Spd va a sinistra. Grosse Koalition a rischio: attenti a quei due

La base del partito socialdemocratico tedesco sceglie di cambiare rotta. È quanto emerge dal risultato del ballottaggio tra gli iscritti del Spd che ha segnato la vittoria della coppia formata da Norbert Walter-Borjans e Saskia Esken, con il 53,06% dei voti, contro il duo composto dal ministro delle Finanze in carica Olaf Scholz e Klara Geywitz, che hanno raccolto il 45,33% dei consensi dei militanti, chiamati a esprimersi online e via posta. Walter-Borjans, ex ministro delle Finanze del Nord Reno Westfalia, e Saskia Esken, deputata al Bundestag nella corrente più a sinistra del partito, hanno espresso critiche molto severe nei confronti della Grosse Koalition nel corso di questi 6 mesi di campagna interna all’Spd. Apertamente il duo non ha espresso la volontà di uscire dalla Grosse Koalition, ma vincola la sua permanenza al governo al rispetto di determinate condizioni che andrebbero di nuovo concordate con gli alleati della Cdu-Csu. Rispetto alla direzione “filo Grosse-Koalition” impressa dal candidato uscito sconfitto dall’elezione, Olaf Scholz, è un significativo cambio di passo che potrebbe mettere a rischio la tenuta della legislatura fino al 2021.

I nomi dei due vincitori ora dovranno essere confermati nel congresso dei delegati del partito che si terrà la prossima settimana a Berlino tra il 6 e l’8 dicembre. L’elezione alla guida del più antico partito politico tedesco di una coppia composta da un uomo e una donna è un’assoluta novità. La partecipazione al voto è stata del 54% (216.00 voti validi) su un totale di circa 426.000 iscritti. Ma se l’Spd esplode e sceglie l’ignoto, il partito di destra Alternative fuer Deutschland rimane sul solco tracciato dalla sua dirigenza e al congresso di Braunschweig di ieri conferma l’elezione di Joerg Meuthen e sceglie Tino Chrupalla alla direzione del partito al posto di Alexander Gauland, così come proposto dai vertici del partito.

Siemens, Volkswagen & C. Affari tra le torture cinesi

L’ultimo rapporto sui campi di rieducazione destinati alla minoranza musulmana degli uiguri in Cina ha provocato lo sdegno internazionale. A Berlino questo si è unito all’imbarazzo. Sì, perché il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung, nel documentare le persecuzioni nella regione dello Xinjiang, ha puntato l’attenzione sugli affari delle imprese tedesche nell’area. Che ci fanno Volkswagen, Basf e Siemens nello Xinjiang? Una regione economicamente non particolarmente sviluppata. Non si tratta di una libera scelta, sostiene il quotidiano conservatore Frankfurter Allgemeine Zeitung, è semplicemente il frutto di una pressione di Pechino. O così o niente. La capitale della regione dello Xinjiang, Urumqi, si trova a 4 ore di aereo da Pechino: non si può certo definire una scelta dettata dalla comodità. Si tratta di una regione cinese meno sviluppata di altre e gli investimenti stranieri dovrebbero trainare lo sviluppo, sostiene il quotidiano economico Handelsblatt interpretando la visione strategica di Pechino.

O ancora alla base della scelta c’è un patto tra imprese e governo cinese, è la tesi suggerita da Sueddeutsche Zeitung che però non cita fonti. Volkswagen avrebbe deciso nel 2013 di aprire uno stabilimento a Urumqi in cambio della promessa di poterne aprire diversi altri sulla costa in futuro, dice Sz. L’azienda spiega che la scelta di uno stabilimento a Urumqi ha “ragioni puramente economiche”.

Volkswagen, che vende ogni anno in Cina circa 4,2 milioni di auto di cui 30.000 nello Xinjiang, ha un impianto a Urumqi per la produzione di auto di media cilindrata che conta 650 dipendenti di cui un 25% uiguri. Di fronte alle notizie di persecuzione della minoranza, l’azienda tedesca fa sapere di sforzarsi “di portare un contributo allo sviluppo della regione e alla coesistenza dei vari gruppi etnici”. Tre giorni fa un portavoce ha aggiunto: “Presumiamo che nessun lavoratore operi in condizione di costrizione”, precisando che l’azienda assume sulla base della qualificazione professionale e non della religione o dell’appartenenza etnica, riferisce Handelsblatt.

Il punto è proprio questo: cosa implica fare affari in una regione dove c’è una significativa componente della popolazione perseguitata? Imbarazzante è infatti il caso di Siemens, dove l’azienda tedesca coopera con l’azienda di Stato Chinese Electronic Technology Group (Cetc), sospettata di sviluppare il software usato per sorvegliare gli uiguri, riferisce Sz. Anche il gruppo della chimica Basf ha due joint venture con due aziende cinesi nella regione e un portavoce riferisce che “il problema sociale nello Xinjiang ci è noto” ma “Basf non tollera alcuna forma di lavoro minorile, né di lavoro in condizione di costrizione, forme di schiavismo o tratta di esseri umani” e questo vale anche per le aziende dello Xinjang. Un caso a sé è quello di Adidas. Secondo la Sz l’azienda tedesca che produce articoli sportivi avrebbe di recente interrotto i rapporti con un fornitore dello Xinjiang per il forte sospetto che usasse manodopera che lavorava in condizioni di costrizione.

Sul piano politico le notizie di stampa hanno provocato scompiglio. Il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert ha detto di non avere “consigli da dare alle aziende tedesche” perché investire nella zona “in una situazione dove non ci sono sanzioni né particolari regolamenti giuridici è una decisione imprenditoriale”. Il ministro degli Esteri Heiko Maas, senza entrare nella questione, il giorno seguente è stato più tranchant: “Se davvero centinaia di migliaia di uiguri sono tenuti bloccati nei campi, la comunità internazionale non può chiudere gli occhi” ma dovrebbe mandare un commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani per verificare la situazione. Anche la cancelliera Angela Merkel, solitamente molto cauta, si è unita a lui: “Naturalmente dobbiamo criticare quanto ascoltato sulle notizie sugli uiguri. Sono perfettamente d’accordo con il ministro degli Esteri sul fatto che il delegato dell’Onu sui diritti umani abbia accesso” ai campi, ha aggiunto. Una chiarezza che però Pechino non ha gradito replicando che si tratta “di affari puramente interni alla Cina”.

Elkann si compra Repubblica, ma pensa ai fogli locali (e a Fca)

Domani sarà probabilmente il giorno in cui i fratelli Rodolfo e Marco De Benedetti annunceranno il passaggio della quota di controllo del gruppo editoriale Gedi (Repubblica, La Stampa, giornali locali e radio) dalla Cir – di cui è convocato il consiglio d’amministrazione – alla Exor NV, la finanziaria olandese che fa da cassaforte alla famiglia Agnelli: l’obiettivo, una volta acquisito il controllo del gruppo, è effettuare il delisting dell’azienda, cioè l’uscita dalla Borsa. Una piccola rivoluzione nel piccolo mondo dei giornali che è una grande rivoluzione in quello del potere. E anche una piccola sorpresa: finora le operazioni degli Agnelli sotto il regno di John Elkann sono sempre andate dall’Italia verso l’estero, stavolta avviene il contrario.

La famiglia piemontese ieri ha fatto sapere, attraverso l’agenzia Ansa, che vuole gestire il gruppo (e rilanciarlo grazie “ai vantaggi della rivoluzione digitale”), che non ha intenzione di fare spezzatini o vendite separate (Repubblica), che assicura la “garanzia dell’autonomia redazionale” che tutti ricordano nelle precedenti avventure editoriali degli ex industriali dell’auto.

Si vedrà se i prati sono davvero in fiore, ma resta la domanda sul senso economico dell’operazione. L’ultima trimestrale di Gedi, quella al 30 settembre, parla di una situazione non piacevole: -18,3 milioni di risultato netto e fatturato in discesa in tutte le voci (vendite, pubblicità, etc.), ma il bilancio senza la vendita del gestore delle reti Persidera sarebbe in sostanziale equilibrio. Il valore della società, secondo l’ultimo report Mediobanca, è di circa 240 milioni (al lordo di un passivo ingente) per il 75% grazie alle radio: il problema più grosso, nel medio periodo, sono Repubblica e i suoi 400 dipendenti.

I soldi per comprare, in ogni caso, ad Exor non mancano certo. Non bastassero quelli che ci sono già, infatti, nella cassaforte olandese pioverà circa un miliardo e mezzo di euro del premio che gli azionisti Fca riceveranno dalla fusione con Psa (in cambio del sostanziale controllo francese sull’azienda). Attualmente gli Agnelli sono al 6% di Gedi, la Cir al 43,7: i fratelli De Benedetti probabilmente conserveranno una piccola quota, ma Exor dovrà fare un’offerta più generosa ai soci di quella da 0,25 euro circa ad azione avanzata in ottobre da Carlo De Benedetti per il 29,9% del gruppo, questo anche per evitare sgradite perdite alla Cir (che ha Gedi a bilancio per il doppio).

Domani si capiranno le cifre, che dovrebbero però essere già definite, mentre resta il mistero sul piano industriale: le tre radio sono un piccolo gioiello, discorso diverso per i giornali, che però – dal punto di vista del “peso” politico – sono il pezzo pregiato dell’operazione: Repubblica, La Stampa, Il Secolo XIX e i 13 giornali locali ex Finegil (Il Tirreno, Il Piccolo, eccetera). Secondo indiscrezioni, nel 2018 la prima era in perdita, gli altri due in leggero rosso, gli ultimi in utile. Se l’acquisto di Gedi non è “sentimentale” ma economico, come fa sapere Exor, allora si intravvede una linea d’azione, che ha le sue radici in quel che già è accaduto nel gruppo dalla fusione tra l’ex gruppo Espresso e Itedi (Stampa e Secolo).

Certo gli Agnelli vorranno un loro amministratore delegato al posto di Laura Cioli, forse proprio Mario Scanavino, buon rapporto con Elkann, allontanato dal centro delle operazioni proprio da Cioli. Nel frattempo, però, il gruppo editoriale ha già portato a Torino – e sotto la direzione di Maurizio Molinari della Stampa – tutta Gedi News Network, cioè i quotidiani esclusa Repubblica: non solo il management da Marco Moroni in giù, ma anche tutta la produzione delle pagine nazionali e internazionali (compresi spettacoli e sport) che La Stampa produce per tutti i locali. Lo stesso Molinari, che guida “il giornale di famiglia”, avrebbe ricevuto nelle ultime settimane da John Elkann in persona il “consiglio” di fare un quotidiano più attento al Piemonte: indicazione che sembra essere stata seguita.

Insomma, la direzione industriale sembra essere quella di costruire una rete di quotidiani locali e la prima cosa che balza all’occhio è la duplicazione delle redazioni in almeno due città (Torino e Genova), senza contare – parlando di Repubblica – il costo non compensato dai ricavi di alcuni dorsi locali (ad esempio Palermo e Bari).

Insomma, se Elkann vuole gestire probabilmente dovrà tagliare, ma la realtà è che il giornale fondato da Eugenio Scalfari, a forte vocazione nazionale e politica, pare il meno sensato in un progetto del genere: venderlo potrebbe essere quasi naturale.

A meno che non siano vere le voci malevole che già circolano: la fusione con Peugeot & C. alla fine sarà un bagno di sangue per le fabbriche italiane in termini di occupazione. Quando si licenzia, avere qualche giornale a disposizione certo non fa male.

Il capitalismo straccione scelse Tim come bancomat

Vent’anni fa Piero Gnudi, bolognese amico dei bolognesi importanti, era liquidatore dell’Iri, indefesso privatizzatore in attesa di più lucrosi incarichi da liquidatore delle aziende privatizzate e subito sfasciate dai mitici privati, per colpa (come dicono economisti e politici pagati per dirlo) della cultura anti-industriale che ammorba il Belpaese. Un giorno Gnudi annunciò, come un Gianfranco Battisti qualsiasi, che la vendita dell’Alitalia era questione di mesi, mentre ci sarebbero voluti 9 anni e la bancarotta. Ma gli scappò una cosa vera: “Siamo alle prese con società nate per essere pubbliche”. Ecco il problema. Le aziende pubbliche davano servizi e non profitti perché i partiti si accontentavano di rubare in modo “sostenibile”. I mitici privati si sono rivelati più voraci: nel loro dna miserabile c’era (e c’è) l’imperativo di rubare tutto, anche le cicche nei portacenere, a costo d’ammazzare l’azienda. Così hanno distrutto Ilva, Alitalia e soprattutto il vero gioiello, Telecom Italia, oggi Tim, un tempo Sip.

Quella frase fu detta da Gnudi proprio il giorno del maggio 1999 in cui l’Olivetti di Roberto Colaninno coronava la sua scalata ostile alla Telecom, privatizzata un anno e mezzo prima. Il governo D’Alema, in pieno delirio blairiano, sosteneva la “coraggiosa razza padana” (ma poi, quale coraggio? Tutta gente che non ha mai tirato fuori un solo euro di tasca) con la sapienza giuridica del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Bassanini. Proprio lui, oggi reincarnato nella singolare figura del neo-boiardo che propone rimedi agli errori mercatisti di 20 anni prima. Toccò al più privato dei privati, Umberto Paolucci, ambasciatore in Europa della Microsoft di Bill Gates, lanciare l’allarme sui rischi del leveraged buyout, la scalata con soldi prestati dalle banche e il debito conseguente scaricato sull’azienda comprata: “Bisogna vedere se, a causa dell’indebitamento, il gestore resta capace d’investire quanto è necessario per l’innovazione del Paese. In caso contrario, rischia il declino e il passaggio da una scalata all’altra”.

La follia si compì. Nel settore Telecom Italia era una delle più forti aziende del mondo. Colaninno ha speso per scalarla 30 miliardi e il debito di Telecom è balzato di colpo da 9 a 38 miliardi, la spesa per interessi subito da 700 milioni a 3 miliardi, per poi superare i 5 miliardi nel 2015. In diciotto anni le banche hanno succhiato a Telecom circa 60 miliardi di interessi, riducendo l’azienda a un vegetale. Nel 1998, appena privatizzata, aveva quasi 130 mila dipendenti e 30 miliardi di fatturato. Oggi i posti di lavoro sono meno della metà (54 mila) e i ricavi, scesi a 18 miliardi, risultano dimezzati se si tiene conto dell’inflazione. La profezia di Paolucci si è avverata nel modo più crudele: investimenti a zero, rete in condizioni comatose, livello dei servizi in linea con Cipro e Romania. A comprimere gli investimenti anche la necessità di riassorbire il debito che però è sceso solo da 38 a 24 miliardi. Così sono arrivati i grandi strateghi, con l’eterno Bassanini a tracciare il solco, che da sette anni offrono a Telecom il soccorso pubblico, con la formula cosiddetta mista in cui lo Stato mette i soldi e i privati se li prendono.

Anche il passaggio da una scalata all’altra si è puntualmente verificato. Nel 2001 Colaninno, che due anni prima aveva scalato Telecom da manager dell’Olivetti, vende alla Pirelli di Marco Tronchetti Provera e diventa un capitalista “molto ricco”, in grado di prendersi dalla Telecom la holding immobiliare Immsi. I pochi immobili che restano a Tim li vaporizza Tronchetti, facendoli “valorizzare” alla sua Pirelli Real Estate. Nel 2007 Tronchetti vende alla cordata Mediobanca-Generali-Intesa e torna al vertice Franco Bernabè, “scalato” otto anni prima da Colaninno. Per prima cosa dice ai sindacati di aver trovato l’azienda “spolpata”.

Ma lo spolpamento non si ferma: gli azionisti pretendono il dividendo, il management deve obbedire. E chi esegue ordini scandalosi si fa pagare: tra stipendi e buonuscite i top manager di Telecom succhiano via 2-300 milioni. È lunga da far ridere la lista dei numeri uno che hanno dato vita a un carosello da vaudeville: Colaninno, Enrico Bondi, Tronchetti, Riccardo Ruggiero, Carlo Buora, Bernabé, Marco Patuano, Giuseppe Recchi, Amos Genish, Arnaud de Puyfontaine, Fulvio Conti, Luigi Gubitosi. In vent’anni lorsignori si sono presi dividendi per una ventina di miliardi, che con i 60 di interessi fanno una tassa da 80 miliardi imposta al Paese. Nel vero senso della parola. Ci sono stati anche momenti in cui per fare tornare i conti hanno imposto ai dipendenti i contratti di solidarietà, per succhiare contributi allo Stato mentre erogavano dividendi e bonus ai manager. In particolare durante il governo Monti, quando il ministro dello Sviluppo Corrado Passera, l’uomo che da banchiere aveva infilato Intesa Sanpaolo nell’incubo Tim, chiudeva gli occhi se per rifarsi rapinavano i contribuenti.

Alla fine si prova a regalare il gigante malato alla spagnola Telefonica, poi arrivano i francesi di Vincent Bollorè, infine la scalata del fondo americano Elliott, ispirato dall’ex numero uno dell’Eni Paolo Scaroni (stoppato sulla strada della presidenza dall’allora ministro Carlo Calenda) e spalleggiato dalla Cassa Depositi e Prestiti che sale al 10 per cento di Tim bruciando centinaia di milioni per un rastrellamento privo di senso.

Ora è il momento della tela di Penelope chiamata “rete unica”. Ma dietro i fumosi progetti di fusione della rete Tim con la Open Fiber (investimento suicida di Enel e della solita Cdp nella fibra ottica finanziato con miliardi di nuovo debito bancario) c’è sempre lo stesso obiettivo di sempre: scassinare la cassaforte del risparmio postale, appunto la Cdp. Naturalmente in nome del mercato.

 

LE TAPPE
Ottobre 1997 Privatizzazione
Nasce Telecom con la madre di tutte le privatizzazione voluta dal governo Prodi. A comandare è la Fiat con lo 0,6% del capitale. Nel 1999 c’è l’opa a debito di Roberto Colaninno e soci. Nel 2001 sbarca (senza opa) al vertice Tronchetti Provera
2007 Telco
Mediobanca, Generali e Intesa – alleate alla spagnola Telefonica – scendono in campo per impedire che un grande investitore straniero (Rupert Murdoch o il messicano Carlos Slim) metta le mani sulla rete Tlc tricolore
2015 Lenta agonia
Si prova a regalare Telecom a Telefonica, poi arrivano i francesi di Vincent Bollorè e la scalata del fondo americano Elliott. Ora restano i fumosi progetti di fusione della rete Tim con la Open Fiber per scassinare Cdp

 

I PROTAGONISTI

Roberto Colaninno
Nel maggio 1999 con la sua l’Olivetti corona la scalata ostile

M. Tronchetti Provera
Dal 2001 al 2007 guida la società facendo “valorizzare” gli immobili Telecom alla sua Pirelli Real Estate

Luigi Gubitosi
Da novembre 2018 è ad di Tim: sta affrontando i fumosi progetti di fusione della rete con Open Fiber

 

I NUMERI
30 Miliardi
Tanto ha speso Colaninno per scalare Telecom. Il debito del gruppo è balzato da 9 a 38 miliardi
80 Miliardi
In 20 anni sono i dividendi, compresi gli interessi, che si sono spartiti i numeri uno di Telecom
54 Mila
I dipendenti attuali di Telecom. Nel 1998 ne aveva 130 mila e 30 miliardi di fatturato

 

Quant’è bello il Green New Deal coi fichi secchi di Ursula

A leggere siti e giornali all’inizio di luglio avevamo preso a respirare a pieni polmoni. “Com’è sta Ursula von der Leyen?”, ci chiedevamo retorici come Mario Brega con le olive. Greca no, questo è poco ma sicuro, ma verde, verdissima sì, hai voglia: “È donna e verde”, lavora “per un’Europa più verde”, farà “la rivoluzione verde”, ha “un’agenda verde”, propone “un patto verde”, perché “l’ambiente è al primo posto” per lei. Ancora giovedì, parlando all’aula di Strasburgo, Ursula riempiva i polmoni meglio di una caramella alla menta: “Proteggere il clima è una questione esistenziale per l’Europa”. Già vedevamo la CO2 calare a vista d’occhio, gli scoiattoli giocare festosi sui marciapiedi del Prenestino. Poi venerdì è uscita una sua intervista sul Sole 24 Ore: “Non sono favorevole a scomputare dal deficit gli investimenti verdi. Temo che vi sarebbero troppe tentazioni per fare del ‘green washing’ (ambientalismo di facciata). La nostra strategia di crescita si basa sul Green New Deal”. Un New Deal senza lo Stato… È talmento nuovo che pare l’Ottocento: è il New Deal coi fichi secchi e i green bond, la finanza “ambientalista” che gioca sul verde col solito banco truccato mentre lo Stato fa il guardone (o il palo). Mica il green washing dei cantieri per le bonifiche dei siti inquinati o contro il dissesto idrogeologico… Dice Ursula: “Bisogna essere coerenti nel ridurre la CO2, ma credo che sia un obiettivo raggiungibile all’interno del Patto di Stabilità”. E, dunque, com’è sta Von der Leyen? Greca no, questo è assodato, forse tedesca.

Enrico Rossi e la prova dei fatti

Avanti un altro. Il presidente della Regione Tocana Enrico Rossi scrive (su Facebook) il suo personale coccodrillo sul governo giallorosa. Rossi era uscito dal Pd insieme a Bersani, poi è riuscito dal movimento di Bersani per rientrare nel Pd. Ora – evidentemente insoddisfatto – critica i suoi per l’alleanza con il Movimento Cinque Stelle, una “strategia sbagliata, che non tiene alla prova dei fatti”. L’intervento del governatore è lungo e articolato: “Era facile prevedere che nel nuovo governo si sarebbero divise le parti tra chi, come il Pd, porta la croce, cioè la responsabilità di fare cose serie e buone per l’Italia e per i cittadini e chi, come il M5s, canta a squarciagola i propri slogan incurante degli effetti e dei danni che la ricerca di facile consenso può produrre. Il M5s fa un danno enorme sull’Ilva, contesta la manovra economica, rimette in discussione le politiche europee, non costruisce politiche industriali, mantiene la carica antipolitica e antistituzionale, inasprisce il suo giustizialismo e su tutto questo apre una polemica al giorno dentro la stessa maggioranza. L’idea di un’alleanza strategica con il M5s era sbagliata e non tiene alla prova dei fatti”. Avanti il prossimo, avanti Salvini.

Mail Box

 

Il partito del Pil continua a prendersela con i 5 Stelle

C’è perfetta sintonia sui seguenti temi tra tutti i componenti del partito del Pil: l’ostilità al reddito di cittadinanza e alla legge Spazzacorrotti, l’allergia per il blocco della prescrizione, la limitazione delle intercettazioni soprattutto per i reati dei colletti bianchi, la separazione delle carriere dei magistrati (auspicata dai renziani), il finanziamento pubblico di Radio radicale e delle grandi e inutili opere come il Tav, ecc.

Chi invece, come i Cinque Stelle (il pericolo numero uno, secondo Berlusconi), cerca di contrastare l’arroganza delle lobby e delle multinazionali in nome e per conto dell’interesse generale, viene quotidianamente massacrato da quasi tutti i media. È la conferma della profezia di Marx: “I governi nell’era del capitalismo non sono altro che comitati d’affari della borghesia”. Ecco perché il partito del Pil (destra, centro e sinistra), interviene per estirpare e distruggere l’eresia dei pentastellati.

Maurizio Burattini

 

Senza terra, i perseguitati di questo nuovo secolo

La scorsa settimana l’ex presidente della Corte costituzionale Gustavo Zagrebelsky è intervenuto in difesa dei popoli senza terra. Secondo lui questa immensa umanità si trova in condizioni simili a quella degli ebrei perseguitati nei Paesi d’Europa dove si erano insediati da secoli. La sua opinione è che essi sono sradicati senza possibilità di piantare nuove radici, sono numeri: anzi, numeri incerti, perché non esistono censimenti, e il mondo attuale sembra avere bisogno di una tale massa di ostracizzati. In conclusione essi sono abbandonati alla loro sorte, all’arbitrio degli Stati, alla reclusione in non-luoghi: ed egli si è chiesto se questo è tutto ciò di cui siamo capaci, se la civiltà che orgogliosamente chiamiamo ‘Occidente’ può sentirsi in pace con se stessa. Zagrebelsky ha fatto bene a sottolineare il dramma di questi popoli e a richiamare l’Occidente alle proprie responsabilità. Ma ha fatto male a equiparare la loro vicenda a quella degli ebrei, perché la persecuzione degli ebrei si è conclusa con un genocidio, mentre, per fortuna, non c’è traccia di genocidio nella persecuzione attuale dei popoli senza terra.

Franco Pelella

 

Una via a Craxi negherebbe il valore dell’esempio civico

Pur nel generale disorientamento etico in cui si trova la politica, ma anche molta parte della società italiana, non può che sconcertare l’idea di intitolare una via a Bettino Craxi. È comprensibile che i figli vogliano riabilitarlo e valorizzarne doti e spessore politico, ma di questo si incarica già la storia raccontandone tutte le complesse vicende.

Dedicare una via o una piazza a una persona, invece, vuole sottolineare i meriti e l’esempio della stessa e ha quindi un carattere di insegnamento civico, quel che non si può rinvenire in un politico condannato per corruzione e finanziamento illecito.

Loris Parpinel

 

Il governo della Cina non conosce la democrazia

Se la democrazia diventa un reato, allora dobbiamo davvero preoccuparci. Eppure è quello che sta avvenendo a causa dei nostri rapporti, sempre più stretti, con la Repubblica popolare cinese. L’ambasciatore di Pechino ha stigmatizzato la conferenza in Parlamento, organizzata dai Radicali, con la partecipazione in videoconferenza da Hong Kong dell’esponente pro-democrazia Joshua Wong. L’ambasciatore cinese ha duramente condannato sia il Parlamento italiano sia il Governo, ritenuto responsabile per non aver censurato e bloccato l’evento.

Il problema più serio per i politici cinesi è capire come funziona la democrazia, considerando che la democrazia è ritenuta, da loro, una forma degenerata di influenza straniera che minaccia il potere politico del Partito Comunista Cinese.

D’altronde il presidente Xi Jinping ha modificato la Costituzione per consentire la durata a vita della sua carica, trasformandosi quindi in un dittatore che concentra tutto il potere politico, economico e militare nel suo Paese. Purtroppo l’Italia non è ancora una dittatura comunista, e nonostante gli accordi sulla cosiddetta “Nuova Via della Seta” non siamo un paese vassallo della Cina, e nemmeno una sua colonia.

Qualcuno potrebbe gentilmente spiegarlo all’ambasciatore cinese?

Cristiano Martorella

 

Il peso delle tasse in Italia è diventato insostenibile

Continua a salire la pressione tributaria nel nostro Paese. Ormai è arrivata quasi al 60 per cento, circa 20 punti in più rispetto alla media mondiale. E per gli adempimenti fiscali si perdono 240 ore all’anno. Troppe imposte stanno sfiancando le nostre imprese e la nostra fragile economia.

Gabriele Salini

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’intervista a Brittany Kaiser pubblicata ieri a pag. 17 è stato indicato l’editore sbagliato del libro La dittatura dei dati: quello corretto è HarperCollins. Ce ne scusiamo con l’autrice, l’editore e i lettori.

VdS

Autostrade: si può rimuovere per legge la concessione

Il 14 agosto 2018 non è crollato solo il ponte Morandi di Genova, portando con sé le vite di 43 persone, ma con esso anche la fiducia pubblica nel concessionario che è il gestore di metà della rete italiana. Grazie agli sviluppi di un’inchiesta giudiziaria svolta con cura e rigore, l’anno trascorso ha ampiamente confermato quanto quella caduta di fiducia fosse motivata. Il gestore è rimasto al suo posto, ha continuato a incassare pedaggi generosamente concessi da regolatori pubblici disattenti e ne ha ricavato i consueti alti profitti, in grado di finanziare senza problemi gli oneri della caduta. L’unica revoca che è intervenuta nel frattempo ha avuto per oggetto non la concessione del gestore bensì il ministro che con più intensità si è espresso e ha agito in favore della medesima. Toninelli delendo est, s’intende dalla compagine governativa, hanno continuato a scrivere i giornali per tutto il tempo intercorso sino all’effettiva revoca del ministro, avvenuta grazie alla caduta del governo proprio alla vigilia dell’anniversario della tragedia del ponte. Un evento provvidenziale per i sostenitori dello status quo. Così la concessione è tuttora in piedi, in attesa che ritorni tale anche il ponte nel bel disegno di Renzo Piano, ma è indifendibile agli occhi dell’opinione pubblica e lo sarà sempre di più con gli sviluppi dell’inchiesta. E non solo essa è rimasta indenne ma l’azionista di controllo del gestore autostradale è stato riammesso con grande rapidità e con piena dignità come interlocutore nel caso della crisi di Alitalia, addirittura come possibile salvatore. Questa cosa è ancora più indigeribile per i cittadini che conservano intatto il senso di giustizia di quanto non lo sia la conservazione stessa della concessione. Esistono dei limiti deontologici che la politica, per sua natura tendenzialmente teleologica, non dovrebbe superare. Ora si è di fronte a un bivio: da un lato l’effettiva revoca della concessione, dall’altro il fare solo finta di perseguirla, sulla scia di uno storico gattopardismo italico, per approdare alla fine al mantenimento della medesima attraverso il fallimento della sua cancellazione.

Proviamo a esplorare i due percorsi più probabili. Da un lato vi è la strada senza uscita della revoca amministrativa della concessione, giustificata dagli inadempimenti del gestore. La convenzione del 2008 prevede che anche nel caso di revoca per giusta causa il concedente deve comunque erogare al concessionario il valore attualizzato dei mancati guadagni sino al termine nel 2038 della concessione. In sostanza questa strada termina con un muro alto dagli 8 ai 20 miliardi di indennizzo. L’altro percorso è molto più sottile ed efficace. Poiché la convenzione fu approvata assieme ad altre analoghe in maniera truffaldina con una norma di legge, senza che i parlamentari potessero neppure prendere visione della medesima, rimasta segretata sino al 2018, si tratterebbe semplicemente di rimuovere con una nuova norma di legge tale approvazione. In questo modo cadrebbe il rivestimento pubblicistico del contratto di convenzione ed esso verrebbe privato degli effetti tra le parti sino a una sua eventuale differente approvazione per via amministrativa. Dovrebbe in sostanza essere riscritto da zero ma con una ben differente forza contrattuale da parte dello Stato. Si tratta quindi non di cancellare direttamente la concessione, perché si dovrebbero seguire le regole asimmetriche della convenzione, bensì di rimuovere per via legislativa la convenzione stessa, che ha sinora conservato il concessionario in una botte di ferro. Per questa norma serve una maggioranza parlamentare, che sino all’agosto scorso non c’era ma, considerando che nel 2008 il Pd votò contro l’approvazione, questa maggioranza potrebbe ora battere un colpo.

Teniamoci pronti: il Signore non ci svela l’ora in cui arriverà

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata. Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo” (Mt 24,37-44).

Avvento: tempo nuovo, un nuovo modo di guardare alla vita, alla storia, ai rapporti con gli altri, al presente e all’avvenire. L’invito è insistente: vegliate, tenetevi pronti. I cristiani dei primi secoli nutrivano un forte senso del ritorno di Cristo nella gloria e lo ritenevano imminente.

La pagina evangelica lo documenta richiamando la storia di Noè con il diluvio e le parabole sulla fine dei tempi. Bisogna essere trovati pronti e vigilanti per questa venuta.

Anche per Paolo (nella seconda lettura) il ritorno del Signore è come il passaggio dalla notte alla luce del giorno. Il che equivale a vivere secondo il Vangelo, a essere e rimanere fedeli al battesimo, alla nostra condizione di discepoli. Coltivare l’attesa non per paura, ma come modo per amare di più. Gesù annuncia la sua venuta, anche se afferma che il giorno e l’ora sono sconosciuti: nessuna creatura li conosce e nessuno può calcolarli. Essendo decisivo essere preparati al suo ritorno, occorre tener conto dell’indeterminatezza della sua conoscibilità e dell’imprevedibilità di questo evento onde evitare comportamenti spensierati e scorretti come ai tempi di Noè quando non si accorsero di nulla finché non venne il diluvio e travolse tutti (Gen 6,39). Si deve maturare l’attitudine ad accorgersi del nuovo.

La mediocrità, la banalizzazione e la superficialità di una vita distratta e secolarizzata rischiano di non farci capire che essa ha un senso e che è fatta per l’Incontro fondamentale: cercate di capire questo, dice Gesù. Non possiamo farci svaligiare il tesoro della coscienza o farla occupare da futilità e malizia. La vigilanza evangelica non ci dice di essere pronti perché conosciamo l’ora in cui il Signore verrà, ma ci invita alla vigilanza proprio perché verrà nell’ora che non immaginiamo.

Come cristiani siamo chiamati a custodire la speranza, questa benefica tensione verso il futuro affidando tutto al Signore, compimento di ogni attesa e di ogni realtà. Il credente mangia e beve, lavora e desidera, ama e intesse relazioni, è fragile e soffre, teme e spera nell’ordinarietà di tutti i giorni. Allo stesso tempo, sa vivere alla presenza di quel Dio il quale, per passione verso la sua creatura più amata, ha mandato Gesù Cristo per incontrare l’uomo e rivelargli il vero e autentico destino. Come cristiani abbiamo il compito di annunciare e testimoniare questa buona notizia, in ogni luogo dove l’uomo attende liberazione e salvezza. L’accoglienza del Vangelo, però, non è solo frutto di un impegno generoso ed eroico, è dono del Signore Risorto e affidato alla Sua Chiesa. La sua presenza nella vita e nella storia degli uomini dà speranza, gioia, liberazione dal male, umanizzazione e pace alle coscienze, fino al compimento nella vita eterna.

Se constatiamo che il tempo, incerto e imprevedibile, non ci appartiene, tuttavia esso è l’occasione propizia ed essenziale in cui incontrare Dio. Pieni di fiducia, col salmo 121, cantiamo: andiamo con gioia incontro al Signore guardando in alto e lontano perchè è venuto, viene e verrà.

 

Antisemitismo, la grande finzione

“Da certi amici mi guardi Iddio perché ai nemici ci penso io” sembra essere il senso e il riassunto di un veemente articolo di Ernesto Galli della Loggia, (Corriera della Sera, 26 novembre). In esso l’autore dichiara un fastidio anche un po’ villano per certa gente che “strumentalizza” la memoria della Shoah.

Cito testualmente: “Tanti racconti, smaglianti analisi e bellissimi libri, aventi tutti per argomento la persecuzione e lo sterminio, la rievocazione instancabile, l’enfasi della memoria, tendono a gettare l’Europa nello sconforto e nella vergogna”. Nello stesso tempo, tiene a dirci Galli della Loggia, “cresce l’insofferenza verso chi (lo Stato di Israele, ndr) sentiamo avere acquisito una sorta di oggettiva superiorità morale a spese delle nostre disgrazie e delle nostre vergogne”. In un altro punto trovate la prova di come tutto ciò (la ininterrotta litania della memoria) produca il suo risultato: “È facile supporre come l’antisemitismo che oggi rialza la testa rappresenta una specie di ottusa rivalsa per la continua mortificazione che l’identità europea si trova a subire da tempo”. Dunque – interpreto l’autore – l’antisemitismo deriva dalla insistenza sulla memoria e dalla ripetizione dei viaggi ad Auschwitz. Lungo un percorso di questo genere dovete domandarvi se e dove c’entra la sinistra. C’entra. È l’uso – lui dice – che esponenti politici non ebrei fanno spesso e volentieri dell’ebraismo. “Serve per attestare il proprio impeccabile status etico-ideologico (…)” mostrando quasi una sorta di interesse personale a enfatizzare oltre misura ogni più insignificante miserabile gesto antisemita”. L’articolo è stato scritto il giorno prima del rifiuto della giunta comunale di Schio (destra leghista) di permettere l’installazione di pietre di inciampo a ricordo di 19 persone strappate in quella cittadina dalle Brigate nere e consegnate ai trasporti tedeschi. La richiesta, respinta, era venuta della minoranza di opposizione (sinistra). A Galli della Loggia fa seguito Fiamma Nirenstein, persona autorevole sul rapporto fra ebraismo italiano e Israele. Nirenstein approva e corregge. Lo fa cominciando con queste parole: “Condivido il fastidio per l’uso che personaggi politici non ebrei fanno spesso e volentieri dell’ebraismo quando (…) si affrettano a cogliere strumentalmente la minima occasione per manifestare a gran voce la propria vicinanza”. È strano che due voci di non poco conto (Galli della Loggia, per intensa presenza mediatica, Fiamma Nirenstein per il lungo lavoro politico) pensino che la prima cosa da fare sia di spintonare via i più vicini, mostrando di non tollerare le presunte strumentalizzazioni di coloro (non troppi) che si fanno trovare attivi e presenti quando l’ebraismo viene offeso.

Eppure in un momento storico in cui si è aperto, per la prima volta dal 1945, un largo spazio ostile intorno agli ebrei del mondo, uno spazio a volte esibito, a volte camuffato ma sempre rintracciabile per chi non vuole voltarsi dall’altra parte. Il rischio cresce ogni giorno intorno all’ebraismo del mondo, reso più facile dal fatto che i governi sovranisti non hanno interesse ad impedire “l’acqua alta”, poichè sono tutti “di razza ariana” come vi direbbe qualunque suprematista americano che crede e scrive e predica in più di 70 radio, che le Nazioni Unite siano il simbolo del potere ebreo nel mondo. E poi ci sono Polonia e Ungheria ma anche una certa Italia che combatte apertamente un Papa perché rispetta il Dio degli altri (anzi dice che c’è un Dio solo). Intanto le destre estreme, apertamente antisemite stravincono alle urne in Francia, in Germania, nelle elezioni europee italiane, e persino dentro il partito laburista inglese. E per le strade di quiete località del mondo c’è chi apre il fuoco su un ebreo o una scuola o una famiglia, con personale che sembra pazzo e ogni volta risulta adeguatamente addestrato. Spara contro sinagoghe francesi, americane o della Nuova Zelanda. Nessuno uccide cittadini ebrei nel mondo per vendicare i palestinesi (come è accaduto ai tempi del terrorismo di Al Fatah, di Hamas, di Hezbollah) altrimenti avremmo guerriglieri Rohingya, Uiguri, militanti del Kashmir, islamici indiani cacciati dal presidente Modi, tutti in cerca del loro persecutore o di chi lo rappresenta. Come nella Germania e nell’Italia che noi adesso consideriamo storia, gli ebrei sono in pericolo perché sono ebrei cioè stranieri cioè non cristiani, cioè portatori di un complotto per dominare il mondo (vedi Soros, l’ebreo che vuole riempire l’Italia di neri per affari suoi e a danno degli italiani, che altrimenti sarebbero bianchi e di razza pura). Invece di accusare di strumentalizzazione chi cerca di intromettersi tra la minaccia (vera, reale, presente) dei suprematisti e il loro target di sempre, non sarebbe più utile lavorare senza tregua a unire la parte civile del mondo che vuole vivere e rispettarsi insieme, contro il sovranismo violento votato al disprezzo e alla distruzione di coloro che vengono dichiarati nemici?