Divisi alla meta: la Nato ha poco da festeggiare

Quando gli Stati Uniti e l’Alleanza atlantica avevano nemici ben definiti – l’Unione sovietica e il Patto di Varsavia – i Vertici della Nato erano rari e noiosi: tutto era già scritto prima e le folle che scandivano nelle piazze “Meglio rossi che morti” non spostavano d’una riga le certezze dei leader, che puntualmente confermavano la decisione di installare gli euromissili. Il massimo dell’emozione erano gli screzi tra Grecia e Turchia: Giorgio Papandreu padre arrivò qualche volta ad incrinare l’unità atlantica. Da quando ha vinto la Guerra Fredda, l’Alleanza si trova ad avere nemici sempre indefiniti e talora immateriali.

I Vertici della Nato sono più frequenti, ma ugualmente noiosi: se, sulla carta, c’è da inventarsi ogni volta una nuova missione, per rendere attuale l’Alleanza, lo sforzo è soprattutto quello di coprire gli screzi tra partner. Che esplodono quando gli Stati Uniti hanno toni e modi da padre padrone: accadde, ad esempio, con l’invasione dell’Iraq nel 2003; e accade di nuovo e di più ora, perché Donald Trump non polarizza solo l’opinione pubblica negli Stati Uniti, ma pure il campo dei suoi alleati.

Resta insoluto il caso Turchia: Erdogan ha ricevuto critiche per l’offensiva contro i curdi nel nord della Siria, ma ha tirato dritto. Il Washington Post, alla vigilia del Summit di Londra, convocato per celebrare i 70 anni della Nato, nota che i Vertici, tradizionalmente più succosi di notizie nei bilaterali che nelle plenarie, diventano un deserto di incontri a quattr’occhi, perché nessuno ha voglia di confrontarsi con Trump, una scheggia impazzita. Lui dall’Air Force One scrive su Twitter: “Da quando sono presidente il numero degli alleati della Nato che hanno adempiuto ai loro obblighi finanziari è più che raddoppiato! La spesa della Nato è cresciuta di 13 miliardi di dollari”, mentre nei 30 anni precedenti “era calata dei due terzi e solo altri tre membri Nato adempivano ai loro obblighi finanziari”.

A Londra, oggi e domani, Trump vuole concentrare l’attenzione sui pericoli rappresentati dalla Cina e dal 5G ‘made in Huawei e Zte’; e vuole distogliere l’opinione pubblica americana dagli sviluppi alla Camera dell’inchiesta sull’impeachment. Le questioni poste dal presidente francese Emmanuel Macron, secondo cui la Nato è “cerebralmente morta”; le relazioni critiche con la Russia e gli irrisolti nodi ucraini; i contrasti sulle scelte nei confronti dell’Iran e l’altalena delle opzioni contro l’Isis e in Afghanistan non lo appassionano.

Macron e la cancelliera tedesca Angela Merkel, che pure critica il giudizio del francese sull’Alleanza, non arrivano per fare baruffa con Trump, ma neppure per fare concessioni. A loro, andrebbe bene se tutto si risolvesse nell’elogio, dal sapore magari un po’ funebre, della Nato, che, nei suoi 70 anni, ha quasi triplicato i suoi membri, convertendo nelle sue fila in alleati trenta ex nemici.

Quella dell’Alleanza è una crisi di mezza età tardiva: per consolarsene, la Nato progetta di regalarsi un aumento delle risorse, con l’obiettivo di arrivare a 400 miliardi di dollari nel 2024, e stanziamenti per la difesa e gli armamenti in ogni Paese membro pari a un minimo del 2% del Pil nazionale.

Il Vertice sarà preceduto da un incontro fra i leader di Regno Unito, Germania, Francia e Turchia sulla situazione in Siria alla luce della controversa operazione anti-milizie curde lanciata da Ankara. Seguirà in serata il ricevimento dei leader ospiti della regina Elisabetta a Buckingham Palace. Domani, i protagonisti si sposteranno a Watford, nell’Hertfordshire, per l’appartato e blindatissimo Vertice vero e proprio, nelle sale del Grove Hotel, dove le delegazioni saranno accolte dal premier britannico Boris Johnson e dal segretario generale dell’Alleanza, il norvegese Jens Stoltenberg.

Un giorno da Warren “Votate per me e farò piangere i miliardari”

Se pensate che la politica a colpi di selfie sia una barbarie populista degna di Matteo Salvini, dovreste vedere uno degli eventi elettorali di Elizabeth Warren, la candidata dei Democratici americani che vuole sconfiggere Donald Trump, Mark Zuckerberg e la corruzione di Washington in un colpo solo, nel 2020. “Tutti in fila, chi ha bambini ha la precedenza”, dicono dal microfono. E mentre sfumano le note di Bruce Springsteen, gran parte delle 3.200 persone riunite al town hall di Broadway, quartiere nord di Chicago, si mette in fila per due. E comincia il rito laico della campagna elettorale 2019-2020: la fila per il selfie con Elizabeth Warren. Lei si ferma, oltre tre ore. Tutti devono avere un selfie da condividere su Instagram. Un attimo di contatto trasforma anche l’elettore in un attivista che diffonde il messaggio.

Con questo esercito di persone normali Elizabeth Warren vuole resistere all’assalto di Mike Bloomberg, il miliardario che prima di entrare nella corsa per le primarie Democratiche ha già comprato spazi pubblicitari in tv per 30 milioni di dollari. “I miliardari si stanno passando la voce: ‘per favore, corri tu per la Casa Bianca, fai qualcosa’, sono in cima alla loro lista di nemici”, dice Elizabeth Warren mentre i fan scandiscono il suo slogan “Two cent”, una tassa del due per cento annuo sulle ricchezze sopra i 50 milioni di dollari. Un sacrificio per 75.000 persone che dovrebbe generare 2.750 miliardi di dollari in dieci anni, abbastanza per pagare asili per tutti, cancellare il debito universitario degli ex studenti, dare risorse ai college a maggioranza afroamericana. Il suo gadget più venduto è la tazza per raccogliere “lacrime di miliardario”.

Negli Stati Uniti la politica si decide in televisione, ma ha ancora una dimensione di territorio. La fila fuori dal town hall di Chicago è già lunghissima alle 4 del pomeriggio, due ore e mezzo prima del comizio. Per accedere bisogna mandare un sms a un numero elettorale, arriva all’istante la risposta: la foto di un cane con la lingua di fuori (si chiama Bailey), bisogna mostrarla al volontario per ricevere un adesivo che permette di accedere all’evento. Così la campagna della Warren ha tutti i contatti dei partecipanti: il giorno dopo cominciano i messaggi, “Com’è stata l’esperienza di Chicago?”. Un volontario distribuisce tagliandi rossi numerati. Prima del comizio, vengono estratti i tre fortunati che potranno fare una domanda alla Warren. I dibattiti tv tra i candidati democratici – uno al mese, finora – sono maratone di tre ore con dieci sfidanti sul palco.

Li guardano in 14 milioni, ma per molti potenziali elettori vedere un candidato dal vivo è decisivo per farsi un’idea. Elizabeth Warren lo sa e tutto l’evento è costruito per definire il suo personaggio. La Warren non dice mai che sarebbe il primo presidente donna, non è quello il suo messaggio, ma sul palco salgono soltanto donne: a scaldare la platea ci pensa Tamar Manasseh, un attivista (nera) che ha fondato un’associazione di madri contro le morti da arma da fuoco. Poi la deputata Democratica dell’Illinois, Jan Schakowsky: discorso scritto, tradizionale, ma è un endorsement importante per la Warren che ha pochi appoggi nel partito. Alla fine arriva lei: ha 70 anni ma fa di tutto per non dimostrarlo, ha un’energia nervosa che la porta a scattare da un bordo all’altro del palco, saluta il figlio Alex in fondo alla sala (un omone di 43 anni). I 3.200 del town hall si ammutoliscono mentre la Warren si produce nel suo repertorio migliore, la storia di una working class hero: l’infarto del padre, la famiglia che rischia di perdere la casa, ma madre che “si mette i tacchi alti” e va a cercare un lavoro, ne trova uno con il salario minimo (“allora un salario minimo bastava a sostenere una famiglia intera”), Elizabeth studia di notte, diventa insegnante di sostegno in una scuola pubblica – “il mio sogno” – poi resta incinta, viene licenziata, si rimette a studiare, diventa avvocato “per 45 minuti” e torna a insegnare “alla scuola di legge”. Omette di dire che quella “scuola di legge” è Harvard, dove lei costruisce la sua carriera da esperta di finanza e diritto fallimentare. Nominare Harvard distruggerebbe ogni empatia.

Poi la fase successiva, da esperta di finanza, a fianco di Barack Obama per costruire l’agenzia che oggi protegge i risparmiatori dalle trappole in cui sono caduti nella crisi del 2008, la candidatura al Senato per il Massachusetts e, ora, la corsa verso la Casa Bianca con un piano in tre parti: “Combattere la corruzione, fare riforme strutturali, salvare la nostra democrazia”. Perché è la corruzione, dice la Warren, che spinge il governo a preoccuparsi dei ricchi e non dei poveri e a bloccare leggi che larghe maggioranze invocano, come il controllo delle armi; poi bisogna ricostruire il welfare state e cancellare le norme che distorcono la competizione elettorale, dagli ostacoli burocratici che limitano il voto delle minoranze ai fondi Pac pagati dalle grandi aziende a sostegno dei candidati amici. “I have a plan”, ripete. Nei prossimi mesi si capirà se quel piano basta a renderla la sfidante di Donald Trump, al momento è terza nei sondaggi, dietro Joe Biden e Bernie Sanders. Per ora è abbastanza convincente da spingere migliaia di persone a passare ore in fila nel freddo di Chicago per vederla e altre ore per avere un selfie insieme.

Dell’Utri è libero: ha scontato 5 anni e mezzo (su sette)

Ha finito di scontare la pena partecipando all’opera di rieducazione, e negando sempre le accuse che gli sono costate la condanna a 7 anni: così, grazie alla liberazione anticipata, dopo 5 anni e sette mesi effettivi di detenzione (tra carcere e domiciliari) torna libero Marcello Dell’Utri, “uomo cerniera” tra le cosche siciliane e Silvio Berlusconi, conosciuto all’università a Milano ai primi Anni 60 e mai più abbandonato.

In carcere il senatore era entrato nell’aprile del 2014: su input della Dia, l’intelligence libanese lo aveva bloccato della sua suite all’Intercontinental Phoenicia, un lussuoso cinque stelle nel centro di Beirut. In un cassetto c’erano decine di migliaia di euro, segno che la latitanza doveva durare a lungo, dopo che per decenni era restato fedele al suo ruolo di uomo ombra sia dell’avventura imprenditoriale che politica: prima anima di Publitalia, polmone finanziario del gruppo Fininvest e poi fondatore di Forza Italia, ideata, a sentire Ezio Cartotto, nella primavera del ’92, prima della stagione delle stragi mafiose che avrebbero chiuso una stagione istituzionale aprendo la strada alla Seconda Repubblica.

Uno dei segreti della longevità del rapporto, hanno stabilito le sentenze definitive, era la sua “dote siciliana”: per diciotto anni, dal ’74 al ’92, Berlusconi ha pagato Cosa Nostra per il tramite di Dell’Utri, definito il “garante”, assicurandosi protezione e vantaggi. Da Palermo a Milano ambasciatore in giacca e cravatta di Cosa Nostra, ben inserita tra gli imprenditori meneghini più rampanti: “Incontrai Mimmo Teresi a Milano e mi disse che stava cercando di far riappacificare Dell’Utri e Ligresti”, ha rivelato il boss pentito Gaetano Grado, che ha detto di avere incontrato Dell’Utri al ristorante

“I quattro mori” a Milano, insieme a Mangano, Cinà e suo fratello Nino. Un ruolo che i giudici di primo grado gli attribuisono fino all’ingresso in politica del “cavaliere di Arcore”: la condanna a 12 anni, ancora sub judice e in attesa della verifica dell’appello, lo indica come il “postino” del messaggio mafioso veicolato da Cosa Nostra al primo governo Berlusconi, nel ’94, durante la trattativa tra la mafia e lo Stato: “quando, nell’estate del ’94 Pino Guastella (pentito, ndr) tornando euforico da un incontro con Mangano, disse che aveva incontrato Dell’Utri che aveva dato assicurazioni che la situazione si stava sistemando”.

E Berlusconi pagò generosamente anche lui, proprio alla vigilia della prima sentenza della Cassazione: i pm di Palermo scoprirono strani di giri di denaro finiti a Santo Domingo legati alla vendita della villa a Como di Dell’Utri e interrogarono Berlusconi che ammise i prestiti mai restituiti. Erano, disse, esigenze economiche di un amico con “una moglie spendacciona”. In quell’occasione l’ex premier negò risolutamente di aver ricevuto richieste che non poteva rifiutare: “Né Dell’Utri – disse – né persone legate a lui hanno mai coartato la mia volontà”, tesi ripetuta anni dopo a beneficio di giornalisti e telecamere, ma mai in un’aula di giustizia, dove, sull’amico Marcello, ha sempre preferito fare scena muta: nè nel novembre del 2002 quando a palazzo Chigi accolse fremendo di rabbioso silenzio le domande preparate dal pm Ingroia, né venti giorni fa, nell’appello della Trattativa, quando si è di nuovo avvalso della facoltà di non rispondere sul ricatto allo Stato, utilizzando la sua qualità di indagato a Firenze per le stragi del ’93 e scatenando la rabbia della moglie di Dell’Utri, Miranda Ratti: “È meglio che non parli, che non dica quello che penso… qui c’è la vita di Marcello in gioco”, ha detto la donna.

Si riferiva al periodo carcerario segnato dalle malattie, tutte curate in regime di detenzione, fino ai domiciliari concessi dopo un lungo braccio di ferro con i giudici di sorveglianza nel luglio 2018 che gli negarono più volte la libertà, sostenendo che in carcere riceveva cure adeguate: al suo capezzale giudiziario si raccolsero, senza esito, intellettuali e giornalisti del calibro di Sofri e Sgarbi.

La scarcerazione non chiude la sua vicenda giudiziaria: condannato a 12 anni in primo grado (e tuttora imputato in appello) Dell’Utri deve difendersi a Napoli anche dall’accusa di avere organizzato una compra vendita di falsi libri antichi e recentemente dall’accusa, più grave, lanciata dal pentito Francesco Squillaci, di avere fornito ai boss Graviano l’indicazione del nascondiglio del secondo pentito di Cosa Nostra, Totuccio Contorno, accusa presumibilmente confluita nell’inchiesta aperta a Firenze per le stragi del ’93.

L’ultimo uomo di piazza Fontana è morto da poco

La “maledizione di piazza Fontana” continua. Si è chiusa ancor prima di essere aperta la nuova pista che poteva portare a individuare l’uomo che il 12 dicembre 1969 ha portato la bomba nella Banca nazionale dell’agricoltura. Il suo ritratto, senza il nome, è contenuto nel libro scritto da Guido Salvini con Andrea Sceresini e che ha per titolo, appunto, La maledizione di piazza Fontana (Chiarelettere).

È un militante di Ordine nuovo di Verona che Salvini chiama “il Paracadutista”: “Nel 1969 il Paracadutista aveva poco più di vent’anni. Era un giovane benestante: il padre, col suo stipendio di dirigente, poteva assicurare alla famiglia un tenore di vita piuttosto agiato. Viveva a Verona, studiava alle scuole serali e frequentava la cellula di Ordine nuovo. Era considerato un attivista di primo piano, un elemento operativo. Aveva svolto il servizio militare nei corpi d’élite e non disdegnava l’uso della violenza”.

Il 29 novembre, il Fatto Quotidiano fa un ampio ritratto del “Paracadutista” e ne svela il nome: Claudio Bizzarri. A chiamarlo in causa sono i racconti di altri ordinovisti, da Giovanni Ventura a Delfo Zorzi, da Giampaolo Stimamiglio a Carlo Digilio. E soprattutto “l’Antiquario”, un altro testimone di cui Salvini non fa il nome, che racconta di averlo visto con i suoi occhi entrare in banca, nel pomeriggio di quel fatidico 12 dicembre, dopo aver prelevato una valigetta da un camion Om parcheggiato in piazza Fontana. “Era il figlio di un direttore di banca”, scrivono nel loro volume Salvini e Sceresini.

Il padre di Bizzarri era funzionario della Cassa di risparmio di Verona, Vicenza e Belluno.

Ma nessuno potrà più andare a chiedergli nulla: lo annuncia sul suo blog Ugo Maria Tassinari, giornalista esperto di destra radicale. “Il giorno stesso, venerdì 29 novembre, in cui uno scoop del Fatto Quotidiano annunciava il nome, mettendo insieme i numerosi elementi elencati da Guido Salvini nel suo libro appena uscito”, scrive Tassinari, “un sito della controinformazione veronese, infospazio 161, annunciava la morte, avvenuta circa un mese prima, di Claudio Bizzarri”. Conclude Tassinari: “Si allunga così il lungo filo nero della maledizione di Piazza Fontana”.

Bizzarri, secondo infospazio 161, sarebbe morto “appena un mese fa, a libro di Salvini-Sceresini in stampa”.

“Ma io aspetterei a far partire i titoli di coda”, ha commentato Paolo Morando, autore a sua volta di un libro, Prima di piazza Fontana (Laterza), che analizza lo sciame di attentati preparatori che i “neri” di Ordine nuovo realizzano nei mesi precedenti la strage, con l’intenzione di addebitarli ai “rossi” e agli anarchici: sono la prova generale di piazza Fontana e la prefigurazione della “pista rossa” che per la strage doveva arrivare a indicare come colpevoli Pietro Valpreda e magari anche Giangiacomo Feltrinelli (tentativo non riuscito).

Infospazio 161 è un sito web espressione degli “antagonisti veronesi”. È un centro sociale di Verona che ospita anche il centro di documentazione intitolato a Giorgio Bertani, storico editore della sinistra movimentista veronese.

Giornalista chiama il giudice e gli sequestrano il telefono

Una telefonata normale, di 58 secondi, a un magistrato che non può parlare. Poi un messaggio su Whatsapp: “La volevo ringraziare”. Ma nel clima avvelenato attorno al processo all’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage del 2 agosto 1980 a Bologna (85 morti) è finita con il doppio sequestro del telefono cellulare del giornalista “innocentista” Silvio Leoni del Secolo d’Italia, reo di aver telefonato e scritto al presidente della Corte d’assise, che incredibilmente ha il suo stesso cognome, Michele Leoni.

La telefonata è del 18 ottobre. Il 22 il giudice ne riferisce ai carabinieri e il 29 la cita in una denuncia, sporta contro ignoti perché a settembre gli avevano danneggiato la macchina a Forlì. Il 6 novembre la Procura di Ancona, competente per i reati che coinvolgono magistrati di Bologna, ordina il sequestro del cellulare del giornalista Leoni, per minaccia aggravata e accesso abusivo a sistemi informatici, “per essersi abusivamente introdotto nel contenuto del telefono cellulare del dr. Leoni Michele, acquisendo i suoi dati personali e, dopo aver tentato di contattarlo per telefono, inviandogli un messaggio mediante l’applicativo Whatsapp nel quale faceva riferimento in modo insistente ed intimidatorio al processo in corso sulla strage di Bologna”. Il pm ipotizza “che il Leoni si sia procurato illecitamente il numero di telefono e i dati identificativi del magistrato”. L’8 novembre i carabinieri sequestrano l’apparecchio. Il 29 novembre il Tribunale del riesame di Ancona, su ricorso dell’avvocato Paolo Palleschi che difende il giornalista con il collega Valerio Cutonilli, annulla tutto. Poche ore e la pm Irene Bilotta ordina un nuovo sequestro del telefono per un altro reato. Nel decreto si legge articolo 388 del codice penale ma dev’essere un refuso per 338, cioè “violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”, lo stesso reato della Trattativa Stato-mafia. Perché Leoni, scrive la pm, “dopo il danneggiamento dello specchietto retrovisore… tentava di contattare telefonicamente… con una telefonata rifiutata dalla parte offesa”. Seguono il messaggio Whatsapp, l’ipotesi che il giornalista pretendesse “dichiarazioni che avrebbero compromesso la sua permanenza nel collegio giudicante” e riferimenti ad un’“altra telefonata intimidatoria” (a quanto pare con accento siciliano, che il romano Leoni non ha) e al “danneggiamento dell’auto del pm del processo dottor Gustapane”.

Il giornalista Leoni ha 59 anni, nessuno lo accusa di danneggiare le auto e la telefonata di cui è accusato non ha nulla di minaccioso, almeno secondo la registrazione consegnata all’Ordine dei giornalisti che insieme alla Fnsi e all’Associazione stampa romana difende il collega. Si presenta come “Silvio Leoni, sono un giornalista di Roma”, il giudice risponde “mi dica, mi dica”, l’altro dice “volevo sapere due cose essenzialmente se mi permette…” e parla di un “esame su quattro persone che…” (riferimento all’esame del Dna su una delle vittime della strage, che in effetti non era lei, ndr). Il giudice lo interrompe: “No no guardi non posso rilasciare interviste sul processo, mi dispiace”. Lui insiste un po’, poi si arrende: “Questo lo capisco”. Ringraziamenti e saluti. Anche il messaggio Whatsapp, per come consegnato dal giudice ai carabinieri, non sembra intimidatorio: “Gentile presidente, la volevo ringraziare della sua risposta cortese. (…) Le riconosco il merito di gestire questa vicenda con grande equidistanza”. Ci sarebbe stata anche una risposta: “Grazie”.

Ora, il giornalista è un ex militante del Msi romano, fu coinvolto negli scontri politici degli anni 70 anche se il terrorismo era tutta un’altra cosa, ha lavorato al Secolo d’Italia dall’87 al 2006 e di nuovo dal 2014 e certamente è schierato contro la tesi della colpevolezza dei Nar nella strage del 2 agosto ’80, che peraltro nonostante le sentenze suscita perplessità anche in altri ambienti. E attorno al processo c’è molta tensione, tanto che ieri la Prefettura di Bologna ha rafforzato la protezione per il presidente Leoni. Il giornalista voleva farlo parlare per esporlo a un tentativo di ricusazione? “Ma scherziamo?”, risponde. Il telefono resta ai consulenti della Procura, il Riesame si pronuncerà dopo le operazioni peritali. Se non verrà fuori qualcos’altro sarà difficile giustificare il sequestro del cellulare di un giornalista. Una cosa molto seria, perché azzera il segreto sulle fonti e quindi la libertà di informazione. Anche quando viene poi annullato, come è successo a diversi colleghi del Fatto e di altri giornali.

Molestie a Genova: il “don X” di Sherlock denunciato ai pm

“Andate in Curia a Genova e acquisite i fascicoli con i nomi e le testimonianze dei ragazzi vittime. Potrebbero esserci minorenni: è uno dei timori espressi dal vescovo Alberto Tanasini”. Il portavoce della Rete L’Abuso, Francesco Zanardi, ha presentato ieri un esposto in Procura a Genova partendo dall’inchiesta di Sherlock. I pm apriranno così un fascicolo sui fatti raccontati dal nostro giornale. Zanardi, che da anni si batte contro le molestie sessuali compiute da sacerdoti, nell’esposto fa il nome del prete che noi finora avevamo indicato come “don X”: è Francesco Castagneto. E le due parrocchie dove ha esercitato sono una a Sori, piccolo borgo nella Riviera di Levante, e l’altra è la chiesa di Santa Teresa di Albaro, a Genova.

Siamo a metà anni ’90. A Sori, un gruppo di ragazzi e di educatori denunciò alla Curia comportamenti “non appropriati” di don Franco Castagneto. Come hanno raccontato a Sherlock vittime e testimoni, ne seguì un’istruttoria guidata da Alberto Tanasini – attuale vescovo di Chiavari – con la collaborazione di Nicolò Anselmi, oggi vescovo vicario del cardinale Angelo Bagnasco. Con loro anche Guido Marini che è cerimoniere del papa dal 2007. Don Franco fu trasferito nella parrocchia di Santa Teresa d’Albaro, il quartiere della borghesia genovese, dove si ritrovano associazioni di ragazzi e gruppi scout. Ma quest’estate d’improvviso è scomparso. Sarebbe stato rimosso, dopo l’arrivo di altre denunce (al momento non si sa se relative a nuovi episodi o legate alle accuse passate). Uno scandalo finora taciuto, sopito. Nessuno a Genova pareva sapere, nemmeno nelle parrocchie interessate. “Non credo che un ragazzo delle mie parrocchie possa aver denunciato episodi simili. Giuro che non ho mai avuto desideri di questo tipo. Minori? Mi fa orrore il solo pensiero”, è stata la risposta di don Castagneto raggiunto al telefono da Sherlock.

Zanardi nell’esposto ripercorre tutta la vicenda. La ricerca di Don Franco parte infatti proprio dal momento in cui la Rete L’abuso, nel settembre scorso, riceve una segnalazione anonima. Il portavoce de L’Abuso chiede se eventuali reati, oltre che al sacerdote, non possano essere ascritti anche ad altri rappresentanti della Curia: “Dovrà pur valere – scrive Zanardi – la responsabilità stabilità dall’articolo 40 del Codice penale, secondo il quale ‘non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di evitare, equivale a cagionarlo’”. Zanardi cita alcune sentenze precedenti che hanno ipotizzato la responsabilità di un vescovo “che pur sapendo delle tendenze pedofile di un sacerdote, nulla fece perché questo smettesse di abusare di altri minori”. Zanardi chiede poi se, in casi come questi, si possa anche ipotizzare un favoreggiamento, se qualcuno avesse aiutato il sacerdote a nascondersi, e quindi a sottrarsi alla giustizia.

In Procura, a Genova, assicurano che il caso sarà seguito “con la massima attenzione”. E quello che già oggi si sottolinea è che, per parlare di favoreggiamento, occorre che “ad un soggetto che abbia precedentemente commesso un reato, ci sia un aiuto a eludere le investigazioni della polizia giudiziaria, o a sottrarsi alle ricerche”.

I punti chiave dell’esposto di Zanardi sono due. “Si chiede con estrema e indifferibile urgenza che sia identificato e ascoltato, in quanto persona informata dei fatti, il sacrestano della parrocchia di Albaro”. Zanardi chiede anche che siano sentite le persone che fecero parte della commissione che negli anni ’90 ascoltò le prime vittime. E cioè i vescovi Tanasini e Anselmi, nonché il cerimoniere Marini. Ma, soprattutto, quello che chiede Zanardi è che “si proceda subito al sequestro del fascicolo, attualmente aggiornato e in possesso della diocesi di Genova, contenente i nominativi delle vittime che già nel 1997 denunciarono”. Sugli episodi degli anni ’90 incombe la prescrizione.

Mentre Riva la uccideva i politici facevano il palo

Alle origini del declino dell’Ilva (ormai irreversibile, sia chiaro), ci sono la natura cleptomane dell’imprenditoria italiana e la congenita vigliaccheria del ceto politico. Tutti i politici con un briciolo di peso o di potere hanno fatto finta di non vedere, nella migliore delle ipotesi, che cosa stava combinando Emilio Riva a Taranto. Nella peggiore gli hanno fatto da palo.

L’Ilva pubblica era, paradossalmente, una casa di vetro. Inquinava moltissimo anche allora, visto che un eroe civile come il magistrato Franco Sebastio aprì il primo fascicolo sui veleni dell’allora Italsider nel 1978, quindici anni prima della privatizzazione. Però era di proprietà statale e quindi tutti sapevano tutto, ogni manager di minimo calibro aveva il politico di riferimento, i sindacati pesavano e mettevano bocca, i giornalisti potevano serenamente entrare negli impianti e vedere. Con buona pace dei mercatisti ottusi, la democrazia attenua la malagestio. Taranto era un casino, ma faceva la miglior lamiera d’Europa e le maggiori case automobilistiche se la contendevano.

Forse per questo un bel giorno del 1993 la Commissione europea impose all’Italia di privatizzare tutto. Qui bisognerebbe aprire la dolorosa parentesi della liquidazione dell’Efim decisa dal premier Giuliano Amato con il piglio del vero liquidatore della Prima Repubblica e dell’accordo tra il ministro degli Esteri Nino Andreatta e il commissario Karel Van Miert che fu peggio dell’arrivo della troika. Ma non c’è spazio, e quindi arriviamo al 1995 quando il consiglio d’amministrazione dell’Iri, nominato pochi mesi prima da Silvio Berlusconi, svende a un amico di Silvio Berlusconi, Emilio Riva, la più grande acciaieria d’Europa: 8,5 milioni di tonnellate prodotte nell’ultimo anno, con un margine operativo lordo (Ebitda) di mille miliardi di lire, vanno via per 2.500 miliardi di lire. Allora si calcolava che costruire quella fabbrica da zero sarebbe costato 10 volte il prezzo pagato da Riva. Comunque un’acciaieria a 2,5 volte l’Ebitda non è una vendita, è un regalo. Nel cda dell’Iri, tra i donatori, c’è anche Piero Gnudi che vent’anni dopo sarà scelto dall’oculato Matteo Renzi come commissario dell’Ilva lasciata a pezzi da Riva.

Ma la cosa più grave è che il padrone delle ferriere entra nella fabbricona di Taranto e impone le sue regole: cancelli chiusi, nessuno deve sapere niente di che cosa accade lì dentro. I sindacati vengono annichiliti. Non sono pochi quelli che si fanno corrompere, chi resiste viene segregato nella palazzina Laf senza mansioni. Per questo mobbing antisindacale Riva verrà condannato a un anno e dieci mesi. Ma le notizie non circolano e i politici di ogni colore fanno finta di non sapere e di non vedere, in ginocchio davanti al padrone delle ferriere che con condiscendenza li finanzia tutti, destra, sinistra e centro.

La famiglia Riva delinque indisturbata. Prima condanna per inquinamento nel 2002, seconda condanna per inquinamento nel 2007, poi nel 2012 l’arresto e il sequestro degli impianti. Il governo Monti si scatena contro i magistrati e in difesa dell’industriale: si sa, Riva porta lavoro mentre Sebastio, diventato nel frattempo capo della procura di Taranto, porta la miseria. I ministri tecnici sono capitanati dall’ex banchiere di Intesa Sanpaolo Corrado Passera che nel 2008 aveva organizzato per Berlusconi il salvataggio di Alitalia con i soldi dei “capitani coraggiosi”, tra i quali c’era Riva che doveva ammansire il governo dell’amico Silvio a proposito di certe grane di inquinamento che aveva a Taranto. Ma Passera non sapeva niente. Anche se Intesa era la principale banca creditrice di Riva, a Milano non era arrivata la notizia che Riva non portava solo lavoro ma anche morte. Non solo per l’inquinamento, ma anche per la pericolosità del lavoro in fabbrica: a Taranto mediamente tre operai morti ogni anno, caduti, schiacciati, bruciati, colpiti, sventrati. Ma quasi mai la notizia usciva da Taranto, chi ha mai saputo della morte di Paolo Franco (24 anni), Pasquale D’Ettorre (27), Gianluigi Di Leo (25), Vito Antonio Rafanelli (33), Domenico Occhinegro (26) e Andrea D’Alessano che di anni ne aveva solo 19? Ma chi sono? Nomi presi a caso nella lista delle vittime immolate dall’Ilva sull’altare del “senza acciaio l’Italia industriale è morta”. Intanto sono morti loro e adesso toccherà anche all’Italia industriale.

I nostri condottieri infatti hanno finto di non sapere che Riva non solo uccideva e inquinava, ma prendeva i profitti dell’acciaieria che aveva avuto in regalo e li portava in Svizzera, dove a un certo punto i magistrati hanno trovato e recuperato 1,2 miliardi. Chissà dov’è il resto. Certo è che i commissari, capitanati da Gnudi, sostengono che Riva ha risparmiato sulla manutenzione degli impianti oltre 8 miliardi. E così quando i magistrati hanno sequestrato (per modo di dire) gli impianti e Passera si stupiva (frase memorabile: “Nonostante gli investimenti realizzati, la situazione ambientale presenta ancora elementi di criticità che non ci consentono di esprimere ancora un giudizio conclusivo sulla loro efficacia”) l’Ilva era già morta, perché già non era più in grado di tirare fuori lamiere decenti e i clienti erano già in fuga. Mittal se l’è presa, grazie a complicità dentro il governo, solo per essere sicuro di ammazzare definitivamente un potenziale concorrente. Sono passati sette anni durante i quali tutti (commissari, ministri, politici e sindacalisti) hanno solo preso tempo per non dover confessare ai tarantini la bancarotta collettiva della classe dirigente che si credono di essere.

 

Alitalia, si riparte da zero: altri soldi ma anche i tagli

La tragedia di Alitalia è un po’ come il gioco dell’oca, si riparte dalla casella iniziale. È successo nel 2008, nel 2014, nel 2017 e riaccade ora. Ieri il consiglio dei ministri ha licenziato il decreto che riavvia la procedura di vendita di Alitalia, stanzia altri 400 milioni di prestito ponte pubblico, dopo i 900 già bruciati, e impone una nuova scadenza per chiudere l’operazione a maggio prossimo, che verosimilmente non sarà rispettata come le altre otto che l’hanno preceduta. Solo che stavolta si riparte con una novità, i “tagli”.

L’ultima tappa del disastro riporta le lancette a maggio 2017, con la bocciatura da parte dei lavoratori del piano di salvataggio degli arabi di Etihad, arrivati nel 2014 con promesse mirabolanti e capaci di riportare Alitalia sul lastrico in 21 mesi. Lo stop ha fatto scattare l’amministrazione straordinaria, che dura tutt’ora. Il dossier, predisposto dall’allora ministro dello Sviluppo Carlo Calenda sarebbe dovuto restare aperto per soli 6-7 mesi giusto il tempo di decidere la vendita e ridurre al minimo le conseguenze per la forza lavoro. Calenda però non ha dato mandato ai commissari di risolvere i motivi per cui Alitalia perde qualcosa come 1 milione al giorno e alla fine il piano si è schiantato con la richiesta di Lufthansa di maxi esuberi (circa seimila su 11.600 lavoratori totali).

Ora si riparte da Lufthansa, che ha fatto sapere al governo che non ha cambiato idea nell’ultimo anno e mezzo. Il nuovo decreto, composto di due articoli, è arrivato dopo che la ritirata di Atlantia, la holding controllata dai Benetton, ha fatto naufragare il consorzio messo in piedi con lo spago dal governo insieme alle Ferrovie dello Stato, al Tesoro e all’amerciana Delta, atteso per il 21 novembre.

Il provvedimento impone ai commissari un nuovo bando di gara, che verrà accompagnato da un piano di “tagli e riorganizzazione” per rendere la compagnia più “appetibile”. Una “ristrutturazione necessaria perché altrimenti è invendibile, lo dicono i fatti”, ha spiegato il vice ministro dello Sviluppo Stefano Buffagni. I sindacati già tremano. Il nuovo percorso concede altri sei mesi per la nuova procedura, fissando al 31 maggio 2020 il termine per il trasferimento degli asset. “È evidente che l’azienda ha bisogno di una ristrutturazione e quindi ci adopereremo per garantire la tenuta occupazionale ma anche per renderla competitiva e appetibile per il mercato perché evidentemente senza il pubblico qualche criticità c’è”, ha aggiunto Buffagni. Secondo il ministro dei Trasporti, Paola De Micheli, il governo ha già “negoziato il nuovo intervento con la Commissione Europea”. La stessa che però ieri ha fatto sapere che la misura “non è stata ancora notificata a Bruxelles e i Paesi membri devono astenersi dal metterli in atto procedure non concordate fino a che la Commissione non ha raggiunto una decisione finale sull’esistenza e la compatibilità dell’aiuto di Stato”. La realtà è che il negoziato si apre adesso, ma finora Bruxlles non ha mai voluto intervenire in una vicenda che coinvolge 11 mila dipendenti.

La relazione illustrativa del provvedimento, composto di soli due articoli, spiega che “preso atto della insussistenza di concrete prospettive” per la cessione, “è necessario intervenire nuovamente con una nuova procedura di cessione, da espletare in tempi ragionevolmente brevi”. E prevede anche che vengano adottate iniziative di “efficientamento”, cioè tagli, per “massimizzare l’interesse degli acquirenti”.

Saranno i commissari a predisporre un piano integrativo che andrà approvato dal ministero dello Sviluppo. Come ha spiegato il professor Ugo Arrigo, economista esperto di trasporto aereo, Alitalia, però ha costi unitari sostanzialmente in linea con le rivali europee e difficilmente comprimibili visto che il costo del lavoro è ai minimi storici, quello del carburante è esogeno e la componente tariffe è intoccabile. Alitalia è la compagnia più colpita dalle tariffe di Aeroporti di Roma (gruppo Benetton) avendo il suo hub a Fiumicino. Il problema del vettore è dal lato dei ricavi, ma finora ogni piano di salvataggio ne ha ridimensionato la flotta. Resta il dubbio che alla fine l’“efficientamento” si ridurrà alla riduzione del personale e allo spezzatino tra attività di terra e voloo per consegnare la polpa della compagnia a Lufthansa. E con i 400 milioni si prende altro tempo, portando le risorse pubbliche stanziate a 1,3 miliardi. “Serve un’azione di responsabilità sugli amministratori passati”, ha spiegato ieri Di Maio.

Iannacone, la cronaca che taglia fuori la retorica

Domenico Iannacone è un uomo di confine, è fatale che ogni tanto torni a Scampia, Fortezza Bastiani al confine tra perdizione e rinascita. Per inaugurare il ritorno di Che ci faccio qui? (Rai3, lunedì sera) ha incontrato tra le Vele e le ruspe Davide Cerullo, camorrista a dieci anni. “La camorra ci ha dato come favore quello che lo Stato avrebbe dovuto darci come diritto.” A dieci anni Davide guadagnava 900mila lire al giorno, il primo ‘Bravo’ della sua vita l’ha ricevuto dal boss dei Di Lauro. Miseria atavica, istituzioni assenti, politica collusa, clan onnipotenti… non è questione di trattative, ma di contiguità. Non si sa dove finisca lo Stato, e cominci Gomorra. Poi, in carcere, la scoperta del Vangelo e di Pasolini, la forza delle parole “che costruiscono ponti tra gli uomini” e fanno nascere uomini nuovi: oggi Cerullo è uno scrittore e fotografo di talento. Raccontare la redenzione senza retorica è più difficile del raccontare il male senza fascinazione, eppure Iannacone ha saputo oltrepassare il confine tra cronaca e poesia. Che è invisibile, ma c’è.

P.S. Il direttore del “Giornale” Sandro Sallusti mi imputa di criticare la presenza di Hoara Borselli nei talk “perché è una donna di destra”. Vorrei fargli notare che nelle ultime settimane ho sollevato identiche perplessità su Ilaria D’Amico, “donna di sinistra” sempre a detta di Sallusti, e sul mezzobusto pentastellato Alberto Matano. Ha ragione Andrea Scanzi: prima di essere criticati sarebbe bello essere letti.

Il Nobili paladino di Matteo Renzi pare Bondi con B.

Al di là dei risvolti penali, su cui mi guardo bene dal pronunciarmi perché non spostano in alcun modo l’opinione che ho della più grande sciagura politica abbattutasi sul centrosinistra italiano, l’Open affaire ci insegna almeno una cosa: non dimenticare. Nello specifico, non dimenticare cosa ci fosse prima di Salvini. Chi si lamenta del Cazzaro Verde, e ovviamente fa benissimo, dovrebbe sempre rammentare bene il livello osceno e colpevole raggiunto dalla politica (e dal giornalismo) negli anni tremendi del renzismo. Anni di cui, ora, vediamo e viviamo i patetici colpi di coda.

È bastato scoperchiare le ambiguità – se non altro etiche – legate al concetto stesso di Fondazione, che par tramutarsi in “articolazione” partitica (il Fatto ne parla da anni), per risvegliare tutti i giannizzeri e le vedove scionche del renzismo, null’altro che impalpabili Galeazzi Ciano prima del Processo di Verona. In questo senso, entra dritto nella leggenda il Luciano Nobili che ha sciabordato da par suo venerdì scorso a L’aria che tira. Momento televisivo lisergico, appena sotto Giordano e quel che resta del postumo in vita Sgarbi, capaci (?) di salire sul ring (??) con tanto di accappatoio da pugile e musica di Rocky (una prece). Di Nobili, turborenziano di terza fila, ho già parlato una volta. Mi perdonerete se non ne traccerò una seconda volta la biografia: quando mi trovo costretto a parlare dell’evanescenza, non so mai concedere il bis. La voce stessa di Nobili, su Wikipedia, risolta malinconicamente vuota: e già questo dice tutto (cioè niente). Nobili ha occupato lo studio di La7 come Bondi soleva assaltare il Santoro che fu per difendere Berlusconi. Alla sua destra sedeva Emiliano Fittipaldi, che provava a raccontare lo scoop dell’Espresso sulla villa di Renzi. Nobili è parso subito in grande spolvero. Guance rubizze d’ordinanza, quasi che fosse ogni volta reduce da uno jodel selvaggio dopo aver bevuto sedici damigiane di grappa. Volto assai pasciuto, come se l’opulenza adiposa fosse la sua risposta alla recessione incombente. E poi dei sontuosi capelli rigogliosamente unticci, chiaro omaggio al grande cantore contemporaneo Giuseppe Cruciani. È bastato un lapsus di Fittipaldi, di cui peraltro il cronista si è subito scusato, per far scattare l’intemerata del Nobilone nostro: “Hai detto che Renzi si è fatto finanziare il mutuo? Ricominciamo con le bugie? Diciamolo tutti insieme: è una vergognosa bugia! Fittipaldi ha detto una bugia in diretta. Chiediamo scusa?”. Fittipaldi aveva già chiesto scusa dodici volte, ma lui niente. Un fiume in piena. O se preferite un otre che esplode.

“Chi risarcisce Matteo Renzi? Questa è l’esperienza politica più trasparente e pulita della storia della Repubblica italiana!” (ahahahahahahah). “Chi risarcisce Matteo Renzi delle menzogne che anche adesso sono state ripetute? Ma capite che stiamo subendo un’aggressione inaccettabile? Fate populismo informativo, a scapito di una esperienza politica che evidentemente è scomoda!”. Come no: la famosa scomodità di Italia Viva e il famoso giornalismo anti-renziano. Certo. E magari Genny Migliore è Bakunin. Facci sognare ancora, Nobilone nostro! “Avete fatto dieci grafiche. Neanche per ricostruire i movimenti di denaro di Al Capone si fa una roba del genere”. Renzi come Al Capone. E già che ci siamo Giachetti e Ascani come Mork & Mindy. Nobilone nostro era così incontenibile che non ha fatto parlare nessuno. Neanche il direttore di Libero, Pietro Senaldi. E questo, va detto, resterà verosimilmente l’unico vanto politico di Luciano Nobili.