London Bridge, il coraggio che a noi manca

Scrivevamo sul Fatto del 16 novembre (L’Isis è oramai un’epidemia mondiale): “Chi pensava che l’Isis fosse stato definitivamente debellato con la cancellazione del territorio dello Stato islamico a Raqqa e a Mosul grazie al coraggio dei peshmerga curdi, con l’aiuto però determinante dell’aviazione americana, si faceva delle pericolose illusioni”.

Purtroppo siamo stati facili profeti come ci dice l’attentato di Londra. È del tutto improbabile che in questo caso l’attentatore abbia agito in coordinazione con lo Stato islamico, ne ha subìto però le suggestioni. Dall’attacco alle Torri Gemelle il valore simbolico dell’atto, come osservò Jean Baudrillard, supera in potenza la realtà dell’atto stesso, si tratti di tremila morti come alle Torri o di tre come venerdì a Londra. Da allora nei Paesi occidentali, i cui abitanti erano abituati a ruminare una vita tranquilla, si vive in uno stato di perenne inquietudine (“qui chi non terrorizza, si ammala di terrore”). Significativo è l’obbiettivi scelto dal jihadista improvvisato: l’affollatissimo London Bridge nel giorno del Black Friday. È ovvio che gli attentatori scelgano i luoghi più affollati perché più facile è colpire. Ma non c’è solo questo. Gli jihadisti vogliono colpire la nostra way of life, il nostro consumismo, i nostri divertimenti, i nostri giorni di festa. Credo che nella mente dello jihadista solitario di cultura musulmana si agiti questo pensiero: per anni avete vissuto tranquillamente mentre ci bombardavate senza pietà facendo centinaia di migliaia di morti. Bene. Adesso la Festa è finita, al vostro terrore rispondiamo col terrore. Ma nel caso di London Bridge c’è anche un’importante e incoraggiante novità: i cittadini inglesi, invece di comportarsi come pecore e scappare, com’era avvenuto in tutte le altre occasioni simili, hanno aggredito e stoppato l’attentatore. È stato rincuorante vedere uno di questi passanti, uno qualunque, tenere in mano il coltello strappato all’attentatore prima di consegnarlo alla polizia. Un’azione che, se forse è troppo definire eroica, è troppo poco definire coraggiosa perché nessuno poteva sapere se la “cintura esplosiva” era falsa o invece autentica e in grado di far saltare in aria tutti quelli che stavano nelle vicinanze. Ma gli inglesi sono inglesi, un popolo a cui, nel bene e nel male, non è mai mancato il coraggio. È agli inglesi, più che agli americani o ai russi, che dobbiamo la sconfitta del nazismo.

A Dunkerque, in stato di grandissima difficoltà di fronte alla possente avanzata delle armate di Hitler, in quel momento più forti e più motivate, riuscirono a ritirarsi con ordine, senza panico. Sotto l’infuriare delle V2, il re Giorgio VI rimase ostentatamente a Buckingham Palace per dare un esempio ai suoi sudditi. E Winston Churchill quando divenne Primo ministro all’inizio della guerra chiudeva il proprio discorso, riprendendo quello di Catilina ai soldati prima della battaglia decisiva di Pistoia, così: “Vi prometto solo lacrime e sangue”. Questo è un popolo. Cerchiamo, almeno nella lotta senza quartiere col terrorismo internazionale, di prenderne esempio.

Repubblica come Fiat: è “panna montata”

Fu Eugenio Scalfari, in un articolo pubblicato sull’Espresso il 28 luglio 1974, a ribattezzarlo fin dal titolo “l’Avvocato di panna montata”. Gianni Agnelli aveva deciso di vendere alla Rizzoli – dietro la quale s’intravvedeva l’ombra di Eugenio Cefis, il potente presidente della Montedison – la quota del Corriere della Sera detenuta dalla Fiat. E allora Scalfari sferrò un attacco ad Agnelli, sospettando che fosse uscito dalla compagine azionaria di via Solferino per fare una cortesia ad Amintore Fanfani e alla Democrazia cristiana.

“Quell’articolo era una reprimenda personale ancor prima che politico-finanziaria”, avrebbe poi spiegato Carlo Caracciolo, editore del gruppo L’Espresso e cognato di Agnelli, nel libro-intervista intitolato L’editore fortunato a cura di Nello Ajello. E lui stesso aggiunse: “Dopo aver avanzato varie ipotesi sul comportamento del capo della Fiat in quella vicenda, Scalfari concludeva che essa assumeva per Agnelli l’aspetto drammatico e senza ritorno che la battaglia Waterloo ebbe a suo tempo per Napoleone. Faceva da corollario a questa constatazione un esame quasi psicoanalitico del personaggio Gianni, i cui comportamenti venivano influenzati dal tedio di cui soffriva, dalla sua volagerie, dal suo essere fatto, appunto di panna montata”.

A mezzo secolo di distanza, arrivato alla veneranda età di 95 anni, oggi il fondatore di Repubblica si ritroverà John Elkann, il nipotino dell’Avvocato di “panna montata”, come proprietario del suo giornale – confluito intanto nel gruppo Gedi – in seguito al compimento della cessione della quota di controllo dalla Cir (la finanziaria della famiglia De Benedetti) alla Exor (la finanziaria della famiglia Agnelli). Si completerà così la maxi-fusione denominata “Stampubblica” che nel 2016 aveva avviato la trasformazione dell’ex gruppo L’Espresso in un gruppo di potere.

Per via della parentela tra Agnelli e Caracciolo, non erano mai stati facili i rapporti tra la Fiat e L’Espresso. Più volte l’Avvocato aveva manifestato al cognato il “disagio politico” che derivava alla sua azienda e alla sua famiglia dai presunti legami con il battagliero settimanale di via Po, “trovandosi Gianni a capo di un’azienda che da sempre era governativa per definizione”, come spiega l’“editore fortunato” nell’intervista ad Ajello. Se ne ricava indirettamente una conferma anche dalla testimonianza di Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera e successivamente azionista del gruppo L’Espresso, che nel memoir intitolato Il mio filo rosso riferisce una conversazione con Gianni Agnelli: “La Fiat – le dice l’Avvocato – ha filiali in gran parte del mondo. Il Corriere parla della Russia, della Spagna, dell’Argentina, del Brasile con troppa spregiudicatezza, senza peli sulla lingua. Per noi questo è un problema. In politica interna poi, certi argomenti, certi tempi vengono trattati senza sfumature. La questione dell’aborto, del divorzio: noi proprio non potremmo permettere prese di posizione così dirette”. Basterebbe già questo per smentire la tesi secondo cui la Repubblica e La Stampa avrebbero “radici comuni di due mondi del giornalismo e della cultura”, sostenuta dall’ex direttore di entrambe le testate, Ezio Mauro. In realtà la sua nomina, voluta nel 1996 da De Benedetti, segnò la prima “discontinuità”, il primo strappo nella storia del giornale di Scalfari. Fino a quando la presenza del fondatore è stata pressoché quotidiana, e fino alla scomparsa di Caracciolo, si può dire che la Repubblica abbia mantenuto la rotta. Poi, nel secondo decennio di Mauro, ha cominciato a perdere copie per arrivare al tracollo con la direzione di Mario Calabresi, imposta dall’Ingegnere all’insaputa di Scalfari. E oggi, sotto la guida più esperta di Carlo Verdelli, naviga su una linea di galleggiamento nell’incertezza esistenziale fra il giornale d’opinione e quello più popolare d’ispirazione sportiva.

Sarà pur vero, dunque, che John Elkann è meglio di Carlo De Benedetti, come afferma qualche autorevole esegeta di casa Fiat. Sta di fatto che oggi, mentre la prima industria privata italiana passa sotto l’egida francese della Peugeot, la Repubblica e L’Espresso cambiano padrone per affrontare un futuro incerto e pieno di incognite. Sarà messo in vendita “a spezzatino” l’ex gruppo Caracciolo? Quali conseguenze potrà avere l’eventuale uscita del titolo dal listino di Borsa, secondo le intenzioni attribuite al giovane Elkann? E soprattutto, che fine faranno le gloriose testate guidate da Scalfari?

Una previsione è lecita: la Repubblica e L’Espresso targati Fiat, con tutto il rispetto per le rispettive direzioni e redazioni, avranno molte difficoltà a preservare la propria autonomia e indipendenza rispetto a una proprietà che ha poco o nulla a che fare con l’editoria. Dovranno tentare di conciliare l’anima progressista e l’identità di sinistra con gli animal spirits del capitalismo familiare italiano. E rischieranno così di diventare due giornali di “panna montata”.

Mail box

 

Meno Renzi in prima pagina è comune senso del pudore 

Cari amici,

leggo da sempre il vostro quotidiano con estremo interesse. Purtroppo in molti casi le notizie che riportate mi inducono tristezza, se non rabbia… Volevo solo pregarvi di evitare, se potete, di pubblicare foto di Renzi&C. in formato gigante, almeno per non aumentare la mia (e credo di molti altri) già notevole incazz…

Francesco Finali

 

Caro Francesco,

ha ragione. Tenteremo di contenerci, in nome del vecchio e mai superato “comune senso del pudore”.

m. trav.

 

Evasori, scandalizza la reazione di Confindustria

Caro direttore, accolgo con piacere la notizia che il governo sta per approvare un provvedimento di inasprimento delle misure repressive verso i grandi evasori fiscali. Dal momento che Confindustria, Forza Italia e Lega osteggiano la norma, la strada è quella giusta.

Mi scandalizza la reazione del presidente di Confindustria, che parla di criminalizzazione degli industriali e di misure repressive che non aiutano la crescita economica del Paese.

Solo da noi ci può essere chi considera l’evasione un’opzione da considerare nelle economie di scala di un’azienda.

Allora negli Stati Uniti d’America, noto faro dell’economia mondiale, citato da Confindustria come esempio un giorno sì e l’altro pure, devono essere matti, perché mettono gli evasori in galera per parecchi anni. Sarebbe il caso che i nostri imprenditori e politici “garantisti” evitassero di fare figure magre agli occhi del mondo, e magari si decidessero di fare un po’ di pulizia in casa propria.

Paride Antoniazzi

 

Noi italiani del Dopoguerra traditi dalla caduta del Muro

Dopo aver visto per l’ennesima volta Quo vado?, ho riflettuto sul nostro passato di italiani nati nel dopoguerra. Io sono del 1947. Eravamo un Paese completamente distrutto e in una trentina d’anni siamo diventati la settima, qualcuno dice sesta, potenza economica mondiale.

Dal 1946 in poi siamo andati sempre avanti, sia come qualità della vita, sia come Paese. Almeno a me così sembra e così ricordo, da lettore abituale di quotidiani (plurale) e quindi mediamente informato sui fatti.

Ho partecipato con grande gioia alla caduta del Muro e ho sperato che finalmente la sinistra avrebbe potuto realizzare i propri obiettivi, ormai libera dal “fattore K”. Poi è arrivato B., passando per Craxi. Siamo sicuri che non fosse preferibile la tanto vituperata “prima Repubblica”?

La cosa certa è che è peggiorata sia la qualità della vita, sia la qualità del Paese. La ricchezza si concentra sempre di più, e anche lavorando si rimane poveri.

Americo

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, nell’articolo “Il capitalismo straccione scelse Tim come Bancomat”, Giorgio Meletti correttamente ricorda che, quando Pirelli entrò indirettamente nel capitale di Telecom Italia, la gran parte degli immobili di quest’ultima era già stata ceduta. Va precisato, però, che il ricavato della cessione di quelli rimanenti, investito nel core business dell’azienda, garantì a Telecom un ritorno stimato di circa il 10,5-11%, superiore al costo degli affitti pagati, pari al 7-8%, per rimanere negli ex immobili di proprietà. La trasparenza dell’operato sulle operazioni tra Telecom e Pirelli RE, allora leader di mercato nel settore immobiliare in Italia, fu riconosciuto da tutti gli organismi di controllo esterni e interni a Telecom. Che tali operazioni fossero vantaggiose per le aziende è dimostrato dal fatto che, oltre a Telecom Italia, analoghe dismissioni furono realizzate da France Telecom, British Telecom, Deutsche Telekom, Kpn, Swisscom e Telenor. Lato gestione, queste risorse contribuirono ad avviare il progetto che prevedeva l’integrazione tra fisso e mobile e tra reti e contenuti, che avrebbe dato a Telecom quel vantaggio competitivo oggi innegabile alla luce degli attuali sviluppi del mercato che proprio sull’integrazione tra tlc e contenuti si fonda. L’intervento a gamba tesa di una parte politica bloccò purtroppo il progetto. Concludiamo ricordando che Pirelli non incassò mai un euro di dividendi da parte di Telecom e che quando il dottor Tronchetti lasciò le sue cariche in Telecom non ricevette alcuna liquidazione.

Ufficio Stampa Pirelli

 

E ci mancava solo la liquidazione. Dal 2002 al 2006, nei cinque anni scarsi in cui Marco Tronchetti Provera ha sommato lo stipendio di presidente Telecom Italia a quello di presidente Pirelli, ha totalizzato l’incasso di 34 milioni e spiccioli, pari a euro 20 mila al giorno: il dottor Tronchetti si è messo in tasca ogni giorno quello che uno dei milioni di disoccupati italiani sognerebbe di raggranellare in un anno. Eppure non si può nominare in un articolo Telecom Italia senza che arrivi, puntuale come le tasse, la sua piccata rettifica che non rettifica niente ma ci infligge la trita lagna sul disinteresse e spirito di estremo sacrificio del dottor Tronchetti. La verità è che lui da anni si gode i milioni intascati con l’operazione Telecom mentre noi possiamo solo goderci le sue ripetitive letterine. Dobbiamo riconoscergli che la storia ha dato ragione a lui. Ma è ingeneroso ricordarcelo ogni volta.

G. Me.

La guerra dei “senatori” ribelli ad Ancelotti e il bivio di De Laurentiis

Buongiorno, ho sentito in radio che Carlo Ancelotti, furioso per l’ennesima sconfitta del Napoli, ha obbligato la squadra a un ritiro forzato da domani, ma così, mi chiedo, non rischia di inimicarsi ulteriormente i suoi giocatori? E di chi è la colpa dell’attuale divisione tra l’allenatore e lo spogliatoio? È vero che i calciatori si stanno comportando in modo irresponsabile, tuttavia il tecnico non sta facendo nulla per riportare l’armonia e il giusto spirito di collaborazione.

Eliana Marcucci

 

Gentile Marcucci,la sostanza dei fatti è sempre testarda e ci dice varie cose. Primo: il due novembre scorso il Napoli perse a Roma due a uno contro i giallorossi, con un secondo tempo osceno e irritante, e il presidente Aurelio De Laurentiis decise di mandare tutti in ritiro per una settimana. Ancelotti espresse subito il suo parere contrario, pur adeguandosi. La rabbia dei giocatori esplose invece la sera del martedì successivo, dopo il pareggio interno con il Salisburgo in Champions League. Indi l’ammutinamento e la dura reazione del presidente con le multe salate. La rivolta sarebbe stata capeggiata dai “senatori” dell’era estetica del sarrismo (Insigne, Callejon, Mertens, Allan, finanche Ghoulam). Questo è il filo rosso che porta alla decisione di ieri dell’allenatore, all’indomani dell’indegna sconfitta al San Paolo con il Bologna e in cui i giocatori non hanno fatto il massimo, per stessa ammissione di Ancelotti. La verità, cara Eliana, è che il povero tecnico, uno dei migliori al mondo con il suo palmares, ha tentato per giorni di usare una strada di buon senso tra la società e la rosa a sua disposizione. Questo nonostante avesse fatto alcune richieste a De Laurentiis la scorsa estate. Richieste non esaudite in materia di cessioni, non di acquisti. A questo punto la sua decisione di mandare tutti in ritiro punta a far emergere il ribellismo dei “senatori”, due dei quali, Callejon e Mertens, in scadenza di contratto. Poi ogni decisione sarà presa, credo, dopo la partita con il Genk del 10 dicembre che dovrebbe valere la qualificazione agli ottavi di Champions. O l’epurazione dei senatori, con la campagna di gennaio, oppure l’esonero di Ancelotti, queste le due soluzioni più estreme. Il fatto è che, come accade spesso alla fine di un ciclo, De Laurentiis avrebbe dovuto garantire questo ricambio già due anni fa. Insomma, sarebbe bastata una valutazione preventiva alla fine del sarrismo. Le grandi società lo fanno sempre. Evidentemente il Napoli, con questa crisi, ha dimostrato di non esserlo.

Fabrizio d’Esposito

Le Iene: “Conte chiarisca il rapporto con Alpa”. La replica: “Storia vecchia”

“È una questione un po’ vecchia che si trascina da tempo, stanno rimestando sul mio concorso del 2002”. Così il premier Giuseppe Conte sul contenuto del servizio di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti in onda questa sera a Le Iene.

“Il professor Alpa viene perseguitato per questo concorso. Ho chiarito che mai c’è stato un conflitto di interessi, mai un’associazione professionale tra di noi, mai un conto corrente comune, in merito al concorso da professore ordinario, hanno deciso all’unanimità i cinque commissari – prosegue Conte –. Vedrò il servizio, se necessario preciseremo ancora in piena trasparenza”.

Sul sito del programma Mediaset si parla di “una serie di documenti inediti e clamorosi, secondo i quali Giuseppe Conte – nella vicenda del concorso all’università e del suo rapporto professionale con il maestro e mentore Guido Alpa –, non avrebbe detto tutta la verità”.

Dei rapporti con il docente universitario aveva peraltro già parlato lo stesso primo ministro nel suo curriculum vitae. I giornalisti Mediaset, tuttavia, oggi tornano sulla vicenda del concorso sostenuto da Conte nel 2002 a Caserta, nel quale uno dei commissari era proprio il professor Guido Alpa.

Nelle precedenti puntate dell’inchiesta gli autori si erano peraltro chiesti se si fosse trattato di un concorso universitario regolare “dato che un’eventuale comunanza di interessi economici tra commissario d’esame e candidato avrebbe fatto scattare l’incompatibilità di Alpa come esaminatore di Conte”.

Nella note la redazione ricorda come Conte, dal 2002 avesse aperto con Alpa un nuovo studio legale dedicandosi al diritto civile, diritto societario e fallimentare”. Nello specifico si trattava di uno studio in via Cairoli a Roma, disposto su due piani, in cui Conte occupava il piano superiore, ma aveva in realtà un unico numero di telefono e una stessa segretaria, pagata da entrambi”. Dal canto suo il premier aveva già chiarito come fossero solo “coinquilini”, trattandosi di “semplice condivisione della segreteria e del numero telefonico, ma con ben distinte attività professionali praticate in spazi diversi, ognuno avrebbe quindi pagato il rispettivo affitto separatamente. Nulla di più”. Per Le Iene mancherebbero però le prove di quanto dichiarato.

Ridotti gli obblighi anti-terremoto: pure per il Morandi

La seduta della Camera del 28 novembre scorso in cui si svolgeva la discussione sul decreto sisma, assurta agli onori della cronaca per l’incredibile promessa di matrimonio del deputato leghista Flavio Di Muro alla sua fidanzata Elisa seduta in Tribuna ospiti, serbava una scellerata decisione, passata sotto silenzio, voluta da Pd e M5S, che rischia di spazzare la via la tanto sbandierata prevenzione antisismica.

L’articolo 9 quater del provvedimento, atteso ora al voto del Senato, modifica l’art 94 bis del Dpr 380 del 2001 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di edilizia), che potremmo definire la “bibbia” per chi deve presentare le pratiche agli uffici comunali o regionali o del Genio Civile per costruire o per ristrutturare opere pubbliche e private. Grazie a questa modifica, da ora in poi anche un progetto per la ricostruzione di un’opera strategica come il ponte Morandi, o un ospedale, una scuola o una caserma dei vigili del fuoco che ricade nelle zone sismiche “3” (dal sito della Protezione Civile “in questa zona i forti terremoti sono meno probabili rispetto alle zone 1 e 2”. Meno probabili ma non si possono escludere non essendo prevedibili) non avrà più bisogno dell’autorizzazione sismica rilasciata dagli uffici preposti (genio Civile o provincie o regioni) ma basterà un semplice deposito con autocertificazione del progettista con buona pace della tanto sbandierata prevenzione delle opere pubbliche.

Tutti i progetti dei 138 comuni del cratere sismico del Centro-Italia dovevano essere sottoposti all’autorizzazione sismica, mentre ora sarà obbligatorio solo nei Comuni con accelerazione sismica maggiore di 0,20g. E come è stata calcolata l’accelerazione per ogni Comune? “I sismologi dell’Ingv hanno calcolato l’accelerazione su un teorico suolo pianeggiante e roccioso, il risultato è che nel cratere solo il 50% dei Comuni avrà bisogno dell’autorizzazione sismica in quanto ha una accelerazione maggiore a 0,20g. Questo modo di operare non tiene conto della possibile amplificazione locale dello scuotimento sismico. Un esempio? Pieve Torina e Visso, accelerazione maggiore di 0,20, hanno bisogno della autorizzazione sismica, mentre Camerino città, nonostante abbia ancora la zona rossa presidiata dai militari, interdetta all’ingresso dei cittadini, accelerazione di circa 0,19 non ne ha bisogno”, ci spiega l’ingegnere civile Roberto Di Girolamo, attento osservatore della ricostruzione post sisma 2016.

L’ingegnere ci mostra anche la lettera inviata alla deputata Patrizia Terzoni del M5S eletta nella circoscrizione Marche dopo aver letto il testo in discussoine: “Non credevo ai miei occhi, così il 23 novembre le ho scritto. Lei, il 24 novembre mi ha risposto: ‘Provo a sentire ma ora sarà molto difficile modificare quella parte’”. Tant’è che il 28 novembre il decreto è stato approvato così com’era, cioè con la norma modificata che consente la ricostruzione e la ristrutturazione di opere strategiche senza l’autorizzazione sismica del progetto da parte degli organi preposti. Se domani, Dio non voglia, dovesse crollare un’opera strategica situata in zona sismica 3, si potrebbe ricostruire senza alcuna autorizzazione sismica.

Ma da cosa nasce questa scellerata decisione? Sicuramente per quanto riguarda il cratere sismico, è stata voluta per velocizzare una ricostruzione che, a distanza di tre anni, ancora langue, con 40 mila sfollati solo nelle Marche, senza tenere conto delle nefaste conseguenze che questa modifica apporterà oltre che nel cratere sismico anche su tutto il territorio nazionale. Addirittura per il presidente della giunta regionale marchigiana, Luca Ceriscioli (Pd) si dovrebbe fare di più, tanto che ha invitato il premier Giuseppe Conte il 10 dicembre in occasione della giornata delle Marche per rappresentargli “le misure necessarie da apportare al testo approvato dalla Camera dei deputati” per “un’accelerazione della ricostruzione privata e pubblica” e spiegargli che “la norma relativa all’autocertificazione, come è stata scritta nel decreto legge, non serve a nulla, non verrà utilizzata, rimarrà tutto come oggi con tempi lunghissimi di presentazione e istruttoria dei progetti di ricostruzione”. In sintesi, una richiesta ufficiale di un maggiore alleggerimento dei controlli. D’altro canto, le elezioni sono alle porte e la ricostruzione post sisma, dopo tre anni, rappresenta una nota particolarmente dolente a fronte del grande consenso ottenuto dalla Lega alle ultime elezioni nell’area del cratere sismico.

Lads

Sapeles doloraes experferitat aut vendiscit haribus ministrum voluptatiore venecate occaboremo blabo. Nam facium lab idunt. Mi, et abo. Ut voluptatur, ut adistrum dolorem percips aperfero experumet, sedis expera doluptatur sit eumquasperi officil ea exeris re et volectum ventus, sitat alitati undi numqui optatusam lam aut rectati bearibe riorae il ius volorep udanis as doluptat pliquiatur, sunt molesequatur ad expligendi consequi doles arit, ut as aliquaeris.

L’improbabile terza via a 5stelle di Luigi di Maio

Di Maio è certamente un giovane fuori classe: senza avere alle spalle un contesto élitario, con le sue sole forze, è riuscito a mettere insieme un curriculum (vice-presidente della Camera, vice-presidente del Consiglio, Capo del Movimento, tre volte ministro) che nessun trentatreenne, salvo Gesù Cristo, potrebbe vantare. Se anche oggi abbandonasse la politica, tuttavia resterebbe nella storia del welfare italiano per avere, con caparbia intelligenza, introdotto il reddito di cittadinanza in un paese che odia i poveri: unica cosa di sinistra fatta negli ultimi venti anni.

Certamente più dotato della maggior parte dei suoi colleghi parlamentari, tuttavia Di Maio, quando da politico si fa politologo, rientra nella media e rischia di portare il suo Movimento su strade improbabili. Questo pericolo si rivela esiziale di fronte a esternazioni, per di più contraddittorie, come “non ci sono più destra e sinistra” e come “il Movimento deve percorrere una terza via”.

Per esserci una terza via ne occorrono altre due, tra le quali intrufolarsi. E queste due non sono Lega o Pd, come si può pensare sbrigativamente, ma socialdemocrazia e neo-liberismo, come avviene da quando l’antitesi al capitalismo non è più il comunismo. La caduta del muro di Berlino significò che il comunismo aveva perso ma non significò che il capitalismo aveva vinto. Infatti il comunismo sapeva distribuire la ricchezza ma non la sapeva produrre mentre il capitalismo sa produrre la ricchezza ma non la sa distribuire. Tutta qui è la differenza tra destra e sinistra: aumentare il benessere di tutti attraverso la distribuzione della ricchezza prodotta o aumentare la povertà di molti attraverso l’accaparramento da parte di pochi privilegiati. Autonomia delle regioni ricche è di destra; reddito di cittadinanza è di sinistra (e molta sinistra ha finto di non accorgersene).

Ma da dove nasce questo mito della terza via? I primi a crearlo, quando ce n’erano le ragioni strutturali, furono i socialisti utopisti come Saint-Simon, Fourier e Proudhon che si opposero con pari forza al liberismo e al marxismo elaborando alternative che spesso riuscirono a tradursi in riforme sociali e iniziative filantropiche.

Le idee e le azioni di questi “utopisti” prepararono le successive proposte di Karl Kautsky e soprattutto di Eduard Bernstein con il suo saggio del 1899 I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. Questi socialisti storici, opponendosi alla destra e alla sinistra, si proponevano di creare, attraverso un processo democratico di riforme graduali, uno Stato sociale basato sulla democrazia parlamentare, sul mercato capitalistico mitigato dal pubblico intervento regolatore e sull’equa redistribuzione del reddito. Queste idee si tradussero in modelli e pratiche squisitamente europee come le socialdemocrazie scandinave e il welfare tedesco.

Ma poiché la terza via è una via di mezzo, perciò stesso cela nella sua natura il pericolo della confusione sterile e offre alla destra la scorciatoia con cui operare un’Opa sulla sinistra. Mussolini parlava di “Terza via fascista” fatta di corporativismo, autarchia e protezionismo; il primo ministro inglese Harold Macmillan a questa idea ispirò il suo governo e, nel 1938 le dedicò un saggio intitolato La via di mezzo in cui cercava di mediare tra liberismo e dirigismo, conservatorismo e progressismo. L’economista svizzero Wilhelm Röpke, consigliere di Adenauer, ne parlò in termini di “ordoliberalismo”, con cui bilanciare l’individualismo liberale con la solidarietà collettiva. Da ultimo, dopo l’ubriacatura neoliberista di Nixon e della Thatcher negli anni Ottanta, il sociologo inglese Anthony Giddens, direttore della London School of Economics, fornì un’ennesima teorizzazione della “terza via” con il saggio del 1998 The Third Way: The Renewal of Social Democracy. Applicata da Tony Blair con il nome di new-labour, questa dottrina non gli impedì di portare a termine le privatizzazioni avviate dalla Thatcher e di condividere con il suo amico personale George W. Bush le sanguinarie operazioni di peacekeeping in Iraq.

Blair parlò esplicitamente di “terza via” in uno speech fin troppo famoso, tenuto alla New world, new capitalism Conference organizzata nel 2009 dal presidente Sarkozy e dall’economista Éric Besson. Cosa diceva Blair in quello speech? Diceva che – come ci insegna la crisi – oggi non esiste nel mondo un governo nazionale così potente da esercitare una governance globale. D’altra parte la globalizzazione è opera dei popoli: è ciò che i giovani hanno scelto di essere. Perciò occorre recuperare la fiducia nel sistema finanziario e sostenere decisamente il new capitalism. Come farlo, Blair lo spiegherà nel 2015, parlando al Think Tank Progress per mettere in guardia il Labour party da un possibile slittamento a sinistra: “Si vince al centro, si vince quando ci si rivolge a una fascia d’opinione trasversale… Abbiamo vinto quando noi siamo stati gli autori del cambiamento e non piccoli conservatori della sinistra”.

Sappiamo tutti come è andata a finire la terza via di Blair e anche quella del suo epigono italiano Matteo Renzi. Quando, alla fine degli anni Sessanta, la interclassista Democrazia Cristiana puntava con successo sulla classe media, ne aveva buoni motivi perché questa rappresentava il 49,5% in Italia mentre in Gran Bretagna era al 49,3%.Su una popolazione attiva di 28 milioni, la classe media, in forte ascesa, superava i 13 milioni.

Oggi, invece, la classe media, sempre più esigua, si proletarizza di giorno in giorno. Tra il 2007 e il 2017 il patrimonio dei sei milioni di italiani più ricchi è cresciuto del 72%; quello dei sei milioni più poveri è diminuito del 63% e quello degli italiani collocati in mezzo a questi due blocchi è diminuito del 15%. I ricchi diventano più ricchi, i poveri diventano più poveri, la classe media evapora, quel che ne resta è imbufalita e sempre più due blocchi sociali – i ricchi e i poveri – si contrappongono frontalmente.

È dunque azzardato parlare oggi di terza via: dal momento che non esiste più l’alternativa comunista e che nessuno prepara i poveri a riscattarsi con una rivoluzione, non resta che la contrapposizione riformista, ma frontale, tra neo-liberismo e socialdemocrazia. Questa contrapposizione, che ingloba quella tra Pd e Lega, colloca il Movimento 5 Stelle a sinistra perché tale è la sua natura e la sua struttura. Secondo l’Istituto Cattaneo, alle ultime elezioni il 37% degli operai, il 38% dei disoccupati, 1 iscritto alla Cgil su 3 hanno votato per i 5 Stelle. Da allora, gli elettori dei 5 Stelle simpatizzanti per la destra sono passati in gran parte con Salvini; Calenda e Renzi, neoliberisti camuffati da sinistrorsi, sono andati via dal Pd; dunque sarebbe finalmente arrivato il momento di creare a sinistra un’alleanza solida e combattiva, come richiede il bipolarismo postulato dai mutamenti socio-economici in atto. Ci sarebbero tutte le condizioni strutturali per farlo. Ma, come ho detto all’inizio, mancano quelle culturali.

Prescrizione, tutti per lo stop

In relazione alla legge Spazzacorrotti si registra una particolare tendenza, cioè che la maggioranza degli elettori di tutti i maggiori partiti (tranne Forza Italia) è a favore del blocco della prescrizione. Pertanto i favorevoli sono il 57% ed i contrari il 23%. Se si analizzano le opinioni dei singoli elettorati si evidenzia che tra i votanti Pd i favorevoli arrivano al 58% e aumentano all’80% tra i pentastellati. Anche tra gli elettori della Lega e di Fdi prevalgono quelli a favore: 51% tra chi vota Salvini e addirittura il 68% tra i simpatizzanti della Meloni. Solo tra gli azzurri le cose cambiano leggermente, nel senso che la maggioranza relativa è comunque favorevole al blocco della prescrizione ma si ferma al 41%.

È interessante notare dunque come tra i votanti i partiti dell’area di governo prevalgono nettamente i favorevoli. Questo clima di opinione spiega anche il fatto che la maggioranza dei votanti dem (53%) non condivida il comportamento di alcuni parlamentari del Pd che invece chiedono di rinviare il blocco della prescrizione auspicando di approvare con Lega e Forza Italia una nuova legge che di fatto farebbe ritornare il vecchio sistema della prescrizione. Invece i votanti di Italia Viva si dividono a metà tra chi condivide il comportamento dei parlamentari che vorrebbero rinviare il blocco della prescrizione e chi invece non lo condivide (41%).

Per quanto riguarda l’azione del Governo che prevede un aumento delle pene e la riduzione delle soglie di non punibilità per chi evade, la maggioranza esprime un’opinione positiva anche se si divide tra chi è favorevole ma solo per chi elude e non per chi dichiara ma non riesce a pagare (58%) e chi invece pensa che bisogna punire tutti, chi elude e chi non riesce a pagare (22%). Il dato che salta agli occhi è che solo il 9% si dichiara contrario ad un inasprimento delle pene. È da notare che si registra un’opinione condivisa trasversalmente dalla quota maggiore di tutti gli elettorati, indipendentemente da quelle che sono le posizioni ufficiali dei partiti di riferimento. Anche in questo caso si evidenzia un giudizio critico degli elettori dem sulle posizioni assunte da molti parlamentari democratici in riguardo all’argomento. Infatti il 68% dice di non condividere chi nel partito afferma che le “manette facili” possano creare un danno al garantismo, all’economia ed agli investimenti. Invece il 52% dei votanti il partito di Renzi condivide lo scetticismo del parlamentari di Italia Viva sulla maggiore punibilità di chi frode il fisco.

In generale, comunque, i provvedimenti fiscali del Governo sono apprezzati dagli italiani, anche se il 36% pur promuovendo Conte nota una certa timidezza, ed un ulteriore 17% che invece lo sprona a fare di più. In totale, dunque, il 53% degli italiani condivide questi provvedimenti finalizzati alla lotta all’evasione.

Invece è sulla riduzione progressiva dell’uso del contante giornaliero da 3mila a mille euro che gli italiani si dividono: il 48% non condivide questa scelta mentre il 40% la sostiene. Su questo provvedimento pesa forse la convinzione che questa misura potrebbe non essere sufficiente a combattere la grande evasione. Comunque il livello di condivisione delle leggi è il più delle volte frutto dell’efficacia della comunicazione politica e su questo tema non c’è stato un equilibrio tra gli argomenti di persuasione portati avanti dal governo e quelli dell’opposizione, a vantaggio delle tesi di quest’ultima.

*direttore dell’istituto demoscopico Noto Sondaggi

Fondazioni, la maggioranza scivola sul rinvio

E ora si ingrana la retromarcia: l’emendamento sul rinvio di un anno degli obblighi di trasparenza previsti per le fondazioni collegate ai partiti verrà depennato o riscritto dopo che sulla sua approvazione da parte dell’asse Pd-M5S-Leu è esplosa la polemica. Innescata dalle dichiarazioni al vetriolo di Matteo Renzi, da giorni sotto pressione per l’inchiesta sui finanziamenti alla “sua” Fondazione Open. E che non si è lasciato sfuggire l’occasione per mettere due dita negli occhi ai suoi stessi alleati di governo.

“Questa notte in Commissione alla Camera gli stessi che ci hanno fatto la morale sulla fondazione Open, che ha tutti i dati trasparenti e pubblica i bilanci, hanno votato per rinviare l’equiparazione tra fondazioni e partiti prevista dalla Spazzacorrotti. Di giorno fanno la morale a noi sui social, di notte votano per evitare la trasparenza alle ‘Loro’ fondazioni. E naturalmente tutto in silenzio, alla chetichella. Italia Viva ha votato contro, la maggioranza ha votato a favore”, ha denunciato Renzi. Che ha messo sulla graticola il partito di cui è stato segretario, perché a firmare l’emendamento incriminato è stato Claudio Mancini del Pd. E naturalmente i 5 Stelle che per giorni lo avevano incalzato su Open chiedendo all’ex premier di fare chiarezza.

Insomma un caso politico che ha fatto traballare la maggioranza e messo in imbarazzo i suoi due principali azionisti che hanno provato a chiudere l’incidente. “Ho presentato un emendamento alla luce del sole per rinviare l’entrata in vigore di una legge al momento inapplicabile che riguarda migliaia di associazioni. Visto che si pensa che ci siano secondi fini o obiettivi particolari, non resta che tornare in commissione e modificare il mio emendamento”, dice Mancini che il 13 novembre aveva presentato il suo testo in coda all’articolo 58 del decreto fiscale dedicato ai versamenti acconti Irpef, Ires e Irap. E che era stato dichiarato inizialmente inammissibile insieme a quello presentato da Nico Stumpo e Luca Pastorino di Leu di contenuto identico.

Poi però il deputato dem aveva fatto ricorso e il giorno dopo gli emendamenti erano stati entrambi riabilitati. Grazie alla decisione della presidenza della Commissione Finanze, affidata a Carla Ruocco del Movimento 5 Stelle. Dove ieri gli umori erano nerissimi.

Tanto che dopo l’approvazione dell’emendamento con annesse polemiche renziane, è stata fatta trapelare la posizione netta del capo politico pentastellato Luigi Di Maio. Che senza grandi giri di parole, ha bollato lo slittamento al 2021 degli obblighi a carico di fondazioni e comitati, con parole che non lasciano margini di interpretazione: “È una porcheria che va tolta, il decreto torni subito in commissione”. Caso chiuso? Non proprio. Perché tra i banchi dell’opposizione c’è chi accarezza l’idea che anche il decreto fiscale possa essere una buona occasione per dare una spallata al governo.

E nella maggioranza si naviga a vista, tra chi chiede di cancellare l’emendamento incriminato (M5S), chi vuole riformularlo (Pd e Leu) e chi come i renziani di Italia Viva vorrebbero cogliere l’occasione per rimettere in discussione anche altri aspetti del decreto fiscale, come le manette agli evasori. L’unica cosa certa è che il provvedimento scade il 25 dicembre e deve essere ancora esaminato dal Senato.

Manette agli evasori: via libera

Il via libera al dl fiscale della Commissione Finanze della Camera arriva dopo 14 ore di lavori durante i quali le manette agli evasori spaccano la maggioranza. Ad alzare le barricate è Italia Viva che non vota un testo in cui resta l’innalzamento complessivo delle pene, ma meno consistente per i reati minori attenuando gli aumenti delle pene per dichiarazione infedele e per omessa dichiarazione, con previsioni più soft sull’ordine di grandezza dei 6 mesi o di un 1 di carcere. Nessun ritocco, invece, all’innalzamento delle manette per altri reati, come quella da un massimo di 6 a 8 anni per la dichiarazione fraudolenta. Limitata a 100 mila euro di evasione la confisca per sproporzione.

Resta forte anche la contrarietà di Lega, FdI e FI che l’altro ieri notte hanno abbandonato i lavori poco prima del voto all’emendamento sul carcere agli evasori, quello della discordia che ha fatto andare su tutte le furie anche gli industriali. Confindustria ha parlato di “approccio iper-repressivo” nei confronti delle imprese: “Non è certamente questo proliferare di interventi penali, volti a criminalizzare il mondo dell’impresa, il modo corretto per combattere l’evasione e far crescere l’economia del Paese”.