Mes e Cacs, single limb, sub aggregazione. Luigi Di Maio è ostaggio degli acronimi con i quali invece Giuseppe Conte inveisce allegramente contro Matteo Salvini, “resistente allo studio”. Lo fa nel modo solito, con la pochette ottimamente riposta, i capelli ordinati, la cravatta senza sbalzi e un umore che all’una, l’ora in cui si presenta alla Camera, pare solido.
È Di Maio che preoccupa, l’alleato che sembra però ex, l’amico oggi sfinge: non un segnale col capo, un cenno di approvazione, un sostegno, un sorriso. Tutt’altra storia, e altra postura, di quella che tiene Roberto Gualtieri, il ministro dell’Economia, super carico quando il premier mitraglia contro gli operai della “disinformazione”, “occultatori di verità”: “Ecco i passaggi nelle commissioni prima, terza, quattordicesima… poi ecco, le ho segnate, le date delle riunioni a palazzo Chigi sul tema, almeno quattro tra dicembre e giugno scorso, e poi, ecco, la riunione del comitato interparlamentare, ah ecco i consigli dei ministri”.
Tutti sapevano, tutti concordi, nessuno fiatò, rammenta Conte, che punge con le parole e alza di mezzo tono il volume e sembra il replay di ciò che accadde il 20 agosto scorso quando Salvini lo trascinò in Parlamento per suonarlo e rimase suonato.
L’aula ascolta in silenzio, si levano solo le braccia, che in modo disordinato Claudio Borghi, il leghista che odia più di ogni altro l’Europa e la sua moneta, si porta tra i capelli: “Vergognati, vergognati”, dice con grande sdegno.
Tutti sapevano, ripete l’uomo con la pochette. E qui il volto di Di Maio si fa terreo. Perché si intuisce che anche a lui sono dirette quelle parole, e anche lui non digerisce il Mes e tutto ciò che profuma di Bruxelles.
Il tema degli inganni ai danni dell’Italia è fuoco vivo che ancora arde nei cuori dei pentastellati. E il banco del governo oggi infatti sembra un monocolore del Pd. Conte il transformer è più di là che di qua. Più vicino a Zingaretti e soci che alla disorientata e avvilita macchina pentastellata. E il senso dello straniamento, di un vuoto tecnico che infligge al governo l’idea di essere già una composizione di separati in casa, diviene plateale al pomeriggio, quando Conte, dopo aver ascoltato le accuse di Giorgia Meloni (“questo Mes farà mettere le mani nel portafoglio degli italiani!”) si dirige al Senato, dove l’aspetta Salvini.
Il quale è sottoposto a un rapido e infruttuoso briefing da parte dei colleghi sapienti del gruppo: Romeo e Calderoli. I due sottopongono al leader in zona Cesarini un bignamino europeo. Che non coglie il senso dell’aiuto tecnico e comizia in libertà: un po’ di Europa matrigna, un po’ di risparmi degli italiani che vanno a farsi friggere se il Conte “traditore” firmerà l’accordo suicida, un po’ di Ilva defraudata, un po’ di Alitalia in ginocchio. Salvini parla dopo che Conte ha riletto, più stanco, le 26 cartelle del discorso già fatto alla Camera.
La concentrazione ne risente perchè il clima, a dispetto delle attese, appare più trasandato. E soprattutto appare incredibile che circa sessanta senatori dei Cinquestelle abbiano oggi disertato. “Vede presidente la fiducia che le manca?”, osserva Salvini. È vero. Mancano in tanti, soprattutto è sparito Di Maio, sostituito al banco dal ministro Patuanelli, che pure appare depresso…
I cinquestelle sono i senatori Malavoglia. Mentre il gruppo della Lega è tonico, ambisce a soluzioni teatrali e infatti, anche grazie alla partecipazione della presidente Casellati, realizza una gag di livello. Esibiscono un pupazzo, un Pinocchio. La Casellati, ingenua per davvero o per finta, non chiede di toglierlo di mezzo ma dice: “Vedo un Pinocchio!”. Ecco i leghisti che all’unisono alzano le braccia: “È lì, è lui”. E tutto finisce così.