L’avvocato Giuseppe e la sfinge Giggino, il lungo addio tra acronimi e Pinocchi

Mes e Cacs, single limb, sub aggregazione. Luigi Di Maio è ostaggio degli acronimi con i quali invece Giuseppe Conte inveisce allegramente contro Matteo Salvini, “resistente allo studio”. Lo fa nel modo solito, con la pochette ottimamente riposta, i capelli ordinati, la cravatta senza sbalzi e un umore che all’una, l’ora in cui si presenta alla Camera, pare solido.

È Di Maio che preoccupa, l’alleato che sembra però ex, l’amico oggi sfinge: non un segnale col capo, un cenno di approvazione, un sostegno, un sorriso. Tutt’altra storia, e altra postura, di quella che tiene Roberto Gualtieri, il ministro dell’Economia, super carico quando il premier mitraglia contro gli operai della “disinformazione”, “occultatori di verità”: “Ecco i passaggi nelle commissioni prima, terza, quattordicesima… poi ecco, le ho segnate, le date delle riunioni a palazzo Chigi sul tema, almeno quattro tra dicembre e giugno scorso, e poi, ecco, la riunione del comitato interparlamentare, ah ecco i consigli dei ministri”.

Tutti sapevano, tutti concordi, nessuno fiatò, rammenta Conte, che punge con le parole e alza di mezzo tono il volume e sembra il replay di ciò che accadde il 20 agosto scorso quando Salvini lo trascinò in Parlamento per suonarlo e rimase suonato.

L’aula ascolta in silenzio, si levano solo le braccia, che in modo disordinato Claudio Borghi, il leghista che odia più di ogni altro l’Europa e la sua moneta, si porta tra i capelli: “Vergognati, vergognati”, dice con grande sdegno.

Tutti sapevano, ripete l’uomo con la pochette. E qui il volto di Di Maio si fa terreo. Perché si intuisce che anche a lui sono dirette quelle parole, e anche lui non digerisce il Mes e tutto ciò che profuma di Bruxelles.

Il tema degli inganni ai danni dell’Italia è fuoco vivo che ancora arde nei cuori dei pentastellati. E il banco del governo oggi infatti sembra un monocolore del Pd. Conte il transformer è più di là che di qua. Più vicino a Zingaretti e soci che alla disorientata e avvilita macchina pentastellata. E il senso dello straniamento, di un vuoto tecnico che infligge al governo l’idea di essere già una composizione di separati in casa, diviene plateale al pomeriggio, quando Conte, dopo aver ascoltato le accuse di Giorgia Meloni (“questo Mes farà mettere le mani nel portafoglio degli italiani!”) si dirige al Senato, dove l’aspetta Salvini.

Il quale è sottoposto a un rapido e infruttuoso briefing da parte dei colleghi sapienti del gruppo: Romeo e Calderoli. I due sottopongono al leader in zona Cesarini un bignamino europeo. Che non coglie il senso dell’aiuto tecnico e comizia in libertà: un po’ di Europa matrigna, un po’ di risparmi degli italiani che vanno a farsi friggere se il Conte “traditore” firmerà l’accordo suicida, un po’ di Ilva defraudata, un po’ di Alitalia in ginocchio. Salvini parla dopo che Conte ha riletto, più stanco, le 26 cartelle del discorso già fatto alla Camera.

La concentrazione ne risente perchè il clima, a dispetto delle attese, appare più trasandato. E soprattutto appare incredibile che circa sessanta senatori dei Cinquestelle abbiano oggi disertato. “Vede presidente la fiducia che le manca?”, osserva Salvini. È vero. Mancano in tanti, soprattutto è sparito Di Maio, sostituito al banco dal ministro Patuanelli, che pure appare depresso…

I cinquestelle sono i senatori Malavoglia. Mentre il gruppo della Lega è tonico, ambisce a soluzioni teatrali e infatti, anche grazie alla partecipazione della presidente Casellati, realizza una gag di livello. Esibiscono un pupazzo, un Pinocchio. La Casellati, ingenua per davvero o per finta, non chiede di toglierlo di mezzo ma dice: “Vedo un Pinocchio!”. Ecco i leghisti che all’unisono alzano le braccia: “È lì, è lui”. E tutto finisce così.

“Savona riferì tutto”, poi il premier offrì le frappe al leghista

La domanda chiave la pone il senatore di Fratelli d’Italia, Adolfo Urso: “Quando ha deciso il Parlamento di dare un atto di indirizzo”? In altri termini: il governo ha trattato sulla base del mandato parlamentare come previsto dalla risoluzione del 19 giugno 2019 oppure no? La risposta viene da una fonte neutra: Emma Bonino che intervenendo a palazzo Madama fa la domanda in un altro modo: “Scusa Salvini: dove eravate? Di che cosa parlate? Vi eravate distratti?”. Il Parlamento infatti ha discusso molte volte di Mes e Conte nel sostenere fermamente di essersi comportato correttamente, le enumera minuziosamente. Alla fine ne contiamo 26 anche se non possiamo elencarle tutte. Dicembre 2019 Dopo le comunicazioni di giugno l’11 dicembre 2018 Conte comunica alle Camere “sugli sviluppi del negoziato in materia di rafforzamento dell’Unione economica e monetaria”. Interventi rilevanti non se ne registrano.

19 marzo del 2019 Anche questa volta, nonostante non sarà il tema chiave del Consiglio, Conte decide di richiamare “i temi del budget dell’Eurozona, dello schema europeo di garanzia dei depositi (il cosiddetto Edis) e degli emendamenti al Trattato sul meccanismo europeo di stabilità”. La discussione non è accesa nemmeno stavolta e il, peraltro puntuale, senatore Alberto Bagnai della Lega esordità nel suo intervento con un rilassato: “Dio è morto, Marx è morto, e anch’io non mi sento molto bene”.

19 giugno 2019 In questa sede si ha il primo vero mandato parlamentare. La risoluzione Molinari e D’Uva n. 6-00076 viene riformulata in aula dallo stesso Conte che già pensa all’approccio “pacchetto” e chiede “la valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto” e cioè il Mes, la garanzia sui depositi bancari (Edis) e il bilancio dell’area euro. Nel dibattito M5S e Lega sono nettamente contraria al Mes.

L’impegno assunto è formale, il governo assicura che si manterrà dentro le indicazioni delle Camere. E in quell’occasione il senatore Bagnai ringrazierà Conte per aver assicurato che ci sarà “l’approfondimento tecnico” che il Parlamento chiede.

Le audizioni di Tria Dopo il 19 giugno il Parlamento discute ancora di Mes il 4 luglio, con l’audizione di Giovanni Tria alle Commissioni riunite Bilancio e Finanze. Radio Radicale, ieri mattina, ha rimandato un brano di questa audizione dove gli esponenti di Lega e Fratelli d’Italia non sollevano alcuna questione “vitale”.

Il 31 luglio 2019 Tria interviene di nuovo il 31 luglio rispondendo a un’interrogazione a risposta immediata presentata dal deputato leghista Claudio Borghi, ribadendo che “nei prossimi mesi si dovrà seguire un approccio complessivo in una logica di pacchetto”. Anche in questo caso, Borghi non si fa saltare in aria. Tria invia la bozza di riforma del Mes ai presidenti delle Camere, con lettera del 9 agosto, ma ormai siamo al Papeete.

La Relazione Savona Incalzando ancora Salvini, il premier ricorda anche la “Relazione sull’attività dell’Italia in Europa” presentata dall’ex ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, il 27 febbraio 2019. In quella relazione si legge che “l’Eurosummit del 14 dicembre ha sostanzialmente approvato quanto deciso dall’Eurogruppo del 3 dicembre” in merito al Fondo di risoluzione unico sui salvataggi bancari. Il 27 febbraio l’archivio dell’Ansa ricorda di una “cena cordiale” tra Di Maio-Conte-Salvini con il premier che ha offerto un vassoio di frappe.

La sintesi di GaravagliaQuando la Relazione verrà discussa in Parlamento, il battagliero Borghi si limiterà a chiedere di sospendere tutto in attesa del voto per il Parlamento europeo e il sottosegretario leghista, Massimo Garavaglia gestirà la “sintesi” finora trovata nel governo.

26 occasioni perse Abbiamo contato almeno 15 passaggi parlamentari tralasciando i meno importanti e Conte ha fatto riferimento ad almeno 11 tra riunioni tecniche interministeriali. Matteo Salvini non ha ribattuto nemmeno a uno di questi.

L’audizione Gualtieri Il vero punto di attacco riguarda l’audizione alle Camere del 27 novembre da parte di Roberto Gualtieri: “Non ci sono margini di modifica del Mes” ha detto il ministro dell’Economia. La prova che tutto è stato fatto “alle spalle degli italiani”. Ma Conte anche su questo assicura: “Valuteremo all’esito del negoziato” lasciando intendere che ci sono lievi margini di riformabilità delle clausole di azione collettiva. Nel pomeriggio “fonti Ue” hanno assicurato due mesi di ulteriore negoziato e Angela Merkel apre qualche spiraglio. Per tenere in piedi il governo potrebbe bastare.

Conte vs. Salvini e Di Maio Il Mes fa scoppiare il M5S

Alle sette della sera di un lunedì che sembra una porta sulla fine, e dopo due informative alle Camere su quel Mes che la porta l’ha spalancata, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si decide a citare Luigi Di Maio. Cioè il ministro degli Esteri e capo politico dei Cinque Stelle, che a Montecitorio si siede alla sua sinistra e lo ascolta, immobile, e invece a Palazzo Madama no, neanche si fa vedere. “Di Maio ha espresso delle criticità sul Mes per conto del Movimento ma in un negoziato così complesso è pienamente comprensibile” assicura Conte. Ma i discorsi alle Aule erano contro di lui? “Assolutamente no” giura per forza il presidente. Così gli chiedevano di dire gli sherpa di Palazzo Chigi e Farnesina, palazzi che sono fronti contrapposti. E c’è tutta, quella distanza, nelle informative a Camera e Senato del premier che, certo, con la sua valanga di parole (26 pagine) demolisce innanzitutto il solito nemico, Matteo Salvini. “La disinvoltura e la resistenza a studiare i dossier di Salvini mi sono ben note” morde subito.

Però il bersaglio più rumoroso è quello di cui Conte non fa nome e cognome, quel Di Maio che gli siede accanto. “Alle riunioni sul fondo salva stati ministri e viceministri c’erano” ricorda il premier, sciorinando date e passaggi. Alla sua destra il ministro dell’Economia, il dem Roberto Gualtieri, annuisce: alla sua sinistra Di Maio pare di sale. Perché tra i ministri che non rammentano c’è pure lui, ex vicepremier. Anche se Conte se la prende prima di tutto con l’opposizione: “Sta dando prova di scarsa cultura delle regole e mancanza di rispetto per le istituzioni”.

Ma dà una sberla anche al M5S, quando afferma che il Mes è “a vantaggio di tutti”. E saluti al capo del M5S, che da giorni lo ripete: “Sull’accordo c’è molto da rivedere, va migliorato”. Logico che a Di Maio non piaccia il discorso di Conte. E a Palazzo Chigi i suoi lo fanno sapere in tempo reale. Tanto che si discute di una correzione, ossia dell’inserire qualche parola a favore del capo e dei 5Stelle nel discorso a Palazzo Madama. Però non è usanza modificare l’informativa nel passaggio da una Camera all’altra. E forse l’avvocato non ha voglia di farlo. Di certo ci sono le facce scure dei grillini. “Così com’è per noi il Mes è invotabile, il rinvio è il minimo sindacale” ringhia il deputato Raphael Raduzzi, uno dei due 5Stelle che voleva presentare una mozione contro il vecchio fondo salva stati.

L’altro è l’ex sindaco di Mira, Alvise Maniero: “Mi accusano di essere filo-leghista, ma è una sciocchezza. La verità è che noi siamo sempre stati contro il Mes”. Qualche metro più in là, un paio di grillini di governo: “Conte e Di Maio ormai nelle riunioni si parlano tramite battute, hanno fatto così domenica”. Cioè nel vertice di maggioranza che è andato male, più o meno come il dialogo tra i Palazzi a 5Stelle. Così alle 15 in Senato Di Maio non si fa vedere. E assieme a lui marcano visita un bel po’ di grillini, 35. “Se il governo può cadere sul Mes? Magari…” scandisce Gianluigi Paragone. Attorno a lui, volti da tutti a casa. “Se dobbiamo continuare così forse è meglio chiudere ora” sibila un veterano. Stanco, grosso modo come il Dario Franceschini che ascolta con aria plumbea Conte dai banchi del governo. Un altro frammento che dice molto. Invece il senatore romano Emanuele Dessì si schiera: “Il merito di questa vicenda si può discutere, ma il metodo è ineccepibile, ed è quello di Conte”. In Aula il premier ripete la sua verità, ma poi arriva Salvini, in facile contropiede: “Condivido le richieste del gruppo M5S, vogliamo capire”. Un bacio al cianuro, o magari no. Perché il sospetto che riemerge tra i dem è che Di Maio e Salvini abbiano tanta voglia di riabbracciarsi.

Un cattivo pensiero che ritorna anche tra i 5Stelle (un auspicio, per alcuni), mentre Salvini infierisce: “Presidente, guardi quanti banchi vuoti nella maggioranza, io mi preoccuperei”. Conte però ha un’altra urgenza, rassicurare Di Maio. Così ecco le frasi serali, a cui segue la replica del capo politico: “Il premier ha messo a tacere le falsità diffuse dalle opposizioni, e abbiamo apprezzato la posizione circa la logica di pacchetto come richiesto ieri al vertice di maggioranza dal M5S”. E comunque la riforma “presenta criticità evidenti”.

Per questo, Di Maio riunisce i suoi ministri e dà mandato ai capigruppo e alla sottosegretaria agli Affari europei Laura Agea di lavorare alla risoluzione sul Mes, da presentare in Parlamento l’11 dicembre come documento di tutta la maggioranza. Ma sarà maledettamente complicato. Per Di Maio, per i 5Stelle e per tutto il governo, quello di Conte.

L’Eurocazzaro

Ce ne vorrebbe uno al giorno, di confronto Conte-Salvini in Parlamento, per far capire agli italiani da chi sono governati oggi e da chi rischiano di esserlo domani. Da una parte una persona seria e competente. Dall’altro un caso umano in stato confusionale. Ieri, alla Camera e al Senato, si è visto un premier che sa ciò che dice e conosce le materie che tratta. E un aspirante successore che palesemente denota “disinvoltura a restituire la verità e resistenza a studiare i dossier”. Conte ha puntualmente ricostruito l’iter del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), il costante coinvolgimento del Parlamento e dei ministri dei suoi due governi fin da quando, il 27 giugno 2018, appena arrivato, il premier riferì le proposte della Commissione europea. E nessuno fece una piega. Due giorni dopo, al vertice Ue, Conte propose modifiche alla bozza del Mes e l’11 dicembre tornò a riferirne alle Camere: nessun’obiezione neppure allora. Ne riparlò al Parlamento il 19 marzo, vigilia del Consiglio europeo. E di nuovo il 19 giugno, prima dell’Eurosummit decisivo. Lì perfino il leghista No Euro Alberto Bagnai gli fece i complimenti: “Mi permetta, signor Presidente del Consiglio, di ringraziarla per il fatto che lei, in applicazione di questa norma e in completa coerenza con quel principio di centralità del Parlamento, fin dal primo giorno, affermò in questa sede di voler rispettare, sia venuto ad annunciarci che questo approfondimento tecnico ci sarà”.

Intanto anche i ministri direttamente interessati, da Tria a Savona, riferivano infinite volte in Parlamento, in aula e nelle commissioni (a partire da quelle presiedute dai leghisti anti-Ue Borghi & Bagnai). E anche lì tutti muti. Per non parlare dei sette fra vertici di maggioranza e riunioni tecnico-politiche e dei cinque Consigli dei ministri convocati da Conte sul Mes o su vari temi fra cui il Mes: lì c’erano sempre il vicepremier Salvini e i suoi ministri, viceministri e sottosegretari: gli stessi che accusano il premier di aver fatto tutto di nascosto, di notte, a loro insaputa. Che facevano? Pensavano che il Mes fosse un vermouth? Dormivano? Si facevano piedino? Twittavano? Postavano su Facebook e su Instagram? Giocavano con l’iPhone? Guardavano porno sull’iPad? Se questi cialtroni straparlassero al bar o al Papeete, poco male: nessuno ne pagherebbe le conseguenze. Invece parlano ai media e in Parlamento: sono settimane che chiedono le dimissioni del premier (Salvini, già che c’è, anche l’“arresto per alto tradimento”, reato che può commettere solo il presidente della Repubblica) e scatenano risse e gazzarre in Parlamento.

Così quelle immagini e quegli sproloqui fanno il giro del mondo, screditano l’Italia e contribuiscono al rialzo dello spread, dopo mesi di bonaccia. E le conseguenze le paghiamo tutti noi. Questo è il vero, unico alto tradimento. O aggiotaggio, come suggerisce Monti. Quando Conte ha concluso il suo intervento ha parlato – anzi, ha ruttato – Salvini. Ci si attendeva che estraesse un formidabile asso dalla manica per inchiodare definitivamente il premier al suo alto tradimento e condurlo dritto e filato a Regina Coeli. Invece, come il 20 agosto – nel dibattito sulla crisi del mojito, come sempre – non aveva nulla di nulla. Nè nella manica, né nella testa.

Dopo aver calunniato Conte per giorni e giorni e mentre gli intimava di “vergognarsi” non si sa per cosa, il Cazzaro Verde si è travestito da linosotis simbolo di “umiltà” che cita Confucio senza sapere chi sia e – bontà sua – “non replica agli insulti” e “non fa querele” (solo a noi, nove in tre anni: tutte perse) perchè uso a “rispondere col lavoro”. Non avendo mai lavorato un minuto in vita sua. Si vedeva chiaramente che non ha la più pallida idea del Mes. Infatti ha attaccato un comiziaccio da bar sull’Ilva e l’Alitalia, che non c’entrano una mazza e che la Lega ha sul groppone per i suoi 10 anni al governo su 25 (il quintuplo di Conte). Poi è passato alle barzellette. Tipo questa: “Le banche in difficoltà sono in Germania, non in Italia” (ciao, core). O quella sulla raccolta firme di domenica prossima in “mille piazze d’Italia” (e perchè non centomila?) per “abrogare il Mes” (che non è stato ancora firmato e comunque non può essere abrogato) e “denunciare i papà e le mamme del trattato” (fra gli applausi dei suoi giannizzeri beotamente ghignanti, anch’essi padri e madri del Mes a loro insaputa).

In un paese normale, un politico ridotto a una figura tanto barbina si scaverebbe una fossa, ci si ficcherebbe dentro, chiuderebbe il tombino e ne uscirebbe fra quattro o cinque anni, sperando nella memoria corta della gente. Invece siamo in Italia, dunque il Cazzaro e i suoi simili continueranno a blaterare come se fossero dei politici, e non dei soggetti inabili al governo e anche al lavoro. Come quando Salvini accusò Conte di conflitto d’interessi sul caso Fiber 4.0-Retelit, poi si scoprì che il premier s’era astenuto e aveva deciso Salvini. O quandointimò al sottosegretario Spadafora di “rendere più veloci le adozioni”, poi Conte gli svelò che la delega sulle adozioni l’aveva il suo ministro Fontana. O quando accusò i giallo-rosa di aver bocciato un emendamento leghista al decreto Fiscale che prorogava le esenzioni dall’Imu agli immobili inagibili per il terremoto, poi si scoprì che era nel decreto Sisma appena approvato alla Camera. O quando strillò contro il Conte2 che imponeva ai sindaci di pignorare il conto in banca a chi “non riesce a pagare una multa”, poi si scoprì che era una balla. In questi casi, si dice che uno non c’era o, se c’era, dormiva. Il guaio di Salvini è che c’è quasi sempre, e bello sveglio. Ma purtroppo non studia, o non capisce. Dargli del cazzaro non è un insulto: è pura cronaca.

La mobilità green fa rima con flotte

Non serve esprimere giudizi quando basta valutare gli effetti. La potenziale stretta fiscale sulle auto aziendali può avere motivazioni di equilibrio politico nei conti, ma non ha giustificazioni tecniche in uno scenario dove il noleggio sta facendo da volano dell’innovazione verso motorizzazioni più sostenibili. Tutto questo in un panorama con scorci desolanti. Nel nostro Paese le auto aziendali hanno oggi un ciclo di vita di 4 anni, che stride con la media dell’intero parco circolante, il più inquinante e meno sicuro d’Europa. Secondo gli ultimi dati disponibili elaborati dal Centro Studi e Statistiche Unrae, il 31,3% su un totale di 38.190.000 vetture circolanti, ovvero 12 milioni di auto, risponde a normative precedenti all’Euro 4, quindi con più di 14 anni di età. Sconcertante che il 56% delle auto abbia comunque più di dieci anni. Di fatto, il sistema noleggio produce meno di due terzi di monossido di carbonio, meno 50% di ossido di azoto e -70% di idrocarburi incombusti, ed è una valutazione ricavata badando alle motorizzazioni più moderne a benzina e gasolio, ma la domanda del mercato sta virando con sempre maggiore decisione verso quelle ibride e poi elettriche, con un beneficio destinato ulteriormente a salire. L’elettrificazione in questo settore è una formula che spalanca l’orizzonte delle smart cities, ovvero i nuovi ecosistemi urbani dove la gestione delle risorse e delle esigenze di movimento deve essere amministrato con attenzione all’energia e ai costi. La flotta a noleggio è digitalizzata, ogni singola vettura gestita a distanza, la connettività diffusa permette di realizzare già ora un Internet delle auto in cui la localizzazione è solo uno dei tasselli. In ballo ci sono alert diagnostici in tempo reale e l’analisi dello stile di guida per renderlo più ecologico. Più compatibile con le limitazioni alla circolazione, in definitiva più solido come investimento perchè diverso come percorso.

Del resto, la considerazione dei dati sul primo semestre 2019 racconta di un calo sostanziale della richiesta di auto diesel anche nel settore delle flotte aziendali a noleggio. Dopo un 2018 che aveva registrato addirittura un aumento dell’1%, nei primi sei mesi dell’anno il gasolio ha visto ridursi la propria quota di quasi 10 punti percentuali, dal 75,5% al 66,2%.

Formalmente a beneficiarne sono stati quasi esclusivamente i motori a benzina, passati al 16,4% al 25%, ma è solida anche la tendenza costruita dalle vetture ibride, con 8.300 unità e +9% rispetto allo stesso periodo del 2018, mentre l’elettrico segna quasi 1.500 auto, cioè un +42% che equivale al sorpasso sul metano, fermo a 1.000 unità e -32%.

Una conferma piuttosto analitica è arrivata poi nelle scorse settimane dal rapporto “Mobilità alla spina 2019: l’auto elettrica e ibrida nelle flotte aziendali”, promossa da Top Thousand, l’Osservatorio sulla mobilità aziendale. Una ricerca che ha preso come campione di 100 aziende appartenenti a diversi settori e per un totale di oltre 85.000 di cui il 90% in noleggio a lungo termine.

Le flotte sono ancora basate sul diesel, ma quel che conta è un dato statistico quasi sconvolgente rispetto ai normali termini di avvicendamento delle tecnologie nel mercato automobilistico. Il 40% delle aziende coinvolte nello studio intende aumentare il numero di questi veicoli in flotta, con prospettive di crescita esponenziali e indirizzate nettamente verso le full hybrid, svincolate da qualsiasi necessità di ricarica elettrica esterna come richiesto alla plug in hybrid, che invece scontano la situazione precaria delle infrastrutture energetiche stradali nel nostro paese. Ma anche su questo fronte il noleggio sta facendo da volano dell’innovazione, scavalcando le limitazioni che vengono dall’assenza di iniziative del sistema paese. Rispetto al 2018, si registra una crescita di 10 punti percentuali (dal 46% al 56%) delle imprese che hanno installato soluzioni di ricarica presso la propria sede e di ben il 20 punti (dal 63% all’84%) di quelle che hanno stipulato accordi con le utilities dell’energia.

L’ecosistema ad emissioni zero ha avuto bisogno di un tempo maggiore per costruire i i suoi tasselli, e le auto elettriche aziendali sono cresciute dallo 0,5% del 2016 all’1,5% del 2019, ma nei prossimi 12 mesi il 22% delle aziende pianifica già un aumento dei modelli in uso. Non per motivazioni politiche, ma avendo valutato gli effetti.

L’auto a noleggio. Successo del “tutto compreso”

“Pay per use, un concetto commerciale che interessa sempre più anche il mondo della mobilità. E anche in Italia sta crescendo il gradimento per le soluzioni di noleggio a lungo termine dell’auto. Ne è complice l’incertezza economica, che ha spinto le aziende a prolungare i contratti in essere – anche ben oltre i tradizionali 36 mesi – e a immatricolare vetture meno costose. Tuttavia, è bene sottolineare come l’estensione delle durate contrattuali rappresenta un’opzione cui le aziende, anche in passato, hanno fatto ricorso per rinviare nuovi investimenti e ridurre i costi complessivi della flotta. Su questa scelta ha pesato certamente il clima di incertezza economica e politico.

Sono i dati del mercato italiano delle quattro ruote a confermare il successo del noleggio: nel periodo gennaio-ottobre 2019, la quota di quello a lungo termine è cresciuta di mezzo punto percentuale rispetto al 2018, attestandosi al 14,5% del totale e conta 236 mila vetture (+2,5%), a fronte di immatricolazioni in calo (-1%). Sicché, nei primi sei mesi del 2019, il noleggio a lungo termine ha quasi raggiunto il traguardo del milione di veicoli in flotta superando un giro d’affari di 3 miliardi di euro. Lo sostiene Aniasa, l’associazione di Confindustria che rappresenta il settore dei servizi di mobilità.

Nel primo semestre 2019 è cresciuto pure il canale dei privati che abbandonano la proprietà per il renting, superando la soglia dei 52 mila contratti di noleggio. Numeri ancora esigui in senso assoluto ma rappresentativi se si considera che negli ultimi due anni i suddetti contratti erano la metà (25.000 nel 2017). Costo fisso e pacchetti all inclusive stanno determinando il successo della formula. Il volano di questo sprint sono, soprattutto, i giovani under 35 che vogliono avere a disposizione l’auto quando serve più che possederla. Infatti, in questa fascia d’età, nella decade 2007-2017, le vendite sono crollate del 60%.

Il contraltare è il car sharing, che oggi conta due milioni di iscritti. Trend legato alla cosiddetta subscription economy, che evita all’utente di investire soldi in un bene a rapida svalutazione, come l’automobile e permette di minimizzare le uscite nell’immediato, conservando quindi una maggiore liquidità. Infine, il canone include bollo, assicurazione, manutenzione ordinaria e straordinaria e assistenza stradale. La formula del “senza pensieri” che piace sempre di più.

Come osserva il presidente Aniasa, Massimiliano Archiapatti, “il noleggio si conferma cartina di tornasole dell’economia nazionale e segnala un raffreddamento delle aspettative di crescita, evidenziato dal ritorno all’estensione dei contratti in essere, scelta già adottata dalle aziende nel periodo più duro della crisi economica. I dati relativi alla prima metà dell’anno confermano, però, anche il trend che vede sempre più imprese e privati abbandonare la proprietà e passare all’uso dei veicoli attraverso le diverse soluzioni di mobilità offerte dal noleggio e dal car sharing”.

Collegato alla crescita dei privati spicca il dato di significativo aumento delle utilitarie, 42.000 veicoli (+17% e una quota che supera il 25% del totale immatricolato a noleggio), a fronte di un calo complessivo di tutti gli altri segmenti, in particolare delle medie-superiori (35.000 e -13%). Per quanto concerne le alimentazioni, continua a perdere il diesel che, però, resta di gran lunga quella “regina” del long term: nel primo semestre ha visto ridurre la propria quota di quasi 10 punti percentuali (dal 75,5% al 66,2% del totale immatricolato).

A beneficiare della picchiata sono stati quasi esclusivamente i motori a benzina (passati al 16,4% al 25%). Tutte in crescita le alimentazioni alternative: 8.300 le vetture ibride (+9% contro lo stesso periodo del 2018), 3.400 le Gpl (+19%), mentre l’elettrico (quasi 1.500 auto e +42%) ha superato il metano, in calo (1.000 unità e -32%).

In testa alla top ten delle auto più noleggiate a lungo termine si conferma la Fiat Panda, seguita da Renault Clio, Lancia Ypsilon, Fiat 500X e Jeep Renegade.

“Per aumentare la sicurezza sulle strade e contenere l’impatto in termini di emissioni” (tutti i modelli a nolo sono Euro 6, a basse emissioni), conclude Archiapatti, “auspichiamo che proprio la mobilità condivisa possa essere uno dei driver individuati dal governo per la diffusione di nuovi modelli di mobilità sostenibile all’interno del green new deal e nella prossima legge di Bilancio”.

Misteriosa è la donna Rebus difficile come la versione di latino

Delle donne non sai mai niente fino a che non senti una fitta in un punto compreso fra lo stomaco e il cuore.

Quella fitta ti avverte che sta accadendo qualcosa, che ti stanno lanciando un segnale, qualcosa di indecifrabile, da decodificare, ma che ha il sapore delle cose mostruosamente belle, di quelle meravigliosamente dolorose.

Delle sole cose incredibilmente aderenti alla tua emotività, al ritmo del tuo cuore. Alla tua vita.

Ricordo che al liceo la regola da tenere a mente per le versioni di Latino era che andavano capite dal contesto, non potevi tradurre in modo letterale o usando semplicemente il dizionario che, infatti, era consentito, perché non ti bastava per capire. Serviva metodo. Serviva studio e applicazione. Serviva impegno e costanza. Serviva intuito e cuore. Serviva dolcezza e poesia. E poi serviva pure un po’ di culo.

Ecco, le donne sono come le più belle, sofisticate e complesse versioni di Latino, devi capirle dal contesto. Devi aprire il cuore e chiudere gli occhi. Devi lasciarti travolgere da qualcosa che non sai che nome abbia, come si chiami, ma che riconoscerai comunque subito per quel senso di bellezza e eccitazione.

Devi smetterla con questa ossessione di etichettare qualunque cosa, di definire e stigmatizzare quella parte di vita che non riesci a controllare. Devi sapere che dopo che le loro parole sono state depositate nell’etere, tu devi iniziare a chiederti perché.

Perché le ha dette, perché non ha detto quelle che non ha detto? Cosa c’era dentro e dietro quello sguardo? Cosa c’era in quella luce magica emanata da suoi occhi?

E se alla domanda “come stai?” risponde convinta, decisa: “Tutto bene”.

Ecco, è il momento di prenderle la mano, di spegnere la luce, di abbracciarla, di farla sentire al sicuro, perché no, non va tutto bene, perché alle domande banali si risponde in modo banale, ma dentro un abbraccio che sa di casa, non serve domandare, non serve rispondere, non serve parlare, è tutto lì, in quelle parole non dette, in quei silenzi che ci parlano dei vuoti che non sappiamo colmare.

In quel senso di fragilità che non potrà mai essere spiegato con quattro frasette buttate lì.

In quel bisogno di essere compresi, capiti. Accolti.

Ecco, io delle donne so questo, so che quando cala il silenzio, devi guardarle negli occhi, perché quella è la tua unica occasione di felicità. Quella è la tua unica occasione di capire, di parlare davvero con loro.

Di raccontarvi tutto quello che non vi eravate mai raccontati.

Nudi.

Mano nella mano.

Senza maschere.

Senza muri o sovrastrutture.

Senza guerra.

Senza gara.

Senza dire una sola parola.

*Scrittore

L’Avvento del superfluo va a ruba: la mania del calendario di Natale

Era nato con un semplice, ammirevole scopo: scandire il desiderio dei più piccoli verso l’arrivo del Natale cristiano, facendo il conto alle rovescia con un gessetto, sulle pareti o per terra. Poi un editore tedesco, nei primi nel Novecento, s’inventò un vero e proprio calendario di cartone, con 24 finestrelle simboleggianti le varie scene del Natale e culminanti, il giorno della Vigilia, nell’immagine della Natalità. E tanto bastava per placare l’eccitazione dei bambini, che si svegliavano la mattina solo per aprire la casellina. Per molto tempo è andata avanti così, anche da noi: fino a poco tempo fa questi calendari li trovavi nelle polverose librerie cattoliche a pochi euro. Ma i bambini meno credenti non potevano restare senza, così il calendario dell’Avvento si è popolato di Babbi Natale e villaggi sulla neve. Poi però si è pensato che fosse troppo scandaloso che i bambini dovessero aspettare i 24 giorni precedenti il Natale senza alcun regalo, così si è cominciato a creare caselline-box, dove mettere cioccolatini, inizialmente, poi regalini simbolici: un pennarello, una figurina, un biscotto. Ma come sopportare l’insostenibile sofferenza di un bambino di fronte a un solo pennarello? Ed ecco dunque 24 regali veri e propri, sia pure di dimensione inferiore a quelli del Natale: calzini, macchinine, libri, tutto per “reggere” l’attesa dei regali “veri”. Ci fossimo fermati qui, sarebbe stato già troppo. Fiutando l’incredibile opportunità di vendere altri 24 regali ai genitori dei bambini oltre quelli del Natale, le aziende hanno reso il calendario dell’Avvento un assurdo format, dove semplicemente si vende lo stesso, qualsiasi oggetto di sempre, purché ci sia un vago ricordo delle 24 caselle. E allora ecco i calendari dell’Avvento zuccherati – Ferrero, Haribo, m&ms, Nestlé – il calendario dell’Avvento dei Playmobil declinato in qualunque versione (Bosco degli Animali, Fattoria etc), il calendario di Lego Star Wars, quello di Harry Potter (anche Limited edition), quello di Cars Disney, Frozen, Barbie (con 24 scomparti per accessori moda): ogni marchio praticamente ne ha uno.

Ma perché limitarsi ai bambini? E infatti il calendario dell’Avvento è diventato per tutti: si va dalle birre alle tisane, ma vanno forte soprattutto i calendari “in versione beauty”. Da L’Oréal a Lancôme, da Sephora a L’Occitane, per fare solo alcuni esempi, è corsa ai cofanetti con 24 prodotti di bellezza e tante tipologie di prezzo, che possono arrivare a oltre 200 euro. Nessun problema, perché i calendari dell’Avvento vanno a ruba, fanno tanto Natale. Ora, che senso abbia sostituire l’antico rituale dell’attesa della nascita di Gesù col mettersi una crema al giorno o aggiungere un accessorio a una bambola non è dato saperlo. Di sicuro, il passaggio tra un segno per terra con un gessetto e il calendario con 24 smalti per i nail art addict è la dimostrazione che il filosofo Giambattista Vico aveva ragione. La storia ha corsi e ricorsi, altro che progresso lineare. Si può regredire, oh sì.

Serie A, doppio Titanic in vista

Avete presente l’orchestra del Titanic che in pieno naufragio, dopo la collisione della nave con un iceberg, continuò a suonare e lo fece fino all’ultimo nell’intento di contenere il più possibile il panico dei passeggeri? Ebbene, se ci passate l’immagine è un po’ quel che sta succedendo oggi, a un secolo di distanza, nel mare mosso del calcio italiano; dove il pericolo di colare a picco, per la bagnarola di Fifa e Lega sempre più allo sbando, è sotto gli occhi di tutti. Con la differenza che mentre i musicisti del Titanic non smisero mai di suonare per eroismo (morirono tutti e solo di tre venne recuperato il corpo), il carrozzone del pallone minaccia di sprofondare tra le sviolinate dei media che suonano a più non posso non per circoscrivere lo spavento, ma per distrarre dal pericolo dello schianto, per nasconderlo.

Per chi non lo sapesse, oggi 2 dicembre si giocano a Torino e a Milano due partite senza pallone che non avranno particolare seguito e non accenderanno liti e polemiche tra tifoserie; partite però delicatissime, entrambe spie del rovinoso malessere che mina la salute del calcio di casa nostra. A Torino si apre per i soci della Juventus la possibilità, valida fino al 18/12, di aderire o meno alla proposta di aumento di capitale di 300 milioni, il più alto mai disposto nella storia dei club di calcio, resosi necessario perchè – a dirlo è la stessa Juventus nel prospetto postato nel suo sito – solo nel penultimo trimestre, quello che va dal 30/6 al 30/9 2019, il club di Agnelli ha accumulato 110,4 milioni di debiti portando il suo indebitamento da 473,2 milioni a 585,2 milioni.

Il club, si legge, “presenta una situazione di tensione finanziaria non disponendo di capitale circolante sufficiente a far fronte al proprio fabbisogno finanziario complessivo” che nei prossimi 12 mesi è “stimato in 148 milioni”. L’ingaggio di Ronaldo si sta rivelando in questo senso un vero bagno di sangue cui hanno fatto seguito follie come l’acquisto di De Ligt (75 milioni all’Ajax, 11 a Raiola e 11 lordi al giocatore per 5 anni) e il ritorno di Higuain che tra ingaggio e ammortamento costa ogni anno 35,3 milioni. Detto che Exor, la cassa di famiglia, sottoscriverà la quota di sua pertinenza (63,77%) pari a 191,2 milioni, i dubbi che la quota residua (108,7 milioni) venga coperta dai soci di minoranza sono altissimi: la Juve si è infatti tutelata con un contratto di garanzia sottoscritto con quattro banche, tra cui Unicredit. Il prospetto dice papale papale che metà dell’aumento servirà per rimborsare debiti e far fronte a impegni già assunti. Tutto bene? Vedete un po’ voi.

Sempre oggi i venti presidenti dei club di serie A si scontreranno a Milano nella guerra per la vendita dei diritti-tv. Come più volte abbiamo avuto modo di scrivere, lo stato pietoso in cui versa il calcio italiano ha comportato, nell’ultima stagione, un crollo di audience pazzesco: -31% (per Business Insider sono spariti 1,15 milioni di abbonati). Un’emorragia drammatica e quasi mortale considerando che tra razzismo, brogli, arbitri telecomandati e squilibrio dei ricavi la serie A è diventata ormai una barzelletta. I piccoli club vogliono i soldi in più che offre Mediapro, Juventus & friends sono per lo status quo: Sky e narrazione da Istituto Luce, quella che ha contribuito a far scappare la gente a gambe levate. Auguri e figli maschi.

Caos Serie A: ecco le trame dei padroni del pallone

La tregua è durata un anno e mezzo. Adesso il pallone italiano è di nuovo nel caos. Dietro le dimissioni del presidente della Serie A Gaetano Miccichè c’è una lotta di potere, e di interessi economici: in ballo i governi dello sport e almeno tre miliardi di euro, quelli dei diritti tv della Serie A per il triennio 2021-2024. Un affare che manda avanti l’intero carrozzone, e su cui è in atto uno scontro fra chi vuole fare il canale della Serie A (con l’aiuto degli spagnoli di MediaPro, ma togliendo il business a Sky), e chi invece preferisce continuare con la pay-tv. Con lo stallo fra gli schieramenti, qualcuno ha deciso di sganciare una bomba sulla Lega. L’esplosione, però, è incontrollabile.

La Serie A è rimasta senza guida ed è già pronto un piano per modificare lo statuto e rimpiazzare anche la figura dell’amministratore delegato con un “comitato esecutivo” fatto dagli stessi presidenti delle squadre. In piena trattativa sui diritti tv, con all’orizzonte anche le elezioni della FederCalcio, guerra totale fra i padroni del pallone: ognuno persegue le sue mire, più o meno segrete. Il rischio è che alla fine restino solo macerie.

Enrico Preziosi. In ogni giallo che si rispetti l’assassino è sempre il maggiordomo. Il presidente del Genoa ci sta bene in questi panni: è stato lui, con le sue dichiarazioni, a sollevare il caso dell’elezione irregolare di Miccichè. Preziosi, però, non si muove quasi mai da solo. Se lui è il “sicario”, chi è il mandante?

Gabriele Gravina. Il presidente Figc negli ultimi tempi ha parlato spesso della Lega, di quanto avrebbe bisogno di riforme. Chissà che non possa provarci lui, ora che è rimasta senza guida: per il momento invierà un fiduciario per convocare nuove elezioni, se non dovesse bastare potrebbe proprio commissariare la Lega (e cambiarne lo statuto). L’ultimo che ha tentato di prendersi il pallone (Malagò) ne è uscito con le ossa rotte. Ma Gravina ha già detto che non farà lui il commissario. Negli ultimi tempi non ha sbagliato una mossa: grazie ai successi della nazionale (per l’opinione pubblica conta solo questo), una gestione moderna e una fitta rete di contatti e consiglieri, in questo momento è il vero uomo forte del pallone.

Luigi De Siervo. È arrivato da Infront per guidare l’anarchica Serie A e trovare un’alternativa al mercato in crisi delle pay-tv, a partire dal canale della Lega. L’impresa però si sta rivelando più difficile del previsto. Dopo l’uscita di Miccichè resta solo lui nel mirino di chi vuol fare piazza pulita del governo della Lega: ha tre mesi di tempo per riportare l’ordine altrimenti il commissariamento metterà in discussione anche lui. La sua presenza è ingombrante, il suo posto (con tanto potere e un ricco stipendio) fa gola.

Claudio Lotito. È il padrone del caos: nella confusione si muove come nessuno. Per lui le dimissioni di Miccichè sono soprattutto un’opportunità per alzare la posta: un’altra elezione da gestire, nuove occasioni di accordi e alleanze. Da capo delle fazioni medio-piccole, chiedeva più soldi dai diritti tv e spingeva per Mediapro. Ora gioca col commissariamento: con il nuovo “comitato esecutivo” da manovrare potrebbe riprendersi la Lega, altro che manager esterni. Dovranno trattare tutti con lui. Come sempre.

Gaetano Miccichè. Un anno e mezzo di presidenza non indimenticabile: ha gestito la partita sui diritti tv vinta da Sky-Dazn, non ha mai sgombrato il campo sui suoi possibili conflitti d’interesse, da consigliere Rcs e presidente di Banca Imi. Il complotto che lo ha impallinato, però, lo ha quasi riabilitato: le “plurime irregolarità” (come le ha chiamate il procuratore Pecoraro) ricadono su chi le ha commesse e non su di lui. Tanto che ora qualcuno lo rivorrebbe presidente.

Giovanni Malagò. Era lui il vero obiettivo dell’inchiesta su Miccichè: chi l’ha innescata voleva colpire soprattutto il n.1 del Coni, che guidò quell’assemblea, e ne ha la responsabilità (sicuramente morale, chissà se giudiziaria). Veleni che provengono dal passato, dal disastroso commissariamento del calcio e dall’ultimo anno di guerra al governo per la riforma di Sport e Salute. Dopo aver provato a prendersi tutto e aver perso tanto, è costretto a difendersi.

Urbano Cairo. Un anno fa era tra i sostenitori del canale della Lega, poi all’improvviso ha cambiato idea. Il presidente-editore ha deciso di diventare leader delle “big” in Lega (ma il suo Torino lo è?) e si è messo di traverso al progetto di Mediapro. In fondo lo sbarco degli spagnoli aprirebbe in Italia un altro fronte editoriale. E poi il modo in cui è stato impallinato il “suo” consigliere Miccichè non gli è piaciuto per nulla: affila le armi.

Andrea Agnelli. Proiettato nella dimensione di leader del football europeo, il suo sogno è creare la SuperLega, che proprio nei governi del pallone italiani ha incontrato forti resistenze. Questo non significa che si disinteressi delle vicende nostrane: c’era anche il suo zampino nella famigerata elezione di Miccichè. Quanto alla tv, la sua Juve e le big hanno sempre avuto un buon rapporto con Sky: perché cambiare.

Cosimo Sibilia. Il capo dell’impero dei Dilettanti, n. 2 Figc, aspira a diventarne presidente al prossimo giro, come da accordi presi alle ultime elezioni. Nel calcio, però, le promesse se le porta via il vento: anche lui non ha passato mesi tranquilli, per la squalifica del suo revisore De Luca (che ad alcuni è suonata come un avvertimento politico). Adesso si tiene lontano dagli intrighi tra Lega e Figc, aspetta modi e tempi giusti per reclamare ciò che gli spetta.

Marco Bogarelli. Il mago dei diritti tv non ha incarichi ufficiali nel pallone italiano, eppure lo si incontra sempre più spesso allo stadio o nei palazzi che contano. Era uscito dal mondo del pallone per l’inchiesta (archiviata) su Infront, dopo essere rientrato dalla finestra della Serie C di Gravina ora sogna il ritorno in grande stile: c’è la sua preziosa consulenza dietro l’offerta degli spagnoli di MediaPro. Una rivoluzione. E dalla rivoluzione nasce la guerra.