Non si passeggia più a Port-au-Prince, un tempo considerata la più bella città dei Caraibi. Ormai ci si affretta soltanto da una parte all’altra della metropoli, che conta più di 2,5 milioni di abitanti: a parte alcuni quartieri, caos e insicurezza infatti non risparmiano nessuno. L’omicidio di una coppia di francesi, domenica 24 novembre, illustra in modo sinistro l’atmosfera pesante che si respira nella capitale haitiana. A questo riguardo, l’ambasciata di Francia a Port-au-Prince ha fornito solo una manciata di informazioni lunedì scorso. Le circostanze dell’omicidio e il movente degli assassini non sono stati precisati. La coppia era arrivata ad Haïti per adottare un bambino nell’ambito di una procedura gestita dall’Afa, l’Agenzia francese per l’adozione. L’uomo e la donna, di una quarantina d’anni, sarebbero stati uccisi poco dopo essere sbarcati dall’aereo, mentre si trovavano davanti ad un albergo di Delmas, grande e popolare sobborgo della città. Un tentativo di furto e di aggressione sarebbe sfociato nel duplice omicidio.
Intere zone nelle mani delle bande criminali
Da diversi mesi, Delmas è in mano alle bande che, poco alla volta, dai quartieri del sud stanno cercando di espandersi anche in altre zone. Un quartiere sicuro un giorno può diventare pericoloso il giorno dopo. La polizia è assente e mal equipaggiata. La stessa domenica, sono stati ritrovati morti anche un ufficiale di polizia a Pétion-Ville, un giovane, ucciso a colpi di arma da fuoco nel centro della città. Stessa sorte per Charlot Jeudy, uno dei simboli della liberazione omosessuale ad Haiti.
Per più di due mesi, la città è stata bloccata dalla popolazione che si è mobilitata in massa per chiedere le dimissioni del presidente Jovenel Moïse. Nelle strade non ci si muoveva più tra barricate, pneumatici in fiamme e tonnellate di fatras, un miscuglio di immondizia, terra e brecciolino che invade la città durante la stagione delle piogge. Come già nei mesi di agosto e febbraio, e nel novembre 2018, l’appello, lanciato il 15 settembre scorso, è stato: Country lòk, “Paese bloccato”. “Per dieci giorni non sono riuscito a andare più lontano della strada dove vivo. Nemmeno le moto-taxi (il principale mezzo di trasporto a Port-au-Prince, ndr) sono riuscite ad attraversare i posti di blocco”, ha detto Pierre-Michel, uno studente del quartiere chic di Turgeau.
Le manifestazioni si sono trasformate in guerriglia, con scontri tra polizia e bande criminali. “La situazione era quasi insurrezionale qui e nel resto del paese. Port-au-Prince era una città fantasma”, osserva Altidor, un negoziante dell’avenue Christophe. Da un paio di settimane, la tensione si è allentata. I venditori di tutto e di niente, le cuoche di strada e gli artigiani senza bottega sono tornati sui marciapiedi. I maiali rovistano tra le pile di rifiuti, le capre pascolano nei giardini delle case in rovina o rasate al suolo dal terremoto del 12 gennaio 2010. Anche le guardie sono tornate a brandire i loro fucili all’ingresso delle banche, dei distributori di benzina, dei ristoranti di lusso, degli alberghi e dei supermercati. Alcuni quartieri della Capitale hanno ritrovato una parvenza di normalità. “L’insicurezza e il forte degrado socioeconomico fragilizzano il movimento”, osserva Etzer Émile. Il giovane economista è autore del saggio Haiti ha scelto di diventare un paese povero, in cui denuncia le élite predatrici che hanno divorato il paese. È anche uno dei migliaia petrochallengers che, dall’agosto 2018, denunciano la corruzione legata al programma PetroCaribe e che sono all’origine della rivolta contro il potere. Port-au-Prince è asfiassata dall’indifferenza e dall’impotenza delle autorità. Il presidente Moïse finge di impegnarsi in discussioni per formare un nuovo “governo di unione nazionale”, come richiesto dagli Stati Uniti. I partiti dell’opposizione pongono come condizione le dimissioni del capo dello Stato e alcuni di loro hanno creato una piattaforma comune per organizzare la transizione. Ma le contrattazioni di una classe politica in cui non si crede più e i pochi giorni di tregua non implicano che la crisi sia finita. Le condizioni di vita degli abitanti della capitale restano infernali. Le scuole non hanno potuto riaprire a settembre. Anche i licei e le università sono rimasti chiusi. Milioni di bambini e giovani aspettano. Dal momento che il sistema scolastico è privato al 95%, la grande maggioranza degli insegnanti non può essere remunerata. Molti ospedali denunciano la mancanza di mezzi. Negli Stati Uniti si è parlato molto di recente dei 3 mila malati gravi accolti a bordo della nave-ospedale americana inviata a Port-au-Prince. Solo l’ospedale universitario della capitale, la più grande struttura sanitaria del paese, ha ripreso l’attività da alcune settimane. “Dopo le richieste di aiuto lanciate a metà settembre, il ministero ci ha fornito carburante, acqua e ossigeno. I pazienti ritornano e noi lavoriamo meglio – osserva la direttrice generale dell’ospedale, Jessy Adrien Colimon – Gli edifici sono fatiscenti. È una condizione transitoria che ormai dura dal terremoto del 2010”.
Il nuovo ospedale attende da anni, ma il cantiere è fermo
I cartelli annunciano il nuovo ospedale moderno di Port-au-Prince: “Fine lavori: marzo 2018”. Ma il cantiere è rimasto fermo per mesi e i quasi due anni di ritardo accumulati potrebbero diventare molti di più. Per Jessy Adrien Colimon il problema principale però sono “le risorse umane”. I 1.200 dipendenti dell’ospedale subiscono, come tutti, gli effetti della delinquenza quotidiana. “Molti dei nostri dipendenti vivono lontano e le strade sono spesso bloccate. Non si può programmare nulla, si vive alla giornata”, aggiunge. Le radio locali hanno persino creato una nuova rubrica, “Attraversare le strade”: “Alle cinque-sei del mattino, tutti la ascoltano”, afferma Fritz Alphonse, che vive a Carrefour, un quartiere di 500 mila abitanti nella periferia sud di Port-au-Prince. Stamattina Alphonse è riuscito a raggiungere il centro, attraversando il quartiere di Martissant, dove le bande hanno installato dei pedaggi e imprivvisano blocchi. “A volte i capi banda chiamano le radio, dicono se aprono o chiudono i blocchi e se bisogna pagare. È molto pericoloso”, aggiunge. Qualche giorno fa un autobus è stato accerchiato da una banda armata, i passeggeri sono stati derubati ed è stato chiesto un riscatto di 3 mila dollari per restituire l’autobus. I camion che arrivano carichi di prodotti dalla campagna vengono sequestrati. Tutto ciò che si può prendere viene preso. “Arrivo a un primo posto di blocco in moto-taxi, poi continuo a piedi, passo un altro posto di blocco e poi riprendo una moto-taxi, e così via”, racconta Alphonse. Spesso bisogna pagare: 25 o 50 gourde (25 o 50 centesimi di euro) a ogni passaggio. Bisogna poi sperare che non scoppi una sparatoria lungo il percorso.
La situazione è la stessa nei quartieri nord della capitale. Elizabeth vive a Croix-des-Bouquets, un comune di 250 mila abitanti alla porta nord-ovest di Port-au-Prince. Stamattina ci ha messo quattro ore per raggiungere il centro e non sa come farà per rientrare. I “tap-taps”, i furgoncini che fungono da trasporto pubblico, esitano a effettuare le corse. “È molto, molto difficile – dice Elizabeth -, non sappiamo mai cosa può succedere. Lavoro spesso al municipio di Cité Soleil, ma sono riuscita ad andare raramente in questi ultimi mesi. Le persone hanno paura, l’insicurezza è generale, può succedere qualunque cosa ai posti di blocco”. La strada che porta a Delmas, un’arteria strategica che attraversa tutta la città, è regolarmente bloccata. Persino la giustizia è paralizzata da due mesi: il tribunale, la corte d’appello, la procura della Repubblica e l’ordine degli avvocati si trovano nel sud della città, trasformato da anni in una vasta bidonville che si estende lungo il boulevard Jean-Jacques-Dessalines. Le bande hanno il controllo della zona e vietano l’accesso alle istituzioni giudiziarie. Una sparatoria è scoppiata l’altra settimana davanti al palazzo della procura all’avvicinarsi di un veicolo blindato della polizia con a bordo degli uomini d’affari convocati dai giudici. Nelle vie adiacenti e verso il quartiere del Bicentenaire, dove negozietti e botteghe si ammucchiano in un indescrivibile caos, tra calcinacci e fratas, gli abitanti spiegano che, se si devono raggiungere le istituzioni giudiziarie, bisogna arrivare molto presto la mattina e andare via prima di mezzogiorno. “Niente scuola, niente sanità, niente giustizia. Le bande sono armate meglio della polizia e le autorità, a loro volta coinvolte in massacri della popolazione, lasciano correre”, sottolinea Marie Rosy Auguste della Rete nazionale per la difesa dei diritti umani.
I massacri di La Saline del 13 novembre 2018 e quelli di Bel Air dello scorso novembre, in cui sono rimasti coinvolti dei membri della famiglia del presidente, hanno terrorizzato la popolazione. I giornali locali parlano di “miseria subumana” per descrivere la situazione della stragrande maggioranza della popolazione di Port-au-Prince.
L’assenza dello Stato, la mancanza di quasi tutti i servizi pubblici, la criminalità dilagante, il collasso economico dovuto a più di 18 mesi di proteste, non sembrano destabilizzare Jovenel Moïse. Nelle ultime settimane, il presidente ha anche comprato i servizi di una società specializzata in comunicazione di crisi e di una compagnia di mercenari privati ben armati, compresi quelli della società americana Blackwater, come ha scritto il senatore Youri Latortue in una lettera rivelata da uno dei suoi oppositori.
Il gourde, la moneta haitiana, ha perso il 30% del suo valore dall’inizio dell’anno. La crescita debole degli ultimi anni (1%) si è trasformata in recessione. L’inflazione, ora al 20%, rischia di salire ancora di più e i prezzi degli alimenti di base stanno esplodendo. Il governo, con il sostegno della comunità internazionale, sembra compiacersi di questa politica dall’impatto disastroso. La catastrofe che si prepara, pensano le autorità, farà dimenticare lo stato di incuria generale in cui versa il paese e i miliardi di dollari che negli anni sono stati rubati.