Pino Daniele e Peppe Lanzetta, “pigliati di fame” e sgangherati

’O chiammavan Pinotto. Il nome di gioventù di Pino Daniele, ma anche il titolo di uno struggente libro-ricordo di Peppe Lanzetta, scritto per “Colonnese Editore”. Lanzetta ha fatto e fa di tutto: attore per il cinema (con Martone, Liliana Cavani e Abel Ferrara, tra gli altri), teatro, musica, libri. Dovunque porta la sua faccia, vera e propria “maschera” della disperazione napoletana, e la sua prosa aggressiva e senza freni. Nelle 92 pagine del suo elegante libro (in copertina una chitarra con le corde spezzate) ricorda Pino da giovane. Il suo compagno di scuola di quella sgangherata classe di un istituto per ragionieri nel ventre di Napoli. Anni Settanta del secolo passato, con Peppe che in classe fa “’o burdello” e Pinotto, ripetente, che odiava le partite doppie preferendo far soffrire le sue dita su una Gibson. Peppe sognava il teatro e il racconto (che poi farà nei suoi libri) del Bronx napoletano, inventando un linguaggio dal quale negli anni successivi attingeranno scrittori e sceneggiatori. La scuola e la strada, i sogni e le ragazze. Come Mina che fu lo straziante amore di gioventù di Pino Daniele. Bellissima sposò un americano e si trasferì in California. I primi gruppi musicali, le cantine-teatro, il blues che si sposava con le melodie di Napoli. I fallimenti, le speranze, le delusioni. Una sgangherata compagnia di “pigliati di fame”. Le pizze fritte e una grande amicizia che si rompe all’improvviso. Pino Daniele deve scrivere dei “pezzi” per un altro grande, Tullio De Piscopo, chiama Lanzetta, ma qualcosa non funziona. Incomprensioni e una amicizia che si rompe per trent’anni. Fino al 2012, quando Peppe Lanzetta chiede a James Senese di fare da paciere. Passa un anno e finalmente i due ex studenti di ragioneria si incontrano ad un concerto, nel camerino di Daniele. “Ci siamo abbracciati e io ho cominciato a piangere”, racconta Lanzetta nel libro. E Pino Daniele: “Pe’, ma non è che ti fai vedere un’altra volta fra trent’anni”. I due non si videro mai più.

Neonazi sfilano verso San Siro: sanzioni dure contro i razzisti

Lo sport non è un’isola a parte, direbbe oggi Primo Levi: perché è teatro dei comportamenti di una società, nel bene e nel male. Purtroppo, ultimamente ho la sensazione che si alimentino i germi più micidiali, senza combatterli a fondo. Martedì 26 novembre Milano ha dovuto sopportare la sfilata di 5mila ultras neonazisti della Dinamo Zagabria (giocava a San Siro contro l’Atalanta), braccia tese, lugubri divise nere, svastiche, cori famigerati prima della partita a San Siro. Gliel’hanno concesso, dicono, per evitare guai peggiori. Ma scontri e feriti ci sono stati lo stesso. Quel giorno, i quotidiani riportavano l’infelice ed offensiva frase di Massimo Cellino, presidente del Brescia, sulla crisi di Mario Balotelli, bersaglio di insulti razzisti sul web e negli stadi. Il problema di Mario è “che è nero. Sta lavorando per schiarirsi, ma ha delle difficoltà”. No comment, caro Enrico. L’amico Gabriele Nissim, creatore e presidente di Gariwo (l’associazione dei Giardini dei Giusti), il giorno dopo ha organizzato sempre a Milano il terzo incontro di Gariwo Network che ha avuto per filo conduttore la lotta contro le piaghe dell’odio e dell’intolleranza, in cui ha proposto 3 “Carte della responsabilità”, dedicate al web, al clima e allo sport. Gabriele è un idealista ed un’ottimista: per lui lo sport può cambiare in meglio il mondo. Ma il mondo è avvelenato. E per curare il male serve forza. Fox Sports, per esempio, ha sospeso per una settimana Marco Van Basten, il bomber del favoloso Milan di Arrigo Sacchi: aveva pronunciato “Sieg Heil” in diretta tv. La retribuzione di quella settimana sarà versata all’Istituto Olandese per la Documentazione di Guerra (con l’archivio dell’occupazione nazista). Una terapia, tra le tante: raccogliere e divulgare le storie dei Giusti dello sport. Per dimostrare che i comportamenti di atleti, tifosi (e media) possono influenzare positivamente la vita democratica nelle nostre società. Lo hanno fatto Adam Smulevich e Massimiliano Castellari scrivendo “Un calcio al razzismo” (Giuntina). 20 storie. Anzi, 20 lezioni contro l’odio.

Il Conte mediatico: quando la pacatezza trasmette fiducia

C’è qualcosa di nuovo anzi di antico nello scenario politico italiano. La messa in crisi e la caduta del governo gialloverde, cui è seguita la nascita di un nuovo governo cambiato di segno, sono stati una sorta di big bang che ha segnato l’inizio di una nuova era nel rapporto tra chi la politica la fa e chi la segue, in cui è la categoria dell’affidabilità ad essere entrata in crisi e ad essere diventata quindi oggetto di una sorta di rinegoziazione tra le parti. Non tutto però è stato travolto dal caos che al cosiddetto big bang è seguito, e sul nuovo scenario si ravvisano anche degli elementi di continuità che delimitano una comfort zone, ovvero una sorta di area protetta in cui ha trovato riparo chi, guardando alla politica, ha sentito di aver perso i propri tradizionali punti di orientamento ma ha ritrovato anche qualcosa di familiare cui aggrapparsi. Tutto è cambiato perché nulla cambiasse quindi? Troppo presto per ipotizzarlo e, anche se non si tratta semplicemente di aggiornare la categoria dei moderati alla versione 2.0, si può dire che quest’area protetta in cui si sono rifugiati i cosiddetti disorientati, può essere definita oggi in base più ad aspetti formali che sostanziali.

Giuseppe Conte, per chi è in crisi di orientamento, è una delle figure che più credibilmente presidiano questa comfort zone. Pacatezza nei modi, istituzionalità, considerazione internazionale, sono elementi rassicuranti che, da un punto di vista formale, assegnano al premier il crisma dell’autorevolezza. Essere passato inoltre dal ricoprire il ruolo di premier di due governi di segno politicamente opposto ha paradossalmente rafforzato la sua affidabilità perché ha confermato un fattore importante per chi è in cerca di rassicurazione: la sua terzietà. Chi nella situazione attuale percepita come confusa, caotica, apprezza la terzietà infatti cerca stabilità ed in Conte, nel suo ruolo super partes ha trovato un elemento di garanzia. Ma c’è di più. Conte non usa l’Io nella comunicazione ed è questo un ulteriore elemento positivo agli occhi di chi cerca affidabilità al contrario di coloro che, più in sintonia con i tempi nuovi, apprezzano chi invece, sulla scena politica, si esprime utilizzando soprattutto l’Io. Questi ultimi infatti, sospettano di chi non parla in prima persona, e valutano una comunicazione in cui non è l’Io a esporsi, anonima, oscura, quando non addirittura opportunistica o furba.

Nel modo di seguire oggi la politica quindi, sono questi i due atteggiamenti più evidenti: uno più a proprio agio nel cogliere una comunicazione personale, diretta, in sintesi disintermediata e l’altro più in sintonia con uno stile comunicativo pacato, super partes, di tono, potremmo dire, istituzionale. Nel caso di Conte la sua presenza mediatica non fa registrare picchi di share in tv e non produce valanghe di commenti sui social ma gode nei sondaggi di un livello di personale fiducia ragguardevole che ha conservato nel tempo in maniera abbastanza stabile. Tra il Conte 1 e il Conte 2 questo indicatore non ha subito flessioni e per di più la stima espressa per Conte è quasi sempre rimasta al di sopra del livello di fiducia rilevato per i leader dei partiti maggiori.

Inoltre un’eventuale lista Conte, testata in momenti diversi, ha fatto registrare livelli di interesse intorno al 10% e questo dato sorprende se confrontato al consenso raccolto da Renzi con il suo neo nato Italia Viva, vista la forte attenzione mediatica che l’ex segretario Pd ha riscosso negli ultimi tempi, in coincidenza anche alla nascita del suo movimento. I numeri ci dicono inoltre che a dichiarare di avere fiducia in Conte sono uomini più che donne e che questo favore cresce con il crescere dell’età. Se confrontato con Renzi la differenza è che sono in percentuale consistente le donne ad esprimere apprezzamento per il leader di Italia Viva mentre, se confrontato con Salvini, la differenza è nell’età dei sostenitori visto che, a manifestare fiducia per il leader leghista, sono soprattutto i giovani.

Giovani e donne sono i target considerati più ricettivi ad una comunicazione emotiva ed è quindi forse questo l’elemento su cui porre l’accento: l’emotività in politica accende il dibattito, attiva i fan ma non implica automaticamente la fiducia. Oggi è premiato dal consenso nelle urne Salvini che però in termini di affidabilità registra un risultato minore rispetto a Conte che invece in termini di stima personale ha sempre raccolto un favore più alto. Nel vocabolario politico dei tempi nuovi pertanto un distinguo tra fiducia e consenso va fatto: questi due termini non vanno necessariamente a braccetto in quanto sembrano chiamare in causa criteri di valutazione diversi: più istintivo, condizionato dall’emotività e da meccanismi di “arruolamento” – engagment si direbbe in termini di marketing – il consenso, non necessariamente però implica anche la fiducia. Più ponderata la fiducia non automaticamente si traduce in consenso. Più volatile e “rumoroso” il consenso, più durevole, meno sbandierata ma più “silenziosa” la fiducia attiene infatti ad una dimensione più personale, laddove invece il consenso è più esibito e risulta quindi più “contagioso”. In ogni caso, al di là dei contenuti, consenso e fiducia sono la reazione a modalità comunicative diverse destinate a risuonare diversamente nei vari pubblici che coesistono nella platea elettorale.

Guardia di Finanza: l’ambizione degli “eroi” è lavorare in Calabria

Anche queste sono notizie. Nella Scuola dell’Aquila della Guardia di Finanza i marescialli dell’ultima leva (più di cinquecento) che hanno chiesto come prima destinazione la Calabria si contano forse sulle dita di una mano. Sembrano finiti i tempi in cui, per spirito di emulazione degli eroi, i giovani vincitori dei concorsi per entrare in magistratura chiedevano di andare in Sicilia. Calabria uguale ‘ndrangheta. ‘Ndrangheta uguale organizzazione criminale più potente d’Europa, massoneria e politica corrotta. Che ci vai a fare con l’idea di combattere estorsioni e riciclaggio se sai che, per bene che ti vada, ti attende un potere pastoso e implacabile pronto a demolirti le indagini, delegittimarti e alla fine farti trasferire?

Un applauso di popolo, dunque, ai 4 o 5 (forse 6) nuovi marescialli della Finanza volontari. Io qui vorrei farne però uno speciale a Marco Fortunato, uno spilungone comasco che di fatto si è arruolato nelle fiamme gialle proprio per combattere i clan più potenti in casa loro. Marco è stato mio allievo ormai quasi 10 anni fa. Giovane entusiasta ma tutto da sgrezzare, come con qualche ironia gli dicevano i compagni e le compagne di corso, che ne amavano la generosità. Studiava con applicazione e con trasporto la criminalità organizzata. Il corso base, il corso progredito e poi anche il corso post-laurea sugli scenari internazionali. Fece la tesi di laurea triennale sul fenomeno mafioso nella sua provincia, e allora il tema era del tutto sguarnito, sicché dovette molto applicarsi agli atti giudiziari, specie la famosa inchiesta della “Notte dei fiori di San Vito”. Fece il bis nella tesi di laurea magistrale, in cui si cimentò da pioniere con il fenomeno mafioso in Lituania, dov’era andato in Erasmus. Credo volesse tentare la strada dell’università o del giornalismo. Poi con ammirevole pragmatismo pensò che il Paese aveva bisogno di esperti della materia nelle forze dell’ordine; non solo gente formata sul campo, ma anche quadri dotati di conoscenze sistematiche. Più che scrivere o studiare, voleva andare in prima linea.

Così un giorno mi comunicò l’idea di partecipare a un bando di arruolamento per sottufficiali della Guardia di Finanza, avendo perso per pochissimo il treno per il corso ufficiali. Ci credette, vinse, e da lì iniziò un tratto di storia di cui sono stato diretto testimone. Entusiasta, innamorato della divisa, mi mandava regolarmente le foto dei momenti topici della sua acerba carriera. Eccolo sfilare in qualche manifestazione militare, portamento fiero, con i suoi colleghi. Eccolo marciare a testa alta in una prova di resistenza. E poi levitare ai 7 cieli quando entra a in una compagnia del Corpo incaricata di montar la guardia al Quirinale. Sempre più maturo, con qualche riconoscimento in più. E il giuramento, prof guardi le foto. Tornava periodicamente a Milano, a cena con i suoi vecchi compagni di corso, e anche un suo collega dell’Arma, pure lui appassionatosi alla materia.

Aveva un sogno: portarmi nella sua aula militare a tenere una lezione sulle organizzazioni criminali. Davanti ai suoi superiori e ai suoi colleghi; per mostrar loro in quale atmosfera scientifica egli fosse cresciuto. Sogno non realizzato, purtroppo, anche per i miei iniziali ritardi. Diventò maresciallo e in tanti festeggiammo in una pizzeria milanese la nuova tappa della sua carriera. Raramente ho visto tanto orgoglio per la propria divisa. E fu forse questo che generò il progetto Calabria, quel desiderio di servire lo Stato nelle province più difficili e insidiose, trasmesso da Marco anche alla giovane fidanzata comasca. È stato il suo obiettivo in tutti gli ultimi mesi. Con la speranza di partecipare a qualche importante operazione sotto la guida di Nicola Gratteri, nel frattempo nominato procuratore capo a Catanzaro (“Ufficiale! Calabria! Non so ancora per la città, speriamo per Catanzaro”).

Finché è arrivata la notizia: destinato al nucleo di polizia economica finanziaria di Crotone, giurisdizione – sogno esaudito – della procura di Catanzaro. Ossia la provincia dei Grande Aracri, dei Farao-Maricola, degli Arena…. Mi ha comunicato felice la notizia. Era già a Crotone, “sono qui davanti al mare” mi ha scritto. Per aggiungere poesia al messaggio. A me sembra che qualcosa di poesia – di poesia civile, intendo – abbia questo suo cammino in nome dell’antimafia. La scelta di andare da Como a Crotone, là dove massimamente servono gli onesti, i coraggiosi e i competenti.

Smania di modernizzazione: via il quartiere popolare

Quando si parla di “patrimonio culturale” non si deve pensare solo alle cattedrali medioevali, ai palazzi del Rinascimento, ai grandi musei, ai capolavori di Caravaggio: il patrimonio è quel tessuto continuo composto da natura, storia, arte che dà senso al nostro stare insieme. È una sorta di memoria collettiva: e per ogni cellula che ne perdiamo, siamo un po’ meno liberi dalla dittatura di questo presente assoluto e insieme fugace. Per questo è così importante non lasciarsi andare ad una smania di “modernizzazione” (la parola magica che tanti lutti addusse agli inglesi e poi a tutti gli europei con l’avvento della sinistra-di-destra di Tony Blair) che distrugga le memorie di un passato recente, e magari assai poco telegenico: l’architettura rurale che punteggia le nostre campagne, le infrastrutture della viabilità (si pensi alla dignità modesta e onorevole delle rosse case dell’Anas), i quartieri operai del primo Novecento. Anche queste testimonianze della nostra comune civiltà vanno salvate, perché testimoniando la gioia e la fatica di ogni giorno, rendono visibile (e condivisibile) la nostra comune umanità. Eppure, non è un messaggio così facile da far passare, in tempi di consumismo, sviluppismo, rottamazione: specie nelle regioni ricche, così decise a cancellare ogni traccia della propria passata povertà (e con essa, spesso, della propria virtù).

È il caso della pingue Emilia Romagna, così conscia del proprio benessere da esser saltata subito sul carro, a trazione leghista, dell’autonomia differenziata, la “secessione dei ricchi”. Qua, dopo il terremoto del 2012, si finirono senza pietà le umili architetture ferite: o attraverso l’abbandono (quanti casali rurali, semidistrutti e abbandonati, si scorgono attraversando la pianura padana…) o con un uso disinvolto della dinamite, che fece brillare municipi e campanili (cosa di più simbolico, nella terra di Peppone e Don Camillo?) colpevoli di aver solo uno o due secoli di vita, e di non essere attrazioni turistiche, ma solo monumenti civici. È questo il contesto della piccola (ma quanto rivelatrice) battaglia che si sta consumando in queste ore a Castelfranco Emilia, alle porte della città metropolitana di Bologna. Qui un’amministrazione di centrosinistra sta per demolire un intero isolato del proprio centro storico, in violazione di qualunque principio.

La colpa di quelle case? Essere povere: un quartiere operaio tenacemente voluto dalla giunta socialista (quella sì) nel 1909. A progettarle l’ingegnere Augusto Barigazzi, protagonista nella ideazione della precoce edilizia sociale pubblica non solo in ambito bolognese, che sarà poi il principale artefice della prima produzione dell’Istituto per le case popolari di Bologna. Insomma: case che nella loro pulita, povera, razionalistica funzionalità stanno di diritto in ogni storia dell’architettura del Novecento. O del design, per essere più glamour. Un bel libro di Maria D’Amuri (La casa per tutti nell’Italia giolittiana. Provvedimenti e iniziative per la municipalizzazione dell’edilizia popolare, Ledizioni 2013) ricostruisce il contesto politico e sociale di quell’iniziativa insieme sociale e architettonica. Nell’autunno del 1905, l’assessore Oreste Maccaferri presentò il progetto alla cittadinanza: esclusa “subito qualunque benché minima idea di ornamentazione e di grandiosità, inutile e assolutamente impossibile”, si sarebbe trattato di case “sane, comode, bene orientate, provviste di acqua potabile, di fognatura”, dotate “a piano terra di una cucina con relativo acquaio, e di una legnaia ad uso anche di cantina, con ripostiglio per il cesso, e al primo piano di una o due o tre camere da letto”. Sebbene qualche cittadino protestasse per “la mancanza di porcili annessi alle case operaie”, il progetto andò avanti e il comune accese un mutuo di centomila lire, e di 35 anni, con la Cassa di Risparmio di Verona. Di fronte alle complicazioni burocratiche insorte, l’amministrazione comunale difese quelle case con una determinazione pari a quella con cui, i suoi attuali successori, le vogliono invece in parte distruggere.

Nel 2015 la consigliera comunale 5 Stelle Giulia Gibertoni presentò un’interrogazione sul piano di recupero delle case operaie, che “prevedeva un primo stralcio, finanziato dalla Regione con 554 mila euro, relativo al recupero di due delle quattro stecche di abitazioni”. Ma “a oltre dieci anni dall’aggiudicazione del bando, solo una delle quattro stecche è stata recuperata, peraltro parzialmente, una delle imprese aggiudicatarie, la Coop IGEA di Castelfranco, è fallita, il cantiere è stato da tempo smantellato, le rimanenti abitazioni sono in rovina, così come le corti interne, e la costruzione della sede comunale (magazzino) non è mai iniziata”.

La conclusione di questa ordinaria storia di incuria è l’attuale decisione di demolire. Oggi Italia Nostra denuncia il caso, dimostrando che le (incredibili) autorizzazioni dei Beni Culturali alla demolizione sono viziate da errori di fatto, e dunque chiedendo di fermare le ruspe.

E c’è davvero da sperare che il Mibact accolga questa richiesta, e che dunque il centro storico di Castelfranco rimanga intatto: mai come oggi abbiamo bisogno che quelle case continuino a raccontare la loro storia di umanità, di solidarietà, di concretissima utopia socialista. Perché l’Emilia (già) rossa per la cui possibile caduta siamo in ansia, ha già perduto da tempo la propria anima: che quelle pietre custodiscono, e potrebbero restituirci.

“Noi, l’unica opposizione al potere di re Vincenzo”

Mai con De Luca, mai col Pd campano, mai con De Magistris. “Da soli o alleati con liste civiche formate sui valori dell’ambientalismo, della legalità, del diritto alla salute. Con un candidato governatore che quasi certamente sceglieremo con una consultazione in rete e che auspico sia espressione del M5S”, sottolinea la capogruppo e già candidata presidente pentastellata in Campania, Valeria Ciarambino. In questa intervista spiega il perché.

A che punto è il M5S in vista delle regionali campane?

Abbiamo rivolto un appello pubblico a tutte le persone di valore della Campania: incontriamo i comitati, le associazioni, il mondo delle professioni. Vorremmo raccogliere candidature di spessore, anche tramite liste civiche sui temi dell’ambiente, della legalità, della sanità.

Pd e M5S governano insieme. Sarebbe credibile in Campania un’alleanza col Pd se il vostro “nemico” De Luca si fosse fatto da parte?

L’alleanza di governo poteva essere l’occasione per il Pd campano di una riflessione, verso il rinnovamento di metodi e uomini. Non abbiamo la presunzione di pensare che le persone di valore siano solo nel M5S. Intorno al governo Conte 2 si poteva lavorare nelle amministrazioni locali per valorizzare risorse che si riconoscono nella loro area politica e che se ne erano allontanate perché deluse. Ma questo non è avvenuto.

Possibile che non ci siano stati contatti tra dem e pentastellati? Anche all’interno del consiglio regionale?

I contatti ci sono stati. Ma noi siamo stati l’unica vera opposizione a De Luca e ogni volta che abbiamo presentato una proposta ci è stata sistematicamente cestinata senza essere nemmeno esaminata, solo perché portava la firma sbagliata. Faccio l’esempio della vertenza dei navigator. Se risolta da De Luca nella direzione del rispetto di una legge nazionale, poteva costituire un’apertura di credito. Ma non c’è stato nessun segnale, nessun ripensamento. Un’alleanza con loro è impossibile.

Allora chi sarà il vostro candidato governatore?

Ne ragioneremo anche con le liste civiche che aderiranno al nostro progetto. Personalmente auspico che il candidato sia espressione del Movimento. Cinque anni fa fui scelta con consultazioni in Rete e quasi certamente faremo così anche stavolta.

È ipotizzabile che possa candidarsi uno dei big campani con un ruolo nel governo o in Parlamento? Come Di Maio, Fico, Costa.

Credo che chi ha già un mandato importante debba prima portarlo a termine.

Invece un’alleanza con de Magistris e il suo movimento, DemA?

Lavoriamo a un progetto che sia un’autentica novità per la politica campana, che non ricicli uomini e pratiche già bocciate in passato. De Magistris invece ha messo in piedi un sistema di potere analogo a quello che dice di voler combattere. Ha cambiato 33 assessori, alcuni dei quali avevano ben operato come Nino Daniele, solo in un’ottica di ricerca del consenso. Pezzi della città di grande valore, che lui ha lasciato per strada, e che ora guardano a noi con interesse.

Campania ostaggio dell’eterno De Luca

Ultima ora: in Campania De Luca non si tocca. Sarà lui il candidato del centrosinistra alle prossime elezioni regionali. E questa, ad essere sinceri, non è proprio una novità. Perché i segretari del Pd passano, Vincenzo resta. Da anni i timidi tentativi di rinnovare partito e rappresentanze istituzionali annunciati dai vari leader del Nazareno, si schiantano contro il muro della Campania. “Vincenzo De Luca è il nostro candidato perché è il più forte. E questa è la posizione di tutto il gruppo dirigente”. Fine delle trasmissioni, e dei pochi mal di pancia nel corpo del Pd. A chiudere ogni speranza ai tentativi di superare l’era deluchiana, è Nicola Oddati, membro della segreteria nazionale del Pd e plenipotenziario di Nicola Zingaretti per il Sud. Vincenzo De Luca, eterno sindaco di Salerno, deputato e da un quinquennio governatore, non si tocca. Nonostante i sondaggi, il niet di Gennaro Migliore e le porte sbarrate dei Cinquestelle.

Ma andiamo con ordine e cominciamo dai sondaggi. Impietosi per il centrosinistra destinato secondo le previsioni a perdere la terza regione d’Italia. L’ultima rilevazione l’ha commissionata Clemente Mastella, sindaco di Benevento e figura di spicco della Prima e Seconda Repubblica, con l’aspirazione a candidarsi alla guida della sua regione. Il centrodestra unito vincerebbe col 44% se la candidata fosse Mara Carfagna. La quale Mara, però, è stata già bocciata da Silvio Berlusconi che gli ha preferito Stefano Caldoro, ex governatore, che vincerebbe pure lui, ma col 42, come un Mastella qualsiasi, stimato alla stessa percentuale. E De Luca? Sconfitto, mandato a casa e costretto a lasciare il ponte di comando di Santa Lucia. Un misero 32/33%. Di accordi con il Movimento Cinquestelle che riflettano lo schema dell’alleanza di governo, neppure a parlarne. I grillini campani vedono il governatore come il male assoluto, il concentrato di quello che la classe politica non dovrebbe essere soprattutto nel Sud. E lui ricambia. Di Maio, eletto a Pomigliano, “è un bibitaro”, “un noto sfaccendato”, “una testa di sedano”, insieme a Di Battista e Fico compongono il trio delle “mezze pippe”. Il governo Conte è “un circo equestre, un governo di scappati di casa”. Come si vede non c’è il benché minimo spazio per una ricomposizione (vedi intervista alla consigliera regionale Valeria Ciarambino), nonostante i “retroscena” della stampa napoletana sulla possibilità di accordi ancora possibili.

Su Gennaro Migliore, che gli chiede “un passo indietro”, invece, De Luca è costretto a mordersi la lingua. In altri tempi avrebbe risposto a modo suo facendo felice Crozza. Ma ora no, non può polemizzare col partito di Matteo Renzi, anche perché è sicuro dell’appoggio di Italia Viva, che nel sondaggio citato è quotata al 6%. Come è noto ai conoscitori di uomini, cose e pacchetti elettorali in Campania, l’ex pupillo di Fausto Bertinotti non muove un voto. L’ex eurodeputato Pd Nicola Caputo, e Giovanni Palladino, entrambi passati con Renzi, invece sì. E per De Luca. Il primo è il consigliere delegato per l’agricoltura del “presidentissimo”, il secondo è stato nominato nel cda della Città della scienza.

Ed è proprio questa la forza di Vicienz l’immortale, come lo chiamano a Napoli e dintorni paragonandolo a Ciro, il personaggio di Gomorra la serie: la trasversalità. Unita alla capacità di cambiare casacche ed alleanze. Nel Pd è stato con Veltroni, Fassino, Bersani, Renzi e Martina. A tutti ha teso mani e voti per la vittoria delle loro primarie. Da tutti ha preteso, e ottenuto, l’intoccabilità. Esempio di queste settimane: a Napoli c’è il congresso provinciale del Pd devastato dalle sconfitte, dal calo degli iscritti e dall’eterna storia di primarie farlocche, lui appoggia il giovane Marco Sarracino, candidato “unico”. Per l’illustre sostegno, il giovane deve dire da che parte sta. E lo fa in modo netto: “In Regione si riparte da De Luca”. Fine della storia.

Ma è fuori dal suo partito che Vincenzo offre il meglio di sé. In queste settimane la sua agenda è piena di appuntamenti. Incontra pezzi di Forza Italia, suscitando le preoccupazioni di Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella e senatrice del partito di Berlusconi, uomini di peso della vecchia Dc come Paolo Cirino Pomicino, stringe accordi con Ciriaco De Mita. Con l’ex presidente del Consiglio dei tempi d’oro, oggi sindaco del suo paesello, si è incontrato pochi giorni fa a Nusco. Esauriti i convenevoli, i fatti; altri 60 milioni stanziati per i progetti in Alta Irpinia, il tradizionale e blindatissimo collegio di De Mita. Soldi, finanziamenti e colpi di genio. Questa l’essenza del potere di Vincenzo De Luca. Vero e moderno leader di quello che lo studioso Isaia Sales chiama “il partito degli occasionisti”. Uomini capaci di trasformare le emergenze, vere o fasulle, in occasioni di spesa pubblica e di consenso. Prendi la sanità. Pochi giorni fa la Conferenza delle regioni ha dato il suo ok all’uscita della Campania dal regime commissariale che durava da un decennio. De Luca, che prima governava Asl e ospedali da commissario governativo, continuerà a farlo, ma da presidente della Regione. Con la differenza che potrà spendere soldi e assumere: 2mila medici e 5mila infermieri. Il che lo rende euforico. “Abbiamo fatto un lavoro straordinario di risanamento finanziario, e senza tagli. Siamo modello di un altro Sud fatto di concretezza e rigore spartano”. Applausi. Nonostante le condizioni troppo “spartane” di alcuni ospedali, i turni massacranti per medici e infermieri e il “turismo sanitario” dei campani che preferiscono curarsi in altre regioni con una spesa annua di 360 milioni di euro. Altra “occasione” la lotta all’abusivismo edilizio. O meglio, la sua “normalizzazione”. Con una modifica ad una legge regionale del 2003, si avvia la sanatoria per le case abusive nella “zona rossa” a rischio Vesuvio. Legambiente e Verdi si sono schierati contro, i Cinquestelle pure, ma l’emendamento voluto da Pd e Forza Italia è passato a maggioranza. Alla faccia del Vesuvio e della incolumità pubblica. Le persone interessate sono tra le 50 e le 60mila. E sono voti, consenso, la possibilità di vincere. L’importante è creare “l’occasione”. Come per il ”concorsone” alla Regione. In pratica la messa insieme dei posti disponibili nei Comuni, nelle Aziende sanitarie e nelle altre strutture pubbliche che hanno aderito all’iniziativa. Diecimila posti di lavoro a tempo indeterminato, una speranza per le migliaia di giovani disoccupati campani. “Ai quali – dice trionfalmente il governatore – stiamo cambiando la vita col lavoro non con l’assistenza”. Insomma, anche in questo ulteriore giro lo slogan deluchiano sarà quello di cinque anni fa: “Mai più ultimi”. In una Regione dove si campa di promesse può andare bene. Ricordate Renzi e De Luca sulle “ecoballe”, quelle montagne di rifiuti “impacchettati” che devastano il territorio della Campania? “Nell’arco di una consiliatura – giurò Re Vincenzo – questo problema sarà risolto”. Poi il 10 giugno 2016 arrivò Matteo Renzi, e ci mise del suo: “Ripuliremo la Campania in tre anni”. Tutto bello. Tranne la realtà. Le ecoballe erano 5,6 milioni di tonnellate, ne restano ancora 4,3 milioni e per smaltirle tutte bisognerà attendere il 2024. In quanto al “mai più ultimi”, i dati parlano di una regione a crescita zero, con l’occupazione che cala e 31.400 campani che lasciano la loro terra ogni anno. Braccia e cervelli, quelli del 29,1% dei laureati che ogni dodici mesi prendono il trolley e partono.

Dati, numeri di disastri sociali più forti del “cesarismo” deluchiano. La Campania arretra e si appresta a giocare “la bella”, come chiamano l’eterno scontro tra De Luca e Caldoro. Tanta acqua è passata sotto i ponti della politica italiana, ma loro sono ancora lì. Elezioni regionali 2010: Caldoro 54,25%, De Luca 43,04. 2015 De Luca 41,15%, Caldoro 38,38, sconfitto per poco più di 66mila voti. Ora si aspetta il terzo round. Con i sondaggi che danno per sicuro vincente il pupillo di Berlusconi e con centrosinistra e Cinquestelle ko. “È De Luca – ha scritto in un recente articolo su Il Mattino Isaia Sales – il macigno da rimuovere lungo la strada di una possibile strategia di arresto dell’avanzata leghista nelle regioni meridionali per formare una coalizione potenzialmente vincente. L’unica possibilità di una politica competitiva in Campania è l’alleanza con i Cinquestelle”. Così non è stato e così non sarà. Se si potesse mettere una lapide sulle sconfitte elettorali, nel caso della Campania bisognerebbe scrivere il seguente epitaffio: “A Nicola Zingaretti al quale mancò il coraggio”.

Corruzione elettorale: indagato l’uomo di Renzi

Corruzione elettorale durante le elezioni politiche del 2018. È questo il reato ipotizzato dalla Procura di Catania nei confronti di Luca Sammartino, deputato regionale di Italia Viva e uomo simbolo di Matteo Renzi in Sicilia. L’indagine, che coinvolge anche altre persone di cui per il momento non si conosce l’identità, è in mano alla Digos etnea. A Sammartino è stato notificato l’avviso conclusione indagini contestuale all’avviso di garanzia. Lui ha replicato con una stringata nota affidata al suo ufficio stampa: “Sono sereno e dimostrerò la mia estraneità ai fatti. Affronto con assoluta tranquillità questa vicenda”.

Si tratta di un terremoto giudiziario che travolge l’emisfero renziano. Anche perché la notizia, svelata dal sito MeridioNews, arriva dopo soli 15 giorni dallo sbarco dello stesso Renzi a Catania. Città scelta dall’ex premier non a caso, poiché ai piedi dell’Etna si trova la roccaforte elettorale di Sammartino, eletto nel 2017 all’assemblea regionale siciliana con il record di 32 mila preferenze. Numeri da capogiro che hanno trasformato l’odontoiatra 34enne in una calamita del consenso, tanto che lo stesso Renzi, accompagnato dalla ministra Teresa Bellanova, si è sbilanciato, annunciando durante la convention di metà novembre come Italia Viva esprimerà “un suo candidato governatore e sarà il primo partito alle prossime elezioni regionali”.

Sammartino dopo i primi ammiccamenti con il centrodestra nella politica universitaria è entrato per la prima volta all’Ars nel 2012 con l’Udc, quando aveva appena 27 anni. Poi il passaggio ad Articolo 4, il movimento creato dal democristiano Lino Leanza, ex braccio destro del governatore Raffaele Lombardo. Finita l’esperienza centrista il cambio di casacca e l’ingresso in pompa magna nel Pd. Così fino alla corte di Renzi, dove è stato capace di fare accomodare in seconda fila un personaggio del calibro di Davide Faraone.

Le politiche del 2018, quelle per cui Sammartino adesso è finito indagato, per il luogotenente di Renzi si conclusero però con appena 16 mila preferenze. Briciole rispetto ai numeri delle regionali. Ma con il gruppo del deputato che si consolò comunque centrando l’obiettivo al Senato con Valeria Sudano. Anche lei fedelissima dell’ex presidente del Consiglio.

L’ex dem Sammartino non è la prima volta che deve fare i conti con un’inchiesta. La procura di Catania a giugno scorso ha archiviato la sua posizione dopo averlo indagato insieme ad altre otto persone per le modalità di voto degli anziani ricoverati in una casa di cura a Gravina di Catania. Una storia venuta alla ribalta grazie a una video denuncia su Facebook del figlio di una 88enne non autosufficiente e inabile alla firma che, nel seggio speciale allestito all’interno della struttura, per le regionali 2017, a detta del parente avrebbe votato proprio per Sammartino. Messa in soffitta la vicenda qualche mese prima a suscitare polemiche è stata la nomina dello zio del deputato a prefetto di Catania.

Il conferenziere a gettone disabituato alle domande

Chi segue Matteo Renzi sui social sa che è impossibile non affezionarsi al suo caso. L’uomo in queste ore è in piena tempesta reputazionale: twitta compulsivamente, minaccia cause civili, ride nervosamente, allude a complotti, chiede donazioni, retwitta articoli contro il “populismo giudiziario” e assoluzioni per direttissima pronunciate da utenti comuni. Per essere uno che crede nella giustizia e nella massima “il tempo è galantuomo”, si sta agitando parecchio per la storia dei finanziamenti alla fondazione Open. Di seguito un saggio delle sue reazioni scomposte, nel caso ci fosse uno specialista in casi del genere disposto ad aiutarlo.

Nelle ultime 24 ore diversi giornalisti hanno iniziato a scusarsi per avere detto/scritto cose sbagliate. Questo è Marco Imarisio del Corriere. In precedenza colleghi di Radio24 e dell’Espresso #ColpoSuColpo.

Imarisio aveva scritto che il figlio della prestatrice dei 700mila euro per la villa di Firenze è stato nominato da Renzi in Cassa Depositi e Prestiti dopo tale prestito. Renzi aveva minacciato: “Ne parliamo in tribunale, caro Imarisio: questo non è giornalismo, ma diffamazione”. Imarisio si è scusato: in effetti la nomina è avvenuta prima del prestito. Renzi, nel tripudio dei seguaci, l’ha spacciata per una vittoria sulla stampa ostile, se non per uno stralcio ipso facto di tutta la vicenda. Ma non si capisce questo cosa dovrebbe dimostrare. Stando alla logica e parlando in generale (ovvio che non è il caso di Renzi): da quando le tangenti si pagano solo in anticipo e non anche a favore ottenuto?

Chi decide cosa è un partito? Amici! (Ride, ndr). Sento il silenzio dei costituzionalisti, che evidentemente devono ancora riprendersi dalla battaglia per il referendum.

Lo sentiamo sereno, pacificato, su questo tema. Per la campagna Basta un Sì Renzi ha fatto spendere al Pd 11 milioni 671mila 873 euro, più i 2,2 milioni dei gruppi parlamentari di Camera e Senato. Il Comitato per il No ha speso 375.962 euro derivanti da donazioni. Ha vinto il No. Chi è che non si è ancora ripreso? I pm che indagano su Open e sul presunto passaggio di soldi da Toto Costruzioni a Open via Alberto Bianchi non “trasformano” Open in un partito; al contrario, ritengono che la fondazione si sia comportata come “un’articolazione di partito politico”, con la differenza che un partito ha l’obbligo di dichiarare chi lo finanzia, una fondazione no.

La mia attività da conferenziere? Che male c’è? Non sto rubando soldi visto che nel 2019 ho pagato circa mezzo milione di tasse: con le mie attività lo Stato ci guadagna. Ho più del 50% di presenze in aula durante i voti. Quando conta ci sono. Molto più di Salvini…

Qui Renzi, pagato come senatore a tempo pieno, si vanta di esser presente il 50% delle volte in cui si vota, più di Salvini. Inoltre, da capo di un partito dichiaratamente NoTax, rinfaccia allo Stato di pagare le tasse per attività private – come fosse facoltativo – come Berlusconi. Chi gli vuole bene gli tolga Twitter.

Io non temo gli avvertimenti. Dunque vi racconto i fatti miei. Ho comprato casa per 1300k vendendo la mia per 830k. Ho preso un mutuo da 1000k. Guadagno bene, nel 2018 830k. A giugno 2018 ho avuto un prestito RESTITUITO in 5 mesi: tutto regolare con scrittura privata.

“Avvertimenti” è perché si fida della giustizia. Se non si fosse fidato, avrebbe detto: “I magistrati mi hanno chiesto se mio figlio si trova bene nella sua scuola”.

Ho fatto una domanda pubblica in conferenza stampa: la magistratura ha diritto di trasformare le fondazioni in partiti? La risposta casuale è la diffusione di una notizia privata su miei conti personali. Mi viene un brivido pensando che si risponda a una domanda con una velina.

La delicatezza istituzionale di dire “velina” e non “pizzino”. I conti personali di Renzi fu Renzi a portarli in Tv: 15mila euro a gennaio 2018; è Renzi oggi a dire di aver guadagnato 1 milione; lo scoop sulla casa è dell’Espresso; lui non è indagato: perché si agita tanto?

Ho chiesto una mano alla famiglia Maestrelli per stretti rapporti di amicizia. E perché sono persone libere e perbene. Quanto alla nomina di Riccardo Maestrelli in Cdp immobiliare: si è trattato di un incarico per 400 euro al mese, ottenuto 5 anni fa peraltro.

Si direbbe che Renzi non conosce persone libere (?) e perbene a cui chiedere prestiti al di fuori di quelle che ha nominato in incarichi pubblici.

I magistrati Turco e Creazzo che hanno firmato il provvedimento sono gli stessi che hanno firmato l’arresto dei miei genitori, arresto poi annullato dai magistrati del riesame. Ma intanto il danno mediatico era fatto. Nessun complotto, ovvio, solo coincidenze. Qualcuno unirà i fili di ciò che è successo in questi mesi: a me sembra tutto chiaro.

Dunque, vediamo come possiamo aiutare Renzi a uscire da questa storia. Italia viva può presentare una riforma del codice penale che consenta a un indagato di ricusare un pm che in passato abbia fatto indagini su amici, genitori di amici, conoscenti, finanziatori, finanziati, clienti, prestatori di soldi dell’indagato o di parenti dell’indagato nel processo principale. Oppure, semplicemente, una legge che obblighi i magistrati a spedire immediatamente a un’altra procura ad almeno 800 km gli atti di un’indagine che riguardasse anche di striscio un parente o un amico di una persona già indagata o sottoposta ad arresto. (PS In casi come quello di babbo Tiziano, il danno mediatico è il meno).

Il 17 dicembre si terrà l’incontro di mediazione con Il Fatto Quotidiano e il suo direttore Marco Travaglio. Ho infatti avviato azioni civili per un risarcimento danni per il video con la carta igienica, il titolo sulla Legge Ad Cognatum, gli editoriali contro Italia Viva, sulle mie attività “in barba alla trasparenza”, sulle mie frequentazioni all’Aniene “per soldi e consulenze”, sull’equiparazione con la P2 e anche quelli odierni sull’acquisto della mia casa e sui soldi di Open per “comprare tessere e voti”. La richiesta ammonta a poco meno di un milione di euro di danni #ColpoSuColpo.

Se Renzi si sente diffamato, è giusto che proceda. Ma se anche vincesse tutte le cause, se anche diventasse un nababbo a spese dei giornalisti, non cadrebbero d’ufficio tutte le indagini e/o i rinvii a giudizio a carico dei suoi cari, di Open, dell’avvocato Bianchi, di Marco Carrai, del babbo e della mamma per bancarotta e false fatturazioni, di Luca Lotti per Consip… Il nemico di Renzi non è il Fatto. Prima lo capisce, meglio sarà per lui.

PS Se qualcuno può aiutarlo, giri pure la parcella al Fatto. Abbiamo intenzione di creare una Fondazione per aiutare i politici in difficoltà senza che ciò appaia come finanziamento ai partiti.

Blocca-prescrizione, l’Anm cambia rotta: “Noi magistrati la chiediamo da sempre”

In 48 ore l’Associazione nazionale magistrati cambia rotta sulla riforma della prescrizione e torna alle origini: non solo va bloccata dopo il primo grado ma la riforma Bonafede può entrare in vigore a gennaio perché “non sarà una bomba atomica”, per citare il presidente Luca Poniz. Ricostruiamo la cronologia di quanto successo tra venerdì e domenica al Congresso nazionale di Genova. Venerdì pomeriggio Poniz sulla riforma prescrizione dice: “Svincolata da riforme strutturali, come da noi richieste, rischia di produrre squilibri che sarebbe, però, errato attribuire alla riforma in sé e alla sua ratio ispiratrice”.

Musica per le orecchie del Pd (e di Matteo Renzi, che ieri sera a L’Arena su La7 ha detto: “Sulla prescrizione sposo totalmente la proposta di Costa di Forza Italia”) che vuole congelare la riforma, altrimenti in vigore dal primo gennaio. Andrea Orlando scrive su Twitter: “La riforma della prescrizione da sola crea squilibri, adesso che lo dice anche l’Anm si può prendere in considerazione questo dato?”. Poniz non ritiene di dover precisare la posizione del sindacato delle toghe, neppure su richiesta di un chiarimento da parte del Fatto.

Il segnale del cambio di passo avviene dopo che il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, la cui presenza è stata incerta fino all’ultimo, sabato va a Genova, rivendica la riforma, “primo passo di civiltà”, ma concede all’Anm l’accantonamento del sorteggio per l’elezione dei consiglieri togati del Csm. Al suo posto, contro il correntismo, “ballottaggi tra i magistrati più votati in piccoli collegi”.

E non sembra affatto un caso che Poniz, sabato sera, con i giornalisti, a sua volta, accantona “i possibili squilibri” della riforma prescrizione e dice le cose come stanno: “Non è vero che dal 1° gennaio succede una catastrofe. Si tratta di una norma che produrrà effetti nei prossimi anni, ma speriamo siano accompagnati da una riforma del processo”. Ieri, il documento finale, che rappresenta il pensiero dell’Anm fin dall’epoca berlusconiana, come ricordato dal Fatto. “L’Anm ha chiesto da sempre l’interruzione della prescrizione con la sentenza di condanna di primo grado per restituire al processo la sua piena efficacia e sul punto non abbiamo e non avremo ripensamenti. Alla politica spetta poi il compito di adottare ogni altra iniziativa per una strutturale riforma del processo penale, indispensabile”.