è la prima fonte energetica al mondo; l’Arabia Saudita produce il 10 % del greggio mondiale; Aramco monopolizza la produzione del petrolio saudita. L’oro nero rappresenta il 40% del Pil saudita, più del 70% delle sue entrate fiscali, la quasi totalità delle esportazioni.

Il re Ibn Saud fondò l’Arabia Saudita nel 1932. L’anno successivo firmò una concessione con le società americane che avrebbero creato nel 1944 l’Arabian American Oil Company (Aramco). La produzione di petrolio si affermò subito come principale fonte di reddito della monarchia. Aramco fu l’architrave della creazione dello Stato saudita: per esempio “obbligò” nel 1952 i sauditi a creare un ministero delle Finanze e poi Sama (la Banca centrale) perché le servivano istituzioni alle quali versare la rendita petrolifera (tasse poi stornate dai pagamenti dovuti al fisco americano). Eppure l’immagine di una “grande pompa di benzina del deserto” asservita agli interessi Usa è vera solo in parte. Nel Paese si affermò ben presto una classe dirigente di tecnocrati affascinati dal modello socialista e nazionalista incarnato dal presidente egiziano Nasser. Al Tariki, il leggendario “sceicco rosso”, primo ministro del Petrolio saudita e fondatore dell’Opec nel 1960, si schierò subito per la nazionalizzazione di Aramco. Settori urbani, specie nell’Est del Paese (dove si trovano i principali giacimenti di petrolio), si batterono per maggiore autonomia dagli Stati Uniti. Il malcontento esplose violento nel 1967 con scioperi e blocco della produzione. Anche come reazione a queste pressioni “dal basso” l’Arabia Saudita, insieme agli altri grandi esportatori di petrolio, nazionalizzò negli anni 70 l’industria petrolifera. Aramco diventò nel 1980 interamente saudita, mentre il tentativo di creare una nuova società nazionale (Petromin) naufragò presto. Saudi Aramco (così fu ribattezzata nel 1988) conservò in parte la governance di quando era americana, con un board al quale partecipano anche top manager delle società petrolifere internazionali. Essa mantiene una “capacità di riserva” da utilizzare per “stabilizzare” il mercato e fare pressione sugli altri Paesi Opec; ha investito in progetti infrastrutturali ed educativi; si è messa l’elmetto per servire la monarchia saudita in più occasioni, come per sopperire al crollo della produzione di petrolio dopo l’invasione irachena del Kuwait.

Perché dunque “privatizzare” una società che ha svolto il suo lavoro così bene? L’origine del problema risale al declino dei prezzi del greggio nel 2014, fronteggiato con caparbietà dall’Opec, anche grazie all’inedita alleanza con la Russia e altri produttori. Il calo dei prezzi non sembra però un fenomeno passeggero: non solo per l’ascesa dello shale oil americano, ma anche per le pressioni dei movimenti ambientalisti sui Paesi più industrializzati, nonché per l’evoluzione delle strategie delle grandi istituzioni finanziare. Mentre si parla sempre più insistentemente di un prossimo “picco” del consumo, il declino delle entrate fiscali dalla produzione di petrolio è già oggi un fenomeno reale: il che spiega perché, mentre nel 2011 i petroStati erano riusciti a uscire relativamente indenni dalle primavere arabe, oggi quasi tutti, dal Venezuela, all’Iran all’Iraq, siano scossi dai venti della rivolta contro le politiche di austerità.

Ai petroStatinon restano che due opzioni. La prima è un cambiamento radicale del modello di sviluppo che faccia meno affidamento sulla rendita petrolifera: il che implicherebbe ridisegnare il patto sociale e politico su cui si fondano. La seconda, improntata al rilancio delle politiche “estrattiviste”, è reagire alla crisi vendendo i gioielli di famiglia e aprendo, anche con agevolazioni fiscali, agli investimenti stranieri per aumentare la produzione in una fase di declino dei prezzi. Diverse varianti dell’opzione “estrattivista” sono quelle di cui si discute con più insistenza oggi in Venezuela, in Ecuador, Algeria, in Iraq, così come negli altri petroStati del Golfo.

Le ipotesi di rilancio dell’estrattivismo contengono due rischi molto gravi. Il primo rischio, per la stessa Arabia Saudita, è che la vendita (o svendita) di un’azienda con la quale il popolo saudita, nel bene o nel malesi identifica, possa innescare instabilità in un Paese che finora è uscito relativamente indenne dalle crisi regionali del Golfo. Il secondo rischio è che la nuova Aramco (già oggi la maggiore fonte di emissioni di CO² al mondo), diventi un feroce competitor internazionale in lotta per nuovi mercati, e mini l’Opec dalle fondamenta innescando una spirale ribassista del prezzo del petrolio che, a sua volta, metterebbe in discussione la competitività delle energie rinnovabili rispetto alle fossili. A rimetterci, in questo secondo caso, saremmo tutti noi.

La scelta consapevole del declino

Avete mai sentito Salvini, Di Maio, Zingaretti, Renzi o la Meloni parlare di produttività in qualche talk show? No. Eppure di tutti i problemi dell’Italia, questo dovrebbe essere il primo in cima all’agenda della politica, perché gran parte dei malesseri del Paese derivano dalla stagnazione che sperimenta da un ventennio. Un recente rapporto Istat sulla produttività – quanto lavoro o capitale serve per realizzare un certo prodotto o fornire un certo servizio – indica la gravità del problema. Nel 2018 la produttività del lavoro è diminuita dello 0,3 per cento, quella del capitale è aumentata dello 0,1. Pessimo segnale: quando le imprese vedono la produttività di minuire, o tagliano i salari o tagliano le persone. Il dato più inquietante riguarda la produttività totale dei fattori, che misura come interagiscono capitale e lavoro. Se un’impresa investe in tecnologia, per esempio, gli input di capitale e lavoro dovrebbero dare risultati migliori. In Italia la produttività totale dei fattori nel 2018 è diminuita, come succedeva tra il 2003 e il 2009. Subito prima della crisi, quindi, l’Italia già andava in retromarcia, poi ha recuperato un po’ e ora torna ad andare all’indietro. La media della crescita della produttività totale dei fattori tra il 1995 e il 2018 è zero. Come dire che l’economia italiana non ha fatto un passo in avanti negli ultimi 24 anni, mentre il resto del mondo correva e imparava a ottenere molti più risultati: a parità di risorse impiegate, noi restavamo immobili a guardare. Pier Paolo Pasolini, negli anni Settanta, denunciava lo “sviluppo senza progresso”. Abbiamo risolto il dilemma rinunciando sia allo sviluppo sia al progresso, la politica ha ridimensionato la sua ambizione promettendo soltanto la redistribuzione di una ricchezza inesistente, prelevata dal deficit e dunque dalle generazioni future.

Senza affrontare il nodo della produttività, non ci resta che il declino.

Tesoro e Palazzo Chigi, la furbata per blindare il presidente Consip

È noto che in tema di nomine nelle società pubbliche la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici. Ma stavolta è pure peggio, perché viene aggirata, con tutti i rischi del caso. Ci si riferisce all’escamotage studiato per lasciare al suo posto Renato Catalano, presidente della Consip, la centrale acquisti della pubblica amministrazione. Sembra incredibile, ma in Italia si può presiedere una gigante statale anche solo perché non ci sono incarichi alternativi considerati all’altezza.

L’ultimo guaioper la Consip, già travolta dalle inchieste di Roma e Napoli che hanno coinvolto gli ex vertici ed esponenti del Giglio magico renziano, inizia il 21 ottobre scorso. Il neo ministro dell’Economia Roberto Gualtieri esercita il cosiddetto spoil system confermando solo tre dei quattro capi dipartimento del Tesoro. A perdere il posto è proprio Catalano, fino ad allora alla guida degli Affari generali e personale del ministero. A via XX Settembre ci era arrivato grazie all’ex ministro Giovanni Tria che, appena insediato, a fine luglio 2018 lo ha chiamato dalla presidenza del Consiglio, dove Catalano ricopriva l’incarico di dirigente generale. Palazzo Chigi lo ha volentieri distaccato temporaneamente al Tesoro. Quattro mesi dopo, contro la volontà di Lega e M5S, Tria lo ha nominato presidente della Consip.

La norma che ha permesso a Catalano di ricoprire quel ruolo, è la stessa che ora ne imporrebbe la decadenza. Secondo il decreto legge sulla spending review voluto dal governo Monti nel 2012 (il numero 95), infatti, il presidente della Consip dev’essere un “dipendente dell’amministrazione economico-finanziaria”, a differenza dell’amministratore delegato, che può essere anche un esterno. E infatti il cda della società è composto da due dipendenti del Tesoro, Catalano e Ivana Guerrera, mentre l’ad è Cristiano Cannarsa, esterno all’amministrazione. Secondo la legge, quindi, Catalano avrebbe dovuto dimettersi dalla Consip il giorno dopo che Gualtieri lo ha fatto decadere dal ministero, cioè dal 21 ottobre, e rientrare a Palazzo Chigi. Non è una cosa insolita. Per lo stesso motivo, in passato sono decaduti diversi presidenti della centrale acquisti: da Giuseppina Baffi (2012-2014) a Luigi Ferrara (2014-2015) a Roberto Basso (2017-2018), senza che nessuno sollevasse obiezioni. Invece da ottobre le amministrazioni coinvolte hanno cercato di fare di tutto per lasciare Catalano lì dov’è.

La soluzione l’hanno trovata il 15 novembre scorso, quando la Presidenza del Consiglio, rappresentata dal segretario generale Roberto Chieppa, e il ministero dell’Economia, nella persona di Gualtieri, sottoscrivono un “protocollo d’intesa” su Catalano, per aggirare le norme e non farlo decadere. Attraverso il protocollo, palazzo Chigi assegna temporaneamente Catalano al ministero dell’Economia “per lo svolgimento di attività di studio, approfondimento e ricerca nel settore dei contratti pubblici, nonché per la prosecuzione nella carica di presidente della Consip”.

Il protocollo è un capolavoro. Per prima cosa assegna Calatano alla Scuola nazionale dell’amministrazione (Sna), istituzione che si occupa di formare gli alti dirigenti di Palazzo Chigi e presieduta dal suo sponsor Tria. La scelta nasce dal fatto che si intende “realizzare uno specifico focus di ricerca, analisi di studio e formazione sul tema dei contratti pubblici, con particolare riferimento, tra l’altro, ai benefici e alle criticità del ricorso a centrali di committenza”, come è appunto la Consip. E siccome “il settore dei contratti pubblici può rappresentare un volano di sviluppo” per il Paese, ed “è interesse del Tesoro continuare ad avvalersi” di Catalano in Consip, “ruolo che gli consente di avere una visione privilegiata e qualificata nell’ambito della contrattualistica pubblica”, Palazzo Chigi lo assegna temporaneamente al ministero di Gualtieri in qualità di studioso. Per svolgere questa ricerca Catalano riceverà 103.925 euro e ogni due mesi dovrà relazionare la sua amministrazione di provenienza sui progressi ottenuti. E per questa attività “assicurerà una disponibilità pari alla metà del proprio impegno lavorativo complessivo”.

Secondo il Tesoro il protocollo è sufficiente ad aggirare i vincoli di legge, che imporrebbero invece a Catalano di dimettersi, come accaduto ai predecessori, permettendogli di restare in Consip fino alla scadenza del mandato, cioè fino alla primavera 2020. In molti, sia al ministero sia nella Spa pubblica hanno storto il naso di fronte al capolavoro burocratico, mai visto prima, che potenzialmente espone la centrale acquisti della Pubblica amministrazione al rischio di contenziosi. Catalano, infatti, non compare nell’organigramma del Tesoro, di cui formalmente non è un dipendente, e c’è il rischio che le delibere del cda della Consip possano essere impugnate per illegittima composizione dell’organo deliberante, con il risultato di paralizzare l’azione della società.

Perché esporsi a un tale rischio? Nessuno lo sa. La tecnostruttura ministeriale lo ha sempre considerato un intruso e infatti è l’unico capo dipartimento non confermato da Gualtieri. A Palazzo Chigi, sostengono i maligni, non sono riusciti a trovargli un incarico considerato all’altezza. E così è arrivato il risarcimento, infiocchettato dalla pressante necessità di dover studiare il settore dei contratti pubblici. E poco importa dei rischi che ne conseguono.

Mail Box

 

Epatite C, la prima emergenza è nelle carceri

Gentile direttore,

in Italia sono 200mila le persone in cura per l’epatite C, malattia che si contrae per lo più dallo scambio di siringhe infette tra tossicodipendenti o a causa di trasfusioni ematiche, meno frequentemente in seguito a rapporti sessuali non protetti.

Nella rubrica SanitàKo sul Fatto del 2 dicembre, Chiara Daina segnala “un rallentamento nell’arruolamento dei pazienti affetti da epatite C, dovuto a mancate diagnosi” soprattutto a causa di un “sommerso” che rende difficile ai servizi sanitari raggiungere alcune “fasce più fragili” della società in cui la malattia mostra una incidenza maggiore. L’esempio emblematico di popolazione non intercettata sono i detenuti: l’impatto socio-sanitario dell’epatite C è sempre più rilevante nei luoghi a maggiore vulnerabilità, quali carceri e SERD. All’interno degli istituti penitenziari lo sviluppo dell’epatite C è facilitato da cause strutturali, come la ristrettezza degli spazi dovuta al sovraffollamento cronico, e cause comportamentali, come l’alta incidenza di detenuti tossicodipendenti, la promiscuità forzata, lo scambio di oggetti e la presenza di ristretti che esercitavano la professione di sex worker.

Per questo, nell’ultima sessione dell’assestamento di bilancio di Regione Lombardia, ho proposto un ordine del giorno – approvato all’unanimità dal Consiglio – che impegna la Giunta ad impiegare parte dei fondi regionali già stanziati per lo screening e l’eradicazione dell’epatite C in favore delle persone detenute e internate. Lo screening HCV e il trattamento della popolazione detenuta sono indispensabili per arrivare all’eradicazione completa, obiettivo fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per il 2030. La cura che consente la guarigione esiste da anni, mentre i costi sanitari dovuti ad una diagnosi tardiva in un paziente con complicanze sono molto alti.

I soldi per eradicare l’epatite C sono stanziati, ma il servizio screening va portato laddove esistono più malati senza diagnosi. Invito i miei colleghi consiglieri regionali di tutta Italia e di tutti i partiti a prendere visione dell’ordine del giorno sul sito www.piueuropalombardia.it e proporlo nelle loro regioni per vincere insieme questa battaglia.

Michele Usuelli, medico e consigliere regionale della Lombardia – gruppo +Europa

 

Le vittime del prete di Genova abbandonate dalla loro chiesa

Ho letto con piacere sul Fatto del 1° dicembre l’indagine di Sherlock sulla storia di Don X. L’ennesima delle infinite storie di sesso e pedofilia conosciute solo in minima parte, all’interno di quella Chiesa che col silenzio e l’omertà protegge perennemente violentatori e pedofili.

Nel caso in questione i giovani mi appaiono vittime di una Chiesa che invece di proteggerli protegge il predatore, per tutelarsi nascondendo lo scandalo.

Ignare vittime della loro religiosità e della conseguente infinita ma eccessiva fiducia nei confronti del loro parroco.

Vi ringrazio per queste pubblicazioni, utili al formarsi di una migliore e più consapevole opinione pubblica, di una necessaria coscienza civica e di un’indispensabile conoscenza di verità nascoste.

Ivo Bagni

 

Nel compleanno di Tortora ricordiamo l’odio che subì

Il 30 novembre 1928 nasceva un signore della tv pubblica italiana, ma anche un pioniere della tv privata. Un professionista serio e in gamba, che vedeva lontanissimo e sapeva che la tv sarebbe cambiata e si sarebbe trasformata. Un uomo colto, raffinato, ma soprattutto un uomo perbene: Enzo Tortora.

Il suo nome è legato a una vicenda giudiziaria scandalosa, ma anche a una campagna d’odio condotta senza bisogno dei social. Questa campagna, purtroppo, è stata portata avanti in gran parte dai giornalisti dell’epoca, che lo dipingevano come colpevole e male assoluto. In pochi presero le sue difese. Io chiedo: non potrebbe il 30 novembre diventare una ricorrenza in cui si celebra la buona tv, contro tutte le campagne d’odio e di mala informazione?

Oggi i social tirano fuori il peggio della società, ma in passato non è che fossero tutti santi, è bene ricordarlo. Senza memoria storica si ripetono sempre gli stessi errori, purtroppo a danno di galantuomini.

Massimo Moletti

 

Nessuna via ad Almirante, complice del regime di Salò

Gentile direttore,

sul Fatto di domenica Furio Colombo stigmatizza la decisione della giunta di Schio, che ha negato l’installazione di 19 pietre d’inciampo a ricordo di 19 persone consegnate dalle brigate nere ai nazisti.

Bene ha fatto Colombo a ricordare che la Repubblica di Salò, asservita al Reich, arrestava e consegnava ai nazisti gli ebrei. Eppure c’è ancora qualcuno, sia a destra che a manca, che ripropone la polpetta di dedicare una via a Giorgio Almirante, che fu capo di gabinetto del ministero della Cultura di quel regime criminale e firmò ordini di fucilazione dei partigiani. Non è forse meglio dedicare cento, mille vie alle vittime del fascismo e del terrorismo neofascista, in modo che i cittadini non dimentichino?

Maurizio Burattini

Calcio e Sla. La morte di Bertini allunga la Via Crucis. Ma le cause sono ignote

 

Ho appena letto della terribile morte di Giovanni Bertini, ennesimo giocatore ex Fiorentina colpito da Sla. A questo punto le famose e vituperate “chiacchiere da bar”, i celebri “sentito dire”, prendono sempre più fondamento riguardo a una tragedia oramai chiara e legata agli spogliatoi trattati come farmacie. O sbaglio?

Ernesto Di Giulio

 

Giovanni Bertini, morto ieri di Sla a 68 anni, nella Fiorentina aveva giocato solo una stagione, nel ’75-76, a 24 anni. Ciò premesso, la sua è un’altra stazione, l’ultima, che si aggiunge alla Via Crucis dei calciatori morti di Sla o per le più diverse cause dopo aver militato negli anni 70 nel club viola. Il primo fu Bruno Beatrice, a 39 anni, nel 1987, per una leucemia contratta dopo essersi sottoposto a un ciclo scellerato di raggi Roengten (l’inchiesta del pm Bocciolini, aperta su denuncia della vedova e archiviata per prescrizione, appurò che nella Fiorentina di quegli anni venne praticata “sperimentazione medica”); dopodiché fu una strage. Nello Saltutti morì nel 2003 per infarto, Ugo Ferrante nel 2004 per un tumore alla gola, Giuseppe Longoni nel 2006 per una vasculopatia cardiaca, Massimo Mattolini nel 2009 per insufficienza renale, Giancarlo Galdiolo nel 2018 per una malattia simile alla Sla, la demenza temporale frontale, che gli aveva tolto l’uso della parola.

Di Sla (gli ex calciatori sono colpiti 6 volte più della popolazione normale e a un’età più giovane, 43 anni di media invece di 63) morì nel 2007 Adriano Lombardi che aveva fatto parte del vivaio viola come Mario Sforzi, ucciso nel 2004 da un linfoma non Hodgkin.

Sembra un miracolo, in questo tragico quadro, che siano sfuggiti alla morte Giancarlo Antognoni, colpito da infarto a 51 anni, Domenico Caso, guarito da un tumore al fegato e Giancarlo De Sisti, operato d’urgenza al cervello a 41 anni per un ascesso frontale: tutti ex Fiorentina. Di Sla era morto Stefano Borgonovo, ex viola anni 90; e se Bertini di questa tremenda malattia è solo l’ultima vittima, la prima fu Armando Segato, 8 stagioni alla Fiorentina dal ’52 al ’60, ucciso dalla Sla nel ’73. Di Sla era morto a 31 anni Lauro Minghelli, a 52 Paolo List, a 60, il marzo scorso, Marco Sguaitzer.

Le cause? Al momento, purtroppo, è ancora impossibile determinarle.

Paolo Ziliani

Il professore e la sciura: quando la svastica supera la classe sociale

Bene, è arrivato anche il docente universitario. Ora mancano solo il tranviere e l’astronauta, e poi il campionario dei nazisti è completo e possiamo finire l’album dei negazionisti del 2019. Non ci eravamo ancora ripresi da Miss Hitler, quella signorina con l’aquila e la svastica affrescati sulla schiena (Francesca Rizzi, 36 anni), così fiera di sé per aver vinto, appunto, un concorso di bellezza riservato alle “donne ariane” (ahahah!) su un social russo, che ecco arrivare altre chicche dal Terzo Reich.

Una di queste delizie per intenditori è la signora Antonella Pavin, una che dice che ad Auschwitz c’erano piscine, il teatro e il cinema, insomma una specie di villaggio vacanze per ebrei, comunisti, gay, zingari e tutto il campionario di quelli che non dovevano restare al mondo. Perché, ci spiega l’esimio professore di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, Emanuele Castrucci, “Hitler difendeva l’intera civiltà europea” e quelli che lui ammazzava a milioni sono “i mostri che oggi vi governano dominando il mondo”.

Insomma, il catalogo è questo, soltanto nell’ultima settimana: una signorina tatuata che scriveva (a proposito degli ebrei) cose come “Questi subumani devono sparire dalla faccia della terra. Con i forni ci vorrebbe troppo tempo”, bontà sua. Poi la signora Pavin, comprese le esilaranti dichiarazioni del marito, che non sapeva delle passioni hitleriane della consorte (bisogna capirlo, sua moglie dice con un certo disprezzo che “lui vota Salvini”, un moderato, quindi, puah!). E infine il professor Castrucci, titolare di cattedra universitaria, dal cui profilo twitter escono perle di pensiero critico, come “Impalare la Boldrini” (tutto maiuscolo, come si addice ai veri leoni da tastiera), o “Si può dire zingari di merda?”, oltre all’immancabile “Hitler non aveva tutti i torti”.

Forse dovremmo inserire nell’elenco anche il consigliere comunale di Trieste (eletto con la Lega, poi passato a Forza Nuova, poi al gruppo misto), un certo Fabio Tuiach, che in un accorato intervento in consiglio si è detto “offeso” perché “Liliana Segre ha detto che Gesù era un ebreo”. Lui pensava venisse dalla California e fosse lì in vacanza.

D’accordo, fermiamoci, anche perché a compulsare la cronaca i casi sono decine. Si noti l’interclassismo: pezzi di lumpenproletariat ignorante, signore insospettabili nella loro villetta, docenti ordinari di Filosofia del diritto, come dire che il virus contagia in ogni ambiente. E questo ci porta ai meccanismi di difesa che, una volta scoperti, mettono in campo le piccole aspiranti SS di casa nostra. Il percorso è sempre lo stesso, se ci fate caso.

Primo passo: minimizzare e ridicolizzare, “ragazzate”. Libero titola sopra le foto delle due signore: “E questi sarebbero i nazisti che fanno paura”, col sottotesto (ma anche il testo, poracci) che la butta in burletta. Poi, quando scoppia il caso del docente universitario, scatta invece una specie di grottesco garantismo ideologico, per cui uno che dice che “Hitler difendeva la civiltà europea” o sogna di “impalare” l’allora presidente della Camera, finisce per appellarsi alla libertà di pensiero, un po’ come il cannibale che rivendica il diritto di non essere vegetariano.

Tra questi due estremi, colpevoli e miopi, tra il “ma che sarà mai” e il “sono libero di dire quello che penso”, si annida la nuova barbarie nazista, e anche il morbido e banale giustificazionismo delle destre. Che nemmeno si nasconde più, come le armi (canne mozze, carabina modificata, pistola e revolver) trovati a casa del signor Maurizio Aschieri, 57 anni, che voleva fondare il Partito nazionalsocialista italiano dei lavoratori. Anche lui, tra labari e svastiche, ce l’ha con gli ebrei. Chissà quanto pagherebbe per rimandarli ad Auschwitz, ma stavolta senza il cinema, il teatro e la piscina.

La gallina malata nella scuola degli analfabeti

Prima di dare i numeri, vi sottoponiamo un testo, anzi un test. Che parte da questo post in un forum su Internet, firmato da Ivana: “Posso dare l’aspirina alla mia gallina? Ha due anni e penso si sia fatta male a una zampa. Non posso portarla dal veterinario prima di lunedì e lui non risponde al telefono. La gallina sembra avere molto male. Vorrei darle qualcosa per farla stare meglio in attesa di portarla dal veterinario”. Cosa vuole sapere Ivana? Risposta 1: se può somministrare un’aspirina a una gallina che si è fatta male; risposta 2: quanto spesso può somministrare un’aspirina a una gallina che si è fatta male; risposta 3: come contattare un veterinario per una gallina che si è fatta male; risposta 4: se si può stabilire il livello di dolore di una gallina che si è fatta male. Vi abbiamo appena proposto il primo quesito dell’indagine triennale Pisa (acronimo che sta per “Programme for International Student Assessment”) dell’Ocse, che valuta le competenze essenziali dei 15enni in 79 Paesi. Il risultato dell’Italia è tragico: solo il 5 per cento dei ragazzi è in grado di rispondere correttamente a domande come quella che abbiamo riportato. L’emergenza è nota da tempo, avvalorata da indagini come i test Invalsi e gli stessi report dell’Ocse sull’analfabetismo funzionale. Il punteggio dell’Italia nella lettura è di 476 contro 487 della media dei Paesi coinvolti (in matematica andiamo meglio, in scienze molto peggio). Il guaio è che il peggioramento è costante: rispetto al 2009 perdiamo dieci punti. Gli altri dati confermano l’inaccettabile divario Nord-Sud: gli studenti delle aree settentrionali ottengono i risultati al di sopra della media Ocse (Nord Ovest 498, Nord Est 501), al contrario dei coetanei del Meridione (453). I liceali hanno punteggi più alti (521) rispetto agli studenti di istituti tecnici (458) e professionali (395). Altra conferma: la scuola non sblocca l’ascensore sociale, gli istituti sono frequentati da studenti che provengono dallo stesso ambiente socio-economico. Alla faccia della “rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e dell’uguaglianza tra i cittadini. Se vogliamo aggiungere a questi dati quelli sulla dispersione scolastica (siamo quartultimi in Europa, prima di Romania, Malta e Spagna), il quadro è drammatico.

Il ministro Fioramonti ha commentato i risultati affermando, giustamente, che bisogna tornare a investire con forza nella scuola, puntando il dito contro un indiscutibile disinteresse ormai cronico da parte della politica. Serve, dice Fioramonti, un’inversione di tendenza (ieri è stato approvato alla Camera il decreto Scuola, che contiene una serie di misure che riguardano i docenti, le graduatorie, i precari). Tutto bene, però è il momento che la politica metta la scuola al primo, primissimo, punto dell’agenda, cominciando a discutere anche di cosa viene insegnato, e come, di cosa e quanto viene recepito dagli alunni in termini di apprendimento. Bisogna domandarsi se uno studente di 15 anni che non individua le informazioni fondamentali in un testo semplice può essere promosso. Per anni abbiamo sentito straparlare di merito ed eccellenze, degli studenti migliori e della necessità di premiarli, come se la maggioranza che non primeggia non esistesse. Siamo stati un modello nel mondo, ci ritroviamo a essere un Paese di analfabeti, altro che ottimati. Non sarà colpa solo di Berlusconi e delle tv commerciali se ci siamo ridotti a non capire la gallina e l’aspirina: un livello tanto basso da rendere impossibile l’esercizio della cittadinanza, l’accesso al mercato del lavoro in condizioni di parità per chi parte svantaggiato, l’emancipazione da condizioni di indigenza. Una società così non è più democratica: una malattia che non si cura con l’aspirina di cui sopra.

La prescrizione crea disuguaglianze

“Processo eterno”; “imputato a vita”; “bomba nucleare”. Salgono i decibel del dibattito sulla riforma della prescrizione. Intanto certi refrain spianano il terreno a chi vuole abrogarla. La novità in vigore dal gennaio prossimo, che impedirà l’estinzione del reato per decorso del tempo dopo la sentenza di primo grado, viene additata come il “male assoluto” da molti politici e dalla avvocatura. Ma i suoi detrattori hanno scordato i “casi” che l’hanno ispirata e non paiono comunque interessati a rimedi concreti per la lentezza della giustizia che già adesso grava su imputati e vittime di reati.

Ricordate il processo per il disastro ferroviario di Viareggio? O quelli per i disastri ambientali di Eternit e Porto Marghera? O ancora, per i crac bancari dello scorso decennio? Ricordate la delusione diffusa quando in appello o in Cassazione i reati venivano dichiarati prescritti? Di fronte alla indignazione delle vittime (singoli cittadini o intere comunità), la politica si affrettò a promettere misure efficaci per evitare una “denegata giustizia” e lo spreco di anni di duro lavoro di investigatori e magistrati. Purtroppo, negli ultimi tempi, ci siamo assuefatti ai “nulla di fatto” in tanti processi per falso in bilancio, frode fiscale, colpa medica. Reati di notevole impatto civico e sociale. Destinati a venire alla luce solo dopo molto tempo. Che, di solito, vedono come imputati soggetti facoltosi i quali, a differenza di altri, possono disporre di difese molto agguerrite.

Oggi, senza una riforma, la prescrizione è fonte di disparità di trattamento tra imputati. Una condanna in primo grado, frutto di laboriosa istruttoria, può cadere nel nulla solo per il dilatarsi dei tempi nel processo di appello. Le sorti di un imputato finiscono per sganciarsi dalle sue responsabilità e per dipendere dalle evenienze più disparate. Ad esempio: l’espletamento di una nuova perizia; il numero dei coimputati; la presenza di avvocati più abili a formulare impugnazioni pretestuose o richieste ostruzionistiche; la designazione di un giudice con un maggiore carico di lavoro o che non ha organizzato a dovere la sua attività. Insomma, chi vuole lasciare le cose come stanno, accetta una casualità foriera di odiose diseguaglianze. E limitarsi a dire che la prescrizione è il “farmaco” per la malattia cronica del processo (la sua lentezza), rischia di suonare come un alibi.

In passato la magistratura associata ha più volte sollecitato il blocco della prescrizione con la condanna di primo grado. Lo riteneva, anche da solo, un rimedio idoneo a contenere nella fisiologia l’ostruzionismo di certe difese, a favorire riti alternativi più snelli e, quindi, a rendere i processi più rapidi e giusti. Ma, oggi, anche tra i magistrati ci sono ripensamenti. Senza la “mannaia” della prescrizione su tanti processi e con la carenza di risorse nelle corti di appello, si teme un aumento delle pendenze e, quindi, giudizi d’impugnazione dilatati a danno degli imputati.

Per superare quei pericoli occorrono interventi congiunti, frutto di una “alleanza per la giustizia” tra diverse istituzioni. Così se dalla magistratura si deve pretendere un rinnovato impegno organizzativo e interventi drastici su chi non è disponibile a coltivarlo o si mostra negligente, al governo spettano investimenti mirati e tempestivi sulle corti di appello dove ora si registra la maggiore incidenza percentuale delle prescrizioni (secondo i dati del Ministero: Roma, Napoli, Venezia, Torino, Catania). D’altronde, in parlamento andrebbero presto approvati quei disegni di legge, piuttosto datati e ampiamente condivisi, sulla semplificazione del sistema della notificazioni, lo snellimento delle tecniche motivazionali dei provvedimenti, la previsione di filtri di ammissibilità delle impugnazioni, l’estensione dei giudizi monocratici anche in appello. Per non parlare della esigenza indilazionabile di modificare norme processuali che trattano allo stesso modo violazioni da codice della strada e delitti di mafia. Dal canto suo, l’avvocatura dovrebbe accettare nuove regole sui compensi del gratuito patrocinio, volte a evitare le istanze pretestuose di professionisti spregiudicati (non sono tanti ma ci sono) interessati a gonfiare le parcelle elargite dallo Stato.

Gli effetti della “vituperata” riforma della prescrizione si vedranno fra cinque anni. Il tempo per misure integrative c’è. La disponibilità e la volontà di vararle sono tutte da verificare. Certo, slogan e prove muscolari non promettono nulla di buono. Ma forse esprimono solo fibrillazioni politiche passeggere. In ogni caso, la semplice abrogazione della riforma è una rinuncia al contrasto di quelle diseguaglianze giudiziarie che erodono ogni giorno la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.