Di Maio è certamente un giovane fuori classe: senza avere alle spalle un contesto élitario, con le sue sole forze, è riuscito a mettere insieme un curriculum (vice-presidente della Camera, vice-presidente del Consiglio, Capo del Movimento, tre volte ministro) che nessun trentatreenne, salvo Gesù Cristo, potrebbe vantare. Se anche oggi abbandonasse la politica, tuttavia resterebbe nella storia del welfare italiano per avere, con caparbia intelligenza, introdotto il reddito di cittadinanza in un paese che odia i poveri: unica cosa di sinistra fatta negli ultimi venti anni.
Certamente più dotato della maggior parte dei suoi colleghi parlamentari, tuttavia Di Maio, quando da politico si fa politologo, rientra nella media e rischia di portare il suo Movimento su strade improbabili. Questo pericolo si rivela esiziale di fronte a esternazioni, per di più contraddittorie, come “non ci sono più destra e sinistra” e come “il Movimento deve percorrere una terza via”.
Per esserci una terza via ne occorrono altre due, tra le quali intrufolarsi. E queste due non sono Lega o Pd, come si può pensare sbrigativamente, ma socialdemocrazia e neo-liberismo, come avviene da quando l’antitesi al capitalismo non è più il comunismo. La caduta del muro di Berlino significò che il comunismo aveva perso ma non significò che il capitalismo aveva vinto. Infatti il comunismo sapeva distribuire la ricchezza ma non la sapeva produrre mentre il capitalismo sa produrre la ricchezza ma non la sa distribuire. Tutta qui è la differenza tra destra e sinistra: aumentare il benessere di tutti attraverso la distribuzione della ricchezza prodotta o aumentare la povertà di molti attraverso l’accaparramento da parte di pochi privilegiati. Autonomia delle regioni ricche è di destra; reddito di cittadinanza è di sinistra (e molta sinistra ha finto di non accorgersene).
Ma da dove nasce questo mito della terza via? I primi a crearlo, quando ce n’erano le ragioni strutturali, furono i socialisti utopisti come Saint-Simon, Fourier e Proudhon che si opposero con pari forza al liberismo e al marxismo elaborando alternative che spesso riuscirono a tradursi in riforme sociali e iniziative filantropiche.
Le idee e le azioni di questi “utopisti” prepararono le successive proposte di Karl Kautsky e soprattutto di Eduard Bernstein con il suo saggio del 1899 I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. Questi socialisti storici, opponendosi alla destra e alla sinistra, si proponevano di creare, attraverso un processo democratico di riforme graduali, uno Stato sociale basato sulla democrazia parlamentare, sul mercato capitalistico mitigato dal pubblico intervento regolatore e sull’equa redistribuzione del reddito. Queste idee si tradussero in modelli e pratiche squisitamente europee come le socialdemocrazie scandinave e il welfare tedesco.
Ma poiché la terza via è una via di mezzo, perciò stesso cela nella sua natura il pericolo della confusione sterile e offre alla destra la scorciatoia con cui operare un’Opa sulla sinistra. Mussolini parlava di “Terza via fascista” fatta di corporativismo, autarchia e protezionismo; il primo ministro inglese Harold Macmillan a questa idea ispirò il suo governo e, nel 1938 le dedicò un saggio intitolato La via di mezzo in cui cercava di mediare tra liberismo e dirigismo, conservatorismo e progressismo. L’economista svizzero Wilhelm Röpke, consigliere di Adenauer, ne parlò in termini di “ordoliberalismo”, con cui bilanciare l’individualismo liberale con la solidarietà collettiva. Da ultimo, dopo l’ubriacatura neoliberista di Nixon e della Thatcher negli anni Ottanta, il sociologo inglese Anthony Giddens, direttore della London School of Economics, fornì un’ennesima teorizzazione della “terza via” con il saggio del 1998 The Third Way: The Renewal of Social Democracy. Applicata da Tony Blair con il nome di new-labour, questa dottrina non gli impedì di portare a termine le privatizzazioni avviate dalla Thatcher e di condividere con il suo amico personale George W. Bush le sanguinarie operazioni di peacekeeping in Iraq.
Blair parlò esplicitamente di “terza via” in uno speech fin troppo famoso, tenuto alla New world, new capitalism Conference organizzata nel 2009 dal presidente Sarkozy e dall’economista Éric Besson. Cosa diceva Blair in quello speech? Diceva che – come ci insegna la crisi – oggi non esiste nel mondo un governo nazionale così potente da esercitare una governance globale. D’altra parte la globalizzazione è opera dei popoli: è ciò che i giovani hanno scelto di essere. Perciò occorre recuperare la fiducia nel sistema finanziario e sostenere decisamente il new capitalism. Come farlo, Blair lo spiegherà nel 2015, parlando al Think Tank Progress per mettere in guardia il Labour party da un possibile slittamento a sinistra: “Si vince al centro, si vince quando ci si rivolge a una fascia d’opinione trasversale… Abbiamo vinto quando noi siamo stati gli autori del cambiamento e non piccoli conservatori della sinistra”.
Sappiamo tutti come è andata a finire la terza via di Blair e anche quella del suo epigono italiano Matteo Renzi. Quando, alla fine degli anni Sessanta, la interclassista Democrazia Cristiana puntava con successo sulla classe media, ne aveva buoni motivi perché questa rappresentava il 49,5% in Italia mentre in Gran Bretagna era al 49,3%.Su una popolazione attiva di 28 milioni, la classe media, in forte ascesa, superava i 13 milioni.
Oggi, invece, la classe media, sempre più esigua, si proletarizza di giorno in giorno. Tra il 2007 e il 2017 il patrimonio dei sei milioni di italiani più ricchi è cresciuto del 72%; quello dei sei milioni più poveri è diminuito del 63% e quello degli italiani collocati in mezzo a questi due blocchi è diminuito del 15%. I ricchi diventano più ricchi, i poveri diventano più poveri, la classe media evapora, quel che ne resta è imbufalita e sempre più due blocchi sociali – i ricchi e i poveri – si contrappongono frontalmente.
È dunque azzardato parlare oggi di terza via: dal momento che non esiste più l’alternativa comunista e che nessuno prepara i poveri a riscattarsi con una rivoluzione, non resta che la contrapposizione riformista, ma frontale, tra neo-liberismo e socialdemocrazia. Questa contrapposizione, che ingloba quella tra Pd e Lega, colloca il Movimento 5 Stelle a sinistra perché tale è la sua natura e la sua struttura. Secondo l’Istituto Cattaneo, alle ultime elezioni il 37% degli operai, il 38% dei disoccupati, 1 iscritto alla Cgil su 3 hanno votato per i 5 Stelle. Da allora, gli elettori dei 5 Stelle simpatizzanti per la destra sono passati in gran parte con Salvini; Calenda e Renzi, neoliberisti camuffati da sinistrorsi, sono andati via dal Pd; dunque sarebbe finalmente arrivato il momento di creare a sinistra un’alleanza solida e combattiva, come richiede il bipolarismo postulato dai mutamenti socio-economici in atto. Ci sarebbero tutte le condizioni strutturali per farlo. Ma, come ho detto all’inizio, mancano quelle culturali.