I giallorosa vogliono prender tempo: Mes rinviato di sei mesi

Aqualcosa, il dibattito sul Meccanismo europeo di stabilità scatenato in queste settimane dalla Lega e dal M5S potrebbe essere servito: l’Eurogruppo di mercoledì (la riunione dei ministri delle Finanze dell’area euro) potrebbe non scrivere la parola “fine” sulla storia del Trattato che riforma il vecchio fondo salva-Stati. Un percorso che dovrebbe essere condiviso anche dalla rissosa maggioranza giallorosa, che ieri sera ha tenuto un lungo vertice sul tema a Palazzo Chigi (ma senza i renziani, “stanchi di litigi”): l’Italia a Bruxelles rivendicherà la “logica di pacchetto” già contenuta nella risoluzione parlamentare approvata da Lega e 5S il 19 giugno in vista del Consiglio europeo di due giorni dopo, dove in sostanza si definì la forma ormai “non modificabile” – secondo l’attuale ministro dell’Economia – del nuovo Mes. La stessa “logica del pacchetto”, peraltro, citata nel comunicato finale proprio dell’Eurosummit del 21 giugno: questo potrebbe tradursi, se non altro, in un rinvio del via libera al Mes di sei mesi, per il quale tutti i partiti canteranno vittoria.

Per capire serve un riassunto. Il “pacchetto” contiene tre riforme: quella del fondo salva-Stati appunto, il completamento dell’unione bancaria attraverso una garanzia comune sui depositi (Edis, nell’acronimo inglese) e un nucleo di bilancio comune dell’Eurozona. Quest’ultimo dossier è fermo, l’unione bancaria invece qualche passo in avanti l’ha fatto: dopo la vigilanza unica della Bce sui grandi istituti e il cosiddetto “bail-in” che ha terremotato il mondo del credito nel nostro Paese, ora l’Italia chiede la garanzia comune dei depositi, finora osteggiata da Berlino. È su questo, spiegano al Tesoro, che Roberto Gualtieri giocherà la sua partita mercoledì e giovedì a Bruxelles: i tedeschi, infatti, per dare il via libera al cosiddetto “Edis” vogliono un diverso trattamento dei titoli di Stato in pancia alle banche (non sarebbero più considerati “risk free”) che sarebbe un colpo quasi mortale per gli istituti italiani e per il nostro debito pubblico.

E qui torniamo alla “logica del pacchetto”. Senza un testo sull’unione bancaria accettabile per l’Italia, il ministro Gualtieri mercoledì dirà ai suoi colleghi che non può avallare l’accordo sul Mes: a quel punto la palla passerà al Consiglio europeo del 12 e 13 dicembre, appuntamento a cui Giuseppe Conte arriverà dopo un dibattito alle Camere (il 10 dicembre) in cui verrà ribadita la necessità che il Parlamento valuti proprio l’intero pacchetto di riforme.

In soldoni, questo dovrebbe comportare lo slittamento del Mes al Consiglio europeo di giugno, consentendo alla maggioranza di poter cantare vittoria: al M5S e LeU di aver fermato un Trattato che non gli piace, al Pd e ai renziani il fatto che alla fine la riforma sarà comunque firmata com’è oggi. Nel frattempo, ma su questo al Tesoro sono meno ottimisti, si potrebbe forse strappare qualche miglioramento agli “addendum” al Trattato sul nuovo Mes: in discussione, ad esempio, ci sono i dettagli applicativi delle Single limb Cacs, clausole che rendono più facile fare default per gli Stati, considerate da molti commentatori un rischio per l’Italia.

Anche se i giallorosa potranno rivendicare qualcosa (ma non la chiarezza su cosa pensano del fondo salva-Stati), questa resta una toppa sul percorso assai poco lineare e trasparente del nuovo Mes, avviato col governo Conte 1 e proseguito col Conte 2. Oggi il premier sarà in Parlamento per un’informativa sul tema (alle 13 alla Camera e alle 15.30 al Senato) in cui dovrà rispondere alle accuse di Matteo Salvini, che gli imputa di aver avallato – insieme all’ex ministro Tria – un testo ormai definitivo contro il mandato della sua maggioranza e del Parlamento: la difesa di Conte sarà sul filo delle parole (“la logica del pacchetto”, appunto, e il fatto che il Mes non è stato ancora formalmente approvato dall’Italia), ma nella sostanza – il che esclude reati fantasiosi tipo “alto tradimento” – le critiche politiche della Lega non sono campate in aria.

In particolare né il Conte 1, né il Conte 2 hanno ottemperato (fino a pochi giorni fa) alla più importante previsione della risoluzione del 19 giugno: l’impegno “a rendere note alle Camere le proposte di modifica al trattato Mes, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato”. E non vale sostenere – cosa peraltro vera – che il Parlamento, il cui coinvolgimento è previsto per legge, è sempre stato tenuto all’oscuro di quel che si decideva a Bruxelles finché non doveva obbligatoriamente ratificare. Tanto più che ieri Tria ha sostenuto che del Mes “non si è mai parlato in Consiglio dei ministri” e che lui delle trattative non aveva informato i due vicepremier: “Erano vice di Conte, non miei”.

I veleni della Solvay tra spiagge e acqua

Report insegue le tracce (inquinate) della Solvay stasera alle 21,20 su Rai3. E comincia dalla città di mare toscana che ne ha addirittura acquisito il nome: Rosignano Solvay. L’azienda è sempre stata autorizzata in deroga alla legge sugli scarichi e la costa, dove secondo stime attendibili sono state gettate 400 tonnellate di mercurio, è gestita e utilizzata dalle amministrazioni come attrativa turistica: le caraibiche spiagge bianche, segnalate dai cartelli stradali, con servizi navetta potenziati durante l’estate. Addirittura il ripascimento del Comune di Rosignano, che sta estendendo le spiagge bianche ad altri punti del litorale livornese dove la spiagga si è erosa.

E per il Ministero della Salute, anno dopo anno, la qualità dell’acqua è “eccellente”. Dal punto di vista batteriologico, certo. Ma il silenzio sullo stato “chimico” di questo punto del Tirreno è la questione. Oltre all’aspetto ambientale, perché se la spiaggia bianca può far sognare i Caraibi c’è una polvere bianca che ricopre i fondali rendendo la visibilità sott’acqua pari a zero. Il Ministero qualcosa in realtà, spiega Report, ha fatto: Solvay è stata autorizzata a scaricare 250 mila tonnellate l’anno. Mentre a Rosignano aumentano le patologie collegate agli inquinanti con un livello allarmante di casi di mesotelioma collegato all’amianto: 300% in più rispetto alla media della Toscana. E l’Inail ha riconosciuto già 69 casi di malattie e decessi legati all’amianto per i lavoratori della Solvay.

Dal Livornese a Ferrara. Solvay qui ha chiuso tutto nel 1998. Nel 2012 l’azienda è stata assolta per l’impossibilità di accertare il nesso di casualità fra malattie ed esposizione agli inquinanti. Però il Comune è riuscito a vincere una battaglia al Tar e Solvay dovrà adesso pagare la bonifica del Quadrante Est, un’area contaminata da rifiuti tossici che Solvay avrebbe smaltito in vecchie discariche municipali autorizzate per la sola ricezione di rifiuti urbani. Ma la bonifica dell’area non è ancora iniziata e ci sono altre zone contaminate con rifiuti dello stesso tipo. Diverse di queste aree sono state riconvertite in terre agricole senza bonifica, perché gli enti hanno “dimenticato” – racconta Report – che fossero discariche. “Glielo abbiamo dovuto ricordare noi – spiega il conduttore Sigfrido Ranucci – dopo aver ritrovato rifiuti databili anni ’50. Arpa ha ritrovato la memoria. Il Comune di Ferrara per ora insiste: non gli risulta”.

E poi c’è il caso di Spinetta Marengo, frazione di Alessandria: il 12 dicembre sarà la Cassazione a dover mettere la parola fine su una vicenda per la quale in Corte d’assise Solvay, insieme con Ausimont, è stata condannata per disastro ambientale. Solvay, qui, come prima Montecatini e Ausimont, “forniva acqua gratis ai cittadini e in cambio gli chiedeva di rinunciare a ogni pretesa per danni da esalazioni e inquinamenti dovuti allo stabilimento industriale”. Report rivela che uno studio epidemiologico, commissionato nel 2017, che doveva far luce sulle cause di malattie e morti attorno a Spinetta Marengo, viene tenuto nascosto. “Nonostante il processo, nonostante le condanne, abbiamo scoperto – stasera in onda su Rai3 – che oggi Solvay continua a distribuire acqua alla popolazione della frazione di Alessandria, sotto il naso di enti pubblici che però non lo sanno. Glielo abbiamo detto noi. Hanno provato a controllare ma non ci sono riusciti perché gli abitanti di Spinetta si sono rifiutati di far prelevare i campioni per le analisi: paura di perdere l’acqua gratis”.

Benetton si autoassolve e scarica tutto sui manager

La situazione non è seria ma è gravissima. Se gli automobilisti prendessero sul serio i deliri autoassolutori di Luciano Benetton non imboccherebbero più i 2.800 km di autostrade date vent’anni fa in concessione alla famiglia dei maglioncini. Non solo il nostro respinge ogni responsabilità, da vero irresponsabile, ma addirittura rivendica di non aver mai saputo niente di che cosa succedeva dentro Autostrade per l’Italia (Aspi). I viadotti che crollano e le decine di morti sono colpa di “qualche mela marcia”. Lo ha scritto testualmente nella lettera lagnosa e minacciosa inviata a quasi tutti i quotidiani italiani e pubblicata con risalto e senza replica, come è dovuto a uno dei maggiori investitori pubblicitari. Il padrone delle ferriere ordina che sia fermata “la campagna di odio” scatenata da Luigi Di Maio, “che addita la famiglia come fosse collusa nell’aver deciso scientemente di risparmiare sugli investimenti in manutenzioni”. Una sola ammissione: “Ci assumiamo la responsabilità di aver contribuito ad avvallare la definizione di un management che si è dimostrato non idoneo”.

In verità (lo segnaliamo allo spin doctor strapagato per correggergli i temi) le scelte si avallano con una v sola, quelli che si avvallano sono i viadotti che poi crollano. Detto della grammatica, passiamo alla sintassi. Benetton vorrebbe farci credere che ha scelto il management, non si è mai occupato di sapere che cosa facesse e dopo vent’anni ha scoperto, perché gliel’ha segnalato la magistratura, che non era idoneo. Non si sa se ridere o piangere. La holding Atlantia, che i Benetton controllano (cioè comandano come se fosse tutta loro) con il 30% delle azioni, ha incassato negli ultimi dieci anni 5-6 miliardi di dividendi da Aspi, un monopolio naturale che il “management non idoneo” ha reso più redditizio di Google. Benetton analizza il ruolo della “famiglia” non nella gestione di una tabaccheria ma delle autostrade, da cui dipende la sicurezza di milioni di persone.

La domanda sorge spontanea: quale funzione sociale dei signori Benetton abbiamo retribuito versando ai caselli i miliardi di euro che sono finiti nelle loro tasche anziché nella manutenzione della rete? Da come parla il capostipite sembra che quei soldi gli siano dovuti perché lui è Benetton e gli italiani non sono un cazzo, un’idea feudale del capitalismo in cui il padrone in quanto tale ha diritto di esigere le gabelle. Dice Benetton: “Nessun componente la famiglia Benetton ha mai gestito Autostrade”, quindi “le notizie di questi giorni su omessi controlli, su sensori guasti non rinnovati o falsi report, ci colpiscono e sorprendono in modo grave”, quindi “come famiglia Benetton ci riteniamo parte lesa”. Sarebbe bello poter attribuire il marasma di queste frasi all’età avanzata e alla distrazione degli spin doctor, e ignorarle. Ma sarebbe irrispettosa e inverosimile l’idea che al timone del capitalismo italiano ci siano dei rincoglioniti. Quindi Benetton va preso, purtroppo, sul serio.

Cominciamo dunque a ricordargli che le parti lese sono i 43 morti del ponte Morandi e le loro famiglie, insieme ai 40 morti del viadotto Acqualonga (Avellino 2013) dei quali il signor Luciano sembra non aver ancora avuto notizia. Sei mesi fa Benetton, intervistato da Repubblica, definì il crollo di Genova “disgrazia imprevedibile e inevitabile” e giurò su Giovanni Castellucci, il manager che vigliaccamente non nomina mai: “Sono sicuro della buonafede dei manager di Autostrade”. E come faceva a essere sicuro se non sapeva niente? Per dire, il libro di Giorgio Ragazzi I signori delle autostrade è uscito nel 2008 e c’è scritto tutto: Benetton l’ha letto o se l’è fatto riassumere dallo spin doctor che gli ha detto “tutte cattiverie”? Ma fu sulle accuse riguardanti i pedaggi troppo alti e la convenzione con lo Stato “di privilegio” che il nostro superò se stesso: “Ci siamo guardati in faccia e ovviamente abbiamo posto ai vertici dell’azienda la domanda”. Ha chiesto a Castellucci: “Come sono i pedaggi?”. Lo sventurato rispose: “Bassi”.

Un bambino di otto anni si chiederebbe: “Se i pedaggi erano bassi, come facevate quei profitti per i quali Castellucci era pagato 5-6 milioni l’anno per dirigere un monopolio senza mercato e senza concorrenti? Forse risparmiando sulle manutenzioni?”.

Possibile che a un grande imprenditore di 84 anni non sia mai venuto lo stesso dubbio? Quando il Parlamento approvò con legge la concessione scandalosa che adesso il governo vorrebbe revocare, Autostrade aveva appena irrorato tutti i partiti con oltre un milione di euro. Signor Luciano, questa la sa o la scopre ora con le altre monellerie della mela marcia? Due mesi fa, quando hanno capito di essere in trappola, hanno cacciato Castellucci (ricoprendolo d’oro) per montare la bufala della mela marcia, come se nei 18 anni in cui gli hanno dato “i pieni poteri” (parole del capo della famiglia) avesse fatto tutti quei profitti di nascosto.

Ma Benetton continua a fare il tonto per non pagare dazio: “Da quanto sembra l’organizzazione di Autostrade si è dimostrata non all’altezza”. È arrivato Sherlock Holmes.

 

Ma mi faccia il piacere

Via del Cazzaro. “Salvini al Costanzo Show canta ‘Via del Campo’ di Fabrizio De Andrè” (il Giornale, 28.11). Poi magari qualcuno gliela spiega.

La Repubblica Padana. “Super Salvini a Civitavecchia” (Repubblica-cronaca di Roma, 28.11). Evviva, è rinata La Padania!

Tele-Pampers. “Rai, i 5Stelle lottano per sistemare Franco Di Mare” (La Stampa, 27.11). Vasto programma.

La sardina cocchiera. “Grandi! Anche a Modena una piazza piena di Sardine, evviva! ” (Nicola Zingaretti, segretario Pd e governatore del Lazio, Twitter, 18.11). Quando si dice fare i pesci con le pinne degli altri.

Agenzia Sticazzi/1. “Non ho alcun rispetto per la magistratura” (Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista edito dal prescritto e indagato Alfredo Romeo, 30.11). E adesso, come facciamo?

Agenzia Sticazzi/2. “Da oggi sono anch’io su TikTok” (Gianfranco Rotondi, deputato FI, Twitter, 18.11). Sono soddisfazioni.

Agenzia Sticazzi/3. “Il fatto che non mi sia sposata o che non abbia un compagno ufficiale, non vuol dire in questi anni sia sempre stata sola. Diciamo che sono stata brava a vivere la mia storia importante senza che nessuno se ne accorgesse. Eravamo entrambi liberi, non c’erano problemi” (Maria Elena Boschi, Chi, 26.11). Mo’ me lo segno.

Blocca-tribunali. “Penalisti: da lunedì sciopero. La protesta contro la legge Bonafede che blocca la prescrizione bloccherà i tribunali per una settimana” (Il Riformista, 30.11). É il loro contributo allo sveltimento dei processi.

Lo schiaffo. “Ambrogino a Borrelli. Schiaffo al socialismo italiano… La scelta di schiaffeggiare Craxi e la grandiosa tradizione socialista che rappresenta, assegnando l’Ambrogino a Borrelli, suscita in me un sentimento di stupore e di indignazione” (il Riformista, 19.11). In effetti, premiare uno che indagava sui ladri potrebbe essere contagioso.

Via Craxi/1. “Sala rompe un tabù della sinistra: ‘Dopo 20 anni riabilitiamo Craxi’” (Repubblica, 29.11). Tra condannati, ci si intende.

Via Craxi/2. “Craxi va ricordato. Ma non intitolandogli una via” (Giuseppe Sala, sindaco Pd di Milano, 29.11). Piuttosto, il caveau di un banca svizzera.

Allarme rosso. “Inchiesta Open, i partiti in allarme: ‘Ora nessuno darà più soldi alla politica’” (Il Messaggero, 28.11). Si rischia di disincentivare le mazzette.

Chi paga chi. “Tessera Pd a 60 euro, circoli divisi: ‘I dirigenti vengano qui a spiegarcelo’” (Repubblica, 25.11). Ma ci dev’essere un equivoco: è il Pd che paga 60 euro a chi gli fa il favore di iscriversi.

Villa Arzilla. “Da Maestrelli, nominato a Cassa Depositi e Prestiti, a Presta. Così Renzi restituì il prestito per la villa” (La Stampa, 29.11). La famosa Cassa Depositi e Presta.

Il tariffario. “Saremo civili solo quando combatteremo i giustizialisti da tre soldi” (Matteo Renzi, Il Foglio, 27.11). Se però, invece di 3 soldi, avessero 700mila euro da prestargli per la villa, se ne può discutere.

Levategli il fiasco. “Beppe Grillo ebbe il suo formidabile bagno di folla in piazza Maggiore a Bologna nel 2010 quando attraversò la ovviamente gremitissima piazza Maggiore in canotto, ‘come fanno solo i cantanti rock’, in un Vaffa Day che chiedeva la gogna per la ‘casta’ dei politici, l’acqua pubblica e il wi-fi gratis per tutti” (Enrico Deaglio, Venerdì di Repubblica, 29.11). Ne avesse azzeccata una. Il VDay a Bologna fu nel 2007, la scena del canotto era un comizio per le Regionali del 2010. E al VDay di Bologna non si chiedeva né la gogna per la ‘casta dei politici (semmai si elencavano i 21 pregiudicati che sedevano in Parlamento), né l’acqua pubblica né il wi-fi gratis per tutti: si raccolsero 336.144 firme per tre leggi di iniziativa popolare sulla incandidabilità dei condannati, l’abrogazione del Porcellum con i suoi nominati e il ritorno alla preferenza, e il tetto massimo di due mandati parlamentari.

La storica. “Il problema fascismo in questa Nazione non c’è assolutamente e non c’è stato” (Daniela Santanchè, deputata FdI, Piazzapulita, La7, 22.11). Appena un ventennio, che sarà mai.

I titoli della settimana. “Governo di boia. Squadristi a 5Stelle. Di Maio e Conte mettono alla gogna i Benetton: vogliamo vendetta”, “Grillo fa il boia dei Benetton” (il Giornale, 29.11). “Parola di omicida stradale” (Alessandro Sallusti, ibidem). Insinuano persino che il 14 agosto 2018 sia crollato il Ponte Morandi di Genova, gestito da Atlantia (Benetton), ammazzando 43 persone.

“L’ultima canzone” per il nostro mondo, che stiamo facendo morire

Avevamo scritto L’ultima canzone del mondo molto prima che io pensassi che potesse essere la colonna sonora di quello che poi avrei visto nel mio primo viaggio in Islanda. L’Islanda l’ho sempre sognata fin da piccola perché, per me, era il luogo dov’erano nati Bjork e i Sigur Ros; quindi, per forza di cose, pensavo ci fosse qualcosa di speciale in quella terra.

Quando finalmente sono riuscita ad andarci quest’anno, ad agosto, l’unico fattore che non avevo considerato nella mia scala di aspettative di stupore era che proprio quel cambiamento climatico (di cui tutti parlano e di cui noi vediamo qui le conseguenze attraverso strani eventi atmosferici), lì è talmente visibile a occhio nudo che si rimane per forza di cose turbati. Lì i ghiacciai muoiono nel vero senso della parola. Il giorno prima del mio arrivo avevano celebrato il funerale di un ghiacciaio di 700 anni. Sulla lapide che gli hanno dedicato, una lettera a un ipotetico avventore del futuro cita “Ok è il primo ghiacciaio a perdere il suo status di ghiacciaio. Nei prossimi 200 anni è previsto che tutti i nostri principali ghiacciai faranno la stessa fine. Questo monumento testimonia che noi siamo coscienti di ciò che sta accadendo e di ciò che va fatto. Solo tu sai se lo abbiamo fatto”. Appunto. Succede poi che, come faccio di solito, condivido ciò che vedo sui miei social con chi mi segue, per questo non posso fare a meno di parlare di come in Islanda il cambiamento climatico si vede tutto. Ricordo che proprio il giorno in cui ho raccontato del lago Jokusarlon, che altro non è che un lago lungo 8 km formato dallo scioglimento progressivo del ghiacciaio più grande d’Europa, Vatnajökull, alcune persone mi hanno risposto: “Non è vero che si sta sciogliendo velocemente, è normale”. Dato che sono una curiosa, ho voluto approfondire e ho chiesto a una guida islandese di portarmi sotto il ghiacciaio. Lui mi ha raccontato che, quando sua nonna era bambina, quel lago non esisteva e che negli anni ’30 non era altro che una pozzanghera. Lui stesso, da quando ha iniziato a lavorare lì tre anni fa, ha visto delle zone passare da essere ricoperte di ghiaccio a essere ricoperte di terra.

Gli islandesi sono preoccupati e, se si va al museo Perlan a Reykjavik, si capisce che loro hanno la situazione molto chiara, mentre qui alcuni di noi continuano a negare la cosa solo perché lontani. Tornata a casa ho pensato che L’Ultima canzone del mondo, nata come l’ultima canzone da dedicare alle persone a cui vogliamo bene poco prima che finisca il mondo, potesse essere la giusta melodia per veicolare un messaggio d’amore e il rispetto per una terra che ci stiamo dimenticando di ascoltare. È da qui che sono entrata in contatto con Greenpeace Italia che da anni si batte per sensibilizzare sul tema del cambiamento climatico e che ha voluto accompagnarmi in questa nuova avventura in Islanda dove sono tornata per girare il videoclip.

L’idea iniziale era quella di girarlo su un ghiacciaio italiano, ma ho fatto fatica a trovarne uno: dal Monte Bianco al ghiacciaio Indren in Valsesia o sono chiusi per rischio crolli e sotto osservazione per le elevate temperature o sono scomparsi lasciando solo sassi dove una volta si sciava anche d’estate. Diciamo che questa esperienza mi ha insegnato che non tutto è perduto, ma forse il primo passo è la consapevolezza. Non a caso L’ultima canzone del mondo è dedicata alle persone a cui vogliamo bene, ma questo amore comprende anche la cura con cui dovremmo trattare la terra che ci ospita, perché altro non è che la casa in cui devono vivere le persone che amiamo.

Hoara e il cerchietto magico degli ospiti dei talk

Ringrazio Selvaggia Lucarelli per avermi fatto da badante e averlo fatto da par suo, illuminando nel merito la profondità di analisi dell’opinion leader Hoara Borselli, come invocato dalla medesima. Adesso sappiamo di cosa è capace. In effetti nel mio articolo di giovedì scorso non c’era nulla di tutto questo; non una sola riga di apprezzamento sulle sue affermazioni, come su quelle degli altri partecipanti al dibattito di Quarta Repubblica. Nel caso di Hoara c’era, sì, un po’ di sorpresa; ero stato attratto proustianamente da quel nome antico – tutta colpa di Rin Tin Tin –, ma non avendo idea di chi fosse, e dunque temendo qualche mia grave lacuna, sono andato a documentarmi sul suo curriculum professionale dove ho potuto. E ho trascritto dei fatti (l’opinionista è lei).

Sorvolerei anche sulla distorsione del mio pensiero fatta a tavolino da Nicola Porro. Vengo accusato di contestare la presenza della Borselli nel suo talk show (e quando mai? nel pezzo c’è solo un po’ di stupore, non fugato dalla lettura di Wikipedia), falsificazione del mio pensiero per giustificare una scarica di insulti personali. Su questo attacco tendenzioso, come sul confine tra diritto di critica e diffamazione, avremo tempo di chiarirci in Tribunale.

Qui vorrei tornare al tema di fondo del mio corsivo, appena accennato per ragioni di spazio: non il merito di qualsivoglia opinionista (absit iniuria verbis), ma il metodo con cui vengono costruiti i programmi di parola imperniati sull’analisi dell’economia e della politica. Il primo requisito dovrebbe essere l’onestà intellettuale. Temi concreti, dati certi e nutriti, forze in campo equilibrate, conduzione imparziale. Vediamo un po’. Il dibattito di Quarta Repubblica muoveva da una tesi precostituita (“I Cinquestelle sono finiti?”), era concepito in puro stile Processo di Biscardi (“Il Milan uscirà dalla crisi?”) e allestito con tutti i vecchi ritrovati della faziosità televisiva: in studio quattro opinionisti su sei sdraiati sulle stesse posizioni (“Morte al grillino!”), il conduttore godeva come un riccio, né faceva mistero di essere con loro, le due uniche voci dissenzienti erano in collegamento esterno, scelte tra volti poco amati di chi segue la trasmissione. Quanto agli “imputati”, ovvero i Cinquestelle, non c’erano proprio, se non in versione cartonata, per poterli meglio dileggiare.

Un’altra, fondamentale questione di metodo, quella che ci riguarda più da vicino, è il criterio con cui vengono selezionati gli ospiti. Non Hoara Borselli o Albert Einstein. Tutti. Certo che tutti possono in teoria partecipare a un talk, anche se nella realtà le facce sono sempre le stesse, come in una compagnia di avanspettacolo poco aperta ai volti nuovi. Ma allora con quali criteri si entra nel cerchietto magico? Chi prima arriva prima alloggia, come dice il proverbio? La prenotazione, come al ristorante? Il sorteggio, come ha proposto Beppe Grillo per i senatori? Logica vorrebbe che a discutere di attualità venissero chiamate persone competenti, meglio se coinvolte direttamente nei temi trattati. Wikipedia ci informa che la signora Borselli ha alle spalle una lunga esperienza di attrice di soap opera e soubrette di varietà: mi sono parsi titoli accademici un po’ debolucci, lo confesso.

Intendiamoci, l’ex “Miss Malizia” non è la prima bella donna dello spettacolo che si materializza su poltrone e sofà e si improvvisa politologa con gli esiti illustratici da Selvaggia Lucarelli. Non si tratta di criticare lei, ma la visione maschilista della nostra Tv, a cui le prime a ribellarsi dovrebbero essere proprio le donne. Non servono quote rosa, servono quote di competenza alla peggior televisione italiana di sempre, ai talk ormai in piena deriva trash, dai guantoni di Mario Giordano alle colonscopie di Barbara D’Urso. Tutto questo è squalificante per la classe dirigente (i Cinquestelle hanno cominciato a guastarsi quando hanno iniziato a frequentare i talk), diseducativo per le giovani generazioni (guardate come si diventa famosi), specchio di una società inguardabile. Se una soubrette viene creata dal nulla opinion leader, il genere e il curriculum non c’entrano niente: c’entrano le regole del gioco.

“Nella vita ho fatto di tutto: se le cose vanno male, sono pronto a tornare fattorino”

L’essenza di Riccardo Rossi è dietro un fraintendimento.

Primo autografo?

Enzo Tarascio, uno dei protagonisti di E le stelle stanno a guardare: tremavo per l’emozione.

No, la domanda è: quando le hanno chiesto il primo autografo?

Scusi, non ci avevo pensato: una cosa del genere non l’avrei mai presa in considerazione (scoppia a ridere, a lungo, una risata di occhi, gola e pancia. Poi si riprende, ci pensa, si arrende) Mica lo ricordo.

Questo è Riccardo Rossi, 57 anni, modi e atteggiamenti senza tempo, senza età, senza prendersi troppo sul serio ma senza neanche sottovalutarsi: è una sorta di Nautilus del cinema e dello spettacolo italiano. Conosce tutti. Tutti lo conoscono. E ha attraversato i decenni al fianco dei suoi miti, li ha studiati (“acquistavo tutte le riviste patinate”) a volte copiati (“A partire da Alberto Sordi”), ci ha condiviso fasi della vita e in ruoli differenti: fan, comparsa, di nuovo fan, fattorino, apprendista, ufficio stampa, attore, showman e ora anche presentatore di uno dei migliori programmi della Rai, Battute.

Sempre accompagnato da un tono di voce due decibel sopra gli altri, e ama talmente tanto la sua vita da incrociare ricordi, passa da un episodio a un altro, li accavalla, poi torna indietro, una sorta di caos non calmo, ma comunque organizzato nella sua mente.

Quali sono le sue origini?

Figlio di impiegati delle linee aeree, fissati con l’impormi un’educazione seria.

Fino a quando?

Ho raggiunto la maturità, da quel momento è scattato in casa una sorta “mo’ fai quello che te pare”; in realtà ero entrato in una fase della vita in cui la confusione sul futuro detta la quotidianità.

E…

Ho iniziato a lavorare in un negozio di dischi e finalmente ho scoperto la musica, il pop, Michael Jackson, e dentro di me è scattata la rivoluzione; poi mi sono lanciato nelle più svariate imprese, in particolare il fattorino per la Ras Assicurazioni: avevano la sede nello stesso stabile dove vivevo e in più iniziavo la carriera da attore.

Come il film “College”.

Frequentavo una palestra e una mattina arrivano gli uomini del cast per trovare qualche caratterista; vado ai provini, ma senza aver preparato nulla, così mi lancio in una serie di battute. Castellano e Pipolo scoppiano a ridere. Mi blocco e urlo a Pipolo: “Lei è il padre di Fabiana! La frequento ad Anzio”.

Risposta?

“E allora? Manda una foto in bianco e nero altrimenti ci dimentichiamo di te”.

La sua prima battuta?

Non lo so, perché a scuola ero considerato un soggettone, e non riuscivo a scovare un modo per esprimermi, alla fine ho preso spunto da un mio compagno di classe.

Cioé?

Quando parlava descriveva le sue storie con una ricchezza e una padronanza assoluta del vocabolario, e da lì nascevano mondi affascinanti.

Quindi?

Ho iniziato a riflettere, perché sulla carta non ero male: leggevo tutti i giorni il giornale, traducevo bene dal latino, insomma ero preparato; così all’improvviso ho capito che infiocchettando il discorso e soprattutto raccontando delle avventure con il classico incipit “non sai che m’è successo ieri sera…”, potevo ottenere un discreto successo.

Argomento preferito?

In particolare le disavventure; da lì è cambiato molto, in particolare il rapporto con le donne (ride): la bellezza non è mai stata il mio forte.

Ma la svolta?

La Valtur; al colloquio di lavoro mi domandano: “Come parli il francese?”. “Come Alberto Sordi”. Bene, preso.

Faccia come il sedere.

Secondo D’Alatri (regista) ho le maioliche in faccia “perché puoi dire tutto a tutti”.

Si è arrangiato.

Per forza, i miei non volevano, per loro con l’arte non era possibile mangiare.

Va beh. La Valtur.

Tre mesi e mezzo d’estate e mi prendevano in giro perché mi alzavo apposta prima degli altri e solo per leggere il giornale; per me era fondamentale, mi serviva per gli sketch, oltre al libretto di proteste dei clienti: la sera, dopo lo show ufficiale, inizio a leggere e commentare i giudizi lasciati dai clienti. Pubblico morto dalle risate, anche il capo villaggio mi applaude divertito.

Poi…

Il giorno dopo mi chiama: “Bravo, mi hai fatto morire, ora piantala”.

Il villaggio è scuola di vita?

Ammazza! Con addosso la felpa Valtur si apriva ogni realtà sociale e personale.

Perché una sola stagione?

Mi piace la città, amo andare al bar, leggere il quotidiano, parlare con il negoziante.

L’animatore non diventa mai grande.

Un po’ è così, non che oggi io sia un adulto straordinario.

L’arrivo della fama.

Un po’ con I ragazzi della 3ª C, e soprattutto grazie alla pubblicità, ma lì nessuno conosceva il mio nome; in realtà ho vivacchiato per anni, e nonostante i telefilm continuavo nel lavoro di fattorino.

La riconoscevano durante il lavoro da pony express?

Esatto, e non me ne fregava niente; ma la prima svolta arriva nel 1984 agli Internazionali di Tennis di Roma, quando conosco Enrico Lucherini (celebre ufficio stampa) al villaggio vip: prendevo i suoi assistiti e li portavo alla postazione di Dimensione Suono.

Un altro lavoro.

No, gratis: mi piaceva andare lì e fare casino. Ho conosciuto chiunque.

Timido?

Mai stato.

Molti attori usano il palco per combattere i rossori.

Sono attore per caso, non so interpretare, riesco a portare in scena solo me stesso.

Scuole di recitazione?

Zero, giusto un po’ di dizione con Diana Dei, moglie di Mario Riva; Diana era stata in scena con Carlo Verdone a Senti chi parla al teatro Eliseo, un giorno lo scopro, impazzisco, e lei: “Di là ho i copioni”. “Che posso vederli?”. Li ho fotocopiati tutti, li tengo gelosamente a casa con a margine le note di Carlo.

Non butta via nulla.

Conservo tutto quello che mi piace, anche le memorabilia prese da Lucherini.

Ecco, Lucherini.

Quando mi ha chiamato ho lasciato la Ras (cambia tono e argomento). Oggi non avevo niente da fare, e mi sarebbe tanto piaciuto andare in motorino per delle commissioni. Quanto sarei stato felice.

Mannaggia.

A volte, quando sono libero, chiamo un’amica e la imploro: “Che fai? Ti accompagno”.

Fermo, mai.

Difficile.

Lucherini.

Una grande scuola di vita: da lui sono arrivato che psicologicamente ero un ragazzino e subito mi ha spiegato la differenza tra diario e agenda. Quante urla.

Esempio di rimprovero.

Entra in ufficio Mastroianni e gli chiedo un autografo; poco dopo viene da me Enrico: “No, questo è un lavoro, non un gioco, e qui non sei un fan”.

Semplice.

Mica tanto, da appassionato del grande schermo non riuscivo sempre a scindere il ruolo: già da ragazzo spendevo tutta la paghetta nei cinema di parrocchia, perché costavano meno (si ferma, torna a ridere). Ricordo il mio primo autografo!

Finalmente.

Durante I ragazzi della 3ª C ero militare: un giorno un superiore si piazza davanti, tira su il maglione e scopre l’avambraccio: “A Rossi, me devi fa’ l’autografo, perché devono vede’ che te conosco”.

Riproviamo: Lucherini.

Con lui ho lavorato alcuni anni, e grazie al suo stipendio sono riuscito ad andare a vivere da solo, poi mi sono affrancato e ho gestito autonomamente degli uffici stampa per i figli d’arte.

Chi?

Alessandro Gassmann e Gianmarco Tognazzi fissi, più altri come Lucrezia Lante della Rovere.

E allora niente riflettori?

Qualcosa sì, e grazie a Irene Ghergo: in una cena scoppia a ridere mentre racconto della mia dieta, così ne parla a Gianni Boncompagni e lo stesso Gianni decide di coinvolgermi in Non è la Rai con pezzi provati la domenica sera a casa sua.

Siete diventati amici?

Spesso andavo da lui per guardare la televisione, commentare, suonare e magari cucinare; per noi due il massimo era “scavettare”.

Sarebbe?

Smontavamo e rimontavamo i vari stereo di casa con combinazioni assurde; a volte riascoltavamo le cassette di Alto gradimento.

Lei è un’ottima spalla.

Effettivamente mi adeguavo; non mi piace ammetterlo, ma la mia carriera è un po’ nata per caso: prendevo quello che arrivava e dovevo capire cosa andava bene e cosa no.

È una dote.

Solo da qualche anno mi esprimo con i miei testi, prima non ci credevo, ero senza strutture e utilizzavo le suggestioni del momento.

L’attore è in parte l’arte di saper rubare?

È così. E alcuni miei toni di voce arrivano chiaramente da Alberto Sordi.

Conosciuto?

Sì, e per ottenere una foto con lui ho impiegato anni: lo aspettavo fuori Domenica In, lo seguivo a Cinecittà. Una persecuzione. Fino a ottenere il benedetto scatto durante i festeggiamenti per i suoi 80 anni.

Uno stop alla sua carriera?

Dopo Carramba, Forum e altri programmi del genere non andavo più avanti, ero e restavo un valletto; il salto è stato quello di diventare autore, pezzi comici nati nelle cene al ristorante, le stesse gag che potevo inscenare al liceo.

La matrice è sempre quella.

Il solito “non sapete che mi è successo…”.

Barzellette?

Non sono appassionato.

Viene definito “appassionato” della Roma.

Sono contento delle vittorie, niente di più perché di calcio non capisco nulla: i miei non mi hanno mai permesso di giocare una partita né di andare allo stadio. Un macello.

Proprio mai?

Giusto un paio di volte durante le medie; ricordo un compagno di classe che a un certo punto, sconfortato, esorta il resto della squadra: “Non avete capito che a Rossi non va passata la palla?”.

Una pippa.

Comprai degli scarpini usati e di un numero più piccolo.

Che manie ha?

Tante: sono pignolo, preciso, puntuale, ordinato; l’ordine mi serve proprio tanto, arrivo a coadiuvare la donna che mi aiuta in casa.

Nel curriculum ha Fiorello.

Una sera del 2002 mi viene a vedere in teatro con la moglie Susanna. Si divertono. E nel 2009 arriva una collaborazione. Anche lui è una scuola pazzesca.

Perché?

Non si ferma mai: ogni pretesto va bene per una risata, e ha un’energia mostruosa.

Lei è un comico?

Più un intrattenitore.

Una paura?

Suonare in pubblico il pianoforte.

Urla sempre.

Oramai è un marchio di fabbrica. Quando ho girato il mio primo e unico film, il direttore della fotografia, Maurizio Calvesi, durante la cena di inizio riprese prende la parola e spiega: “Ragazzi, una cosa su Riccardo: quando urla vuol dire che è contento”.

E quando si incavola?

Urlo di più o me ne vado.

Cosa la turba?

La sciatteria e l’errore reiterato.

I suoi primi film sono con i Vanzina.

Per me erano dei miti già prima di conoscerli, e dopo non hanno deluso neanche su una virgola: uscivo con Carlo e magari, da sconosciuto, mi trovavo a tavola con De Sica e Verdone. Felice come pochi. Non capivo più nulla.

Parlava?

Certo, sapevo tutto, e all’epoca non c’era Internet, così compravo tutte le riviste possibili: ero preparatissimo.

Sembra “Il conte Max”.

Era l’unico modo (e inizia a citare parti de “Il conte Max”); da mitomane sono andato all’hotel Miramonti di Cortina per scattare una foto al bancone dell’accoglienza, e lì ho rotto le palle a tutti i lavoranti compreso il direttore; poi ho scoperto che era stato girato in studio.

Ha visto e vissuto i suoi miti.

È quello che più mi piace.

Ne è rimasto deluso?

L’errore è confondere la persona con il personaggio.

Insomma, a 50 e rotti anni ha capito chi è lei?

Come dicevo l’illuminazione è arrivata grazie al teatro: l’altro giorno mi sono venuti a prendere a casa per raggiungere Viterbo; lì già era arrivato il service per luci e microfoni, un impianto audio perfetto, i proiettori, e il baule con il vestito di scena; ho pensato: che figata!

I soldi?

Non sono diventato ricco, non ho ottenuto conduzioni importanti, e in certi momenti mi domando: se dovesse andar male, come ne esco?

Risposta?

Conosco Roma come pochi, quindi potrei ricominciare da fattorino, ma con la consapevolezza di essermi comunque divertito e per tanti anni.

 

“Mi chiamò morente. Così Frank l’irlandese mi parlò dei 30 morti”

Nel giugno del 2007 il mio libro The Irishman, che oggi è diventato un film diretto da Martin Scorsese, è comparso brevemente nella lista dei bestseller del New York Times. Il romanzo è basato sulle confessioni del sicario della mafia, ormai defunto, Frank Sheeran, registrate nel corso di cinque anni. Ero un investigatore della omicidi in pensione e avevo lavorato su più di 56 casi di omicidio. Nel 1988 avevo scritto un poliziesco, Il diritto di rimanere in silenzio, basato su una serie di interrogatori che mi avevano permesso di risolvere alcuni casi. Successivamente ho anche tenuto dei corsi di interrogatorio per poliziotti.

Frank “l’irlandese” Sheeran aveva letto il libro e mi contattò uscito di galera. In quanto cattolico ormai prossimo alla morte, Sheeran voleva espiare i 25-30 omicidi commessi per conto del capo della mafia Russell Bufalino e del capo dei Teamsters Jimmy Hoffa.

The Irishman racconta il viaggio di un uomo intrappolato tra due degli uomini, al tempo, più potenti d’America; le scelte che ha compiuto e come quelle scelte hanno influenzato la vita delle sue quattro figlie. Sheeran era stato un tiratore nella campagna d’Italia, nella Seconda guerra mondiale. Aveva passato 411 giorni sul campo di battaglia, aveva imparato ad uccidere i prigionieri. Le sue esperienze di guerra furono gli argomenti più difficili da affrontare durante gli interrogatori. Era più facile farlo parlare di un omicidio che aveva commesso in America di quello che aveva fatto alle guardie di Dachau.

Ho scritto The Irishman come se si trattasse di uno dei miei processi per omicidio, facendo appello alla giuria dell’opinione pubblica. Grazie all’interrogatorio di Frank, ho fatto luce su molti misteri intorno ad Hoffa ed a Crazy Joey Gallo; ed ho dimostrato, al di là ogni ragionevole dubbio, che la mafia americana fu responsabile dell’assassinio di JFK. E l’ho fatto portando a sostegno delle mie tesi prove più corroboranti di quelle che avrei normalmente sottoposto ad una giuria in un processo per omicidio.

Tre anni dopo l’uscita del libro, ricevetti una telefonata. Mi dissero che Robert De Niro che voleva parlarmi. Uno sceneggiatore gli aveva consigliato il mio libro. Colpito dalla complessità del personaggio dell’irlandese, De Niro si era interessato ai diritti del film. Mi precipitai nella camera da letto di mia madre, un’italiana di 93 anni, Carolina Di Marco Brandt, in fin di vita per un tumore. Mi guardò con i suoi occhi castani e disse: “Alza lo sguardo, Charles, sii grato”.

La volta successiva che ebbi l’occasione di “alzare lo sguardo” e di essere grato per le sorti del libro fu esattamente dieci anni dopo, nel giugno del 2017. Netflix aveva comprato i diritti del film. Martin Scorsese l’avrebbe diretto. Robert De Niro avrebbe interpretato l’irlandese; Al Pacino avrebbe interpretato Jimmy Hoffa; e Joe Pesci avrebbe interpretato il boss, Russell Bufalino. Nel cast c’erano anche Bobby Cannavale, Stephan Graham, Ray Romano e Anna Paquin. In estate Netflix mi aveva ospitato in un hotel tra Broadway e la 54esima. Sono uscito con la sceneggiatura in mano, per dirigermi verso la casa di Martin Scorsese, dove ero atteso anche da De Niro e dallo sceneggiatore premio Oscar Steve Zaillian per discutere del testo. Avevo i miei appunti con me.

Mi girai verso ovest lungo la 54esima e guardai con gratitudine ad un alto edificio della compagnia telefonica all’angolo tra la 54esima e la Nona. Nel 1960 avevo lavorato per il cementificio che lo aveva costruito. Camminavo sulle travi sospese in aria per recapitare messaggi. Rischiavo la vita per 65 dollari a settimana. Ero a mio agio sulle travi, sapevo che mio nonno Luigi Di Marco, operaio sindacalizzato nato nelle Marche in Italia, aveva camminato sulle travi dell’Empire State Building durante la costruzione per mantenere sua moglie Rosa e dieci figli.

E ora, nel 2017, stavo partecipando alla realizzazione di un capolavoro cinematografico basato su un libro che avevo scritto. “Alza lo sguardo, Charles”, mi dissi, mi voltai e andai est. Guardare l’edificio divenne un rito che dovevo ripetere ogni volta che uscivo dall’hotel durante quell’estate. E ora, nel 2019, io e mia moglie Nancy stiamo per andare in Italia per promuovere l’edizione italiana del libro, ospiti del nostro editore italiano Fazi. Al mio arrivo alzerò lo sguardo e sarò grato alla famiglia Di Marco.

Sembra che tutti in questo libro e in questo film siano italiani, persino l’editore del New York Times che una sera, a Little Italy, era al Clam House di Umberto, dove identificò l’irlandese come il killer solitario di Crazy Joey Gallo.

 

Destini incrociati: il jihadista, il killer e l’idealista

Questa è una storia di violenza, eroismo e morte uniti dal filo rosso della redenzione. Il jihadista, Usman Khan, cittadino britannico di origine pakistana, 28 anni, ammazzato sul ponte dalla polizia dopo aver colpito a morte 2 passanti e averne ferito dozzine. Cresce nello Staffordshire ma si radicalizza in Pakistan, dove trascorre l’adolescenza assistendo la madre malata. Quando torna nel Regno Unito, senza un titolo di studio, comincia a frequentare il giro di estremisti islamici di Anjem Choudary, diventa un reclutatore di terroristi online, progetta di utilizzare la terra di famiglia in Pakistan per organizzare campi di addestramento. Nel 2012 viene incarcerato per il suo ruolo nella preparazione di un attentato al London Stock Exchange. All’inizio è condannato a una pena “di durata indeterminata” o Ipp. È una misura detentiva speciale, introdotta dal Labour nel 2003, in base alla quale i rei di certi crimini devono restare in carcere finché non siano in grado di provare di non essere più un pericolo. Ma è una misura che intasa le carceri e crea un enorme contenzioso: il governo di coalizione Tory-LibDem la abolisce nel 2012. Khan fa appello, lo perde, nel 2013 viene condannato a 16 anni di carcere. Ma esce nel 2018, in libertà condizionata, tenuto sotto osservazione ma non più considerato ad alto rischio, per ragioni ancora da chiarire e sui cui si sta scatenando una bufera.

Per tutta la mattina di venerdì, alla Fishmonger’s Hall vicino a London Bridge, Khan partecipa al workshop di Learning Together, la conferenza organizzata dalla Università di Cambridge sulla riabilitazione dei detenuti. Racconta la sua esperienza dal carcere, fa la parte del redento fino allora di pranzo. Poco prima delle due del pomeriggio estrae due coltelli e comincia a colpire. Fra i primi a cadere c’è Jack Merritt, 25 anni, laureato a Cambridge, coordinatore del corso di riabilitazione, uno che nelle foto del giorno della laurea sembra invincibile. “Uno spirito nobile che prendeva sempre le parti dei perdenti”, lo ricorda il padre, che ha la forza di aggiungere: “Non avrebbe voluto che la sua morte fosse usata come pretesto per sentenze più draconiane o per tenere in carcere le persone senza motivo”. Due giovani uomini che la vita ha portato ai poli estremi: l’idealista, il prodotto di una università d’elite, ammazzato da uno di quelli che voleva salvare; l’immigrato jihadista ai margini, pronto al martirio. Poi c’è James Ford. 42 anni, a London Bridge nel suo giorno di libertà da una condanna all’ergastolo per un crimine atroce: nel 2004, sgozza Amanda Champion, 21enne con disabilità mentali, e ne getta il cadavere in una discarica. Nei mesi successivi chiama per 45 volte la helpline dei Samaritans, che soccorrono persone a rischio di suicidio, e confessa l’omicidio a uno degli addetti al call center. Che, infrangendo l’obbligo di riservatezza, denuncia tutto alla polizia e per questo perde il lavoro. Ford viene condannato, ma non rivela mai il suo movente. Venerdì è fra gli uomini che, prima dell’arrivo della polizia, fermano Khan: uno brandisce un estintore, l’altro, poliziotto in borghese, gli strappa di mano il coltello, il terzo stacca da un muro della Fishmongers’ Hall una zanna di narvalo e colpisce il terrorista. Ford soccorre una donna ferita, salva vite in cerca di redenzione.

Johnson ora cerca il capro espiatorio: “Colpa dei giudici”

Doveva essere un giorno di silenzio e riflessione per la politica, con la campagna elettorale in pausa per rispetto alle vittime dell’attentato di London Bridge. Ma mancano solo due settimane alle elezioni, e a poche ore dall’attacco terroristico si era già scatenata la polemica dell’opposizione contro il governo conservatore, responsabile negli ultimi anni di sostanziali tagli a organici e risorse della polizia. Già nel dibattito elettorale di venerdì sera sulla Bbc rappresentanti di Labour, Verdi, Indipendentisti scozzesi e nazionalisti gallesi hanno puntato il dito sulla politica dei Tories: 20mila agenti in meno negli ultimi 9 anni. La polemica è apparsa coordinata: quello della sicurezza è un tema su cui i Tories sono facilmente attaccabili, e che può avere un impatto rilevante sul risultato elettorale.

“Questo è un caso estremo ma non possiamo ignorare che negli ultimi anni episodi di crimine violento sono aumentati in tutto il paese, e contemporaneamente abbiamo visto una diminuzione di 20 mila poliziotti in strada” ha accusato Rebecca Long-Bailey, laburista e ministro ombra del commercio. Critiche rilanciate dalla premier scozzese Nicola Sturgeon: “Il numero di poliziotti è importante per assicurare la velocità di reazione che abbiamo visto oggi. Il governo scozzese ha addirittura aumentato gli organici. Credo sia deplorevole che lo stesso non sia accaduto in altre aree del Regno Unito”. Il premier Jonhson allontana le critiche e rilancia: “Penso che la pratica del rilascio anticipato automatico, in cui si taglia metà della pena e si liberano in anticipo criminali violenti, semplicemente non funziona, e ci sono ottime prove che non funzioni. Io ho paura”. È la maledizione dei tagli, che aveva intossicato anche le ultime fasi della campagna elettorale di Theresa May, nel giugno del 2017, dopo mesi segnati da una spaventosa sequenza di attentati terroristici. In quel caso, la May era un bersaglio anche più facile di Johnson, perché da ministro degli Interni fra il 2016 e il 2016 e poi da primo ministro fino a luglio scorso poteva essere considerata la diretta responsabile del ridimensionamento degli organici. Fra il 2010 e il 2019 la spesa per le forze di polizia è stata il 16% in meno che nel 2010, e sono state chiuse circa 500 stazioni.

May si era difesa citando una riorganizzazione delle forze dell’ordine, necessaria per le nuove esigenze di sicurezza, dal terrorismo ai reati online: più detective e meno poliziotti di strada. Ma la realtà quotidiana del crimine britannico è fatta di gang, furti, violenze sul territorio: tutti reati che contribuiscono a creare un senso di insicurezza nella popolazione e che il poliziotto di quartiere riusciva ad intercettare. Risultato: oltre il 60% degli organici denuncia l’impatto negativo sul morale del carico e delle condizioni di lavoro, mentre il 72% è insoddisfatto dello stipendio. Poco dopo la sua nomina a primo ministro Boris Johnson ha rilanciato con una delle sue molte promesse elettorali: assumere 20 mila nuovi agenti entro il 2023.

Ma i rapporti fra il suo governo e le forze di polizia non hanno debuttato nel modo migliore: a ottobre avevamo registrato il risentimento degli agenti per l’ordine, arrivato dal ministero e frutto di profonde tensioni sul campo, di arrestare migliaia di manifestanti pacifici delle proteste ambientaliste di Extinction Rebellion. Quanto al reclutamento di grandi numeri, è molto più complicato farlo che prometterlo: secondo Martin Hewitt, presidente del National Police Chiefs’ Council, per raggiungere quell’obiettivo servono 500 mila candidati, visto che la percentuale fra chi si candida e chi completa il training è di uno su 10, e che, al netto di pensionamenti e le dimissioni previste da qui al 2023, di nuovi agenti ne servono almeno 50 mila. Il Labour promette una riforma radicale: assunzioni fino a 23 mila agenti, il ritorno dei poliziotti di comunità, una revisione dei meccanismi di finanziamento. Ma non è detto che il messaggio passi: per molti elettori, Jeremy Corbyn a Downing Street è, di per sé, la peggiore minaccia alla sicurezza del paese.