Ma mi faccia il piacere

Moderati. “Anonimo. Come tuo padre, visto che madre hai avuto” (13.8.21); “Sì, c’era anche tua madre nel solito ruolo” (16.7.21); “Sei in difficoltà per paternità ignota, tra diecimila mamme come ti poteva indicare?” (14.9.21); “E papà? Mamma lo ha individuato tra i diecimila possibili?”; “Un giorno tra un milione di possibili padri riconoscerai il tuo. Che madre…” (20.12.21); “Ti rode non sapere chi è tuo padre causa lavoro di mamma eh….” (2.1.22); “Mamma invece fa il lavoro più antico?”; “Tuo padre tra mille non lo troverai, colpa del mestiere di mamma tua” (6.1.22. Antologia delle migliori risposte di Maurizio Gasparri, senatore FI, ai suoi critici su Twitter, selezionate da @nonleggerlo). Non sappiamo se B., diventerà presidente della Repubblica, ma nel caso sappiamo per certo chi sarà il suo responsabile della comunicazione.

Nostradamus. “Ipotesi Quirinale. Draghi, aria di rinuncia” (Giornale, 10.1). “Centrodestra, si incrina il fronte per Berlusconi” (Stampa, 10.1). “Lega, prove di addio al Cav” (Repubblica, 13.1). “Il piano B di Berlusconi: salta fuori Amato” (Claudia Fusani, Riformista, 13.1). Io a questi gli darei l’oroscopo.

Che bella fine. “E Di Maio vede Brugnaro” (Foglio, 12.1). Sono soddisfazioni.

Il piccolo fiammiferaio. “Quando la situazione si fa calda, bisogna tenere la testa fredda”; “Io sono uno che non scappa mai e si assume le responsabilità delle proprie decisioni, anche se di sera, al buio e al freddo davanti a Palazzo Chigi” (Renato Brunetta, FI, ministro della Pa, Corriere della sera, 9.1). Lo portano via.

Amatissimo me. “Amato, tennista silenzioso che gioca ancora una partita da ‘riserva della Repubblica’. La regola di non inseguire le cariche per essere eleggibile ovunque” (Corriere della sera, 9.1). Oh, poverino, sono le poltrone che inseguono lui.

Incubi. “Vi spiego il mio folle desiderio: Draghi al Quirinale e Renzi a Chigi” (Marcello Veneziani, Verità, 11.1). Mangiato pesante, eh?

La mosca cocchiera. ”Tre schemi di gioco per il Colle: la destra rischia l’effetto Bersani” (Matteo Renzi, senatore Iv, Stampa, 14.1). “L’asse con Gianni Letta. Renzi: il 27 avremo il presidente” (Riformista, 14.1). “Pd e Renzi, l’asse in nome di Sassoli per il Mattarella bis” (Messaggero, 14.1). “Renzi esclude il bis di Mattarella: ‘Il 27 gennaio avremo un eletto’” (Repubblica, 14.1). Poveretto, come s’offre.

Bontà sua/1. “Draghi ai partiti: io ci sono, tocca a voi”, “La mossa di Draghi. Nei colloqui con i fedelissimi respinge la tentazione del semipresidenzialismo: ‘Se toccasse a me il Quirinale, lascerei mano libera ai leader politici sul mio successore’” (Stampa, 14.1). Com’è umano, lui.

Bontà sua/2. “Le condizioni di Draghi per restare. Il messaggio fatto trapelare dai collaboratori del premier: rimane a Palazzo Chigi solo se al Colle ci sono Mattarella o Amato” (Libero, 14.1). E cappuccino e brioche tutte le mattine.

Venti piani di morbidezza. “Garavaglia: ‘Per ripartire serve serenità. Sul Covid il Cts deve essere più morbido’” (Repubblica, 14.1). Quindi, praticamente, un budino.

The Day After. “Figliuolo spinge sui vaccini: ‘Già pronto il pieno per il dopo emergenza’” (Stampa, 10.1). Ci sta minacciando di non levarsi dai piedi neanche dopo?

Le parole per dirlo. “Draghi, si fida un italiano su due” (Stampa, 13.1). Strano modo di annunciare che Draghi precipita nei sondaggi dal 70 al 50%.

Ma tu guarda. “Il taglio delle tasse? A chi guadagna 40mila euro un bonus da 1.143 euro. 900 euro in più a chi ne dichiara 50mila” (Corriere della sera, 13.1). Contrariamente a quanto scritto finora da quei ballisti del Corriere della sera.

Slurp.“Il Tg5 compie 30 anni. Mimun: ‘Eravamo incoscienti, ora siamo primi’” (Libero, 12.1). Con la punta della lingua al fotofinish.

Concorso a premi. “Come credo sappiate, gran parte del branco (dei presunti stupratori di ragazze in piazza Duomo a Capodanno, ndr) arriva da fuori Milano” (Giuseppe Sala, sindaco di Milano, 13.1). “Gli stupratori erano da poco italiani. Appena raggiunta la maggiore età, 8 indagati su 9 avevano ottenuto la cittadinanza” (Libero, 16.1). Che cos’è, una gara di scemenza?

Il titolo della settimana/1. “Cestinate i cestini di Raggi: ‘Costosi, brutti e inutili’” (Repubblica.-cronaca di Roma, 14.1). Ecco di chi è la colpa della monnezza dappertutto dopo la “pulizia straordinaria entro Natale” di Gualtieri: dei cestini della Raggi.

Il titolo della settimana/2. “L’amarezza dei generali: ‘Cacciati da Gualtieri e sostituiti dai dirigenti’. Funzionari da 140 mila euro al posto di 5 militari: ‘Costavamo 1000 euro al mese’” (Giornale, 16.1). Manca ormai pochissimo al “Ridateci la Raggi”.

Il titolo della settimana/3. “Draghi: il Colle non mi condiziona” (Stampa, 10.1). Uahahahahah.

Il titolo della settimana/4. “Un presidente come Sassoli” (Francesco Bei, Repubblica, 14.1). Peccato averlo scoperto appena morto.

Emma è madre coraggio, Pietro Marcello spicca “Il volo” all’estero

Liliana Cavani tornerà sul set in primavera per dirigere Alessandro Gassmann, Claudia Gerini ed Edoardo Leo ne L’ordine del tempo, un film realizzato da Indiana Production liberamente ispirato al libro omonimo del fisico Carlo Rovelli, coautore della sceneggiatura con la regista e con Paolo Costella.

 

Dopo i larghi consensi internazionali per il suo Martin Eden, Pietro Marcello ha girato in Francia Il volo, una coproduzione franco-italo-tedesca attualmente in fase di montaggio, interpretata dall’esordiente Juliette Jouan oltre che da Louis Garrel,Raphael Thiery e Noémie Lvovsky. Scritto dal regista casertano con Maurizio Braucci e Maud Ameline, il film è il racconto popolare, musicale e storico delle vicende di Juliette, figlia di un reduce della Grande guerra e orfana di madre, e della sua emancipazione tra il 1919 e il 1939, epoca di grandi invenzioni.

 

A quasi 16 anni dal suo Quijote, tratto dal Don Chisciotte, Mimmo Paladino ha girato nella sua Paduli la prima parte di Inferno, il suo secondo film interpretato, tra gli altri, da Toni Servillo (il Conte Ugolino), Laurie Anderson (Lucifero), Alessandro Haber, Francesco De Gregori e Sergio Rubini. Il celebre artista della Transavanguardia riprenderà le riprese per Run Film e Rai Cinema a marzo tra Benevento e la Puglia.

 

Emma Marrone e Fabrizio Rongione sono i protagonisti de Il ritorno di Stefano Chiantini, una coproduzione italo-francese incentrata su una giovane donna, Teresa, che abita nella periferia di una cittadina laziale con il compagno Pietro e il loro figlio di due anni, Antonio. Teresa si divide tra lavoro precario, casa e figlio: i comportamenti dell’inaffidabile Pietro mettono a rischio lei e il bambino, per difendere il quale arriverà a compiere un gesto estremo che le costerà il carcere.

“Dio salvi la regina!”: Elisabetta II, icona nella realtà come nei film tra “Queen” e “Crown”

Il 6 febbraio 1952 la successione al trono, e che settant’anni dopo non abbia alcuna voglia di mollarlo ce lo assicura uno che The Queen la conosce bene, Stephen Frears: “Sta lì da trecento anni, perché mai dovrebbe? (ride). Dalla sua incoronazione ha preso il ruolo molto seriamente, e in più sappiamo che considera suo figlio Carlo un mezzo idiota. Abdicare a lui sarebbe molto irresponsabile, dal suo punto di vista”.

Il celebre regista inglese, intervistato ad hoc, è la ciliegina sulla torta di Dio salvi la regina!, ovvero Elisabetta II sovrana di iconologia tra realtà e fiction, scritto con gusto e acume da Anna Maria Pasetti per i tipi di Bietti (in libreria da giovedì). In esergo il compianto Roger Michell, che le ha dedicato il documentario postumo e forse definitivo Elizabeth, chiarisce intento e agio del saggio: “Non è necessario essere monarchici per abituarsi all’icona della Regina. Il tempo e il mondo ruotano vorticosamente come tifoni tropicali: tutto è mutevole, proprio tutto. Tranne lei, Elisabetta”. Lei che dalla perfida Albione move il sole e l’altre stelle; lei che, per il campione dei nostrani royal watchers Antonio Caprarica, prova mirabilmente quanto “la semplice permanenza giovi a un sovrano, soprattutto quando si tratta di una monarchia costituzionale”; lei capace – annota semiologicamente Pasetti – di “legare icona e simbolo dentro a un corpo eccezionale, in grado di vivere e trascendere il tempo in un gesto”. Nonché di validare, se non soggiogare, una teoria di opere audiovisive a sua immagine e somiglianza, dal citato The Queen a The Crown, che strappa al rosicone Frears una confessione: “Non l’ho vista, è una croce che il mio amico Peter Morgan deve portare. Sta facendo troppi soldi con quella serie, sono geloso!”, fino al mitologico Happy & Glorious, il corto diretto da Danny Boyle per l’inaugurazione dei Giochi della XXX Olimpiade di Londra, in cui interpretando sé stessa Sua Maestà saluta lo 007 Daniel Craig “Good evening, Mr Bond!”.

Come lei nessuna – e nessuno – mai, e se Frears ne deflette il carisma: “È solo potere”, a riaccomodarle la corona è Paolo Sorrentino, che nel corto pandemico Voyage au bout de la nuit – lo trovate su Netflix, è molto bello – la mette di fronte a Papa Francesco: “Io e te siamo simboli, per questo non sappiamo fare niente”.

Ma come lo fa bene quel niente la novantacinquenne Elisabetta II, regina del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e degli altri reami del Commonwealth. E, sì, icona globale.

La Lady D della Birmania, un’amazzone libera e fiera

Non una vita sola, ma nove. Non un unico nome, ma due: si chiamava June Rose Yadana Bellamy. In birmano invece l’avevano battezzata Yadana Nat Mei, “dea dei nove gioielli”. “Se vuoi scrivere questo libro, dobbiamo fare in fretta perché tra poco morirò”. Lo dice la principessa birmana al giornalista della Stampa, Francesco Moscatelli, quando la conosce nella primavera del 2020. Nel dicembre dello stesso anno, la ragazza nata a Mandalay nel 1932, si spegne a Firenze, eletta patria finale dopo una vita rocambolesca e svariate resurrezioni, collezionate da un lato all’altro del mondo. Prima della definitiva dipartita, scrive con il reporter, Le mie nove vite, autobiografia dell’ultima principessa birmana, in libreria con Add editore.

In June conviveranno sempre l’Occidente di suo padre, allibratore e allevatore di cavalli australiano, e l’Oriente di sua madre, discendente della famiglia reale asiatica: “Una dualità che ha contrassegnato la sua vita, sempre a cavallo di due mondi” spiega Moscatelli. Campionessa di tennis ed esperta amazzone, comincia a fuggire da un lato all’altro del mondo quando il conflitto si impossessa del suo Paese. La sua famiglia faceva parte della stessa élite di cui fa parte Aung San Suu Kyi, che la principessa critica per la sua scarsa preparazione politica, ma tenta anche di salvare a tutti i costi quando viene arrestata. June ha due figli con un medico napoletano che lavorava per l’Oms in Birmania: Michele e Maurizio, che muore in un incidente d’auto. Lei diventerà poi commessa, pittrice, conduttrice, First lady. “Le sue vite erano cerchi che si aprivano e si chiudevano: nessuno l’ha accompagnata da una latitudine all’altra del mondo” spiega il giornalista.

Uno degli ultimi capitoli del libro è intitolato “Il dittatore”, colui con cui la donna si unisce in matrimonio, ma solo per pochi mesi, nel 1976: la principessa sposa, contro il placet di tutti e “con ingenuità e spregiudicatezza”, Ne Win, capo assoluto della Birmania dal 1962 al 1989. “Lo fa pochi mesi dopo la morte di sua madre: come a dire, adesso tocca a me incarnare la famiglia reale. È una Lady D birmana, conosciuta e amata”, e Ne Win mira al consenso. Così torna in patria, dove mancava da decenni. “Ha sempre rivendicato anche i suoi errori”, riferisce Moscatelli. “Ogni giorno della sua vita ha onorato il buddismo birmano seguendo un precetto: vivere sempre nel presente, senza ansia per il futuro, senza rancore verso il passato che può lasciarti legato ai tuoi ieri”. Il sogno dell’unione si infrange presto e la principessa fa marcia indietro verso quella che è intanto diventata la sua ultima casa, la Toscana, terra di uno dei suoi amori, Andrea Fagnani, mossiere del Palio di Siena. A Firenze la principessa costruirà il laboratorio di cucina in cui insegnerà per 30 anni: “Più che una cuoca, un’antropologa del cibo”.

Una donna labirinto, regale pure per temperamento, ma anche “stronza egoista”, parole che riporta lei stessa con orgoglio nel memoir: a dirglielo è suo figlio, lo stesso che la spinge a raccontare i suoi mille destini incrociati in terre lontane. “Ha attraversato il 900”, dice Moscatelli, “proveniva da un mondo elitario ed eccezionale, ma non ha mai abbandonato la sua capacità di autodeterminarsi, rimanendo fedele alla sua indipendenza, alla sua indole, alla sua capacità di vivere come voleva: libera”.

“La fuga dal toro di 600 kg. Il (non) sesso con Ambra. E la paura di Gigi Proietti”

L’approccio vale uno stile di vita. Stefano Fresi è l’evoluzione dell’antica narrazione che inquadra l’uomo con qualche chilo in più come bonario, simpatico, pronto a sdrammatizzare. Lo è realmente e oltre. La sua non è una via di fuga, piuttosto è sostanza di chi sta bene con la propria storia, con il proprio io, si reputa fortunato e sa ridere pure dei fraintendimenti casuali (“A volte firmo gli autografi al posto di Battiston”); degli incidenti professionali (“Su un set sono stato inseguito da un toro di 600 chili”) o della sua carriera da compositore di jingle per la Rai (“Quando ne sento uno penso: chissà quanto ho rotto le palle alle persone”).

Ora su Sky è tra i protagonisti dell’ultimo film di Edoardo Leo, Lasciarsi un giorno a Roma e delle nuove puntate della serie I delitti del Bar Lume.

Tre anni fa al Fatto ha raccontato: “Sul set del Bar Lume mi sento in vacanza…”.

Giriamo in un luogo ameno, turistico ma non troppo, piazzato sul mare; finiamo le riprese alle cinque del pomeriggio e poi via in costume; mangiamo bene, gli abitanti del luogo sono affettuosissimi con noi…

Sembra la pubblicità del “Turista per sempre”…

È una condizione in cui uno dovrebbe pagare, mentre abbiamo uno stipendio; il regista è un catalizzatore di energia positiva, di gioia, di grande mestiere.

Poi c’è Benvenuti…

Con Alessandro c’è un rapporto gigantesco di amore.

Spesso appare come un tipo burbero.

No, è solo uno in grado di esprimere ciò che pensa in un clima di buonismo diffuso, in cui tutti temono sempre di turbare l’ordine pubblico.

Nella serie duetta con Guzzanti…

Da anni stiamo insieme sul set, ma ancora non ho imparato a non ridere delle sue uscite estemporanee. (Pausa) Ogni tanto, non solo io, ma tutta la compagnia, regista compreso, ci fermiamo, giriamo la testa, sfoghiamo la ridarella e ricominciano a girare; Guzzanti è un genio.

È uno dei più grandi?

Ho avuto il piacere e la fortuna di lavorare con molti attori bravi, ma lui è di un altro livello.

Anni fa ha dichiarato: “All’inizio mi sentivo inadeguato”.

Ma capita ancora adesso perché è un mestiere profondo, incredibile, in cui è possibile incontrare veri maestri (sorride). Se non resti umile sei uno stronzo.

Ora è considerato uno dei più bravi.

Appunto, “uno dei”, non “il più”: quindi ci sono margini.

Rispetto agli inizi.

Rifarei tutto, al massimo le esperienze brutte si tramutano in storie per gli amici.

Il suo cavallo di battaglia.

Ero sul set di Solo per il weekend: in una scena io e Francesca Inaudi dovevamo scappare su un sidecar; il problema era che nessuno aveva precedentemente mostrato a Francesca come si guidasse. Non solo: era realmente un mezzo degli anni Trenta, non semplicissimo.

Dolore…

Manifesto qualche dubbio, ma rispondono: “Non c’è tempo, tanto deve solo andare dritta”. Insomma, ci siamo sfracellati su una macchina parcheggiata, sidecar distrutto e noi super ammaccati. (Ride) Non solo, successivamente hanno scontornato la scena e ricostruitala al computer.

Il cinema va avanti a prescindere.

Non si ferma davanti a niente. Non conosce ostacoli. Li abbatte tutti.

È uno dei talenti usciti da Un medico in famiglia.

È una delle esperienze in comune con Edoardo Leo, senza saperlo: ce lo siamo rivelati anni dopo; poi sul set ho conosciuto Pietro Sermonti ed Elio Germano. Con Pietro siamo diventati amici: lui potrebbe promuovere qualunque film, anche quelli in cui non è coinvolto.

Cioè?

È preparatissimo, alle pellicole trova dei significati che neanche il regista aveva valutato, ed è talmente credibile da convincere il regista stesso.

Il Medico è stato uno dei suoi primi set.

Ero proprio l’ultimo arrivato e lì ho trovato un mito come Banfi che anni prima mi veniva a vedere a teatro, quando suonavo con un trio; (ci pensa) Lino lo ringrazio, con me è stato accogliente e generoso; sembra burbero, ma è uno di quegli attori che se capisce che la battuta sta meglio in bocca ad altri la molla senza problemi.

Lei è pure nella saga di Smetto quando voglio

Uno degli aspetti che mi impressionano di più è quando il pubblico mi ferma e recita a memoria le frasi del film; e pensare che alcune di quelle battute sono nostre, non stavano nella sceneggiatura.

Sermonti la definisce un attore uscito dalla Scuola russa. Perché sa fare tutto, pure ballare…

Ho lavorato quattro anni con Don Lurio; (pausa) c’è un aspetto di questo lavoro che mi fa impazzire…

Lo sveli.

La mia stazza è chiara, ma quando qualcuno mi prende in giro gli rispondo: ho giocato a pallone all’Olimpico, a tennis allo stadio Pietrangeli e ho ballato con Bolle. Che famo? Ecco, è incredibile quello che ti può regalare questa professione.

Torniamo a Don Lurio.

Uomo straordinario, da quarant’anni in Italia e ancora non aveva imparato la nostra lingua (lo imita benissimo): era un incrocio tra Dan Peterson e Heather Parisi, ma con un gran gusto per lo spettacolo.

Severo?

Pretendeva la precisione.

Usciva stremato.

Avevo vent’anni, reggevo. Oggi sarebbe impossibile.

Era più magro.

Un po’ sì; comunque negli ultimi tempi ho perso 30 chili e ne voglio buttare giù altrettanti.

Da ragazzo com’era?

Magro fino ai 17 anni: ho iniziato a mangiare con il teatro e con le cene post spettacolo; (cambia tono) il mio peso ha partecipato alla simpatia del personaggio: ora sono più grandicello e devo pensare alla salute, poi sono conclamato e posso permettermi di dimagrire.

È politicamente corretto.

Sono per l’incontro, per la sintesi di entrambe le parti. Per questo mi stanno sui coglioni gli hater.

Veltroniano.

L’ho pure votato, è una persona che stimo.

Ha girato un film con lui…

È un gran narratore di storie, ama questo lavoro e sa dirigere gli attori. È bravo.

L’ha stupita?

Sì, piacevolmente. Con quel film ho pure vinto il Nastro d’Argento.

Verità o leggenda: è stato inseguito da un toro di 600 chili…

Verissimo, sul set di Ma che ci dice il cervello?; lì è accaduto di peggio: giravamo su una Citroën vecchissima con problemi seri al gas di scarico: con la Cortellesi è un miracolo se non siamo morti per intossicazione.

Scrive sempre jingle per la tv?

Non ho più tempo e neanche mi chiamano: ormai mi percepiscono come attore; compongo giusto qualcosa per il teatro o studio pianoforte per me.

Cosa sognava da ragazzo?

Fino ai dodici anni di diventare come Maurizio Pollini, poi ho iniziato a cantare e a girare i locali come pianista…

Rimorchiava?

Porca miseria.

Molto?

Ero bello, magro, biondo con gli occhi celesti. Inoltre suonavo e cantavo bene.

Altro che Jerry Calà.

Eh, cose belle.

Si è divertito.

Ho suonato dai locali della Costa Smeralda fino a un albergo a Santa Severa: in questo albergo passavano gli universitari di tutta Europa… (il tono qui ha un che di furbetto).

Poi il teatro.

Fino a quando Augusto Fornari mi ha chiesto di comporre le musiche per uno spettacolo. Alle prove sono rimasto folgorato dal palco e dopo poco ho incontrato Gigi Proietti. Il massimo.

Ha partecipato alle sue cene…

In cui raccontava le barzellette più belle del mondo e faceva ridere come nessuno? Eccome…

Che consigli le ha dato?

Era un maestro inconsapevole, bastava guardarlo muoversi per capire; (pausa) con lui ho due immagini nitide: stava per entrare in scena al Teatro Olimpico; subito prima del palco si è girato verso di noi e con il volto terrorizzato ha manifestato qualche timore: “Mamma mia che strizza, farò ride’ ‘sta sera?”. Ci siamo guardati come a dirgli: “Sei Gigi Proietti: ora vai e te li magni”. Aveva paura, per amore e rispetto per questo lavoro.

La seconda…

Era ospite dell’Oscar della radio e portò con sé tutti i ragazzi del suo laboratorio. Io tra questi. Così mi sono trovato in televisione insieme a lui per una trasmissione registrata. Lo studio era vuoto; alla fine dell’esibizione Gigi ha iniziato a ringraziare, e non si fermava più, con frasi tipo “oh, esagerati… ma che è… non dovete ”. Insomma, stava simulando una standing ovation per costringere gli autori a montarci sopra degli applausi adeguati. Lì ho pensato: che paraculo.

Nel 2015 Francesca Neri ha dichiarato: “Pare che non si riesca a girare un film senza Fresi”.

(Ride) Eh, pare di sì. Finché ce cascano io sono qua.

Battiston: “Firmo gli autografi per Smetto quando voglio”.

Io per Perfetti sconosciuti; con Giuseppe ci siamo incontrati ai David, seduti vicini, abbiamo riso per questa storia che ci confondono e stretto un patto di autografi incrociati.

Come si trova con le scene di sesso?

Per fortuna ne ho girate poche: per chi partecipa è la distruzione di ogni erotismo. Il massimo l’ho raggiunto con Ambra Angiolini: in teoria dovevo starle sopra, in pratica la telecamera era fissa sul mio viso e sotto avevo un cuscino.

E Ambra?

Seduta accanto a me mentre gemeva e recitava delle frasette; (ride) un’altra volta con Giulia Michelini: ci incontriamo, salutiamo, presentiamo e dopo i complimenti reciproci ci piazzano accanto a un muro per simulare qualcosa di molto acceso. Quando mia moglie ha visto la scena non è stata felicissima; al posto suo sarei impazzito.

Il momento di rottura nella sua carriera.

Con Smetto quando voglio: dopo quel film andai dalla mia agente e trovai 14 copioni per me; in tre settimane ero passato dal cercare pose a poter scegliere, è una sensazione che auguro a tutti.

Aveva mai pensato di rinunciare alla carriera?

Nooo! Ho il privilegio di campare della mia passione, ma stavo bene pure prima: avevo giusto la casa più piccola, un’auto meno performante e spendevo meno di mutuo. Per il resto andava benissimo.

È mai andato in terapia?

No, però ho molte persone che mi usano come terapeuta.

Sa ascoltare.

È uno dei pochi pregi che mi riconosco, ed e è fondamentale per il mio lavoro.

Chi è lei?

Un quasi cinquantenne molto risolto.

Risolto da quando?

Da almeno undici anni, da quando è nato mio figlio. E spero di vivere il più a lungo possibile, ma se morissi domani ne è valsa la pena.

 

Stragi e depistaggi: cosa resta da fare

Ho vissuto la mia esperienza in magistratura in un’epoca tragica della storia d’Italia segnata da una sequenza ininterrotta di omicidi politici e di stragi che non ha uguali in nessun altro Paese europeo di democrazia avanzata, e che ha falcidiato tante vittime innocenti insieme ad alcuni degli uomini migliori del nostro Paese.

Decisi di trasferirmi a Palermo nel 1988 perché in quel tempo era una trincea avanzata ove era in corso un corpo a corpo tra una esigua avanguardia di uomini dello Stato che si stavano spingendo laddove nessuno aveva mai osato, e poteri criminali – di cui la mafia militare era solo la componente più visibile e appariscente – che reagivano con furia omicida e con sotterranee manovre di Palazzo per fermarli. Ho avuto l’onore di lavorare con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e di essere testimone del loro progressivo isolamento e della loro discesa agli inferi senza ritorno. Dopo che Falcone decise di andare via da Palermo perché gli veniva impedito di svolgere le indagini sui livelli dei poteri criminali superiori alla mafia militare, che egli aveva individuato e che non a caso aveva definito “menti raffinatissime”, coniando l’espressione “gioco grande” per definire l’occulto gioco di potere che si celava dietro tanti delitti eccellenti, decisi di andare via dalla Procura di Palermo e feci domanda di trasferimento in altro ufficio. Con Falcone ci rivedemmo a Roma poco prima della strage di Capaci, mi confidò che riteneva di avere buone probabilità di essere nominato Procuratore nazionale antimafia e mi invitò a presentare domanda per la Procura nazionale, dicendomi che avremmo potuto finalmente svolgere le indagini che sino ad allora gli erano state impedite. Dopo la strage di via D’Amelio, decisi di revocare la domanda di trasferimento e redassi un documento che fu sottoscritto da altri sette sostituti procuratori, con il quale minacciavamo di dare le dimissioni se non veniva trasferito il Procuratore capo che aveva emarginato prima Falcone e poi Borsellino. Il Csm aprì una inchiesta convocando tutti i magistrati dell’ufficio. Nel corso della mia audizione del 29 luglio 1992, raccontai con dettagli come e perché Falcone e Borsellino erano stati ridotti all’impotenza. Ho appreso anni dopo che, ciononostante, si stava formando una maggioranza favorevole a mantenere al suo posto il Procuratore Capo, con conseguenze negative per i “ribelli”, come venimmo definiti. La situazione si sbloccò a nostro favore perché quel Procuratore decise all’improvviso di fare domanda di trasferimento. Credo che abbia svolto un ruolo importante l’imponente mobilitazione della società civile. Migliaia e migliaia di persone che scesero in piazza per chiedere giustizia e che gridavano parole di sdegno, furono il segnale che non si poteva tirare oltre la corda, restaurando il passato. Iniziò così una corsa contro il tempo. Sapevamo che si preparavano altri omicidi e altre stragi. Si lavorava giorno e notte per raccogliere prove sufficienti per individuare e neutralizzare con ordini di cattura i mafiosi stragisti più pericolosi, togliendoli dalla strada. Contemporaneamente iniziammo a svolgere con il nuovo Procuratore Gian Carlo Caselli, le indagini che Falcone e Borsellino, e prima di loro Rocco Chinnici e altri valorosi magistrati, non avevano avuto la possibilità di svolgere e che avevano segnato la loro via crucis. La stagione degli intoccabili sembrava finita. I collaboratori di giustizia iniziarono a rivelare tutto ciò che avevano sempre taciuto per timore di rappresaglie da parte di un sistema di potere che sino ad allora era apparso invincibile e che in quella fase sembrava stesse collassando. Furono sottoposti a giudizio presidenti del Consiglio, ministri, vertici dei Servizi segreti e delle Forze di Polizia, alti magistrati, uno stuolo di uomini politici nazionali e regionali, di imprenditori, taluni dei quali a capo di holding nazionali con proiezioni internazionali, di banchieri e via elencando. La reazione non si fece attendere. A poco a poco, in modi e in tempi diversi, i principali protagonisti di quella stagione fummo progressivamente esclusi dalle indagini più scottanti e dalla possibilità di accedere a incarichi direttivi operativi ritenuti strategici. Per Caselli fu addirittura varato nel 2005 un emendamento ad hoc alla legge delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario (dichiarato poi incostituzionale) per impedirgli di fare domanda per il posto di Procuratore nazionale antimafia. Quando io a mia volta nel 2012, manifestai l’intenzione di presentare domanda per quel posto che di lì a poco si sarebbe reso vacante, mi sentii dire che non avevo alcuna speranza perché ero un magistrato “troppo caratterizzato”. Un componente del Csm, tra il serio e il faceto, mi disse: “Non possiamo nominare una sorta di Che Guevara in un posto simile!”. Nonostante ciò, non ho mai smesso di proseguire le indagini sul complesso progetto di destabilizzazione politica sotteso alle stragi del 1992/1993 e sui mandanti occulti, che avevamo iniziato alla Procura di Palermo nel 1996 con il processo “Sistemi Criminali”. Da Procuratore Generale di Caltanissetta mi sono occupato della revisione del processo per la strage di via D’Amelio, approfondendo la conoscenza di tutti gli atti di quella complessa indagine. Da Procuratore Generale di Palermo ho partecipato dal maggio 2019 a riunioni di coordinamento con tutte le Procure distrettuali competenti per i processi sulle stragi, a seguito di indagini svolte dal mio ufficio per l’omicidio di un agente delle Polizia di Stato che aveva scoperto collusioni tra mafiosi e settori dei Servizi segreti. Ho così avuto la possibilità di comprendere che le stragi del 1992 e del 1993 non appartengono al passato, ma sono ancora tra noi in tanti modi. Le indagini su queste stragi sono state caratterizzate da una serie impressionante di depistaggi realizzati mediante la sottrazione di documenti essenziali, la creazione di false piste, l’eliminazione di mafiosi depositari di segreti scottanti poco prima che iniziassero a collaborare con la magistratura, e altro ancora. È stato fatto di tutto e di più per impedire che venissero alla luce verità indicibili. Il fatto che i tentativi di depistaggio si siano ripetuti sino a tempi recenti e siano ancora in corso, dimostra la pericolosa e attuale operatività di chi ha timore che quei segreti possano ancora venire alla luce. Prima di andare via, ho trasmesso una relazione sulle ultime indagini che ho svolto in questo campo. Chiudendo la porta alle mie spalle, sentivo di avere compiuto il mio dovere sino all’ultimo giorno della mia carriera. Ora tocca a chi resta proseguire il difficile compito di accertare la parte di verità rimasta sino a oggi celata, e di rendere piena giustizia a chi ha sacrificato la propria vita per difendere la nostra democrazia.

 

L’arte “attiva”: antagonismo, relazione e prassi divertente

 

L’ARTE MODERNA E LA PRASSI DIVERTENTE

Esplorando i rapporti fra arte moderna e prassi divertente, siamo arrivati al tema dell’antagonismo artistico nell’arte contemporanea. Bourriaud (2002) riconosce che Huyghe, Cattelan, Orozco, Gonzalez-Foerster, Tiravanija, Beecroft e Gillick (gli artisti da lui segnalati nel 1996 con la mostra “Traffic” al Cap Musee d’art contemporain di Bordeaux) riutilizzano pratiche e principi non nuovi (citazione, riciclo, détournement, partecipazione, interazione, performance), ma afferma che sia nuovo il loro fine: creare un’arte di condivisione. Questo suo convincimento lascia irrisolti diversi problemi:

1) L’idea che la cultura non riflette la società, ma la produce, è di Althusser (1969), e fu usata con profitto dalla critica femminista degli anni ‘70; ma l’arte relazionale, nell’esibire un contesto, non mette in discussione la propria embricazione nel contesto.

2) Il cambio di indirizzo, dal privato al pubblico, e la nuova funzione autore, resa indistinta dalle frequenti collaborazioni fra artisti e curatori, troncano ogni legame dell’arte relazionale con il modernismo (Krauss, 1973); ma la sua derivazione dalla installation art gliene fa assumere il principale difetto: l’uso di media diversi la disancora da una tradizione specifica, per cui non ha convenzioni su cui agire, né fornisce criteri con cui giudicare la sua riuscita (Krauss, 1999). Quando Cattelan crea Lullaby (1994) ammonticchiando su un pallet una dozzina di sacchi da demolizione riempiti con macerie raccolte dal PAC di Milano dopo l’attentato che causò cinque morti, e sostiene che il suo lavoro ha lo scopo di denunciare i limiti e le contraddizioni del sistema, Emilio Tadini commenta sul Corriere della sera: “Che cosa sarebbe quella tonnellata di macerie, se non fosse esposta in un luogo dedicato all’arte? Solo una tonnellata di macerie.” (Prendere alla lettera una metafora, però, non è un argomento).

3) Bourriaud dà per scontata la bontà etico-politica delle relazioni create dall’arte relazionale, invece occorre chiedersi che tipo di relazioni vengono prodotte, da chi e perché. Cosa sarebbe successo, dicevamo la volta scorsa, se l’appartamento dell’installazione di Tiravanija fosse stato occupato da veri homeless? (Bishop, 2004).

4) Il situazionismo lotta contro la vita alienata della società capitalista e, con pratiche come il détournement (la diversione), denuncia la funzione consolatoria dell’arte. “Ogni elemento, non importa da dove è preso, può servire a creare nuove combinazioni. Tutto può essere usato. Ovviamente non ci si deve limitare a correggere un’opera, o a integrare diversi brani di lavori datati in una nuova opera; si può anche alterare il significato di quei brani in modo appropriato, lasciando agli imbecilli la servile conservazione delle ‘citazioni’” (Debord & Wolman, 1956). Senza questo atteggiamento critico, il remix è solo produzione e consumazione, cioè complicità con il sistema.

5) Bourriaud ritiene che l’arte relazionale liberi dallo scambio capitalistico in quanto sostituisce relazioni umane agli oggetti; ma il valore di scambio, spiega Marx, è nel lavoro: pensare che il valore di scambio sia negli oggetti è feticismo (era l’aspetto affrontato dal minimalismo, sotto forma di critica alla pretesa autonomia dell’arte); e affermare il sociale non critica lo scambio capitalistico, ne mostra solo la sua costituzione sociale (Martin, 2007).

Bourriaud (1997) sosteneva che l’obiettivo dell’arte relazionale fosse la creazione di micro-utopie nel presente. Per contro, le performance di Sierra e le installazioni di Hirschhorn negano la possibilità di micro-utopie: affrontano la questione del rapporto fra arte e società trasmettendo ai partecipanti disagio, non senso di appartenenza. (Da noi, l’antologia Gioventù cannibale fece la stessa cosa con un realismo splatter che attingeva i suoi stilemi dalla cultura di massa, sull’esempio delle riviste Cannibale e Frigidaire). Sierra documenta con foto in b/n gli interventi dove paga partecipanti per farsi tatuare (Line Tattooed on Four People, 2000) o per masturbarsi (Ten People Paid to Masturbate, 2000): Sierra cioè sfrutta altri per fare il lavoro artistico per cui lo pagano, come lui è a sua volta sfruttato da galleristi, mercanti e collezionisti. “Non posso cambiare niente” (Sierra, 2002): mentre l’opera aperta nega l’esclusione sociale, l’opera di Sierra la documenta, senza riconciliarla, e così diventa critica immanente alle relazioni capitalistiche di scambio (Martin, 2007). Alla Biennale di Venezia del 2001, Sierra dà il suo spazio espositivo a venditori abusivi, perché vi possano vendere le loro borse Fendi tarocche: e il senso di identità del pubblico, che si fonda sull’esclusione razziale e di classe, va in tilt, poiché Sierra non armonizza l’estraneità fra i due mondi (ambulanti e Biennale). Tutte le interazioni umane si fondano su taciute esclusioni sociali e legali.

La sfera pubblica è democratica se è possibile contestare le sue esclusioni (Deutsche, 1998): non è democratica una società (e un’arte) che silenzia il conflitto; l’antagonismo è necessario alla democrazia. Arte e società sono tenute in conflitto fra loro affinché lo spettatore arrivi a ripensare il suo rapporto con il mondo e con gli altri. Hirschhorn, per esempio, non vuole che lo spettatore interagisca da attore con le sue opere, per evitare l’equivoco dell’arte come intrattenimento, divertimento e commercio. Non vuole intimidire, dominare, sedurre il pubblico, né denunciare il sistema dell’arte. “Non faccio arte politica, faccio arte politicamente”, dice: si tratta di lavorare “con la massima energia contro il principio della qualità” (Hirschhorn, 2000). Per Documenta XI allestisce il Bataille Monument (2002), tre installazioni con libri e video su Bataille, e un bar; ma lo fa ad alcuni chilometri di distanza da Kassel, in un sobborgo la cui comunità è socialmente ed economicamente estranea alla manifestazione; il sobborgo va raggiunto con taxi di una compagnia turca, pagata per traghettare i visitatori anda e rianda; in attesa del taxi di ritorno, i visitatori del monumento finiscono per usare il bar. L’opera inserisce lo spettatore in un contesto che lo esclude, e qualcuno reagisce accusando Hirschhorn di snobismo nei confronti della comunità ospite. Spiega Hirschhorn: “Non voglio fare arte interattiva, ma arte attiva. L’attività più importante che l’arte può provocare è quella del pensiero” (Morgan, 2003).

(89. Continua)

Epstein, Andrea inguaiato da due nuovi testimoni

Nuovi testimoni, ma anche evidenze che non saranno mai rese pubbliche. La saga del principe Andrea, ormai “comune cittadino” perché recentemente privato dei suoi titoli reali e militari, continua. I suoi legali hanno trovato un accordo con quelli di Virginia Giuffre, oggi 38enne, che lo accusa di abusi sessuali commessi nel 2001, quando era ancora minorenne. Alcune prove, hanno riferito ieri gli avvocati, rimarranno riservate e non finiranno in tribunale, dove però sarà inquisito il duca di York.

Alla sbarra però, come si evince dalla documentazione depositata alla Corte di Manhattan, la Giuffre vuole Shukri Walker e Robert Olney, ex assistente del principe. Entrambi erano presenti la sera in cui, nel night-club Tramp di Londra, Andrea ha ballato e poi avuto rapporti sessuali con la Giuffre. Il nome di Olney spesso appare tra gli appunti del cosiddetto “libro nero” del pedofilo milionario Epstein. L’assistente “ha probabilmente informazioni rilevanti”, ha detto Sigrid McCawley, avvocato della donna convinta che Olney sappia anche dei vari spostamenti del reale tra le varie proprietà del tycoon, morto suicida in carcere, e della sua amante e complice, Ghislaine Maxwell.

La squadra legale di Andrea ha giocato un’altra carta: quella dei ricordi. La Giuffre potrebbe avere “false memorie” di quella serata e dovrebbe essere sottoposta a una visita psicologica.

Ad abbandonare Andrea non è stata solo sua madre, la Regina Elisabetta, Buckingham Palace, la famiglia reale e tutto l’esercito britannico: adesso anche la città di York, di cui è duca, non vuole più essere associata al reale in disgrazia, inseguito dai suoi vergognosi scandali. “È insostenibile per il duca di York tenersi il titolo un giorno di più, le accuse contro di lui sono molto gravi” ha dichiarato Rachael Maskell, deputata laburista della città.

Erutta vulcano sottomarino: allarme tsunami dalla California al Giappone

L’eruzione del vulcano sottomarino Hunga-Tonga-Hunga-Hàapai ha provocato uno tsunami che ha raggiunto l’isola principale del regno di Tonga, Tongatapu. Molte persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni, strade ed edifici sono stati allagati delle onde. Non ci sono notizie di vittime, ma elettricità e comunicazioni sono interrotte. Il governo ha mobilitato l’esercito per l’emergenza. L’allarme tsunami è scattato anche alle Samoa, nelle Fiji e in Nuova Zelanda. Rimangono in allerta anche alle Hawaii, in Alaska e negli stati di Oregon e Washington, lungo la costa occidentale degli Stati Uniti. Le prime onde dello tsunami innescato dall’eruzione hanno raggiunto la California. Anche la Costa Pacifica del Giappone è stata colpita dallo tsunami. Le autorità hanno avvertito la popolazione di spostarsi in aree lontane dalla costa e sopraelevate.

“Erba” legalizzata, il governo nicchia

Che fine ha fatto la legalizzazione della cannabis che il governo aveva messo nel suo programma? Il cancelliere Scholz prende tempo mentre – segnalano alcune associazioni che hanno promosso il dibattito a favore della legalizzazione – lo smercio si adegua ai tempi della pandemia. Schermato dall’anonimato di messaggi criptati e che si possono leggere una sola volta, il giro di affari è esploso durante i mesi di confinamento. “Questo è il menu” scrive un venditore su una chat privata di Telegram. Foto, prezzi, sconti, pagamenti e consegne. Marijuana “coltivata in Olanda con amore”, hashish, cocaina “made in Perù”, funghi allucinogeni, Lsd “formula originale” e le pastiglie di ecstasy con sopra il marchio Tesla. Per ogni prodotto c’è un ordine minimo, il prezzo è già basso, ma aumentando le quantità vengono applicati sconti importanti. Un grammo d’erba costa 10 euro, ma comprandone 100 il prezzo scende a 4 euro. Per lo scambio ogni spacciatore ha il suo metodo. Alcuni arrivano in taxi, altri fingono una consegna di un ristorante. In questi casi il pagamento avviene in contanti. Ma alcuni hanno sistemi più complessi: “Per ragioni di sicurezza lavoriamo solo con la consegna in deposito. Significa che un nostro uomo nasconderà la merce nella zona richiesta. Dopo mandiamo posizione gps, foto e descrizione del posto. La consegna verrà effettuata in un piccolo sasso di plastica, dentro c’è tutto quello ordinato”. In questi casi il pagamento si fa con bonifico o criptovaluta. Lo spacciatore sottolinea che non accetta Paypal “non lo usiamo, il cliente può chiedere il rimborso senza motivo. E noi non possiamo farci niente. Vendiamo droga, non vestitini per cuccioli”. Lo scorso anno la polizia è intervenuta per tentare di limitare le chat degli spacciatori. Con un’operazione partita da Francoforte sono stati chiusi nove gruppi Telegram: ma in poche ore sono comparsi nuovi gruppi: “Coke Cola 24/7”, “Coke Taxi” o “Candyland”. Con il moltiplicarsi dell’offerta gli spacciatori cercano la fidelizzazione del cliente. Sovente anche vendendo un prodotto che si presenta meglio, ma meno puro. Georg Wurth è un attivista per la legalizzazione della cannabis. Nel 2014 ha vinto 1 milione di euro in un programma televisivo. Con i soldi ha ampliato l’associazione Hanverband, la più grande organizzazione tedesca per la liberalizzazione della marijuana, che guida dal 2002. “Nell’erba comprata al mercato nero ci sono prodotti chimici, oppiacei. La soluzione più semplice è che lo Stato vigili sulla vendita della cannabis – spiega Wurth – nel programma della coalizione c’è la legalizzazione”. Verdi e liberali hanno già un accordo per la legalizzazione, adesso tocca ai socialdemocratici fare il passo finale.