I rischi sui debiti e i lati oscuri del “salva stati”

Col passare dei giorni, le discussioni attorno al Meccanismo Europeo di Stabilità – alias Fondo salva-Stati – si fanno più confuse invece di chiarirsi, e i cittadini faticano a farsi un’idea sulla vera natura dell’accordo fra Stati dell’eurozona.

Invece di rispondere ai molti dubbi espressi da esperti e addetti ai lavori, i principali politici e giornalisti dirottano l’attenzione sulla natura ideologica dello scontro – sovranisti contro europeisti, M5S accusato di rimpiangere la Lega – senza preoccuparsi di studiare a fondo i quesiti, di esaminare le obiezioni di merito e di leggere, almeno, il Trattato rivisto così come è stato negoziato. Trattato per alcuni versi migliorato, per altri peggiorato.

Come accade sin dall’inizio della crisi greca e delle politiche di austerità, le condizioni di funzionamento del Mes vengono presentate come ineluttabili: affermazione impropria, che tra l’altro sorvola sulla necessaria ratifica finale di tutti i Parlamenti dell’area euro. Hanno contribuito alla confusione il tardivo risveglio sia di Lega sia di 5Stelle, le cui obiezioni non furono esposte all’opinione pubblica durante i negoziati, dando l’impressione di un subitaneo scontro che non riguarda il Mes, ma la sopravvivenza del governo 5Stelle-Pd-LeU. La lezione greca ha insegnato poco, e la ricetta neoliberale viene riproposta pur non avendo generato crescita né giustizia sociale. “Le cattive idee hanno una morte lenta”, constata l’economista Stiglitz.

Quel che in effetti colpisce è la permanenza dei vecchi parametri di stabilità. Nel Trattato vengono ribaditi, nonostante i cambiamenti promessi da alcuni governi: l’accesso ai crediti cosiddetti precauzionali presuppone tra altre pesanti condizionalità un deficit non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico sotto il 60% (allegato nr. 3 del Trattato). Andrebbe ricordato che fin dal 2001 Prodi definì “stupidi” i parametri, e nel 2013 disse al Sole 24 Ore: “Non è stupido che ci siano i parametri come punto di riferimento. È stupido che si lascino immutati 20 anni”.

Riassumiamo a questo punto i principali difetti elencati dagli esperti.

Quelli esposti da Ignazio Visco in prima linea, che non è ostile al Mes, ma ha indicato i pericoli legati alla ristrutturazione del debito in caso di sua acclarata o sospetta non sostenibilità (la ristrutturazione è un rinegoziato su condizioni e scadenze del debito: un’insolvenza “pilotata”). Vero è che la ristrutturazione non sarebbe automatica, ma diventa obbligatoria se il Mes giudica insostenibile un indebitamento. La sostanza non cambia molto e Visco parla addirittura di enormi rischi: “I piccoli e incerti benefici di un Meccanismo per la ristrutturazione dei debiti sovrani devono essere soppesati considerando l’enorme rischio che il semplice annuncio della sua introduzione inneschi una reazione a catena”. Rischi simili sono temuti dall’Associazione bancaria (Abi), che detiene la maggior parte dei titoli di Stato.

Non meno interessanti le criticità enumerate il 6 novembre – in un’audizione alla Camera – da Giampaolo Galli, vicedirettore dell’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani. Anch’egli è contro il veto al Mes, sottolineando aspetti virtuosi come la rete di sicurezza per le banche in crisi (il cosiddetto backstop), ma non nasconde i vizi dell’impianto.

Il primo concerne il passaggio dell’asse del potere economico nell’Eurozona dalla Commissione Ue al Mes, che diventa un organo con funzioni di vero sovrano e prestatore di ultima istanza. Questo spostamento, e la natura intergovernativa del Mes, eliminano ogni controllo da parte del Parlamento europeo e anche il costante coinvolgimento dei Parlamenti nazionali suggerito nel 2016 dall’Istituto Delors e dalla Fondazione Bertelsmann. Diminuisce anche, a nostro parere, la possibilità di un’intromissione della Corte europea di giustizia in politiche non più condotte in prima persona da organi comunitari (Commissione o Bce), e di cui non sarebbe semplice valutare la compatibilità con il diritto europeo e la Carta dei diritti fondamentali (compatibilità su cui la Commissione deve vegliare, secondo la sentenza Ledra della Corte).

Quanto alla ristrutturazione preventiva del debito, Galli la elenca fra le criticità “preoccupanti” perché indicata come “precondizione pressoché automatica” per ottenere i finanziamenti. A suo parere, l’idea che si debba stabilire una regola che obblighi alla ristrutturazione un Paese che chiede l’accesso ai fondi del Mes e abbia un debito giudicato non sostenibile, è stata espressa ripetutamente da esponenti tedeschi (tra cui il governatore della Bundesbank, Jens Weidmann). Condizionando gli aiuti a una ristrutturazione preventiva si eviterebbe quell’effetto di azzardo morale che sarebbe il motivo per cui alcuni Paesi non hanno fatto l’aggiustamento di bilancio. L’idea dunque è che prima di fare operazioni che comportino condivisione di rischi – assicurazione comune sui depositi, bilancio più forte dell’Eurozona – occorra indurre i Paesi devianti a ridurre i rischi. I prestiti precauzionali a favore dei Paesi che hanno bilanci in ordine sono facilitati, ma a tutti i costi si deve evitare il contagio da parte di paesi giudicati potenzialmente inaffidabili.

Nulla è del tutto immodificabile, a dispetto di quanto detto dal ministro Gualtieri. Sarà possibile esprimere riserve, e almeno attendere risultati paralleli (Unione bancaria, assicurazioni dei depositi, fiscalità comune). È il metodo del pacchetto prospettato dal presidente del Consiglio Conte. Sarà utile cercare alleanze, e sondare anche i nuovi dirigenti socialdemocratici in Germania.

Comunque si tratta di uscire da una fraseologia disorientante perché troppo contraddittoria (il Mes è un progresso ma contiene “enormi rischi”; i parametri sono “stupidi ma necessari”: Prodi 2001)

Dicono che sia in gioco la credibilità italiana, quando in gioco è quella dell’Unione. Come spiegò molto bene la Fondazione Heinrich Böll (rapporto di Ricardo Cabral e Viriato Soromenho-Marques, 2018) il Mes adotta il paradigma del Fondo Monetario (prestiti basati su condizionalità socialmente dirompenti). Nei negoziati del 1944, Keynes si oppose a preventive politiche di austerità per i debitori, e difese “una soluzione secondo cui il peso dell’aggiustamento doveva cadere molto più sulle nazioni creditrici con forti surplus dei conti correnti”. Sconfitto Keynes prevalse la posizione Usa, primo Paese creditore. Lo stesso scenario si presenta oggi, nonostante i ripetuti fallimenti del Fmi.

Prescrizione, il Pd prende ancora tempo ma Zingaretti insiste (e Renzi pensa al voto)

“Abbiamo mandato ancora una volta la palla in tribuna”. Il capogruppo Pd in Commissione Giustizia alla Camera, Alfredo Bazoli, commenta così la decisione del Pd di votare contro la proposta di esaminare con urgenza la legge Costa per abrogare la cancellazione della prescrizione in primo grado, che entra in vigore il primo gennaio 2020. Perché i dem sul tema non vogliono (ancora) rompere, ma non possono mollare. Richiesta respinta con 269 no, 245 sì e 2 astenuti. Ma nel pomeriggio, Nicola Zingaretti annuncia che il Pd presenterà una proposta di legge se non si trova un accordo politico sui tempi dei processi. La mediazione su cui il Pd sta lavorando è introdurre un termine indipendente dalla prescrizione (al secondo grado di giudizio). Bonafede per ora è stato irremovibile. E in serata Di Maio ci va giù pesantissimo: “Se il Pd vuole presentare una proposta, significa che la vuole votare con Salvini e Berlusconi”. A proposito di divisioni.

Quella che va in scena ieri nell’Aula di Montecitorio, dunque, è la perfetta rappresentazione di una maggioranza divisa, ma nella quale nessuno ha voglia di sferrare il colpo finale. Prima del voto in Aula, vari esponenti del Pd e di Italia Viva, e persino qualcuno dei Cinque Stelle, vanno da Costa a chiedergli se è disponibile a ritirare la sua richiesta d’urgenza, in cambio della calendarizzazione entro dicembre della proposta di legge. Il deputato forzista dice sì. Ma poi arriva una telefonata del Guardasigilli: “Si deve votare”. Il Pd dice no, guadagnandosi gli anatemi dello stesso Costa (“resa disonorevole”), Iv non partecipa.

I dem, prima, fanno un’assemblea a Montecitorio. Tutti contro la posizione di Bonafede. Qualcuno (dalla Bruno Bossio a Del Basso De Caro) è pronto anche a dire sì all’urgenza. Alla fine, il Pd è compatto, ma il problema è solo rimandato. Nel frattempo, i capigruppo di Iv vanno da Conte a esprimergli i loro dubbi e le loro preoccupazioni sulle fibrillazioni degli alleati. Incontro richiesto dopo la scelta di non partecipare al vertice notturno di domenica sul Mes. Obiettivo: chiarire che i problemi della maggioranza non dipendono da loro. Ma poi la scelta di non votare sulla proposta Costa è obbligata: troppo alto il rischio di mandare sotto il governo, con i loro 23 voti. Renzi, in questi giorni, si contorce in un dilemma: meglio fare di tutto per evitare elezioni che lo vedrebbero più ridimensionato di quello che già è o puntare a capitalizzare il (poco) che ha e condizionare il più possibile la (eventuale) coalizione di centrosinistra? A favore della seconda opzione, gioca il fatto che votare prima che entri in vigore il taglio dei parlamentari potrebbe consentirgli di averne una truppa più nutrita nella prossima legislatura e che con il Rosatellum potrebbe provare a chiedere collegi e posti sicuri. Senza trascurare l’elemento caratteriale: per lui, una corsa elettorale è sempre preferibile all’attesa.

Da registrare, ieri, anche l’asse Di Maio-Di Battista. Il ministro degli Esteri chiede di nuovo “miglioramenti” sul Mes. Una pressione che rimarca le distanze da Conte. Di Battista fa un post Fb in suo appoggio. Che accade se si salda un fronte pro voto nel Movimento? In realtà è proprio la fragilità dei Cinque Stelle a essere attenzionata da Pd e renziani. Ci si aspetta che siano loro a far saltare il banco, magari cedendo alle lusinghe di Matteo Salvini. Quando? Dopo la legge di Bilancio, presumibilmente dopo l’Emilia-Romagna. A meno di incidenti, però.

Quel che è certo è che è partito il cosiddetto “gioco del cerino”: nessuno crede che questa legislatura possa arrivare a scadenza naturale, nessuno vuole intestarsi la responsabilità di interromperla. “Sono con Conte sul Mes e sulla prescrizione”, chiarisce Di Maio in serata. Tutto secondo copione.

Caro Presidente, si faccia un regalo e li molli lì da soli…

Gentile presidente Conte, mi permetta: perché non si fa (non gli fa) un bel regalo di Natale e li molla tutti? Una domanda, mi rendo conto, parecchio irresponsabile ma sincera che l’autore di questo diario ha maturato lunedì pomeriggio. Quando, dopo il suo intervento alla Camera, con l’interminabile elenco di tutte le volte in cui aveva informato il Parlamento e gli alleati leghisti e grillini sul fondo salva-Stati (Mes) mi sono sentito con Marco Travaglio concordando sulla figura di melma che avevano fatto Matteo Salvini e i suoi reggicoda verdi gridando al complotto dei plutocrati di Bruxelles e al tradimento degli italiani (Giorgia Meloni ha perlomeno l’attenuante di essere sempre stata all’opposizione).

Figuraccia fotografata all’indomani dal titolo di questo giornale: “Mes, Conte sbugiarda 26 volte Salvini: ‘La Lega era d’accordo ecco le prove’”. Purtroppo, ho capito di non avere capito nulla più tardi, quando il benzinaio sotto casa mi ha chiesto: dottò, ma davvero ci tolgono i soldi che abbiamo in banca? Ma cosa dice, ho sorriso indulgente, eppure, nel mentre cercavo di spiegargli come Conte avesse dimostrato dati alla mano perché di un’incredibile, gigantesca, vergognosa bufala si trattava, mi sembrò che il suo sguardo, e la pompa del pieno, si stessero come afflosciando: voleva credermi (voleva crederci) ma non ci riusciva proprio. Poi, la serata televisiva ha aggiunto amarezza ad amarezza poiché non c’era talk dove il prelievo forzoso (e proditoriamente notturno) dai nostri conti correnti non fosse previsto, affrontato e sviscerato con accenti drammatici simili a quelli del presidente degli Stati Uniti all’annuncio dell’invasione marziana in Independence Day.

È stato allora, stimato presidente, che ho dovuto prendere atto che ormai la realtà dei fatti – quella delle parole dette e scritte, dei verbali d’aula, dei numeri, dei dati incontrovertibili – ha perso definitivamente la guerra: soffocata non nelle spire dei viscidi tentacoli alieni, ma dalle balle spaziali delle fake news. Si chiama pregiudizio di conferma, ovvero ciò a cui si vuole ardentemente credere e non importa se smentito dall’evidenza dei fatti. Un modo di processare le informazioni alla ricerca di tutto ciò che può convalidare un’idea già presente nel nostro sentire, soprattutto se falsa. Tecnica di cui, ammettiamolo, il suo ex vicepremier si è rivelato maestro.

Non mi dilungherò oltre sul tema e torno alla domanda iniziale: presidente, chi glielo fa fare se malgrado le 26 smentite a Salvini&Meloni ciò che nel discorso pubblico resta del Mes – e di tutta la mole complessa di analisi, negoziati, soluzioni – rischia di rivelarsi un boomerang: che cioè state fregando nottetempo i risparmi agli italiani (o che ci stavate provando).

Ora, rifletta per un momento alle opportunità che offrirebbe ai protagonisti di questo circo una sua improvvisa uscita di scena. Finalmente, vinte le successive elezioni, Salvini potrebbe esercitare i pieni poteri senza sapere come (primo caso di premier a sua insaputa). Finalmente, il governo dell’economia (creativa) sarebbe esercitato dal tandem Bagnai&Borghi; e se lo spread dovesse impazzire come un razzo nordcoreano, chissenefrega potendo stampare tutte le lirette che vogliamo (convertibili in rubli). Finalmente, l’imbronciato Luigi Di Maio ritroverebbe il sorriso dopo tanta sofferenza alla Farnesina. Finalmente, Gianluigi Paragone (“Cadiamo? Magari”), e insieme a lui la possente armata dei 5stelle non più rieletti potrebbero riscoprire le gioie di una vita laboriosa (il rientro nel calore della famiglia mentre il caminetto crepita). Finalmente, Matteo Renzi dopo l’inevitabile dissolvimento di Italia Viva potrebbe realizzare il sogno di fare da consulente all’amico Salvini (anche se centomila a botta è un po’ caruccio).

Inutile dire, presidente Conte, che da un lato egoisticamente esistenziale lei avrebbe tutto da guadagnarci (anche perché un lavoro ce l’ha): non più giorni bruciati a inseguire gli orecchianti della politica, i venditori di pentole bucate (e magari qualche volta lo stadio a vedere la Roma). Forse basterà aspettare la conferenza stampa di fine anno per conoscere le intenzioni di un premier che ha già dimostrato il 20 agosto scorso di non essere uno che subisce.

Infine, visto l’uso che ne ha fatto Salvini, le dono un Confucio che saprà a chi dedicare. Se incontri uno convinto di sapere tutto e sicuro di sapere fare tutto, non ti puoi sbagliare: è un imbecille.

“Sul Mes lavoro per il rinvio, con Di Maio mi sono chiarito”

Prima di entrare a Buckingham Palace per il ricevimento offerto dalla regina Elisabetta, Giuseppe Conte è costretto a una necessaria retromarcia nei palazzi romani. Troppi gli strascichi della sua informativa di lunedì in Parlamento sul salva-Stati, il trattato di cui oggi il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri discuterà a Bruxelles. Così, piuttosto stupito dalla reazione del leader M5S che è filtrata sui giornali, tiene a spiegare che lui, in Aula, non ce l’aveva con Luigi Di Maio, ma voleva solo “sbugiardare” Matteo Salvini, che lo ha accusato di aver preso “nottetempo” accordi con l’Europa sul Mes. L’ho “sfidato” e “l’ho vinto”, dice il premier del leader leghista, provando a schermirsi dietro a una gara di palleggi che gli hanno organizzato in tv. Ma che la sfida invece non fosse anche con Di Maio, Conte, ha dovuto chiarirlo personalmente, con una telefonata a “Luigi”. E assicura che l’equivoco è risolto. “Secondo voi è nel mio stile parlare a suocera perché nuora intenda?”.

Non vuole dar peso ai segnali che gli ha lanciato il leader 5 Stelle: “Non è venuto al Senato ma ha seguito tutto il dibattito alla Camera. E allora cosa dovrei dire di tutti gli altri ministri che non sono proprio venuti?”. Né tantomeno vuole caricare di altri significati il post con cui ieri Di Maio ha ricordato che il Movimento è “l’ago della bilancia”, e non si può fare a meno di lui. “Sottoscrivo”, dice Conte, “è giusto: la volontà del Movimento 5 Stelle sarà assolutamente determinante, in questo come in tutti gli altri provvedimenti. Ovviamente – aggiunge Conte – anche le altre forze politiche ricordano che senza i loro voti non si va avanti, e tendono ad affermarlo tutti i giorni. Lavoreremo come sempre responsabilmente per offrire la risposta migliore al Paese”.

Il tema come noto è il rinvio del via libera italiano al Mes. I Cinque Stelle chiedono che la firma del Trattato venga quantomeno posticipata, con l’obiettivo di risolvere le “criticità” presenti in quel testo. “Insidie”, le chiama anche Conte, che insiste con la teoria della “logica del pacchetto”. Tradotto, visto che il Mes è solo una delle questioni importanti che l’Unione europea ha sul tavolo (l’altro dossier importante è quello sull’unione bancaria) l’Italia ha intenzione di esprimersi solo quando avrà una “visione complessiva” del quadro. E qui, Conte, spiega che “ci sono tanti modi, anche procedurali, per affermare la logica di pacchetto”.

Non entra nel dettaglio, “non fatemi fare il professore”, ma fonti diplomatiche ragionano più nel merito. E spiegano di possibili accorgimenti, a cominciare dalla ratifica che farà entrare in vigore i trattati e che potrà, da un punto di vista temporale, far coincidere i tempi di entrata in vigore di norme che oggi viaggiano su calendari diversi. È uno dei timori che ha espresso Di Maio: “Ci fregano”, spiega il leader 5stelle, convinto che le rassicurazioni sul futuro non possano essere una garanzia sufficiente per firmare il Mes così com’è. “Non ci faremo fregare – risponde Conte –. Non ho nessuna intenzione di firmare in bianco, ci sono tante possibilità di arrivare alla valutazione finale quando si avrà chiaro il quadro di insieme”. Dice che nulla è chiuso: “Finché non si appone una firma ci sono sempre margini di miglioramento”. Anche perché, “non c’è solo da trovare la sintesi all’interno della nostra maggioranza, ma anche quella tra 19 Paesi europei”. E nella “logica di pacchetto” chiarisce: “Significa che io mi riservo di dare il via libera solo quando mi sarà chiara la questione complessiva”. Non vuole parlare di “ricatti”, il premier. Anche perché è convinto che sia stata “la fanfara propagandistica”, in questo caso dei leghisti, “a far salire lo spread”.

Ma spiega chiaramente che anche le famose “criticità” sul salva-Stati potrebbero assumere una dimensione differente se nel frattempo si ottenesse lo stop su altri punti “insuperabili”, per esempio quelli che penalizzerebbero in modo violento le banche italiane. Per questo “non esclude” il rinvio del via libera.

Non è detto che questo “bilanciamento” dei pesi sia necessariamente lo stesso che ha in testa Di Maio. O quell’Alessandro Di Battista che ieri ha fatto pubblica approvazione del post di Di Maio contro la firma del Mes. “Lo rispetto”, si limita a dire Conte. Che pure liquida le accuse di fonte 5 Stelle (“dà più retta al Pd che a noi”) come una “stupidaggine”: “Io sono il presidente del Consiglio che sta portando avanti un programma concordato dalle forze politiche”.

Peccato che i punti di frizione siano quotidiani. Ieri è toccato di nuovo alla prescrizione, con il segretario dem Nicola Zingaretti che ha annunciato una proposta di legge del Pd se non si troverà un accordo di maggioranza entro l’entrata in vigore della riforma Bonafede prevista per il 1° gennaio. Conte concorda con i dem quando dicono che lo stop della prescrizione dopo il primo grado necessita tempi di durata certi dei processi, ma ritiene pure – a differenza dei dem –, che gli effetti della riforma si vedranno come minimo tra due anni e quindi la maggioranza avrà tutto il tempo di intervenire sul punto. “Noi vogliamo assoluzione e condanna, e non più prescrizione. Troveremo una soluzione sostenibile, a tutela del giusto processo”. È materia sua, e Conte “garantisce” che finirà “senza mediazioni”.

Trova l’errore

Gioco di società: fra tre notizie inverosimili, trova quella falsa.

1. Matteo Renzi, 15 giorni prima di diventare segretario Pd e tre mesi prima di diventare premier, si faceva pagare “100 mila euro all’anno per cinque anni” alla sua fondazione Big Bang (poi Open) in cambio di “interlocuzioni con Matteo sia dirette, sia tramite Alberto (Bianchi) e Marco (Carrai)”. Ora Alberto è indagato per finanziamento illecito e traffico di influenze perché nel 2016 fu ingaggiato dal gruppo Toto per risolvere – anche con l’“interessamento di una pluralità di soggetti della fondazione (Bianchi, Carrai e Lotti)” – una controversia con Autostrade che fruttò a Toto 70 milioni e a Bianchi una parcella da un milione, che girò in parte a Open e in parte al Comitato referendario del Sì. Dopodiché – secondo i pm – si “intromise” in tre dossier che portarono centinaia di milioni a Toto grazie al governo a trazione renziana di Gentiloni. Intanto i pm perquisiscono 40 finanziatori di Open: alcuni sono soci di Carrai in Lussemburgo, parecchi hanno ricevuto aiutini dai due governi renziani. Uno, nominato a Cdp da Renzi, gli ha prestato 700 mila euro tramite la madre per comprare una villa. E Renzi che fa: spiega questo po’ po’ di roba? No, denuncia una congiura architettata dalla Procura e dalla Gdf per impedirgli di arrivare al 4%. Regala fiori alla moglie di Davide Serra “per scusarmi con un sorriso perché i finanzieri l’hanno svegliata”. Si vanta di aver “attivato 80 azioni civili per danni”. E annuncia: “Nel mio giardino ci sarà un’aiuola Marco Travaglio”.

2. Matteo Salvini viene sbugiardato in Parlamento dal premier Giuseppe Conte, che dimostra come lui e/o la Lega fossero stati informati 26 volte sull’iter del Mes in barba alle loro denunce di firme segrete e richieste di arrestarlo per alto tradimento. Di Maio resta critico sul Mes, ma non ha mai accusato il premier di aver agito alle sue spalle, e comunque non parla. Repubblica titola: “Rottura Conte-Di Maio. Ne resterà soltanto uno”. Corriere: “Conte attacca, gelo con Di Maio”. La Stampa: “Di Maio-Conte, il grande gelo”, “Il premier esce ammaccato”. Messaggero: “Conte-Di Maio, il governo trema”. Nemmeno una parola su Salvini sbugiardato 26 volte.

3. Marcello Dell’Utri torna libero dopo 5 anni e mezzo di arresti per mafia. Le Iene ne approfittano per scrollarsi di dosso il sospetto di lavorare per Mediaset e sguinzagliano i loro segugi alle calcagna dell’inventore di FI per torchiarlo sulla condanna definitiva per il suo ruolo di “trentennale cerniera fra Cosa Nostra e Berlusconi”.

(La notizia falsa è la meno inverosimile: la terza).

Marianne, la pantera sempre innamorata

Ah, la dura vita degli stuntmen! “Nella scena clou del video di L’amore è finito il mio personaggio sferra un calcio sulle palle a Giallini”, ride perfidamente Marianne Mirage. “Ma è l’unica sequenza in cui io e Marco siamo sostituiti da controfigure. Per il resto ci siamo entrambi, nel minifilm legato al singolo. Lui mi lascia, io lo raggiungo in auto, scendo e rotoliamo per terra lottando. E dire che non ho neanche la patente”. L’amicizia tra l’attore romano e la cantante di Cesena è nata alla cerimonia dei David, dove lei era candidata per il tema del film The Place. Marianne è artista dai mille talenti: “Al centro sperimentale di cinematografia Giancarlo Giannini ci insegnava a imitare le movenze di un animale. Io mi sento una pantera: calma apparente, e una grande rabbia dentro. In questo mio terzo album, Vite Private, racconto tutto di me. Sentimenti appesi a un filo ed energia che non so trattenere”.

Difficile ignorare la trentenne cantautrice romagnola: la sua indole black, unita a una ruvidezza rock-blues e a una investigazione world-pop, le hanno garantito l’attenzione anche di Patti Smith, di cui apriva i concerti in un tour italiano. “A Bologna mi chiamò a sorpresa nel suo set: in tre secondi dovetti imparare gli accordi di People have the power.” Ma il mentore è stato papà Mauro: “Faceva lo skipper nelle barche dei ricchi, da bambina lo seguivo in mare per mesi. Tutte le mie influenze sono nate in quei viaggi: anche gli echi di sirtaki”. La sfida fu conquistare l’ammirazione del padre: “Amava il jazz. Mi diceva che non potevo fare la cantante perché non ero nera, e non avevo una cassa toracica espansa. I conti non mi tornavano: e Edith Piaf? A 13 anni composi il mio primo brano con la chitarra. Papà preparava il soffritto, si girò verso di me e mi chiese chi l’avesse scritta”. Era fatta. “Potevo girare il mondo. Dublino, Londra, finché i miei vennero a riprendermi a Parigi. Suonavo nei club, ma a 16 anni bevevo troppo Jack Daniel’s, come il mio mito Janis Joplin. Ora ho smesso del tutto. Ho un’insopprimibile sete d’amore, in compenso. È il mio tallone d’Achille”. E la sua forza, come dimostra nel tour di Vite Private, che il 7 dicembre la porterà a Rimini e il 13 a Pordenone. Dal vivo, Marianne sa trasformare i Nirvana in uno standard alla Billie Holiday. “Ma come diceva un mio vecchio titolo, le canzoni fanno male. Non ti curano. Servono per azzannare il dolore”.

Il muro è caduto ma “The Wall” resiste benissimo

Il piano di pace è fallito. Era stato Waters, lo scorso giugno, a invitare il nemico Gilmour al tavolo delle trattative, con in mano le carte di “un grande progetto”. Ma David ha rifiutato la proposta di Roger, e dunque niente reunion dei Pink Floyd. Quando in luglio avvicinammo Nick Mason dopo il concerto di Umbria Jazz degli A Saucerful of Secrets (la formidabile auto-cover band dedita al repertorio della prima era floydiano), il batterista ci scherzò su: “Tornare insieme noi e Roger? Non penso che accadrà. Ma nel caso mi tengo in allenamento”. Cosa aveva in mente Waters? Probabilmente di coinvolgere gli ex compagni d’avventura nel tour 2020-21, il suo passo d’addio con una potente campagna di opposizione ai “cani e porci che ci governano”. Ha già un titolo, This is not a drill (“Questa non è un’esercitazione”), e batterà gli Stati Uniti nei mesi delle elezioni presidenziali, con una ancor più marcata posizione anti-Trump. Poi, tra due estati, il bassista conta di far tappa anche a Napoli per un live che, se Salvini sarà ancora in auge, promette scintille. Quanto al passato, Waters ha buttato giù tanti muri, tranne che quello dell’autoreferenzialità: tutti i dischi dei Pink Floyd dopo la sua uscita sono spazzatura, ha sentenziato. Del resto, difficile sostenere che il suo contributo autorale nel gruppo sia stato men che decisivo.

Giorni fa The Wall ha compiuto quarant’anni, e non poteva mancare una riedizione ben impacchettata, complice anche l’involontaria coincidenza con la caduta del Muro di Berlino. Ma occhio alle facili sovrapposizioni: prima di divenire il simbolo dell’oppressione al di là della Cortina di Ferro, il doppio concept album era stato ideato come una grandiosa metafora sull’alienazione e l’incomunicabilità. Waters era rimasto sconvolto dopo lo sputo che dal palco di Montreal, durante il tour di Animals nel ’77, aveva indirizzato verso un fan che chiedeva insistentemente vecchi brani: ci volle lo psichiatra, dopo, per fargli elaborare l’inevitabile distanza tra la maschera della star e il pubblico adorante. Dodici anni più tardi, era stata la Grande Storia a consegnare più vasti significati politici a quella monumentale rock opera, germinata da un lacerante trauma infantile di Roger. Suo padre, il fuciliere reale Eric Fletcher Waters, aveva contribuito a salvare il mondo nello sbarco di Anzio, morendo in battaglia ad Aprilia. Il figlio gli avrebbe reso onore, a modo suo. Ma The Wall, con il suo gigantismo e i solipsismi tirannici di Roger, era stato l’inizio della fine per i Pink Floyd. Nelle parole di Mason, “quando lui ci abbandonò fu come dopo la morte di Stalin. Ci volle del tempo per riordinare le idee”. E la fase post-Waters dei Floyd, dominata dalla personalità di Gilmour, è documentata in The later years, un faraonico cofanetto in uscita il 13 dicembre, con 18 dischi tra cd, Blu-Ray e Dvd, per un prezzo di circa 350 euro. Una strenna con molte perle rare, tra cui le riprese video dei concerti di Venezia ’89 (quello delle roventi polemiche cacciariane) e di Knebworth ’90, oltre a remissaggi e reincisioni su A momentary lapse of reason e Delicate sound of thunder. Per chi non può permettersi il box, è già nei negozi un best di The later years: dodici brani (compresi un paio di semi-inediti) che gettano altra luce sul lavoro dei Pink Floyd dal 1987 in poi. Con buona pace di Waters, è tutt’altro che immondizia.

Io, una Divina fragile

Esce oggi per Rizzoli “Io, Maria”, una raccolta di lettere e memorie della Callas, che ha stregato il mondo ma non ha mai smesso di essere fragile. Pubblichiamo stralci di alcune missive, partendo da quella del 1° novembre 1947 al marito Giovanni Battista Meneghini.

Dearest Battista mio, ho appena ricevuto la tua lettera di giovedì e mi ha fatto tanto tanto piacere. La mia gioia e scopo di vita è di ricevere lettere da te e complimenti dal Maestro. Ti penso tanto: che fai, se tu mi pensi e tanti altri pensieri. Tu sai tutti i miei sentimenti e li capisci, quindi è inutile scrivere molto. Poi scrivo così male! […] Ieri Catozzo ha telefonato a Serafin e il Maestro ha parlato così bene che ho quasi pianto. Ha detto che sono da lui da qualche giorno, e che studiamo molto e che sarà qualcosa di meraviglioso. Sei contento amore? Dopo la sua moglie mi ha salutato e mi ha fatto tanti complimenti sulla facilità della voce etc. Poi mi ha regalato la sua parrucca di Isotta, tutta spettinata ma di veri capelli. Molto gentile direi. Ti pare? Certo, sai, tutti sono contro del Maestro perché fa una straniera (me) cantare etc. Insomma, tutti sono contro di me. Anche in America hanno scritto un articolo contro me, Tuker (il tenore) e Serafin. Pazienza. Caro, la tua vita è presso a poco la mia. Lavoro, alle 4:00 del pomeriggio da Serafin, torno, verso le 6:30-7:00 mangio e poi albergo e alle 9:30-10:00 dormo. Il mattino alle 8:00 sveglia e studio. Eccola, ti piace? Ti penso molto e il mattino non vedo l’ora perché arrivi la posta con una tua lettera. Non ho altro a scriverti. […] Poi sono contenta dell’albergo, è pulito, cambiano asciugamani ogni giorno etc., ma mi manca il bagno e soffro. Vorrei cambiare ma costa di più e tu mi sgridi. Roma è una gran bella città, almeno di quel poco che ho visto, mi piace, solo che ovunque non ci sei tu, niente è bello. Oggi caro mio, ho sentito un discorso al telefono, ero nuda nel bagno e vicino si sentiva parlare una donna al telefono, piangeva etc. Io, stupita, stavo nuda, col freddo a sentir la fine, perché si capiva che il giovane suo l’abbandonava. Insomma quasi in lagrime anch’io sto lì più di mezz’ora! Finisce il discorso e lei subito prende la sua amica al telefono e sono quasi svenuta. Era, o meglio, lei fingeva e povero lui che le credeva, e si è convinto a non lasciarla! Ti dico io, guai se ti capita una donna simile. […] Altra novità che Serafin, mentre mi riposavo un poco, è venuto vicino e tentava accarezzarmi la gamba, povero lui. Meno male che sono a casa sua e non osa di più! Ti dico io! […]

La tua Maria

PS: […] Mandami [soldi] in tempo prego!!

Al suo avvocato italiano. Milano, 23 febbraio 1960

Caro avvocato, come le avevo già detto, non è niente giusto che mio marito non rispetti il contratto. Tutti i debiti miei alla data 14 novembre li deve pagare lui, in compenso di quello che io gli ho dato. Non ho soldi solo perché vuol tenere tutto e comprarsi la Maserati, mentre io vado in taxi. Nella vita se si troverà in difficoltà lo aiuterò sempre (come sono certa che lui farà con me) ma oggi non è ancora il caso. […]

Maria CallasDa Jacqueline Kennedy.15 luglio 1963

Mia cara signora Callas, le scrivo per chiederle se vorrebbe allietare una delle nostre cene di Stato alla Casa Bianca: cosa che non solo sarebbe per noi motivo d’onore e orgoglio, ma recherebbe grande gioia a tutti coloro che la sentissero cantare in quell’occasione. In particolare, quella per la quale vorrei chiedere la sua presenza sarebbe la nostra prima cena autunnale per l’imperatore Hailé Selassié d’Etiopia, il 1° ottobre. Spero davvero che lei possa essere disponibile in quella data, altrimenti potrebbe essere una data successiva, più tardi nel corso dell’anno. […] Sarebbe davvero un momento storico e memorabile per questa grande casa. Il presidente e io la ammiriamo molto, e saremmo così felici se lei potesse venire. […]

Jacqueline KennedyA Jacqueline Kennedy.Milano, 21 luglio 1963

Mia cara signora Kennedy, sarei stata molto felice di cantare per voi alla cena di Stato in onore dell’imperatore Hailé Selassié d’Etiopia il 1° ottobre, però temo di essere impegnata con le registrazioni in quel periodo. Quindi, se lei potesse comunicarmi altre date, sarei più che felice di valutarle. […]

Maria CallasA Pier Paolo Pasolini.2 febbraio 1971

Caro, ti scrivo dalle nuvole. Sembra proprio un tappeto bello, soffice da poterci camminare sopra. […] Cerca di stare bene – cerca di avere pazienza con i deboli tipo Alberto. Sai, caro amico, di veri amici veri pochi ne ho trovati – per non dire nessuno. Tu penso di sì – sento di sì – ma il tempo ci mostrerà. E ci tengo alla tua verità e sincerità. Siamo assai legati psichicamente – oso dire come raro si fa in vita. È raro sai ed è bello. Però bisogna che duri. E che cosa è che dura? Finora io so che io sono – ma poi… col tempo – piano piano si vedono gli altri. Alberto non mi ha mai molto persuasa sai – perdonami. Ma mi dispiace per te perché soffri – era un tuo amico. Fa’ però come dice Dante: guarda e passa. Tu sei superiore a loro. So che sono parole e le parole sono parole e basta. Ma pensa a te e la tua salute. Vorrei avere tue notizie. Le mie sono che avevo preso il volo ma lo spirito comanda fino a quando il corpo può. E là il mio corpo m’ha bastonata e forte. Però le tragedie non bisogna farle che sulla scena. La vita la si fa da noi entro le nostre possibilità. Ora so le mie. Hai ragione anche chi ha vinto, ha vinto per sempre. Grazie di quelle sacrosante parole. Ma non dispero ancora, sai. […]

Tua Maria

BoJo ha paura che The Donald gli dia il “bacio della morte”

Con un vantaggio elettorale ancora ampio ma che si va assottigliando, le polemiche sulla gestione della sicurezza dopo l’attentato terroristico di London Bridge e le accuse di codardia per il suo rifiuto di apparire nei confronti elettorali più rischiosi, l’ultima cosa di cui Boris Johnson aveva bisogno è l’arrivo a Londra di Donald Trump, atterrato ieri per partecipare al summit Nato. Lo staff della campagna elettorale Tory è decisamente sulle spine: una dichiarazione di Trump a sostegno della candidatura di Boris rischia di essere un bacio della morte per il primo ministro, specie ora che uno dei cavalli di battaglia del Labour è l’accusa che la sua vittoria significherebbe la svendita dell’Nhs, il servizio sanitario nazionale britannico, alle compagnie private americane. Trump non è amato da questa parte dell’Atlantico, e in questo momento qualsiasi associazione con lui è talmente negativa che Johnson starebbe facendo di tutto per imboscarsi, come confermano autorevoli quotidiani.

È il padrone di casa e quindi un incontro è inevitabile, ma non sono previsti meeting bilaterali a margine né conferenze stampa congiunte, e Downing street, scrive il Financial Times, “si augura che Trump stavolta non rilasci interviste alla stampa britannica” come fatto in passato con il Sun o con Piers Morgan, il controverso presentatore del popolarissimo Good Morning Britain su ITV. Del resto, qualsiasi ingerenza di Trump nella politica interna ora farebbe il gioco di Jeremy Corbyn, che sembra non vedere l’ora di incrociare le armi con Donald, anche solo su Twitter. Secondo Sir Christopher Meyer, ex ambasciatore britannico a Washington, le ingerenze dei presidenti americani non aiutano i politici britannici perché la gente non vuole sentisi dire come votare “da stranieri”. Solo che Donald, riconosce il diplomatico, “è capace di tutto”.

Sarko, i soldi libici e il conto alle Bahamas

Nell’inchiesta sui presunti fondi neri libici serviti a finanziare la campagna per l’Eliseo di Nicolas Sarkozy, quella vincente del 2007, un nuovo elemento mina la difesa dell’ex presidente francese, indagato dal 2018 per corruzione passiva: stando al giornale on line Mediapart, un ex collaboratore stretto di Sarkozy, Thierry Gaubert, avrebbe ricevuto infatti un versamento di quasi mezzo milione di euro dall’allora governo del colonnello Gheddafi nel febbraio 2006, cioè un anno prima del voto. Furono proprio delle rivelazioni di Mediapart a indurre i giudici francesi ad aprire un’inchiesta nel 2012. All’epoca il giornale aveva rivelato l’esistenza di un “accordo di principio” sottoscritto da dignitari libici per un versamento di diversi milioni di euro a favore di Sarkozy. Il denaro di Gheddafi doveva servire a finanziare la campagna presidenziale del candidato della destra conservatrice, che alle urne vinse poi contro la socialista Ségolène Royal. Sarkozy contesta l’inchiesta, si dice innocente ed estraneo all’intrigo, ma nel marzo 2018 è stato iscritto nel registro degli indagati con tre capi d’accusa: corruzione passiva, finanziamento illegale di campagna elettorale e occultamento di fondi pubblici.

Le nuove rivelazioni non gli hanno impedito di essere a Les Invalides ieri per partecipare alla cerimonia di omaggio ai tredici soldati francesi morti alcuni giorni fa in Mali durante un’operazione anti terroristi. Per Mediapart, il nuovo dato ai danni di Sarkozy, rappresenta una “svolta” nell’inchiesta: “É la prima volta che nell’affaire libyenne un membro del clan Sarkozy si trova implicato in prima persona in una transazione bancaria del regime libico in relazione alle operazioni di finanziamento delle presidenziali del 2007”, scrive il giornale. Thierry Gaubert è un fedele di Sarkozy da quando quest’ultimo era sindaco di Neuilly (dal 1983 al 2002). Lo ha poi affiancato ai ministeri dell’Economia e dell’Interno. È anche vicino a Brice Hortefeux, amico e braccio destro di Sarkozy, oltre che suo ex ministro, convocato in questa vicenda come “testimone”. I 440 mila euro del governo libico sarebbero stati versati l’8 febbraio 2006 su un conto segreto alle Bahamas, intestato a Gaubert, via un bonifico della società offshore Rossfield Limited. Secondo il giornale, la Rossfield sarebbe di proprietà dell’uomo d’affari franco-libanese Ziad Takkiedine, uno dei personaggi chiave di tutta la vicenda. È infatti anche sulle sue testimonianze che i giudici fondano i loro sospetti contro Sarkozy: nel 2016, l’uomo d’affari ha confessato di aver fatto da “mediatore”, trasportando tra fine 2006 e inizio 2007, da Tripoli a Parigi, valigie cariche di denaro, 5 milioni di euro, destinati a Sarkozy e al suo direttore di campagna, Claude Guéant, diventato poi ministro, e anche lui indagato per frode e riciclaggio. Thierry Gaubert, convocato dai giudici proprio in questi giorni per frode fiscale, ha negato tutte le accuse. Ma per Mediapart il denaro da lui incassato, e versato il giorno dopo su un altro conto “non indentificato”, “annienta ormai uno dei recenti argomenti di difesa di Sarkozy, secondo il quale il mediatore Takieddine avrebbe tenuto per sé il denaro libico, per spese personali, senza distribuirlo”.