Il trottolino al Senato

Ci mancava un “trottolino amoroso” nell’aula del Senato. Ormai – è un dato di cronaca – in Parlamento succede praticamente di tutto: di recente c’è stato pure un leghista che ha chiesto la parola alla presidenza per fare la dichiarazione di matrimonio alla futura moglie, con lei che osservava per nulla traumatizzata dalla tribuna degli ospiti. Pare che la sconsiderata abbia detto sì. Al confronto di questi colpi di teatro, quello che è successo ieri non è davvero nulla. In occasione dell’apertura mensile al pubblico di Palazzo Madama, nella solenne cornice della seconda camera si è esibito il cantautore Amedeo Minghi. Il quale ha omaggiato la platea con il suo più celebre successo: “Vattene amore”. Meglio noto come “Trottolino amoroso”. La più felice di tutti era la presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati, che accompagnava le parole di Minghi muovendo la testolina. “Magari ti chiamerò/ trottolino amoroso dudù dadà”.

“Attenti a quei preti”. Fino a 4 mila pedofili e 1 milione di vittime

Dietro ciascun puntatore c’è una storia, o più spesso molte. Tanto che per vederle tutte bisogna ingrandire più e più volte la mappa dell’Italia. Quella realizzata da Francesco Zanardi, presidente della Rete L’Abuso, è l’indagine più completa mai esistita in Italia sugli abusi sessuali del clero cattolico nei confronti di minori e adolescenti: centinaia di migliaia di casi. Secondo alcune stime, più di un milione. Storie di infanzia violata, di vite spezzate, storie di rimozioni e di omertà.

Caso per caso, Zanardi raccoglie nomi, denunce, condanne e insabbiamenti e aggiorna, dal 2009, la sua mappatura delle “diocesi non sicure” (www.retelabuso.org). I sacerdoti segnalati sono 298. Di questi, la metà (144) sono i rei confessi o i condannati definitivi (in rosso). Ma, anche in presenza di condanne o misure di prevenzione, nella maggior parte dei casi i membri del clero ottengono di scontare la pena agli arresti domiciliari, in speciali “residenze per sacerdoti in difficoltà”, prive – sostiene Zanardi – della sorveglianza che si riserva ai ristretti laici. Uno squilibrio tanto evidente che la Convenzione per i diritti del fanciullo, nelle ultime osservazioni inviate all’Italia il 28 febbraio 2019, si è dichiarata “preoccupata per i numerosi casi di bambini sessualmente abusati da religiosi della Chiesa cattolica nello Stato italiano, e per il basso numero di indagini e procedimenti penali”.

Ad analizzare con una lente di ingrandimento la mappa della Rete L’abuso, ci sono poi i prelati in attesa di giudizio (puntatore giallo). Accusati ma mai sottoposti a indagine penale, o scomparsi nel nulla dopo le accuse: 143 in totale. Tra i casi più eclatanti quello di Silverio Mura, allontanato da Napoli per uno scandalo di pedofilia e scoperto anni dopo a 800 chilometri di distanza, nel Pavese, a dire messa sotto falso nome. E ancora i preti condannati o indagati all’estero, che da noi hanno trovato un rifugio sicuro grazie alla protezione del Vaticano: sono 11, secondo la Rete L’Abuso, di cui 3 in Liguria e 4 a Roma.

Tutto questo non sarebbe che la punta di un iceberg. O almeno ne è convinto l’attivista anti-abusi irlandese Mark Vincent Healy, che, di fronte alla Commissione Onu per i diritti del fanciullo, ha portato uno studio che ipotizza la dimensione complessiva del fenomeno in Italia. Healy si è basato sulle diverse stime circolate negli anni: dal 2% di membri del clero coinvolti in casi di molestie citato da papa Francesco al 4% di preti pedofili stimato dal John Jay Report, la maggiore indagine sul tema condotta negli Usa (nel caso “Spotlight” svelato dal Boston Globe, i preti pedofili erano il 6% della diocesi di Boston).

Sugli oltre 50 mila prelati italiani, sarebbero quindi, potenzialmente, da 1.000 a 4.000 i pedofili. Considerate le stime sul numero di vittime per ogni pedofilo (da 50 a 250, secondo il Sipe Report del celebre psichiatra americano Richard Sipe), i minori violentati da sacerdoti potrebbero arrivare in Italia fino al milione. Numeri fuori scala, i più alti tra i Paesi cattolici. Dovuti anche al fatto che, per numero di cattolici, siamo il secondo Paese con più fedeli al mondo, ma soprattutto quello con più ordinati: oltre 57 milioni.

A denunciare le violenze sono, però, in pochissimi. E, nella maggior parte dei casi, la questione resta confinata nella sfera ecclesiastica: con il prete trasferito di parrocchia in parrocchia per evitare scandali, proprio come nella storia di don Franco Castagneto svelata da Sherlock.

In Italia, infatti, diversamente da quanto successo in altri Paesi occidentali, non c’è mai stata una commissione d’inchiesta sul fenomeno degli abusi sui minori da parte del clero. Anche se a sollecitarla sono arrivate persino le Nazioni Unite, con una raccomandazione allo Stato italiano in cui si è chiesto di “instaurare una commissione indipendente e imparziale, per esaminare tutti i casi di abuso da parte di religiosi cattolici”, e per “assicurare indagini trasparenti ed effettive e pene adeguate a chi è riconosciuto responsabile”. Una richiesta rimasta a oggi lettera morta.

“Troppo forte l’influenza vaticana, troppe le connivenze tra apparati dello Stato e gerarchie ecclesiastiche”, dice Francesco Zanardi. Anche lui, a sua volta, è una vittima. Venne abusato da don Nello Giraudo, l’ex parroco di Spotorno che violentò decine di minori dagli anni 80 ai primi 2000. Don Nello Giraudo, per i numerosi abusi su bambini al di sotto dei 14 anni, ha patteggiato una condanna a 1 anno e 6 mesi, per un solo singolo caso (gli altri erano tutti già caduti in prescrizione). Scontati in carcere: zero giorni.

Strage Rigopiano: 22 archiviazioni tra cui D’Alfonso e Del Turco

Il gip del Tribunale di Pescara, Nicola Colantonio, ha disposto l’archiviazione di 22 indagati nell’inchiesta madre sul disastro dell’Hotel Rigopiano di Farindola (Pescara), avvenuto il 18 gennaio 2017, quando una valanga travolse il resort provocando la morte di 29 persone. “Non si ritiene che gli elementi investigativi indicati negli atti di opposizione (in quanto irrilevanti) possano incidere sulle risultanze investigative, precise ed esaustive, raccolte dal pm, non potendo sminuire le considerazioni da questi assunte nella richiesta di archiviazione e condivise da questo giudice. Pertanto può affermarsi che le risultanze investigative non permettono di sostenere l’accusa in giudizio”, ha rilevato il gip disponendo l’archiviazione, tra l’altro, per gli ex governatori dell’Abruzzo Luciano D’Alfonso, Ottaviano Del Turco e Gianni Chiodi. Escono dal processo anche gli assessori che si sono succeduti alla Protezione civile: Tommaso Ginoble, Daniela Stati, Mahmoud Srour, Gianfranco Giuliante e Mario Mazzocca; l’ex sottosegretario alla Giustizia Federica Chiavaroli, la funzionaria della Protezione civile Tiziana Caputi, l’ex vice governatore Enrico Paolini, l’ex direttore generale della Regione Abruzzo Cristina Gerardis; Giovanni Savini, direttore del Dipartimento di protezione civile per tre mesi nel 2014; Silvio Liberatore, responsabile della sala operativa della Protezione civile; Antonio Iovino, dirigente della Protezione civile; Vittorio Di Biase, direttore del Dipartimento opere pubbliche fino al 2015; Vincenzino Lupi, responsabile del 118. Archiviata anche Daniela Acquaviva, funzionaria della Prefettura di Pescara nota per non aver creduto al primo allarme telefonico del ristoratore Quintino Marcella, a cui rispose: “La madre degli imbecilli è sempre incinta”. Acquaviva però resta imputata nel procedimento bis per depistaggio.

Anacapri dichiara guerra a Capri sulla funicolare

Il titolo della lettera è forte e descrive quello che tra due Stati sarebbe un incidente diplomatico: “Interruzione rapporti istituzionali”. E vengono in mente immagini di ambasciatori richiamati in patria e peacekeeper convocati d’urgenza. Solo che stiamo parlando di una lettera del sindaco di Anacapri, Alessandro Scoppa, al suo collega di Capri, Marino Lembo. La celeberrima isola si spacca in due, e come accade quando si è tanto famosi quanto piccoli, il litigio assume toni sopra le righe. L’oggetto del contendere è il progetto della funicolare sotterranea che dovrebbe collegare la parte alta dell’isola, Anacapri, con quella bassa, Capri, ed in particolare il porto dove attraccano, a poca distanza, gli aliscafi dei turisti mordi e fuggi e dei pendolari e le barche dei vip.

Il consiglio comunale di Capri, e in particolare la maggioranza che sostiene il sindaco Lembo, ha revocato la precedente delibera del 2018. Curiosamente, Lembo era favorevole da consigliere di opposizione. Ha cambiato posizione dopo essere diventato sindaco a giugno. Succede. La reazione, però, è sta durissima, con una lettera con la quale il sindaco di Anacapri dichiara “la formale interruzione dei rapporti istituzionali” con l’amministrazione di Capri. Inviata anche al prefetto di Napoli, che a questo punto potrebbe assumere il ruolo simile a quello di segretario dell’Onu per ricomporre la guerra . “L’Amministrazione di Anacapri – si legge – è costretta ad assumere un atteggiamento deciso per difendere sia i diritti connessi alla mobilità dell’isola di Capri, sia quelli della nostra cittadinanza che, ancora una volta, viene pubblicamente offesa nella propria dignità”. Al Fatto, Scoppa argomenta le ragioni della protesta: “Anacapri è collegata con Capri solo con una anacronistica strada provinciale scavata in un costone protetto da reti metalliche. Basta che cada un masso, la strada si chiude e siamo isolati nell’isola: isolati due volte. Di questa funicolare c’è bisogno”.

Stiamo parlando di una infrastruttura che ad occhio costerebbe, spiega Scoppa, “circa un centinaio di milioni di euro”. Impossibile avviare l’iter dei finanziamenti senza la piena sinergia delle due amministrazioni. Marino Lembo da Capri invita alla calma: “Guardi che si sta parlando solo di uno studio preliminare, per un intervento che peraltro insisterebbe per l’85% sul comune di Capri. Abbiamo scoperto che il preliminare si intersecherebbe coi lavori di un parcheggio sotterraneo in piazzale Europa e vorremmo soltanto discutere del tutto coi cittadini, con le associazioni di categoria, che di questa funicolare sotterranea non sanno niente, l’unico incontro pubblico sinora si è tenuto da noi è non è sufficiente”. Di qui un segnale di pace: “Al sindaco di Anacapri dico che è impossibile interrompere le nostre relazioni, ci sono problemi sul nostro scoglio che discutiamo insieme dalla mattina alla sera, come ad esempio l’ospedale. Non vogliamo chiudere il tavolo, vorremmo solo ridiscutere il tutto insieme”.

I naufraghi di Carola mollati da Berlino: in Italia senza diritti

Lukas prova a camminare intorno al Cara di Crotone, dove sta adesso, ma ha freddo e indossa ancora i vestiti estivi ricevuti sulla nave. Poi torna dentro e prova a dormire, perché i ricordi delle torture nei lager libici di Zawiya e Tripoli non gli danno pace: li innaffiavano con tubi d’acqua e poi accendevano la corrente elettrica ai loro piedi. È riuscito a scappare da quella prigione, come già era riuscito a salvarsi da un’imboscata di pirati nel Sahara e dalle milizie in Camerun che avevano ucciso suo figlio di sei anni e bruciato la casa. Ha preso un gommone di notte in quella traversata che non dimenticherà mai. Il 12 giugno, la Sea Watch 3 guidata da Carola Rackete, lo ha trovato in acque internazionali insieme ai suoi 52 compagni di sventura e li ha portati in salvo. Dopo due settimane in attesa di un porto sicuro, gli è stato promesso di poter fare richiesta d’asilo in Germania. Ha ricevuto la notifica del ministero dell’Interno italiano: la Germania si prendeva carico di lui e di altri dieci profughi della Sea Watch3, tra cui una donna incinta. Un accordo con cinque Paesi, celebrato dal governo Conte. Francia, Germania, Portogallo, Finlandia e Lussemburgo si sarebbero presi i profughi della Sea Watch 3. La politica dei porti chiusi cominciava a portare i suoi frutti. E infatti dopo la Sea Watch 3, anche le altre persone arrivate in Sicilia e a Taranto, con navi di Ong straniere, sono state redistribuite tra vari Paesi. Sulla carta. Perché di fatto le redistribuzioni si fanno con il contagocce. E la Germania non è ancora venuta a prendersi nessuno.

“Siamo rimasti chiusi nell’hotspot di Messina per i primi 10-14 giorni, non potevamo uscire perché eravamo diversi dagli altri, noi dovevamo partire”, racconta una ragazza della Costa d’Avorio, incontrata a Strasburgo dove si trova adesso. “Funzionari francesi sono venuti a interrogare dodici persone, a inizio luglio, poi ne hanno prese solo nove, non si capisce perché”, dice Haidi Sadik di Sea Watch. Ma il gruppo “francese” è stato il più fortunato, è riuscito a partire a inizio agosto. Poi, il Portogallo, a metà settembre, ha portato via cinque persone tra cui una famiglia con un bambino di sei mesi. Hanno seguito il Lussemburgo (tre) e la Finlandia (sei). La Germania, dopo aver mandato funzionari a interrogare i candidati, doveva portarne via undici. Ma non è mai tornata a prenderli. Aspettano da sei mesi. “Queste persone sono state abbandonate, non hanno ricevuto un codice fiscale per le cure mediche fuori dall’hotspot o per lavorare, non hanno mai visto uno psicologo, seppur alcune ragazze erano traumatizzate dalle violenze sessuali subìte in Libia”, spiega Giuseppe Platania, di Borderline Sicilia.

A inizio ottobre, le associazioni Asgi, Borderline e ActionAid denunciano le cattive condizioni dell’hotspot di Messina: “I richiedenti asilo della Sea Watch3 non hanno informazioni, non ricevono assistenza legale e sociale. Nessun medico o psicologo si prende cura di loro, i farmaci vengono negati perché ‘vi verranno somministrati nel Paese di destinazione’, viene detto loro”.

A inizio novembre gli undici della Germania vengono spostati nel centro di Crotone, dove ancora aspettano notizie da Berlino. E intanto, nessun diritto. “Non ci danno soldi per la giornata, siamo a mezzora a piedi dal primo centro abitato, due ore da Crotone. Nessuno ci dice niente. È peggio di una prigione, non ho neanche più voglia di mangiare”, dice Lukas fuori dal centro.

Gli accordi di distribuzione sono in effetti posati su niente, l’art. 17 della Convenzione di Dublino ammette “accordi volontari tra gli Stati” e lascia tutto alla buona volontà dei governi, in una zona grigia di non-diritto. “Non sappiamo quello che è successo nei colloqui con i singoli richiedenti asilo – continua Haidi Sadik di Sea Watch a Berlino –, gli avvocati non erano presenti, con quali criteri alcune persone sono state lasciate in Italia?”.

Per il governo italiano è fondamentale lasciare aperta la porta del dialogo. Il 23 settembre scorso, a Malta, Francia, Germania e Malta hanno dato il loro sostegno a un accordo di distribuzione costante dei migranti. La Germania, rappresentata dal ministro dell’interno Horst Seehofer, si è detta disposta a prendere fino al 25% delle persone arrivate in nave. Ma già dopo due settimane, in un Consiglio a Lussemburgo, il tedesco ha chiarito che questo vale solo se i numeri restano bassi. “Domani posso dichiarare terminato il meccanismo di emergenza”, ha precisato.

Roma cerca di mantenere in vita l’accordo di Malta. “Stiamo provando a migliorare il sistema – dice una fonte del ministro dell’Interno –, chiediamo che la procedura venga chiusa in massimo quattro settimane; che il Paese ospitante termini l’identificazione prendendo le impronte digitali (sistema Eurodac) e sia quindi anche responsabile di eventuali rimpatri”. Sarebbe il superamento di fatto delle regole di Dublino del primo Paese responsabile di tutta la procedura d’asilo. Ma Berlino ribadisce invece che “la procedura d’asilo spetta al primo Paese d’arrivo”. Sulle ricollocazioni dopo gli ultimi sbarchi, il ministero dell’Interno tedesco ha risposto a Investigate-Europe che “è l’Italia a doversi far carico dei trasferimenti”, in un gioco dello scaricabarile.

Intanto le navi continuano ad arrivare e seppure i salvataggi con le Ong rappresentino solo il 10% degli sbarchi (fonte Ispi), le distribuzioni sono in un pantano. Solo la Francia le fa. Su 925 persone sbarcate in nave da giugno a novembre, in Sicilia o a Taranto, Berlino dovrebbe farsi carico di circa 165 persone. Cifre irrisorie, rispetto ai 13.909 “dublinanti” arrivati in Italia fino a ottobre (dati governo tedesco), ma scappati in Germania, che Berlino vuole rispedire in Italia secondo le attuali regole. Finora 1.126 richiedenti asilo sono tornati in Italia.

*Investigate-Europe

Alfano e Martella contro la Camera: “Subito il vitalizio”

Sarà pure vero che non ha il quid, ma non ne molla una. Angelino Alfano, l’ex ministro della Giustizia, degli Esteri e dell’Interno, ma soprattutto delfino mancato di Silvio Berlusconi, colleziona incarichi a tutto spiano ora che è uscito dall’agone politico.

Ma non è soddisfatto: vorrebbe pure godere del vitalizio per i 20 anni che ha dedicato alla Patria come parlamentare. E per questo ha chiesto di poter godere fin da subito dall’assegno di circa 5.300 euro lordi al mese pur non avendo neppure lontanamente i requisiti minimi previsti dal regolamento della Camera. A cui Alfano ha fatto causa nonostante non sia esattamente costretto a tirare la cinghia: nel giro di un paio d’anni si è rimesso su piazza alla grande, prima nello studio legale Bonelli Erede che lo ha reclutato come Of counsel “dopo un’importante carriera accademica e istituzionale”. Poi a luglio ha fatto bingo, con la nomina a presidente del gigante della sanità privata del Gruppo San Donato. Ma evidentemente non gli basta.

A lui e ad altri tre ex deputati che, pur non rieletti nella legislatura in corso non se la passano certo male, come nel caso di Andrea Martella del Pd, che ha perso il seggio, ma nel frattanto è stato promosso sottosegretario per l’editoria nel nuovo governo giallorosso.

E così Angelino, Martella, l’altro inossidabile parlamentare dem Andrea Rigoni insieme all’altro Alfano (il dc Gioacchino, già sottosegretario alla Difesa) hanno contestato la legittimità costituzionale delle regole attualmente vigenti a Montecitorio per ottenere anzitempo l’agognato assegno. La cui immediata erogazione, secondo loro, si porrebbe “in stretta correlazione con la necessità di indennizzare il deputato per i minori ricavi che lo stesso sarà in grado di realizzare una volta tornato alla vita normale dopo tanti anni di servizio prestati presso il Parlamento a beneficio della collettività”. Ma la Camera è stata sorda a questo alto richiamo.

E infatti per ben due volte in cinque mesi in primo grado e poi in appello gli organi di giustizia interna di Montecitorio hanno stabilito che non c’è trippa per gatti: per incassare il vitalizio i magnifici quattro dovranno aspettare di aver compiuto almeno 60 anni. Nessuno sconticino, come speravano, pretendendo di goderne da subito o a brevissimo. Specie l’ex ministro Alfano, il più giovane dei ricorrenti, che voleva passare all’incasso già a 49 anni. Con quel motivazione? Ci aveva fatto affidamento. E questo nonostante fosse stato eletto per la prima volta alla Camera nel 2001 quando era già in vigore da quel dì il Regolamento per gli assegni vitalizi dei deputati che nel 1997 aveva disposto il differimento dell’età pensionabile a 60/65 anni, rispetto a quanto avveniva prima.

Alfano invece avrebbe voluto che gli si applicassero le norme precedenti, ben più munifiche. Come la disciplina del 1968 che per gli ex deputati in possesso di almeno vent’anni (o quattro legislature) di contribuzione, consentiva di erogare l’assegno a prescindere dall’età anagrafica. O anche il regolamento del 1994 che fissava l’età di godimento a 60 anni, ma poi prevedeva pure la possibilità di erogarlo a 50 anni scalando dal conto un anno di contribuzione eccedente il quinto anno di mandato parlamentare. Ma poi la musica è cambiata, anche se c’è ancora chi, come Alfano, non si rassegna e prova a sostenere di aver subito un torto. Il nuovo regime dei vitalizi non lede né il principio di uguaglianza, né tanto meno quello di ragionevolezza perché, come si legge nella sentenza della Camera di metà novembre, le nuove regole si sono limitate a innalzare “l’età minima per il conseguimento del trattamento previdenziale, in modo peraltro non dissimile da quanto avvenuto nel sistema pensionistico generale, dove i requisiti contributivi e anagrafici minimi rimanevano comunque più elevati”.

Da oggi il Fatto torna alla Fiera dell’editoria dell’Eur a Roma

Sette eventi in cinque giorni. Alla Fiera della piccola e media editoria di Roma, in calendario da oggi fino all’8 dicembre alla Nuvola di Fuksas, l’agenda degli incontri del gruppo editoriale il Fatto è la più ricca di sempre. Non solo libri, ma anche televisione e approfondimento giornalistico.

Si parte venerdì 6 dicembre alle 15:30. Nella Sala Luna verrà presentato l’ultimo successo editoriale di Antonio Padellaro, Il gesto di Almirante e Berlinguer. Il fondatore del Fatto dialogherà con l’editor della Paper First, Alessandro Zardetto.

Triplo appuntamento sabato 7 dicembre. Alle 13 nella Sala Sirio la piattaforma televisiva Loft propone il dibattito “La Tv uccide la cultura?”. Intervengono lo storico dell’arte Tomaso Montanari, David Perluigi e Luca Sommi. Alle 14 il mensile Fq Millennium affronta il tema dell’ambiente: “Gli ipocriti sul carro di Greta”. Partecipano il professor Stefano Caserini, lo scrittore Marco Malvaldi e la giornalista Valentina Petrini. Modera Mario Portanova. Chiude la giornata Andrea Scanzi che presenta il suo ultimo best seller Il cazzaro verde nella Sala Luna alle 17:30.

Anche domenica tre eventi in programma. Si comincia alle 11:30 nella Sala Luna con la presentazione dell’ultima inchiesta pubblicata da Paper First: La Repubblica degli impuniti di Peter Gomez, Valeria Pacelli e Giovanna Trinchella. I tre autori si confronteranno con Marco Lillo. Incontro pomeridiano alle 15:15 con Marco Travaglio, che presenterà Perché No Tav. Anche in questo caso seguirà il firmacopie per il pubblico. Si chiude alle 19 con la presentazione del libro Da Rousseau alla piattaforma Rousseau di Salvatore Cannavò. Interverranno con l’autore, Roberta Lombardi del M5S e l’eurodeputato Massimiliano Smeriglio (eletto con il Pd).

Per chiunque voglia venire a scoprire le ultime novità editoriali della casa editrice Paper First e conoscere le prossime pubblicazioni, vi aspettiamo allo stand C29.

Dell’Utri di nuovo libero. Ora B. teme la “vendetta”

E ora ad Arcore sale la preoccupazione. Per quello che Marcello Dell’Utri potrebbe dire. Per vendicarsi della scena muta di Silvio Berlusconi il 25 settembre scorso in tribunale. Ieri l’ex senatore forzista è tornato in libertà dopo aver scontato 5 anni e mezzo dei 7 della condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, passati in carcere fino al 18 luglio scorso, quando gli sono stati concessi i domiciliari. Ma un altro processo importante grava sulla sua testa: quello sulla “trattativa Stato-mafia”, appunto, per cui è stato condannato a 12 anni in primo grado. E sul quale Silvio Berlusconi, chiamato a testimoniare, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Con grande arrabbiatura della moglie di Dell’Utri. “È meglio che non parlo, che non dico quello che penso. La testimonianza di Berlusconi era ritenuta decisiva dalla Corte d’appello. Qui c’è in gioco la vita di Marcello”, le parole di Miranda Ratti due mesi fa.

Dall’entourage dell’ex premier filtra pochissimo e l’argomento è tabù. Ma qualcosa trapela. Da una parte il sollievo di B. per il ritorno in libertà dell’“amico Marcello” che in carcere “è stato molto male”, ma dall’altra una grande preoccupazione per quello che ora l’ex manager di Publitalia potrebbe dire nei procedimenti ancora aperti: la “trattativa”, ma pure l’inchiesta sulle stragi del 1993, che vede indagato l’ex premier. “Berlusconi è terrorizzato”, dice una fonte vicina a B. Anche se l’ex Cavaliere confida nel fatto che l’amico di una vita continuerà a non tradirlo.

In Forza Italia, invece, si segue il ragionamento opposto. “Premesso che Berlusconi non ha nulla da temere perché non c’è niente da sapere, anche nel caso vi fosse qualcosa, avrebbe dovuto temere prima, quando Dell’Utri era in carcere. Lì una persona è più portata a parlare, magari per avere sconti di pena. Ma adesso che Marcello è tornato libero, che senso avrebbe…?”, è il ragionamento che fanno un paio di senatori azzurri. “E poi, nonostante quel che dice la signora Miranda (che ieri era all’estero, ndr), Marcello sa bene perché Silvio non è mai potuto andare a trovarlo in carcere e sa anche perché Coppi e Ghedini gli hanno imposto di non testimoniare…”, osserva un deputato.

Se Berlusconi (che questa settimana incontrerà Salvini) non è stato vicino fisicamente al suo ex collaboratore, lo è stato però economicamente, visto che, secondo l’ufficio informazioni finanziarie di Bankitalia, tra il novembre 2016 e il febbraio 2017 Berlusconi ha “donato” alla famiglia Dell’Utri oltre 3 milioni di euro.

Da luglio, dunque, Dell’Utri era ai domiciliari nella sua abitazione a Milano 2, il quartiere immerso nel verde alle porte di Milano da cui tutto è cominciato. È proprio lì che ieri mattina gli è stata recapitata l’istanza di scarcerazione. Dell’Utri è uscito di casa verso le 15 per recarsi dal suo avvocato Francesco Cetonze, che lo assiste nel processo sulla “trattativa”. “Sono frastornato dalla libertà. Non ero più abituato. Ora ho una gran voglia di andare al cinema e al ristorante. Del resto cos’è la libertà se non questo…”, ha detto ai cronisti che lo attendevano. Dell’Utri, 71 anni, è apparso in buone condizioni fisiche. “Mi sto curando. Di salute ora sto meglio. Vorrei mandare un saluto ai miei colleghi carcerati che stanno ancora dentro. Li saluto tutti con affetto…”, ha aggiunto. Qualcuno gli chiede proprio di Berlusconi e della sua scelta di non testimoniare. “Su questo non ho nulla da dichiarare. È materia di avvocati…”, la risposta dell’ex senatore.

Manager di Publitalia, promotore Fininvest e fondatore di FI, ma pure, secondo le sentenze, anello di collegamento tra B. e le cosche siciliane cui l’ex premier chiese protezione alla metà degli anni ’70, Dell’Utri si è pure rimesso a studiare. “Mi sono iscritto all’università di Bologna, facoltà di storia e letteratura italiana. Ho un esame tra pochi giorni…”, ha dichiarato al Corriere. Grande appassionato di libri antichi, nel 2015 gliene sono stati sequestrati diverse migliaia con l’accusa di averli sottratti a biblioteche pubbliche ed ecclesiali.

La lente dei pm sui finanziatori della fondazione

Sono circa una quarantina le società le cui donazioni (registrate nei bilanci delle varie società) alla Fondazione Open sono finite al vaglio dei pm fiorentini che indagano sull’allora cassaforte del renzismo. Alla lista pubblicata nelle scorse settimana, si aggiungo dunque nomi nuovi, rivelati ieri da Repubblica. Nessuno dei donatori della Open è indagato.

La procura sta cercando solo di verificare se vi sia un “intreccio tra prestazioni professionali rese da Alberto Bianchi (ex presidente della Open, ora indagato a Firenze per traffico di influenze e finanziamento illecito, ndr) e i finanziamenti alla Fondazione”, come scritto nel decreto di perquisizione dell’avvocato Bianchi, rivelato ieri dal quotidiano.

Tra chi in passato ha finanziato lecitamente la Open troviamo anche la Corporation America Italia (Cai) che, nell’anno del referendum costituzionale del 2016, ha contribuito con 50 mila euro. Cai è dell’argentino Eduardo Eurnekian, azionista di controllo con il 62,28 per cento – una quota del cinque è della Regione – di Toscana Aeroporti, il cui presidente è Marco Carrai (ex membro del Cda di Open).

Sempre nel settore del trasporto, cargo in particolare, va ascritta la Arlines Handling Agents, una Spa che s’è avvicinata a Open già nel 2014, quando Renzi va a Palazzo Chigi e poi in Europa porta il Pd oltre il 40 per cento. Alicros e Lagfin fanno riferimento al gruppo Campari. Nel 2016 Alicros ha sostenuto la fondazione con 30 mila euro.

Il gruppo Getra di Marcianiese (Caserta), invece, come rivelato nell’agosto del 2017 dal Fatto, ha aiutato la Open durante la campagna del referendum con 150.000 euro e l’11 giugno 2016 l’allora premier Renzi ha visitato gli stabilimenti dell’azienda produttrice di trasformatori elettrici. La Fingen dei fratelli di Fratini di Firenze, attivi nel settore degli immobili e da sempre in buoni rapporti con Renzi, ha elargito un contributo di 100 mila euro. Come notato dal Fatto, i Fratini nel 2013 hanno venduto il palazzo della Gherardesca all’emiro qatariota Al-Thani per 150 milioni di euro. Anche dopo i mille giorni a Chigi, Renzi frequenta ancora il Qatar e i sovrani Al-Thani.

Non è finita. Big Spaces è una società di Andrea Baccuini, sappiamo che ha finanziato la Open con 30 mila nel 2016. Baccuini si occupa di eventi e di locali in montagna, soprattutto a Courmayeur, località sciistica dove Renzi in vacanza ha brindato al 2016. Nell’elenco c’è anche la Aurelia Srl, holding della famiglia Gavio. C’è poi l’Intek Group che si occupa di “assunzione di partecipazioni in altre società o enti sia in Italia che all’estero”: il presidente del Cda è Vincenzo Ugo Manes che in un articolo de Il Foglio viene definito “consulente ad personam e pro bono del presidente del Consiglio Renzi in materia di sociale e Terzo settore”.

Open, decine di alert Bankitalia. L’ipotesi di un “sistema Carrai”

Ci sono due presunte modalità di finanziamento che la Procura di Firenze sta vagliando. Un “sistema Bianchi” e un “sistema Carrai”. Il primo sospetto è che l’avvocato fiorentino, ex presidente della Fondazione Open, abbia incassato consulenze da imprenditori per poi spostare i soldi nell’allora cassaforte del renzismo. Il secondo, invece, nasce dall’ipotesi che alcuni finanziatori di Open, poi abbiano messo il proprio denaro anche in società riconducibili a Marco Carrai, imprenditore amico di Matteo Renzi. Sono solo sospetti che i pm stanno verificando. Sono partiti da una decina di segnalazioni per operazioni sospette della Uif (l’Unità di informazione finanziaria) della Banca d’Italia, ora agli atti dell’inchiesta.

Si tratta di documenti nei quali vengono tracciati i passaggi di denaro transitati in passato nella Open e in questo caso la segnalazione più corposa risale al 2018. Ma non l’unica. In un’altra la Banca d’Italia analizza alcune società riconducibili a Carrai, in passato membro del Cda della Fondazione. Non è detto che vi siano illeciti, ma su quelle segnalazioni sono in corso accertamenti. Intanto Carrai è stato iscritto per finanziamento illecito. Bianchi anche per traffico di influenze. In questo caso, l’inchiesta verte su una consulenza affidata allo studio legale Bianchi nel 2016 dalla Toto Costruzioni Generali e che per i pm era un modo per nascondere un finanziamento. Nel decreto di perquisizione emesso nei confronti di Bianchi e rivelato ieri da Repubblica si parla anche della presenza di una “pluralità di soggetti della fondazione (Bianchi, Carrai e Lotti, quest’ultimo non indagato)” che “si sono interessati all’accordo transattivo Toto-Autostrade e, taluni (Bianchi), anche a modifiche normative inerenti il settore delle infrastrutture autostradali”.

In un altro decreto di perquisizione, invece, i pm fanno riferimento a società riconducibili a Carrai: “L’indagato – scrivono – è tra i soci della società ‘Wadi Ventures Managment Company Sarl’ con sede in Lussemburgo il cui unico asset è la società ‘Wadi Ventures Sca’ (…), con oggetto sociale la detenzione di partecipazioni societarie”. L’organo amministrativo della Wadi, spiegano, è composto oltre che dall’imprenditore amico di Renzi anche da Renato Sica e Moscati Giampaolo. Che sono soci di Carrai in altre società italiane, come per esempio nella Cambridge Management Consulting Labs Spa.

Il punto è che la Wadi Ventures Sca, secondo i pm, “risulta destinataria di somme di denaro provenienti, fra gli altri, da investitori italiani già finanziatori della Open, e collegati a Carrai”. Tra questi per esempio c’è il finanziere Davide Serra, che nella Wadi in passato ha versato 50 mila euro.

Serra – che non è indagato – è stato perquisito nei giorni scorsi. I suoi soldi però non sono gli unici a finire nelle casse della Wadi Ventures Sca. Dai bilanci del 2016, visionati dal Fatto, si scopre che la società – costituita nel 2012 con capitale sociale di circa 250 mila euro – ha rimpolpato i capitali. Il primo aumento di capitale arriva a dicembre 2013 con oltre un milione di euro. L’anno dopo, si aggiungono 275 mila euro. A dicembre 2015 vi è un nuovo aumento di capitale di 600 mila euro. Nel 2017 – riporta il bilancio – “il capitale sociale ammontava a 2.175.001”. La domanda è: perché mettere denaro in una società in perdita, anche se di poco? Nel 2017 infatti le perdite ammontavano a 144 mila, nel 2016 a 35 mila euro. Anche su questo la Procura sta facendo approfondimenti.

Non è tutto. Dal decreto di perquisizione di Bianchi riportato ieri da Repubblica emerge anche una mail del 23 novembre 2013 con oggetto “Fondazione Big Bang”, poi divenuta Open, ritrovata nel pc di Bianchi e inviata ad alcuni imprenditori. Si tratta di un’attività di fundraising che i pm sintetizzano così: “Supporto di 100 mila euro all’anno per 5 anni, sostegno di idee, suggerimenti, proposte per Matteo e per la Fondazione, interlocuzioni con Matteo sia dirette, sia tramite Alberto e Marco”.