Caos Haïti, quando il paradiso diventa un vero inferno

Non si passeggia più a Port-au-Prince, un tempo considerata la più bella città dei Caraibi. Ormai ci si affretta soltanto da una parte all’altra della metropoli, che conta più di 2,5 milioni di abitanti: a parte alcuni quartieri, caos e insicurezza infatti non risparmiano nessuno. L’omicidio di una coppia di francesi, domenica 24 novembre, illustra in modo sinistro l’atmosfera pesante che si respira nella capitale haitiana. A questo riguardo, l’ambasciata di Francia a Port-au-Prince ha fornito solo una manciata di informazioni lunedì scorso. Le circostanze dell’omicidio e il movente degli assassini non sono stati precisati. La coppia era arrivata ad Haïti per adottare un bambino nell’ambito di una procedura gestita dall’Afa, l’Agenzia francese per l’adozione. L’uomo e la donna, di una quarantina d’anni, sarebbero stati uccisi poco dopo essere sbarcati dall’aereo, mentre si trovavano davanti ad un albergo di Delmas, grande e popolare sobborgo della città. Un tentativo di furto e di aggressione sarebbe sfociato nel duplice omicidio.

Intere zone nelle mani delle bande criminali

Da diversi mesi, Delmas è in mano alle bande che, poco alla volta, dai quartieri del sud stanno cercando di espandersi anche in altre zone. Un quartiere sicuro un giorno può diventare pericoloso il giorno dopo. La polizia è assente e mal equipaggiata. La stessa domenica, sono stati ritrovati morti anche un ufficiale di polizia a Pétion-Ville, un giovane, ucciso a colpi di arma da fuoco nel centro della città. Stessa sorte per Charlot Jeudy, uno dei simboli della liberazione omosessuale ad Haiti.

Per più di due mesi, la città è stata bloccata dalla popolazione che si è mobilitata in massa per chiedere le dimissioni del presidente Jovenel Moïse. Nelle strade non ci si muoveva più tra barricate, pneumatici in fiamme e tonnellate di fatras, un miscuglio di immondizia, terra e brecciolino che invade la città durante la stagione delle piogge. Come già nei mesi di agosto e febbraio, e nel novembre 2018, l’appello, lanciato il 15 settembre scorso, è stato: Country lòk, “Paese bloccato”. “Per dieci giorni non sono riuscito a andare più lontano della strada dove vivo. Nemmeno le moto-taxi (il principale mezzo di trasporto a Port-au-Prince, ndr) sono riuscite ad attraversare i posti di blocco”, ha detto Pierre-Michel, uno studente del quartiere chic di Turgeau.

Le manifestazioni si sono trasformate in guerriglia, con scontri tra polizia e bande criminali. “La situazione era quasi insurrezionale qui e nel resto del paese. Port-au-Prince era una città fantasma”, osserva Altidor, un negoziante dell’avenue Christophe. Da un paio di settimane, la tensione si è allentata. I venditori di tutto e di niente, le cuoche di strada e gli artigiani senza bottega sono tornati sui marciapiedi. I maiali rovistano tra le pile di rifiuti, le capre pascolano nei giardini delle case in rovina o rasate al suolo dal terremoto del 12 gennaio 2010. Anche le guardie sono tornate a brandire i loro fucili all’ingresso delle banche, dei distributori di benzina, dei ristoranti di lusso, degli alberghi e dei supermercati. Alcuni quartieri della Capitale hanno ritrovato una parvenza di normalità. “L’insicurezza e il forte degrado socioeconomico fragilizzano il movimento”, osserva Etzer Émile. Il giovane economista è autore del saggio Haiti ha scelto di diventare un paese povero, in cui denuncia le élite predatrici che hanno divorato il paese. È anche uno dei migliaia petrochallengers che, dall’agosto 2018, denunciano la corruzione legata al programma PetroCaribe e che sono all’origine della rivolta contro il potere. Port-au-Prince è asfiassata dall’indifferenza e dall’impotenza delle autorità. Il presidente Moïse finge di impegnarsi in discussioni per formare un nuovo “governo di unione nazionale”, come richiesto dagli Stati Uniti. I partiti dell’opposizione pongono come condizione le dimissioni del capo dello Stato e alcuni di loro hanno creato una piattaforma comune per organizzare la transizione. Ma le contrattazioni di una classe politica in cui non si crede più e i pochi giorni di tregua non implicano che la crisi sia finita. Le condizioni di vita degli abitanti della capitale restano infernali. Le scuole non hanno potuto riaprire a settembre. Anche i licei e le università sono rimasti chiusi. Milioni di bambini e giovani aspettano. Dal momento che il sistema scolastico è privato al 95%, la grande maggioranza degli insegnanti non può essere remunerata. Molti ospedali denunciano la mancanza di mezzi. Negli Stati Uniti si è parlato molto di recente dei 3 mila malati gravi accolti a bordo della nave-ospedale americana inviata a Port-au-Prince. Solo l’ospedale universitario della capitale, la più grande struttura sanitaria del paese, ha ripreso l’attività da alcune settimane. “Dopo le richieste di aiuto lanciate a metà settembre, il ministero ci ha fornito carburante, acqua e ossigeno. I pazienti ritornano e noi lavoriamo meglio – osserva la direttrice generale dell’ospedale, Jessy Adrien Colimon – Gli edifici sono fatiscenti. È una condizione transitoria che ormai dura dal terremoto del 2010”.

Il nuovo ospedale attende da anni, ma il cantiere è fermo

I cartelli annunciano il nuovo ospedale moderno di Port-au-Prince: “Fine lavori: marzo 2018”. Ma il cantiere è rimasto fermo per mesi e i quasi due anni di ritardo accumulati potrebbero diventare molti di più. Per Jessy Adrien Colimon il problema principale però sono “le risorse umane”. I 1.200 dipendenti dell’ospedale subiscono, come tutti, gli effetti della delinquenza quotidiana. “Molti dei nostri dipendenti vivono lontano e le strade sono spesso bloccate. Non si può programmare nulla, si vive alla giornata”, aggiunge. Le radio locali hanno persino creato una nuova rubrica, “Attraversare le strade”: “Alle cinque-sei del mattino, tutti la ascoltano”, afferma Fritz Alphonse, che vive a Carrefour, un quartiere di 500 mila abitanti nella periferia sud di Port-au-Prince. Stamattina Alphonse è riuscito a raggiungere il centro, attraversando il quartiere di Martissant, dove le bande hanno installato dei pedaggi e imprivvisano blocchi. “A volte i capi banda chiamano le radio, dicono se aprono o chiudono i blocchi e se bisogna pagare. È molto pericoloso”, aggiunge. Qualche giorno fa un autobus è stato accerchiato da una banda armata, i passeggeri sono stati derubati ed è stato chiesto un riscatto di 3 mila dollari per restituire l’autobus. I camion che arrivano carichi di prodotti dalla campagna vengono sequestrati. Tutto ciò che si può prendere viene preso. “Arrivo a un primo posto di blocco in moto-taxi, poi continuo a piedi, passo un altro posto di blocco e poi riprendo una moto-taxi, e così via”, racconta Alphonse. Spesso bisogna pagare: 25 o 50 gourde (25 o 50 centesimi di euro) a ogni passaggio. Bisogna poi sperare che non scoppi una sparatoria lungo il percorso.

La situazione è la stessa nei quartieri nord della capitale. Elizabeth vive a Croix-des-Bouquets, un comune di 250 mila abitanti alla porta nord-ovest di Port-au-Prince. Stamattina ci ha messo quattro ore per raggiungere il centro e non sa come farà per rientrare. I “tap-taps”, i furgoncini che fungono da trasporto pubblico, esitano a effettuare le corse. “È molto, molto difficile – dice Elizabeth -, non sappiamo mai cosa può succedere. Lavoro spesso al municipio di Cité Soleil, ma sono riuscita ad andare raramente in questi ultimi mesi. Le persone hanno paura, l’insicurezza è generale, può succedere qualunque cosa ai posti di blocco”. La strada che porta a Delmas, un’arteria strategica che attraversa tutta la città, è regolarmente bloccata. Persino la giustizia è paralizzata da due mesi: il tribunale, la corte d’appello, la procura della Repubblica e l’ordine degli avvocati si trovano nel sud della città, trasformato da anni in una vasta bidonville che si estende lungo il boulevard Jean-Jacques-Dessalines. Le bande hanno il controllo della zona e vietano l’accesso alle istituzioni giudiziarie. Una sparatoria è scoppiata l’altra settimana davanti al palazzo della procura all’avvicinarsi di un veicolo blindato della polizia con a bordo degli uomini d’affari convocati dai giudici. Nelle vie adiacenti e verso il quartiere del Bicentenaire, dove negozietti e botteghe si ammucchiano in un indescrivibile caos, tra calcinacci e fratas, gli abitanti spiegano che, se si devono raggiungere le istituzioni giudiziarie, bisogna arrivare molto presto la mattina e andare via prima di mezzogiorno. “Niente scuola, niente sanità, niente giustizia. Le bande sono armate meglio della polizia e le autorità, a loro volta coinvolte in massacri della popolazione, lasciano correre”, sottolinea Marie Rosy Auguste della Rete nazionale per la difesa dei diritti umani.

I massacri di La Saline del 13 novembre 2018 e quelli di Bel Air dello scorso novembre, in cui sono rimasti coinvolti dei membri della famiglia del presidente, hanno terrorizzato la popolazione. I giornali locali parlano di “miseria subumana” per descrivere la situazione della stragrande maggioranza della popolazione di Port-au-Prince.

L’assenza dello Stato, la mancanza di quasi tutti i servizi pubblici, la criminalità dilagante, il collasso economico dovuto a più di 18 mesi di proteste, non sembrano destabilizzare Jovenel Moïse. Nelle ultime settimane, il presidente ha anche comprato i servizi di una società specializzata in comunicazione di crisi e di una compagnia di mercenari privati ben armati, compresi quelli della società americana Blackwater, come ha scritto il senatore Youri Latortue in una lettera rivelata da uno dei suoi oppositori.

Il gourde, la moneta haitiana, ha perso il 30% del suo valore dall’inizio dell’anno. La crescita debole degli ultimi anni (1%) si è trasformata in recessione. L’inflazione, ora al 20%, rischia di salire ancora di più e i prezzi degli alimenti di base stanno esplodendo. Il governo, con il sostegno della comunità internazionale, sembra compiacersi di questa politica dall’impatto disastroso. La catastrofe che si prepara, pensano le autorità, farà dimenticare lo stato di incuria generale in cui versa il paese e i miliardi di dollari che negli anni sono stati rubati.

 

Idrogeno, l’opzione energetica green per decarbonizzare

L’idrogeno può contribuire a frenare il riscaldamento globale e alla decarbonizzazione del sistema energetico. Per usare questo gas, entro il 2050 i 28 Stati membri della Ue dovrebbero investire grandi somme ma potrebbero creare 5,4 milioni di posti di lavoro. Sempre che Bruxelles, come promette la nuova presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, intenda davvero cambiare il modo in cui la Ue crea, distribuisce e consuma energia.

Lo sostiene lo studio Hydrogen Roadmap Europe, presentato a gennaio da 17 aziende e organizzazioni tra le quali Air Liquide, Bmw, Michelin, Total, Toyota Motor Europe (ma nessuna italiana). L’idrogeno non è l’unica leva per la decarbonizzazione ma “è una leva essenziale tra una serie di altre tecnologie” in quanto “rende possibile integrare su larga scala le energie rinnovabili perché consente di convertire e immagazzinare energia come gas rinnovabile. Può essere usato per distribuire energia e come mediatore per le energie rinnovabili”.

Secondo l’analisi, la transizione all’idrogeno è in linea con le preferenze e la convenienza dei clienti. Attraverso le pile a combustibile (fuel cell) nei trasporti l’idrogeno è un’opzione per decarbonizzare veicoli pesanti come i camion e le navi, perché offre la stessa autonomia e la stessa velocità di rifornimento dei veicoli a motore a combustione. Entro il 2050, l’idrogeno potrebbe anche essere usato per produrre combustibili sintetici (sinfuel) per il trasporto aereo e marittimo, rappresentando tra il 20% e il 50% della domanda di energia nei trasporti. Nell’industria l’idrogeno verrà usato principalmente per produrre acciaio e come materia prima. Un fronte sul quale l’Italia ha fatto la storia: a inizio dell’anno il pastificio Orogiallo di Contursi Terme, in provincia di Salerno, ha prodotto la sua pasta usando una miscela di idrogeno e gas naturale iniettata nella rete di trasmissione del gas italiano. L’idrogeno potrebbe poi servire per lo stoccaggio a lungo termine di energia: nel 2050, fino al 15% dell’elettricità prodotta verrà prima trasformata in idrogeno e riconvertita in elettricità quando necessario.

Nel riscaldamento, si possono miscelare idrogeno o metano sintetico rendendo la transizione “invisibile” per i consumatori. L’idrogeno potrebbe sostituire fino al 50% del metano, raggiungendo circa il 15% dell’energia totale usata negli edifici iniettandolo nella rete esistente del metano (fino al 10% del volume) e convertendo completamente le reti esistenti all’idrogeno. Un passaggio successivo al 100% di idrogeno richiederà invece il potenziamento di apparecchiature e tubazioni, ma lascerà intatta l’attuale infrastruttura di riscaldamento degli edifici. Nella maggior parte degli scenari, nel 2050 l’idrogeno e i carburanti derivati potranno rappresentare dal 10% al 23% dei consumi finali di energia della Ue.

Produrre la quantità necessaria di gas richiederà una quantità di acqua pari a un terzo di quella consumata oggi nel settore energetico. A seconda del modo in cui verrà prodotto, l’idrogeno “verde” (ottenuto con le energie rinnovabili) consumerà anche elettricità “pulita” pari all’80% della produzione totale odierna o, in alternativa, una quantità di metano equivalente al 45% dei consumi attuali, il che obbligherebbe però a catturare ogni anno 460 milioni di tonnellate di CO2 e ad immagazzinarla in circa 150 impianti di stoccaggio. Nel primo caso, saranno necessari investimenti fino a 410 miliardi di euro negli impianti di elettrolisi (produzione di idrogeno dall’acqua) oltre a 1.300 miliardi investiti nelle tecnologie di alimentazione. Nel secondo caso, saranno necessari investimenti fino a 140 miliardi, principalmente attraverso impianti per catturare e immagazzinare il carbonio (Ccs), mentre il costo del gas naturale dal quale sintetizzarlo sarebbe di 47 miliardi l’anno (ai prezzi attuali). Ma dalla diffusione dell’idrogeno entro il 2050 l’Unione potrebbe creare 5,4 milioni di posti di lavoro, il triplo degli occupati attuali nell’industria chimica europea.

Clima, solo pochi paesi rispettano gli impegni

Nonostante i continui vertici sul clima – si apre proprio oggi a Madrid, la Conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici, la Cop25 -, nonostante i dibattiti, gli scioperi, le svolte green delle aziende, i comportamenti più virtuosi dei singoli, le dichiarazioni dei politici ai vari summit climatici, la realtà è brutale: le emissioni dei gas serra continuano inesorabilmente a crescere, anzi hanno toccato il loro picco massimo degli ultimi 800.000 anni. In altre parole, il nostro continua ad essere un comportamento business as usual, la definizione che gli scienziati climatologi usano nelle loro proiezioni per indicare scenari nei quali nessun intervento di contrasto al cambiamento climatico viene fatto. Il che significa, per il pianeta e per noi, ondate di calore, stress idrico, innalzamento del livello del mare, danno agli ecosistemi marini e terrestri. E la causa principale di tutto ciò è soprattutto una: l’uso dei combustibili fossili.

A mettere nero su bianco questo dato sono due rapporti scientifici usciti in questi giorni: il Greenhouse Gas Bulletin, redatto dall’Organizzazione Metereologica Mondiale (Wmo) e l’Emission Gap Report 2019, a cura dell’Unep (United Nations Environment Programme). Il rapporto del Wmo riguarda non solo il totale delle emissioni – che hanno raggiunto il record di 55,3 giga tonnellate di CO2 nel 2018 – quanto la concentrazione dei gas nell’atmosfera, cioè quelli che restano dopo le complesse interazioni tra atmosfera, oceani, foreste e suolo (questi ultimi tre assorbono circa la metà delle emissioni). Per avere un’idea della crescita, basti pensare che la prima rilevazione fatta nel 1958 dava un risultato di 315 parti per milione di CO2, l’ultima, nel 2018, di 407,8 parti per milione, 147% del livello preindustriale.

Ma non è solo la CO2 ad aumentare. Anche le concentrazioni di metano – provenienti da agricoltura, allevamenti, fonti fossili, biomasse – hanno raggiunto i massimi livelli negli ultimi dieci anni, con un picco di 1869 parti per miliardo nel 2018 (259% dei livelli preindustriali). E poi c’è il protossido di azoto, emesso per il 60% da cause umane, tra cui fertilizzanti e processi industriali, la cui concentrazione atmosferica nel 2018 è stata di 331.1 parti per miliardo, il 123% del livello preindustriale. Gli esperti misurano anche le emissioni prodotto dal cosiddetto “Land Use Change” (LUC), quelle causate cioè dal cambio di uso di suolo: anch’esse in crescita, a causa della crescente deforestazione. “Purtroppo se pure ci sono misure importanti prese da molti stati o da singole città, movimenti dal basso e province virtuose, ai fini del cambiamento conta solo la somma totale. Non sono un catastrofista, ma ogni emissione è un’occasione persa”, spiega Massimo Tavoni, Professore del Politecnico di Milano e Direttore presso il Cmcc dello European Institute on the Economics and the Environment. E proprio la crescita delle emissioni è sempre stata la (giusta) ossessione della giovane Greta Thunberg, tra l’altro arrivata alla conferenza di Madrid in barca dagli Stati Uniti. Nell’aprile scorso, in Senato Usa, disse: “Tanta gente importante si congratula con me, ma non so di cosa si congratuli. Milioni di studenti hanno scioperato per il clima, e nulla è cambiato, le emissioni continuano come prima. La natura è interessata solo ai gas serra immessi nell’atmosfera. Le emissioni devono fermarsi”.

A certificare che gli obblighi previsti per il rispetto dell’Accordo di Parigi, che impegnava 195 paesi a contenere la temperatura ben sotto i due gradi entro il 2100, non bastano è anche il rapporto dell’Unep, l’Emission Gap Report 2019, che misura proprio la distanza tra gli obiettivi prefissi per fermare il riscaldamento globale e la realtà attuale. Il Rapporto misura ogni anno di quanto sarebbe necessario tagliare le emissioni per limitare l’aumento delle temperature: ad oggi, per evitare un innalzamento di oltre tre gradi – 3,2 – bisognerebbe tagliare le emissioni del 7,6% ogni anno nel prossimo decennio. Per fare questo, gli impegni dei vari stati, cosiddetti Ndc (Nationally Determined contributions) che sono al centro dell’accordo di Parigi, dovrebbero essere aumentati di almeno cinque volte se si vuole restare sotto il grado e mezzo di aumento e di tre volte per restare entro i due gradi. E gli investimenti necessari dovrebbero essere di 1600-3800 milioni di dollari tra il 2020 e il 2050. Ogni anno che passa fa aumentare il livello di sforzo necessario, e già ad oggi parliamo di obiettivi quasi impraticabili a meno di un’inversione di rotta quasi epocale.

Ma quali sono i paesi che producono più emissioni? I paesi del G20 rappresentano il 78% per cento delle emissioni globali. Sette di loro non hanno ancora messo in atto politiche per raggiungere gli attuali Ncd: Stati Uniti, Australia, Brasile – le cui proiezioni sono state riviste a causa delle recente deforestazione – Canada, Giappone, Corea del Sud, Sudafrica. Ancora indietro sono Corea, Indonesia, Argentina, Arabia Saudita e Turchia. La Cina, pure fortemente impegnata nel rispetto degli impegni di Parigi, resta ad oggi il più grande emettitore mondiale (ma le emissioni pro capite di un cittadino europeo sono più alte di quelle di un cinese, se si calcola il massiccio export). “C’era da aspettarsi che alcuni paesi come Cina e India, ma anche alcuni stati africani, crescessero in termini di emissioni; quello che si cerca di fare è arrivare rapidamente al picco in modo che nei prossimi anni ci siano poi consistenti riduzioni”, spiega Stefano Caserini, titolare del corso di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. “I paesi di più antica industrializzazione devono assumersi una leadership in questa riduzione; noi europei, anche se abbiamo ridotto le emissioni, abbiamo molte più responsabilità e dobbiamo cercare di convincere gli altri paesi a venirci dietro”. Il paradosso, nota il rapporto Onu, è che le soluzioni ci sarebbero e sono sempre più a portata di mano; elettrificazione dei trasporti e decarbonizzazione dell’economia, riforestazione e arresto della deforestazione, energia solare ed eolica. Solo l’abolizione dei sussidi ai combustibili fossili produrrebbe una riduzione del 10% delle emissioni. Una cosa è sicura: il mondo non può perdere un altro decennio. “Non abbiamo tempo per aspettare una trasformazione culturale”, conclude Caserini. “È il momento di cominciare a discutere come rendere la transizione competitiva e senza costi sociali e diminuire le emissioni subito. E in questo vanno coinvolte tutte le forza politiche, destra compresa, perché la battaglia sul clima non ha colore politico, è una questione di sopravvivenza per molte persone e molti territori”.

False separazioni & C., i nuovi furbetti del fisco e del mattone

Quando gli italiani hanno a che fare con le tasse e con la casa danno sempre ampia prova di creatività con l’evidente scopo di aggirare il fisco. È il caso del fenomeno piuttosto radicato delle separazioni simulate che, secondo stime elaborate negli scorsi anni dal centro studi dell’Ami (l’associazione avvocati matrimonialisti), arriva a rappresentare il 7% di tutte le separazioni consensuali che si richiedono in Italia. Si tratta, nel dettaglio, di 6.400 separazioni sulle oltre 91.000 del 2018 (erano, ad esempio, 89.303 nel 2014) per i più svariati scopi: si va da chi cerca di ottenere l’assegno sociale, chi vuole pagare qualcosa in meno di tasse, chi punta a comprarsi la seconda casa con le agevolazioni previste per la prima o chi non vuole più pagare l’Imu e la Tasi della casa al mare o in montagna. Senza contare i vantaggi che si possono ottenere in determinate graduatorie, come quelle per l’assegnazione di una casa popolare o dell’agognato posto all’asilo nido. La separazione fa, infatti, venire meno il cumulo dei redditi e questo determina sgravi fiscali importanti, come la riduzione del costo delle tasse universitarie per i figli e i ticket sanitari. E i costi per i furbetti sono addirittura irrisori: per ottenere la separazione consensuale – che è quella scelta da oltre l’82% delle coppie – si spendono meno di 500 euro.

Poca spesa, massima resa e pochissime possibilità di essere scoperti dal momento che i giudici non hanno poteri per verificare la simulazione di una separazione. E anche la guardia di finanza o l’Agenzia delle Entrate non hanno i mezzi sufficienti per effettuare controlli nei confronti di queste coppie che, se scoperte a stare sotto lo stesso tetto, potrebbero sempre dichiarare di essersi riconciliati da poco. Come spiega l’Ami, infatti, “la separazione non scioglie il matrimonio, ma lo sospende. I coniugi separati restano comunque ancora sposati e possono tornare insieme senza dover nemmeno informare il tribunale o il fisco. I furbi delle separazioni per finta non verranno così mai scoperti e, se scoperti, sarà difficile riuscire a sanzionarli”.

“La separazione porta di sicuro un immediato e più significativo vantaggio nel caso in cui si posseggano due case che, diventando entrambe prime case, faranno venire meno l’obbligo del pagamento dell’Imu e della Tasi”, ha spiegato chiaramente un paio di anni fa l’Istituto nazionale esperti contabili. Ovviamente è necessario spostare la residenza perché ciò avvenga. Nel caso di una coppia sposata monoreddito alto, la separazione può essere vantaggiosa anche quando il coniuge che non lavora riceve l’assegno di mantenimento. Assegno che va dichiarato da entrambe le parti e che avrà effetti sull’aliquota marginale abbassandola, visto che può essere dedotto dal conteggio delle tasse.

Ed anche se dal 2015 la riforma dell’Isee, cioè l’Indicatore della Situazione economica equivalente, ha fatto diminuire i vantaggi sul fronte fiscale e dei bonus sociali – l’Isee dei genitori, anche se separati, si cumula comunque quando si tratta dei figli e quindi per tasse universitarie, mense scolastiche, rette di nido o scuola materna – restano comunque i vantaggi nelle graduatorie delle scuole e magari anche sul posto di lavoro. Inoltre un reddito più basso equivale a un assegno di mantenimento di importo minore del coniuge con il reddito del più ricco consentendogli così un risparmio fiscale. Tanto che una finta separazione consensuale potrebbe portare a far risparmiare a una coppia con un reddito medio alto (80-100 mila euro l’anno per il marito libero professionista e capofamiglia con moglie casalinga o lavoratrice part time), fino a 7 mila euro l’anno di Irpef con un assegno di mantenimento, accordato alla moglie, di 3.000 euro al mese.

Nella partita dei furbetti del mattoncino che si ingegnano per ottenere benefici fiscali, rientrano poi anche i genitori che decidono di intestare un immobile al figlio minore, non tanto per garantirgli un gruzzolo, quanto appunto per risparmiare sulle tasse. Detto che per procedere all’operazione serve l’autorizzazione del giudice tutelare (si tratta di un atto di amministrazione straordinaria in favore del minore il cui via libera può essere richiesto direttamente dal notaio, oppure al tribunale come atto di volontaria giurisdizione), è possibile per i genitori usufruire da subito dei benefici per l’acquisto della prima casa anche se possiedano già degli altri immobili.

Meglio ricordare che chi si separa in modo fittizio commette un reato che, nel caso di comportamenti finalizzati all’evasione fiscale, può configurare una truffa ai danni dello Stato, e può portare a pene detentive fino a 5 anni di reclusione.

Cinema follia Un film su me ma senza me

Un giovane e intraprendente regista ha deciso di fare un film su di me. Sì, avete capito bene un film che racconta la mia vita, la storia di una ballerina che diventa attrice, tra mille difficoltà, mille problemi, una che si chiama con il mio nome, insomma io. Bah, da non crederci! Invece è vero, un film tutto su di me. C’è solo un piccolo dettaglio: per interpretare la mia parte, insomma per fare me, non prende me! “Ma come?” gli ho detto un po’ alterata, “questa sono io, è la mia vita. Hai preso mia madre a fare la parte di mia madre, mio padre a fare mio padre, mia sorella fa se stessa e l’unica che non c’è sono io! Per giunta il film si gira a casa mia e il set è il mio salotto. I miei amici sono i miei veri amici, tutti scritturati, e io non sono io, cioè per fare me prendi un’altra? Io capisco che il cinema ha le sue regole, ma qui stiamo esagerando” – “Vedi ti spiego” ribatte il regista, “tu sei tu lo capisco, ma qui mi serve un’attrice che al tempo stesso sia fuori e dentro al personaggio e che gli somigli di più!” – “Tu vuoi dire che io non mi somiglio abbastanza?” – “Certo tu sei uguale, ma al tempo stesso non lo sei. Prediamo i capelli…” – “Cosa non va nei miei capelli?” – “Niente sono perfetti, ma ho bisogno di altri capelli!” – “Diversi?” – “No uguali, però non i tuoi!” – “Ah capisco, anzi non capisco e per curiosità tutto il resto, come la faccia e il corpo?“ – “Tutto uguale, però… però… appartenente a un’altra!” – “Ah, quindi una sosia?” – “Esatto! Io prendo te, però senza prendere te. Questo è cinema! È un’operazione intellettuale, meta-cinematografica. Guarda che anche il produttore è d’accordo!” – “Allora fai una bella cosa, di’ al produttore di mettere i soldi e poi di farsi sostituire, e per la regia metti pure il tuo nome, però falla fare a un altro. Non sei abbastanza regista, sei un meta-regista, ma tutto-cretino”.

 

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Memorie di Salò: generali italiani “spietati e razzisti”

Gianluca Falanga è uno storico e ricercatore che vive a Berlino e lavora sull’esplorare e riportare in luce fatti e personaggi che hanno lasciato un segno nella seconda guerra mondiale, specialmente lungo l’asse (che era anche una definizione politica e uno slogan di propaganda) dei rapporti fra Italia e Germania, mentre erano alleati e uniti in una tragica guerra.

Il libro di Falanga “Storia di un diplomatico” (Editore Viella) ritrova un percorso, un personaggio e una serie di eventi che hanno avuto un ruolo e un’importanza cruciale nella guerra fascista, specialmente quando quella guerra era diventata un’avventura dominata dalla strategia dei comandi tedeschi e dalla sottomissione di Mussolini a Hitler, prima ancora delle squallide e crudeli vicende di Salò. Il sottotitolo del libro spiega: “Luca Pietromarchi al Regio Ministero degli Affari Esteri.1923-1945”. Ma le date non chiariscono che gli ultimi due anni sono stati vissuti dall’ambasciatore Pietromarchi in clandestinità, e che dopo una breve sospensione (Pietromarchi era un importante personaggio del periodo fascista, sottoposto per questo a epurazione) ha ripreso la carriera diplomatica, inviato come ambasciatore, nominato da De Gasperi,prima in Turchia e poi in Russia (URSS), incarico per il quale è ancora ricordato in molte biografie e molto giornalismo dell’epoca (Curzio Malaparte) come un intellettuale che aveva capito prima e più di altri l’URSS dopo Stalin.

In questo libro, come nella realtà che qui è stata ricomposta da storie che avrebbero potuto andare perdute, si scopre che l’ambasciatore Pietromarchi ha vissuto tre vite. Nella prima, a causa delle sue straordinarie capacità di capire e di organizzare, diventa un leader di fiducia al quale vengono affidate missioni impossibili e riuscite, sempre guidate dalla speranza di evitare la guerra. Nella seconda è tra le persone più vicine all’allora ministro degli Esteri Ciano, che diffida dei tedeschi e cerca di evitare l’alleanza.

La 3ª vita comincia quando, in un ricevimento nel 1942, gli capita di ascoltare il diplomatico tedesco Von Bismarck spiegare con tranquillità ai colleghi che “tutti quegli ebrei catturati e rastrellati in Europa saranno eliminati”. Comincia di qui una “ribellione dei diplomatici ai quali si uniscono anche alcuni militari nelle zone d’Europa occupate da tedeschi e italiani, che rifiutano di consegnare ai tedeschi (con i pretesti più vari) i cittadini ebrei delle aree italiane”. Pietromarchi è la persona che, profittando dell’autorità di cui gode, rende possibile per un certo tempo, e in accordo con altri diplomatici, una salvezza impossibile.

Ma il fascismo è fascismo e lo storico Falanga interpreta così un brano di memorie di Pietromarchi, pochi mesi dopo: “I casi di reticenza o resistenza da parte di militari italiani, nell’applicazione delle crudeli misure ordinate, seppure non rare, non consentono di affermare che ci fu un sabotaggio degli ordini repressivi da parte di ‘buoni’ soldati italiani. Al contrario, la divisione dei Granatieri di Sardegna si guadagnò elogi per la mancanza di scrupoli dimostrata nella quotidiana liquidazione dei sospetti rastrellati. Furono chiaramente i generali a ideare e praticare la più spietata strategia di controguerriglia antipartigiana, una violenza repressiva indiscriminata di stampo razzista connaturata all’ideologia fascista”. Indicazioni importanti, quando si ricorda la disumana tragedia delle foibe senza voler conoscere la parte di azione italiana che ha preceduto e reso possibile quella tragedia.

Angelo Branduardi canta il Medioevo mistico di Ildegarda di Bingen

E poi dice che uno si butta medievale. Parafrasando Totò non c’è altra destinazione alta che i cosiddetti secoli bui. Nella vivida presenza dell’Eterno dell’età che gli ignoranti considerano con spregio e sufficienza. Medievale, per tutti costoro, specchiandosi nel loro politically correct è sinonimo di cupa inquisizione e tutto acquista valore, allora, nell’ultimo lavoro di Angelo Branduardi, Il cammino dell’anima, ispirato dall’opera di Ildegarda di Bingen, mistica tedesca del primo secolo dell’anno Mille.

Viene alla mente l’altro grande dialogo di Branduardi con un poeta – che mistico voleva essere senza mai riuscirci – William Butler Yeats, nel disco Branduardi canta Yeats, del 1986. E viene alla mente una canzone specifica, Un aviatore irlandese prevede la sua morte, quando viene scagliata contro chi ascolta l’ammissione dell’annullamento: “Uno spreco di fiato, gli anni che ho passato, in paragone a questa vita, a questa morte”. In Il cammino dell’anima, invece, non c’è un solo fiato che vada sprecato. Ildegarda di Bingen – santa, mistica, dottore della Chiesa per volontà di Benedetto XVI – ha dato all’album di Branduardi non soltanto i testi, ma la stessa musica. Fu infatti anche compositrice, lasciando però al maestro una libertà: la struttura musicale delle opere di Ildegarda è orizzontale, permettendo l’aggiunta di accordi nell’arrangiamento.

Se non fosse che la musica di Branduardi conduce chi ascolta in regioni dell’estasi solitamente precluse, si sarebbe tentati di definire il disco un lavoro filologico. Luisa Zappa, moglie del maestro, si è occupata delle traduzioni; Ildegarda scrive in un latino già influenzato dal tedesco parlato, balzando dagli echi biblici – “La menzogna del grande ingannatore mi perderà” – ad un martellare quasi infantile – “Fuggi, fuggi, il passo del serpente è dietro di te!”. Sono tante le nature di Ildegarda. Branduardi, nelle interviste, parla delle sue conoscenze di arte, cucina, natura, e tesse per ciascuna un riferimento o un suono. Sono però tante altre le nature di Ildegarda che, senza neppure bisogno di essere nominate, rintoccano nel disco: la sua malattia e la pesantezza, il dolore delle visioni – caratteristica questa delle Rivelazioni – così come la natura di fuoco delle sue trattazioni erotiche, si ritrovano fatte di carne nella figura di Maria, nel brano L’estasi, La Donna.

Branduardi ammette: Ildegarda è “difficile da contenere”, ed è palpabile lo sforzo di fare giustizia a ciascun suo talento, a ogni suo palpito, per mezzo della voce o gli strumenti. Il cammino dell’anima assume forma di dialogo. Nel terzo cammino, l’anima racconta la sua ascesi e la speranza di redenzione – “Nel cammino per te noi compagne e guida saremo, canteremo la nostra sinfonia dai cieli per te!” – mentre il Diavolo ne cerca la distrazione con l’eterno inganno – “chi mi seguirà e farà la mia volontà avrà tutto ciò che desidera” – e la Virtù ripete, irremovibile, il monito.

L’apertura del disco è anche un indizio, una direzione. Il coro della Basilica Ortodossa di Mosca ha elaborato un Preludio che fosse guida alle vicende dell’anima. È infatti la Chiesa d’Oriente il luogo dove ancora la musica sacra, come quella di Ildegarda, non è rito ma liturgia. Il Medioevo di Ildegarda, cantato da Branduardi, è una celebrazione non solo di bellezza, ma di misericordia. E l’anima, a conclusione del suo cammino, può gioire certa: “Torneranno coloro che il serpente aveva rapito, torneranno splendenti nelle loro vesti di luce.”

Guerra sovranista al Mes: apocalisse? No, serve a non sprecare le risorse

La nuova Linea Maginot in cui sono asserragliati sovranisti di destra e sinistra nella guerra (stile fratelli Marx) contro l’euro e l’Ue è il rifiuto del novello Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes). Partiamo da una verità incontrovertibile. Uno stato che non riesca più a rifinanziare il proprio debito pubblico sul mercato dei capitali ha tre alternative (o una combinazione di esse). 1) Stampa moneta e attraverso l’inflazione (tassa occulta che defrauda principalmente i poveri) raccoglie le risorse per far quadrare i conti. È il caso del Venezuela, dello Zimbabwe, della Repubblica di Weimar o della Jugoslavia titina. 2) Si fa prestare i soldi da paesi amici accettando le loro condizioni. È il caso del Libano o dell’Egitto quando si recano col cappello in mano nel Golfo Persico o il caso del Belpaese negli anni ’70 quando la Germania le concesse una linea di credito garantita dall’oro della Banca d’Italia. 3) Si rivolge al Fondo Monetario Internazionale.

L’euro è stato concepito per impedire ai governi refrattari alla disciplina fiscale di ricorrere all’alternativa 1, come succedeva nella Prima Repubblica. Il Mes serve a disciplinare l’alternativa 2 e possibilmente evitare (almeno in parte) la 3. Il debito pubblico italiano ammonta a oltre 2,4 trilioni di euro. Non esistono sul pianeta governi che in caso di un nostro default sovrano siano in grado accollarsi tale fardello. E neanche il Fmi avrebbe risorse di tale entità. Quindi è essenziale premunirsi contro uno shock devastante raccogliendo un pool di risorse. Il Mes è appunto il pool raccolto in Eurolandia.

Ma siccome l’evoluzione ancora non ha prodotto una razza umana talmente sprovveduta da prestare soldi a un paese (o un’azienda) in bancarotta senza porre condizioni per rientrare dall’esposizione, il Mes richiede di rimboccarsi le maniche e mettere i conti pubblici in ordine. Non sarebbe l’apocalisse descritta dai catastrofisti sovranisti, bensì una serie di impegni per utilizzare risorse preziose in modo efficace. Impegni che in passato hanno preso Portogallo, Irlanda, Spagna, Cipro (paesi dove la cura ha funzionato) e persino in Grecia, dove, smaltita la sbornia del referendum farsa di Tsipras e Varoufakis, pur recalcitrando, hanno messo la testa (parzialmente) a posto.

Ad ogni modo il potere decisionale sulle condizioni per l’utilizzo del Mes spetta ad organismi politici, a cominciare dall’Eurogruppo formato da rappresentanti dei governi democraticamente eletti, non i burocrati evocati dall’ossessivo disco rotto sovranistoide. Ergo non ci sono capestri che dondolano sinistri nel cielo tetro. Del resto ricorrere al Mes non è obbligatorio. Se qualcuno ha brillanti soluzioni da proporre in caso di default attendiamo fiduciosi. Però le verifichi prima con Varoufakis, onde evitare di coprirsi di un’imbarazzante e tragica patina ridicolo.

Adolescenza, l’età ribelle“Mio figlio, ex bimbo modello, bestemmia e odia la scuola”

Cara Selvaggia, ho un figlio adolescente che prometteva bene e invece da un anno a questa parte ha scelto me come genitore da sfidare per affermare, forse, la sua identità. Almeno questo è ciò che mi ha detto la mia psicologa, da cui vado di tanto in tanto da quando è iniziata questa fase di continui contrasti e scoperte. Lorenzo era davvero un ragazzo adorabile e disciplinato fino ai 13 anni, poi una bella mattina ci chiamano da scuola e ci dicono che ha già fatto 9 giorni di assenze in un mese e mezzo. In pratica lo lasciavo davanti l’istituto e lui si infilava nel bar accanto per poi girare per la città con l’amico di turno. Poi è venuto il momento di smettere di studiare matematica per la quale era portatissimo dicendo che è una materia che non gli interessa. Io insegno matematica in un liceo. Credere che sia un caso mi resta un po’ difficile. Ti racconto quest’altra. Io e mio marito abbiamo due conti correnti diversi, con le rispettive carte di credito nei portafogli. Ebbene, io dall’estratto conto mi accorgo che sono state fatte transazioni da pochi euro ma numerose in circuiti americani di cui non conosco la provenienza. Infine, pur sapendo quanto sono credente e che sono volontaria nell’oratorio dietro casa, ha aperto una pagina Instagram con i suoi amici in cui posta meme con bestemmie e insulti al Papa e ai sacerdoti, cosa che mi ha dato un dispiacere enorme. La cosa più umiliante è stato scoprirlo proprio dal parroco al quale la pagina era stata segnalata da una mamma di questi ragazzi che pubblicavano contenuti idioti con mio figlio. Tutto davvero avvilente, anche perché messo di fronte alle sue colpe mi chiede scusa e poi ricomincia come se niente fosse. Ora la novità è che nelle chat con gli amici mi chiama “la cagacazzi”. La sensazione è che la sua battaglia sia contro di me e non so cosa gli possa aver fatto, a parte intervenire sulla sua vita più del padre, che invece gioca da sempre in ritirata.

Loredana

 

Cara Loredana, coraggio. Questo è l’ultimo messaggio su whatsapp tra mio figlio quattordicenne e una sua amica. L’amica: “Sai che ho letto il libro di tua madre?”. Mio figlio: “Chissà che schifo”. Sipario.

 

Dopo Bibbiano, assistenti sociali alla berlina

Ciao Selvaggia, a proposito di Bibbiano, volevo dirti che questa situazione ha creato un caos infinito le cui conseguenze sono ancora molto sottovalutate. Nella scia dei genitori accusati ingiustamente si sono infilati anche quelli a cui i figli sono stati tolti legittimamente che ora vengono creduti sulla fiducia qualsiasi storia raccontino. È il caso di mio cognato (anzi, ex cognato) a cui è stato negato il diritto di vedere sua figlia da solo e puó frequentarla tramite visite protette una volta al mese. La ragione è che è un uomo violento e pericoloso, dipendente da psicofarmaci. Spesso ho accolto in casa mia sorella spaventata con la bambina prima che si separassero. Beh, è riuscito a convincere mezza cittadina dell’ingiustizia subita perché ovviamente ormai gli assistenti sociali sono tutti perfidi e bugiardi e settimane fa c’è stata addirittura una manifestazione in piazza con gli striscioni “ridatemi mia figlia”. Davvero una cosa assurda.

Giorgia

Ieri mi ha scritto un padre separato chiedendomi di aiutarlo perché gli assistenti sociali dicono che è inadeguato ed è una falsità. Sono andata sulla sua pagina fb e la prima foto pubblicata era di lui a petto nudo con un fucile in mano e il messaggio “spero di non dovermi fare giustizia da solo”. Hai ragione anche tu, sì.

 

Endometriosi: Carmen Di Pietro insulta chi ne soffre

Cara Selvaggia, ti scrivo infuriata a nome di tutte le donne che soffrono di endometriosi. Per chi non lo sapesse, non si tratta di un dolorino mestruale ma una malattia altamente invalidante. Sono infuriata perché è andata in onda una trasmissione radiofonica su Radio Globo in cui la signora (?) Carmen Di Pietro, vedova di Sandro Paternostro, si è permessa di “insultare” noi vittime di questa orribile malattia. Totalmente ignorante di cosa sia l’endometriosi, si è messa a deridere una povera ascoltatrice che raccontava le sue difficoltà legate al fatto di non riuscire neppure a uscire di casa quando ha il ciclo. La invitava a prendere un antidolorifico e ad andare a lavorare come fanno tutte le donne quando hanno il ciclo, senza tante storie. La malattia comporta dolori lancinanti, operazioni, infertilità, spese consistenti per spostarsi in diversi parti d’Italia per le visite, tanta sofferenza e mille conseguenze. É una malattia tanto diffusa quanto ancora purtroppo ancora poco conosciuta. Io sono stata operata due volte. L’ultima a settembre, mi hanno tolto utero, tube e pulizia di vari noduli posizionati sul legamento utero sacrale e legamento rotondo. Ma i dolori sono rimasti, purtroppo. Sono cresciuta a pane, antidolorifici e antiemorragici e questa “signora” si permette di dire che non merito di lavorare. Allora questo dovrebbe valere per tutti i malati cronici!!! Che schifo!!! Ti chiederei, se possibile, una tua pungente risposta.

Laura

Hai detto tutto tu. L’unica cosa che mi sento di aggiungere è che la signora Di Pietro non mi è mai parsa un’indefessa lavoratrice nè nei giorni normali nè in quei giorni lì.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

I cattolici di destra si organizzano: torna il “Progetto culturale”di Ruini

È stato agli inizi di novembre che l’intervista del Corsera al cardinale Camillo Ruini, 88 anni, ha aperto la fase del dialogo tra una parte della Chiesa italiana e la destra sovranista di Matteo Salvini. E un mese dopo ecco nascere l’associazione dei ruiniani con l’ambizioso nome di “Progetto Culturale”, lo stesso con cui l’allora presidente della Cei rinnovò nel biennio 1994-1995 l’interventismo clericale in politica, a distanza di dieci anni dal famoso discorso al convegno di Loreto del 1985.

L’iniziativa però non nasce nel campo leghista, laddove Salvini continua solo a ostentare rosari e invocazioni senza alcuna elaborazione culturale, appunto. Così a fornire il software necessario è l’antico nucleo teocon maturato nel berlusconismo durante il pontificato di Benedetto XVI, il papa-teologo.

A partire dall’unico parlamentare tra i soci fondatori, l’ex ministro Gaetano Quagliariello (nella foto), fondatore di “Idea” ed eletto nelle liste di Forza Italia. Poi, in ordine sparso: Eugenia Roccella (presidente), Maurizio Sacconi, Carlo Giovanardi, Giovanni Orsina, Assuntina Morresi, Eugenio Capozzi, Pietro De Marco. L’esordio dei ritrovati ruiniani c’è stato nel fine settimana ad Anagni, nel Frusinate, dove la fondazione Magna Carta di Quagliariello ha organizzato due giorni di seminario su “Chiesa e politica nei pontificati di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco”, con la partecipazione anche di Stefano Fassina, Fabrizio Cicchitto e Luciano Violante. Durante i lavori è stata mandata una video-intervista a Ruini fatta da Roccella e che si conclude con una benedizione al nuovo “Progetto Culturale”.

Obiettivi? Se tra leggi e sentenze, la sfida “antropologica” lanciata a suo tempo dal presidente dei vescovi italiani deve prendere atto che si è chiusa una fase su utero in affitto, suicidio assistito e unioni civili, “l’eccezione umana” cara ai ruiniani italiani ha tre fronti su cui dare sostanza alla destra guidata da Salvini: educazione, demografia e lavoro. E a muovere l’azione sarà sempre il motto di don Camillo (Ruini): “Meglio contestati che irrilevanti”.