Conte vs Meloni, domani la sfida tra “uomini” forti

“Sul Mes Conte ha venduto il sangue degli italiani”.

Giorgia Meloni

 

“Lunedì spazzerò via mezze ricostruzioni, menzogne, mistificazioni”.

Giuseppe Conte

 

Mettetevi comodi perché domani sul ring dell’aula di Montecitorio andrà in scena il match di cartello tra il premier Conte, uomo forte del governo giallorosso, e Giorgia Meloni donna forte della destra più destra Dio patria e famiglia sono una madre sono cristiana. Con lo scontro sul fondo salva-Stati (Mes) che sarà il pretesto mediatico perfetto per mostrare i muscoli e affermare la supremazia nei rispettivi campi d’influenza. Probabilmente si strillerà parecchio e i commessi avranno il loro daffare per placare i bollenti spiriti dei rispettivi schieramenti, anche se sarà meglio non badare troppo alle apparenze poiché i due non sono poi così dissimili. Entrambi fumantini e di baricentro basso (come certi attaccanti imprevedibili) hanno avuto modo di annusarsi a settembre quando la leader di FdI, che aveva già opzionato il Conte Uno per la festa di Atreju (con Matteo Salvini ancora ministro degli Interni e sobrio) rinnovò l’invito al Conte diventato nel frattempo Due. Il che sarebbe accaduto proprio nel famoso 20 agosto dell’ok corral del Senato con l’avvocato di Volturara Appula che aveva appena terminato di menare il rintronato vicino di banco non più vicepremier. Qui se le ricostruzioni sono autentiche possiamo immaginare Giorgia che si avvicina a Giuseppe (con l’espressione di un siluro a testata nucleare) pensando: ciccio vediamo se hai ancora il fegato di venirci a trovare dopo che ti abbiamo detto di tutto. E Giuseppe che risponde: ma certo che sì (con il sorriso di uno squalo in libera uscita a ferragosto) pensando: cocca ma credi davvero che io possa aver paura di voi? Non andò male: i Fratelli Meloni, pur tra qualche mugugno, risparmiarono l’ospite che se ne uscì incolume e con l’onore delle armi. Mentre lei incamerò l’omaggio dell’autorevole avversario mostrando doti di duttilità politica sconosciute al socio leghista beach. Lunedì sarà diverso perché entrambi intendono giocare una partita doppia. Conte, per dare un’altra piallata a Salvini (non presente in aula in quanto senatore) il quale, come al solito a sua insaputa, si è fatto passare il Mes sotto il naso salvo gridare poi al tradimento della patria. Soprattutto il premier non si farà sfuggire l’occasione di una esibizione forzuta per mettere in riga (qui comando io) gli alleati: l’ondivago Luigi Di Maio, il perplesso Nicola Zingaretti, l’esangue Roberto Speranza e il Matteo Renzi in versione Italia Open. Quanto alla Meloni, tra gli schizzi di sangue degli italiani chiederà, per lo meno, la messa in stato d’accusa del presidente del Consiglio che ha venduto l’Italia allo straniero, con fucilazione alla schiena e pubblico ludibrio. Con il che imprimerà un’altra decisa spinta ai sondaggi in continua crescita, mentre Salvini cala. Dimostrando di essere, ogni giorno di più, oltre che la donna anche l’uomo forte della destra.

Genova, quel prete deve sparire

“Sono addolorato… per non aver dato credito alle parole di quei ragazzi che denunciavano di aver subito attenzioni da un sacerdote. Erano gli anni Novanta e non c’era la cultura, non ci si rendeva conto. Soltanto dopo abbiamo capito e… sono arrivate le direttive di papa Francesco. Oggi non succederebbe più, tutto è cambiato”. Parla il vescovo di Chiavari Alberto Tanasini, uno degli uomini più stimati della chiesa ligure. Quando questa storia comincia, a metà degli anni Novanta, era monsignore e vicario della diocesi di Genova.
Sulla sua scrivania arrivò il fascicolo che conteneva la denuncia di un gruppo di educatori e ragazzi di un borgo della Riviera del Levante genovese. Raccontavano di comportamenti “non appropriati” da parte del parroco. Fu aperto un fascicolo. “Lo seguii io, con Nicolò Anselmi (oggi vescovo ausiliario del cardinale Angelo Bagnasco)”. A Sherlock risulta che in Curia furono convocati gli educatori e i ragazzi. Audizioni piene di dolore. Ad ascoltare anche monsignor Guido Marini, oggi maestro delle celebrazioni liturigiche pontificie. E cosa fu deciso? “Il parroco fu trasferito nella chiesa di Albaro, a Genova. Ma non per quello, fu un normale avvicendamento”.

Ora lo scandalo dimenticato si è riaperto, più di vent’anni dopo. Ci furono anche altri episodi segnalati? “Non lo so. So che i ragazzi di allora ci hanno ripensato. Hanno chiesto che la questione fosse affrontata di nuovo, hanno portato prove. E il cardinal Bagnasco ha deciso di allontanare subito il prete”. Parliamo anche di minori? “Eh… temo di sì. Ho avuto questa sensazione dal racconto della platea dei ragazzi coinvolti”. Il vescovo Tanasini parla a bassa voce, ma senza reticenze: “Stiamo facendo i passi necessari. È cambiato tutto in questi anni. Ma… ammetto… ci sono stati degli errori. Sono addolorato per non aver dato credito alle parole di quei ragazzi”.

Nessuno a Genova seppe dello scandalo. Il tempo sembrava aver cancellato ogni cosa, ma nei ragazzi di allora la ferita è ancora viva. Lacerante. Alcuni di loro ormai sono mariti, padri di famiglia, sono riusciti a ricostruirsi una vita. Altri no: “Abbiamo avuto l’esistenza segnata”. Così, come racconta Tanasini, qualcuno ha deciso di tornare in Curia per portare nuovi elementi, chiedere giustizia. Una storia che comincia dall’ultimo capitolo, nel luglio scorso. Quando il pentolone rimasto chiuso per decenni si scoperchia.

“Il parroco è sparito, all’improvviso. Nessuno sa dove sia andato”. È accaduto un giorno di mezza estate, quando Genova era schiacciata dal caldo, semivuota; figurarsi se ci si accorgeva di un prete che lascia la sua parrocchia. Però stavolta c’era qualcosa di strano, un addio precipitoso che ricordava altre fughe. Altre storie. Scandali di cui si sente sussurrare quella parola: “Sesso”. Poi la fessura viene rapidamente richiusa, invocando il “rispetto”. Si cerca di dimenticare. Non stavolta, però. Perché qualcuno ha cominciato a riferire di “rapporti non appropriati”. A raccontare di ragazzi – “almeno una decina”, sostiene chi c’era – che hanno visto la loro vita cambiare per sempre.

“È passata una macchina, e il don è salito con una valigia”, racconta Teresa, mentre sorseggia un caffè al bar, davanti alla chiesa di Albaro. Il prete lochiameremo “don X” (ogni dettaglio è noto a Sherlock, ma abbiamo deciso di omettere anche i nomi delle parrocchie interessate per proteggere le vittime). E poi? “Niente, sparito nel nulla. Dopo vent’anni che era con noi… da fedele, ci sono rimasta male”. “Forse era per via del diabete”, azzarda Giorgia, che vende i suoi fiori nel chiosco accanto alla chiesa di Albaro, i Parioli di Genova. “Perché il nostro parroco non era vecchio… sessantasei anni… ma non stava tanto bene”. Walter, il portinaio del palazzo signorile che si affaccia su questa chiesa moderna e anonima, allarga le braccia: “Dicono che sia a Roma, che avesse bisogno di un periodo di riposo”. Una malattia, un esaurimento, chissà.

Dopo qualche giorno, ecco comparire il nuovo parroco. Ha preso a celebrare messa, a ricevere i fedeli: come se nulla fosse accaduto.

Certi segreti alla fine emergono. Inesorabilmente. A settembre, all’associazione Rete L’Abuso – guidata da Francesco Zanardi, sempre in prima fila contro gli abusi sessuali dei sacerdoti – arriva una lettera anonima.

Vi comunichiamo che in questi giorni, nel caldo dell’estate, il prete don … è stato sollevato dall’incarico di parroco della chiesa di Albaro – dove era stato cappellano Bagnasco – per sospetti abusi sui giovani. Tanti giovani e tante famiglie sono state distrutte nella loro crescita. Ora il prete è sotto processo ecclesiastico, ma la Chiesa lo nasconde.

Così Sherlock ha cominciato la ricerca di don X. Vana. Perfino quando ha chiesto di parlare con l’attuale parroco di Albaro per un’importante questione privata: “Il don è stato male”. Possiamo contattarlo? “No”. Possiamo almeno sapere dove è andato? “No”. Restava una strada. Zanardi si è recato ad Albaro, si è presentato come “vittima di molestie” (vittima lo è davvero, seppure non in questo caso), e ha chiesto di parlare con il parroco. Sempre la stessa risposta: “Non c’è”. Ma alla fine Zanardi riesce a parlare con un sacrestano. Un colloquio a bassa voce, gli occhi che cercano intorno se qualcuno può sentire: “Ah… È una vittima anche lei… io non voglio sapere di queste faccende… ma lei è di questa parrocchia, o di quella di Levante?”.

Poche parole, ma bastano per sollevare il coperchio, indicare una pista da seguire: c’è Albaro, ma c’è anche un’altra chiesa, in un borgo di pescatori a est di Genova. Albaro non è un quartiere qualunque. Qui vive la borghesia ricca genovese, professionisti, industriali e armatori. Tutti racchiusi in una manciata di strade e incroci, tra palazzi signorili e ville settecentesche nascoste oltre alti cancelli e siepi impenetrabili. Albaro conservatrice e cattolica anche quando Genova era rossa. E la chiesa di don X ne è un simbolo: qui la domenica incontri molti nomi della Genova che conta. Qui per anni ha vissuto don Angelo Bagnasco. Era cappellano, anche se già occupava posti di rilievo nella Curia genovese. Finché nel 1998 fu nominato vescovo di Pesaro, poi arcivescovo militare, infine cardinale di Genova e presidente della Cei. Ma, proprio in questa chiesa di Albaro che gli è tanto cara, il percorso dell’attuale cardinale ha incrociato quello di don X: quando nel 1998 Bagnasco lasciava la parrocchia per assumere l’incarico di vescovo, don X diventava parroco.

Tra i vicoli del paese della Riviera, appena pronunci quel nome, la coperta del passato si solleva. E i ragazzi di allora cominciano a raccontare. “Se me lo ricordo? Quell’uomo, quegli anni, mi hanno scavato nella carne”, racconta Luigi, nome di fantasia. Oggi è un professionista affermato, ha una famiglia, ma quella pagina della sua vita non è riuscito a chiuderla: “Il don insegnava in una scuola superiore. Era un trascinatore, un uomo dai modi… avvolgenti… sapeva fare gruppo”, racconta Luigi e, senza che se ne accorga, le mani iniziano a tremargli. “Intorno alla parrocchia giravano oltre 150 ragazzi, in un paese di 4mila anime”. Eccola, una di quelle chiese liguri con la facciata color ocra, le barche di pescatori sul sagrato. “Chiese di Liguria come navi disposte a essere varate”, diceva il poeta Vincenzo Cardarelli. Ma in quella chiesa, accanto all’altare della Madonna della Guardia, succedeva anche altro.

“All’inizio abbiamo vissuto momenti belli, ma con gli anni l’atmosfera è diventata pesante. Quando ti trovavi da solo col don, lui ti veniva vicino… Ti accarezzava”. Luigi si ferma un attimo, poi si lascia andare: “Una volta ricordo che mi ha detto: ‘Mi fai vedere in mezzo alle gambe…’ Ma non mi faccia dire altro, non me la sento”. Luigi chiude gli occhi. Era riuscito a dire ‘no’. “C’è gente che ne è uscita devastata. Il don si era creato un gruppo di fedelissimi, di oblati. Stava sempre con loro”. È Arturo a riferire altri dettagli: “Mi ricordo la confessione. Spesso ci portava in campagna, voleva che ci confessassimo così, da soli con lui nei prati. E dopo… ci chiedeva di abbandonarci, di lasciarci andare”. Arturo improvvisamente si chiude: “Nessuno deve sapere. Non ce la farei”. È la stessa risposta che arriva da altri ragazzi di allora. “Non si può capire… Non avevo detto niente ai miei genitori. Poi sono riuscito a sposarmi, ma ho il terrore che mia moglie e i miei figli lo sappiano”.

Raggiungiamo don X al telefono.
– No, non c’è mai stata nessuna inchiesta sul mio conto.
– Ce lo ha confermato un vescovo.
– Io non ne so niente.
– E i ragazzi che affermano di aver subito da lei approcci sessuali?
– Non… non credo che possano dire una cosa simile.
– Scusi padre, ‘sì’ o ‘no’?
– Giuro che non ho mai desiderato una cosa simile.
– E i minori?
– Questo assolutamente no, il solo pensiero mi fa orrore. Vi prego, abbiate cura per le persone: per me, ma anche per quei ragazzi che mi accusano… provo dolore per loro.

Eppure la bugna, come dicono qui, è scoppiata diverse volte. Siamo all’inizio degli anni ’90. In paese se ne parla, frasi smozzicate, allusioni. Don X, non si sa il motivo, viene trasferito in una parrocchia vicina, un paese sui primi crinali. Una manciata di case, nemmeno duecento abitanti, quasi tutti contadini. Ma il patto di affetto, di fedeltà tra don X e i suoi ragazzi non cede. Finché, intorno al 1996, nel gruppo arrivano due nuovi educatori che presentano una denuncia alle gerarchie ecclesiastiche. E la Curia si muove. Vengono sentiti i ragazzi che frequentano la parrocchia: “Fui convocato anch’io – racconta Luigi – ci fu un’indagine condotta da Tanasini. Io fui ascoltato da Guido Marini”.

È qui che si incrociano tre figure di primo piano della Curia, non soltanto genovese. Tanasini, che proprio in quel periodo viene nominato vescovo, è da sempre molto apprezzato a San Lorenzo, il duomo di Genova. Gli furono affiancati due giovani sacerdoti dal brillante avvenire. C’era Nicolò Anselmi, un sacerdote noto tra i ragazzi genovesi: prima l’impegno con gli scout, poi l’insegnamento di religione nei licei più in vista della città, quindi la Pastorale Giovanile. Anselmi, a 54 anni, nel 2015, diventa vescovo ausiliario di Bagnasco. Con lui c’era anche Guido Marini – nato nel 1965 e ordinato nel 1989 – che, già dagli esordi, come segretario del cardinale Giovanni Canestri, era parso destinato a fare strada. “Un uomo alto, sottile. Sempre gentile, umano. Certo un conservatore, molto attento alla liturgia”, senti dire tra le navate di San Lorenzo, la cattedrale che Marini frequenta da molti anni come cerimoniere dei cardinali Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone. È all’epoca di Benedetto XVI che Marini approda in Vaticano. Oggi è cerimoniere di Bergoglio, accanto al quale spesso lo vedete mentre celebrano messa. “Non è un uomo di Francesco, ma il papa se lo è trovato lì”, raccontano in Vaticano.

Tanasini, Anselmi e Marini condussero l’inchiesta. E furono incontri dolorosi. Frasi smozzicate. Alla fine don X con molta discrezione venne trasferito in una parrocchia più importante, proprio quella di Albaro dove si ritrovano gruppi di giovani e scout. Don X divenne il sacerdote della Genova che conta. Interpellato dalle tv, quando in città arriva in visita il Papa.

Sulle cronache finisce soltanto nel luglio 2008, quando Repubblica titola: “Genova, senzatetto in parrocchia. Il prete lo vuole cacciare”. Già, perché sotto i portici davanti alla chiesa in quegli anni capitava di trovare un clochard con quattro cani. E la linea di don X e dei suoi fedeli divide la città e la diocesi. “Nessuno di noi è mai riuscito a convincerlo a vivere in una casa, perché diceva che non voleva lasciare i cani”. Ma subito era arrivata la stilettata della Comunità di San Benedetto, allora guidata da don Andrea Gallo: “Evidentemente ad Albaro è più importante il decoro”.

Una storia piccola, forse, che però dipinge le due anime della chiesa di Genova. Da sempre divisa tra le gerarchie e i preti di strada, chiesa bianca e rossa. Qui sono stati cardinali Giuseppe Siri, più volte entrato in Conclave come papa, uscito sempre cardinale. Poi, in tempi più recenti, Tarcisio Bertone, che diventò segretario di Stato, e infine Angelo Bagnasco, per anni presidente della Cei. Ma sotto la Lanterna sono nate anche figure di preti contestatori, come Gallo e, oggi, Paolo Farinella.

Ad Albaro nessuno era a conoscenza delle vicende che avevano accompagnato il trasferimento burrascoso di don X. “Molestie? Di che cosa sta parlando?”, sgrana gli occhi Matilde che sta portando il figlio adolescente all’incontro con gli amici. “Non ne so niente”, ammette uno dei responsabili degli scout Genova Levante. Nessuna voce, almeno pubblica, sul comportamento di don X con i ragazzi della parrocchia. Qualcosa, però, è successo negli ultimi mesi. Così sarebbe stata avviata una nuova commissione di inchiesta. Lo confermano alcuni dei ragazzi che già negli anni ’90 erano sfilati dolorosamente in Curia: “Ci hanno chiamato di nuovo. Ci sentiamo presi in giro”, sussurra un ex ragazzo di don X. Stavolta presenterete una denuncia alla autorità giudiziaria? “No, perché la questione è stata affrontata nelle sedi appropriate”. E quali? “La Chiesa. Hanno subito trasferito il sacerdote in un’altra regione”.

Nessuna denuncia è stata presentata alle autorità di polizia o alla Procura. Don X non è mai stato condannato, né indagato. Per la giustizia italiana non esiste.

Per la Chiesa ligure sarebbe stato un altro duro colpo dopo tanti scandali. A cominciare dalla storia di don Riccardo Seppia, il sacerdote di Sestri Ponente finito sui giornali perché condannato per tentativi di atti sessuali e offerta di stupefacenti a minorenni. E poi gli scandali di pedofilia che hanno toccato la Curia savonese. C’è Albenga, refugium peccatorum di sacerdoti coinvolti in scandali sessuali, dove papa Francesco anni fa commissariò il vescovo e decimò il seminario (su 11 studenti, ben 7 furono convinti ad abbandonare).

La chiesa ligure ha tremato più volte. Eppure c’era chi aveva cercato di mettere in guardia la Curia.

“Il guaio è che ci sono sacerdoti che hanno avuto la vita affettiva di un bambino. Anche per questo si sentono vicini ai più piccoli, trovano quasi naturale comunicare con loro”, sospira don Farinella. E racconta di quando, “negli anni ’70, avevamo organizzato un corso di formazione mirata per i sacerdoti, insieme con don Luciano Cian, un salesiano psicologo di formazione a Genova noto e apprezzato. Parteciparono decine di sacerdoti, c’era l’ansia di capire, di parlarne. Non potete immaginare cosa venisse fuori in quegli incontri… Ma il cardinale Siri stroncò la nostra iniziativa”.

Sesso, ma anche polemiche legate a una Chiesa che, da queste parti, ha avuto un ruolo di potere. Dalle operazioni immobiliari che si volevano compiere con beni della Chiesa a progetti di imprenditori vicini ad ambienti ecclesiastici, alle porte del monte di Portofino. Passando per il ruolo che la Chiesa ha avuto nella banca Carige, soprattutto ai tempi di Bertone (ma anche sotto Bagnasco suscitò polemiche quando la Regione Liguria – allora guidata dal centrosinistra – offrì alla Curia la poltrona che era riservata all’ente locale nella fondazione della banca).

Intanto mancano le vocazioni. Due anni fa nessun nuovo allievo si è presentato per entrare in seminario. In una città di seicentomila persone. E adesso arriva la storia di don X. Rimasta chiusa nei corridoi della Curia. Restano i ricordi dei ragazzi di questo paese di Riviera. Le loro parole: “Impotenza”, “terrore per le donne”, “disperazione”. Non c’entra niente, giurano gli interessati, se tra i giovani di quei tempi c’era chi, entrato nel gruppo con la fidanzata, ne è uscito “scoprendo di essere omosessuale”. E non ha nessun legame con questa vicenda la triste storia di un giovane tossicodipendente che in quegli anni era stato ospite di don X, che lo aveva accolto per aiutarlo, e che finì per impiccarsi in un vicolo.

Tutto dimenticato. Sepolto. Come ancora chiede qualcuno degli interessati. “Vi prego, non tirate fuori questa storia. Ci sono troppi ragazzi che sono riusciti a rimuovere. Se fossero chiamati a parlarne, sarebbe un dolore troppo grande. Lasciateli in pace. La verità, qualunque essa sia, non è sempre un bene”. Restano le parole del vescovo Tanasini: “Oggi non succederebbe più. Da Ratzinger e ora, ancora più con Bergoglio, ci sono commissioni diocesane formate da laici che indagano. Ma rimane in noi il profondo rammarico. All’epoca ci sembrava assurdo che fosse successa una cosa tanto orribile…”.

1 – Continua

Volano stracci giallorosa sulla riforma del Mes

I toni formalmente sono più educati rispetto al solito, ma sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità – il vecchio fondo salva-Stati – stanno di fatto volando gli stracci tra 5 Stelle e Pd.

Com’è noto i grillini non sono molto convinti della bontà del nuovo Trattato, redatto anche col contributo italiano, però, mentre loro erano sempre al governo (e col medesimo premier); i democratici – in cui pure c’è qualche voce blandamente critica – sono al solito per firmare tutto quello che viene benedetto a Bruxelles (e Berlino). Di qui uno scontro che dovrebbe trovare composizione oggi in una riunione di maggioranza convocata a Palazzo Chigi: i due fronti sono M5S e Leu da un lato, Pd e renziani dall’altro.

E qui veniamo alla cronaca di ieri. Luigi Di Maio continua a proporre un rinvio della firma ufficiale del testo – prevista a febbraio, ha detto in Senato il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri – per legarla alla definizione di un accordo sul completamento dell’unione bancaria con l’assicurazione comune sui depositi (che non piace alla Germania, a meno che non sia legato a clausole punitive per l’Italia sui titoli di Stato detenuti da banche e assicurazioni).

È la “logica del pacchetto” cara anche a Giuseppe Conte: “L’unione bancaria per come è scritta mi preoccupa ancora più del Mes. È bene che ci sia una riflessione – ha detto Di Maio – Secondo me, è sano per l’Italia non accelerare in maniera incauta ma difendere i propri interessi, aspettando la fine dei negoziati anche su tutti gli altri aspetti di questo pacchetto”. Parole che hanno causato una inattesa alzata di capo del Pd: “Sul Mes in queste ore ci giochiamo la credibilità del Paese, l’andamento dello spread e dei mercati. Non si può giocare col fuoco”, esagera il ministro Dario Franceschini; “Sul Mes noi potremmo anche avere molte critiche ma c’è un problema: non si può a 4 giorni dalla ratifica di un Trattato (sic) rimettere tutto in discussione e chiedere rinvii. Minare la credibilità del Paese sarebbe grave”, sostiene il capogruppo alla Camera Graziano Delrio.

La replica grillina è velenosa: “Sul Mes, nonostante la nostra contrarietà ai principi che caratterizzano quel fondo, il M5S sta cercando di avere un approccio costruttivo, ma se qualcuno vuole alzare i toni e metterla sul tema della credibilità, a noi sembra che la credibilità come Stato in tutti questi anni l’abbiamo persa proprio quando si firmava qualsiasi cosa per compiacere qualche euro-burocrate, piuttosto che tutelare gli interessi dell’Italia e degli italiani. Bene, quell’epoca è finita”.

La riunione di oggi a Palazzo Chigi, insomma, si presenta complicata: Gualtieri ha già chiarito che la riforma del fondo salva-Stati ormai non è più emendabile; trattare in modo duro per costringere la Germania a completare l’unione bancaria minacciando di bloccare tutto non è nello stile della casa democratica, ma Di Maio e i 5 Stelle non possono firmare un Trattato che hanno sempre avversato senza ottenere qualcosa, se non altro a livello mediatico.

Questo è l’inghippo politico principale, cui si lega il secondo, non meno rilevante. Il ruolo di Giuseppe Conte nella vicenda: il mandato delle due forze di maggioranza “gialloverdi” (M5S e Lega) nella prima parte della legislatura era di bloccare il Trattato che invece – com’è evidente – è andato avanti con l’avallo del governo italiano. Di qui deriva l’accusa un po’ pittoresca di “alto tradimento” da parte di Matteo Salvini. Conte parlerà della vicenda in Parlamento domani pomeriggio: “Lunedì metteremo tutti i tasselli al loro posto. Inizieremo a spazzare via tutte le fesserie che sono state dette”.

Malagò lotta per Malagò: capo dei Giochi per sempre

Si faccia una domanda, si risponda Giovanni Malagò. Al capo del Coni è stato chiesto di individuare il presidente della fondazione che organizza le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina, un professionista capace, brillante, si presume ben educato e azzimato, che sappia gestire diversi miliardi di euro da qui al 2026, che sappia diffondere col turibolo mediatico lo spirito dei giochi. Con la nota modestia, a Malagò non è venuto in mente altri che Malagò. S’è preso la briga poi di scrivere lo statuto per la fondazione, che ha un consiglio di amministrazione così affollato che entro il 2026 forse si troverà un equilibrio: dieci posti occupati dal Coni, dieci dai soci locali, i Comuni di Milano e Cortina, le Regioni Lombardia e Veneto, un rappresentante del governo.

Il dottor Malagò, che s’è laureato all’università di Siena dopo che furono invalidati tre esami sostenuti alla Sapienza, ha proposto un antico principio giuridico per la fondazione: io sono Malagò, e voi? Il principio giuridico, che ricalca l’afflato eziologico che si respira al circolo sportivo Aniene di Giovanni dove l’iscrizione è appunto un afflato di 30.000 euro, riguarda la durata del mandato nel Cda della fondazione: tre bilanci di esercizio, tre anni, per i componenti che fanno riferimento a Cortina, Milano, Veneto, Lombardia e pure al Coni, mentre l’inviato del governo decade col governo e siccome la Repubblica ha salutato 66 governi, quest’ultimo membro si può considerare uno che passa di lì per caso e per poco. E Giovanni? Allora il capo del Coni Malagò ha interrogato il presidente della fondazione Malagò: per quanti anni Malagò può restare al vertice della fondazione? Per sempre, è stata la prima reazione del capo del Coni Malagò al presidente della fondazione Malagò. E ancora il capo del Coni Malagò ha lottato a mani nude contro un dubbio: si può revocare il presidente della fondazione Malagò? Certo, ha detto il capo del Coni Malagò, soltanto se un’ampia maggioranza del Cda, inclusi i consiglieri scelti dal capo del Coni, sfiducia il presidente della fondazione. Cioè mai, che sollievo. E tutti i Malagò erano felici e contenti.

Finché il ministro Vincenzo Spadafora (Sport) dei Cinque Stelle assieme ai governatori Attilio Fontana (Lombardia) e Luca Zaia (Veneto) – leghisti come quel barbaro dell’ex sottosegretario Giancarlo Giorgetti che ha scippato al Coni il controllo dei fondi per lo sport e l’ha affidato a una società del Tesoro – non ha suggerito al Coni di modificare la bozza di statuto. Non si tratta di una ritorsione politica di Spadafora, che poi Malagò non appartiene a una parte politica bensì all’universo politico, si tratta di evitare di concentrare il potere sportivo in un solo uomo e per tanti anni. Il secondo mandato di Malagò al Coni scade nel 2021, può concorrere per un terzo, ma non può ottenere “a vita” la guida dei giochi di Milano e Cortina, un doppio incarico, con una regola su misura di uno statuto sartoriale. E per la fondazione c’è l’ad Vincenzo Novari che garantisce continuità di azione.

Malagò ha riflettuto un attimo, tra le piscine del circolo Aniene o sobbalzando in Maserati tra le buche di Roma, e ha pensato di rendere istituzionale il confronto con il ministro per lo Sport, i governatori leghisti e il sindaco di Cortina, mentre Beppe Sala di Milano indugia. Così Malagò, che è anche delegato del Comitato olimpico internazionale, ha buttato giù una lettera per il Comitato olimpico internazionale, che poi elargisce il denaro iniziale per la fondazione. Il tema: caro Cio, ti fidi del tuo delegato in Italia? Per rafforzare il concetto ha aggiunto: premesso che sono tutti d’accordo su Malagò presidente della fondazione. Al ministero per lo Sport, ricomposti dopo l’ovvia risata e pungolati dai governatori regionali, l’hanno fermato prima della spedizione: un momento, chi è d’accordo? Come chi? Malagò con Malagò.

“Salvini patisce la Meloni molto più che le sardine”

Quasi due punti e mezzo persi negli ultimi 30 giorni dalla Lega e un crollo di 8 punti nel gradimento personale. Secondo l’ultimo sondaggio di Ipsos, pubblicato sul Corriere della Sera, novembre è stato un mese nero per Matteo Salvini. Il suo partito resta nettamente al primo posto con il 31,9%, ma la progressione del consenso salviniano sembra aver subito un altro arresto (dopo la caduta di questa estate).

Ne abbiamo parlato con Lorenzo Pregliasco, analista politico e fondatore di YouTrend. “Anche nella ‘supermedia’ dei sondaggi elaborata sul nostro sito – spiega – si registra una flessione della Lega, anche se in termini inferiori rispetto a quelli di Ipsos: dal 33,5 al 32,7%, il partito di Salvini perde quasi un punto anche per noi. Si spiega in parte con un’oscillazione naturale del consenso, ma c’è anche altro”.

Il movimento delle “Sardine” ha contribuito a far cambiare la percezione del capo della Lega?

Non credo. Penso che le “sardine” possano contribuire sul piano locale a rimobilitare gli elettori di sinistra, ma non a sottrarre consenso a Salvini. Di sicuro producono una nuova polarizzazione tra gli schieramenti politici e mettono al centro dello scenario politico la figura di Salvini. Come fecero a loro tempo i movimenti contro Berlusconi, come “girotondi” e “popolo viola”.

Allora come si spiega la flessione di Salvini?

Credo che in questo momento stia pagando la competizione a destra che si è creata con Giorgia Meloni. Per la prima volta nel sondaggio di Ipsos la fiducia personale nella Meloni è più alta di quella di Salvini. La crescita di Fratelli d’Italia (che per Ipsos sale in doppia cifra al 10,6%, ndr) compensa, o quasi, la flessione della Lega. Una parte dell’elettorato di destra si sta spostando su di lei.

Perché?

Rispetto a Salvini, ha il vantaggio di non avere alle spalle una crisi di governo: Meloni è rimasta sempre all’opposizione, nel suo percorso mancano gli elementi contraddittori che potrebbero aver contribuito all’appannamento del consenso del leghista. E poi la Meloni è brava in televisione e lavora bene con i social network, dove ha uno stile simile a quello salviniano. E le ultime elezioni locali hanno marcato la sua crescita.

Curiosamente, Meloni cresce proprio nelle stesse settimane in cui sul web diventa virale un video che la prende in giro.

In realtà anche quello è un elemento di “popolarizzazione” che potrebbe persino averla aiutata.

L’indice di popolarità della Meloni rimane praticamente lo stesso, mentre calano in modo significativo quelli di tutti gli altri leader politici.

Per la prima volta scende bruscamente anche Giuseppe Conte (dal 49 al 46%, ndr) ma resta ancora in testa, per quanto riguarda il consenso personale. Salvini perde addirittura 8 punti. Credo pesi anche il fatto che il tema immigrazione sia diventato molto meno rilevante nell’agenda politica. Soprattutto, hanno indici molto bassi i tre leader dei partiti di governo: Zingaretti è stabile al 20%. Di Maio scende al 18% (-6 punti), Renzi addirittura al 10%. Sono tutti compresi tra il 10 e il 20%, non è un dato incoraggiante per la maggioranza.

Il dato di Renzi è il più basso dell’intero panorama politico. Già si sente il peso dell’inchiesta sulla fondazione Open?

Probabilmente sì. Ma va sottolineato che la figura di Renzi è stabilmente impopolare ormai da diverso tempo: l’ex premier non ha più recuperato la sua connessione con l’opinione pubblica. E questo pesa moltissimo sulle prospettive di Italia Viva, che è il suo partito personale. E che infatti anche nel sondaggio Ipsos già passa dal 6,2 al 5,3%

Anche Firenze non si Lega. “Siamo in quarantamila”

In una mano i cartoncini con le sardine colorate, nell’altra una copia della Costituzione per “difenderla da chi la sta calpestando ogni giorno”. Ergo: Matteo Salvini, che a tre chilometri di distanza riunisce a cena 1.200 amministratori e simpatizzanti della Lega per lanciare ufficialmente la campagna elettorale toscana. Sono le due “piazze” del sabato fiorentino: in centro il “popolo delle sardine”, al Tuscany Hall di via dell’Aretina il leader del Carroccio che prova a dare scacco matto al “potere rosso che per 70 anni ha governato questa regione”. Eppure, la differenza si vede a occhio nudo: in piazza migliaia di “sardine” colorate, mentre sulle rive dell’Arno i militanti leghisti si asserragliano nel grande teatro con un menù a base di peposo (uno spezzatino) e pappa al pomodoro. In piazza la Toscana che “non si Lega”, per un pomeriggio, mette da parte il campanilismo. Pullman e treni arrivano da ogni provincia per replicare la prima manifestazione di Piazza Maggiore a Bologna: Livorno, Pisa, Prato, Pistoia, Grosseto. Fino a formare una grande fiumana che già poco prima delle 18 si dirige a poche centinaia di metri da Palazzo Strozzi Sacrati che a maggio potrebbe essere espugnato dalla Lega. Ma intanto in piazza ci sono loro, le sardine: “Siamo 40 mila” esultano gli organizzatori.

I numeri ufficiali arrivano. Ma che siano tantissime è fuori discussione. E c’è chi, come Francesca, studentessa dell’Università di Firenze, per non mancare ha preso un volo di dieci ore dal Canada: “La Toscana è sempre stata rossa e oggi il pericolo di Salvini è alle porte – spiega – per questo ho fatto questo piccolo sacrificio e ho portato in piazza con me anche mia sorella e il mio babbo. Prima di uscire lui mi ha chiesto se doveva rispolverare la bandiera rossa del Pci, ma io gli ho detto: ‘No’, bastano le sardine”. In piazza così non ci sono bandiere (“non portatele” avevano chiesto gli organizzatori), al massimo qualche striscione e il canonico “Bella ciao”. Aprono le danze i tre giovani organizzatori – Danilo Maglio, Cristiano Atticciati e Matilde Sparacino – guidati dal più “esperto”, il bolognese Mattia Santori. Parole d’ordine: difesa della Costituzione, “libertà, tolleranza, solidarietà ed eguaglianza” e soprattutto attacco a quei “populisti” che “giocano sulle paure della gente per ottenere qualche voto in più”. “La piazza di oggi è una grande successo perché rappresenta la bellezza della diversità che ci accomuna tutti” dice Maglio prima di leggere un estratto di un discorso di Sandro Pertini. La manifestazione va avanti così, fino a cena, alternando interventi e letture di passaggi della Costituzione. Nessun battibecco con quelle “sardine bis” dei centri sociali che all’ora di cena si dirigono verso il Tuscany Hall dov’è arrivato Salvini per contestarlo: qualche coro e fischio e poco più. Il leader della Lega, che ha dedicato il sabato a visitare l’Isola d’Elba e poi il carcere di don Bosco a Pisa, replica a distanza alle sardine che lo hanno accolto in mattinata anche a Porto Ferraio: “Prima o poi li incontrerò ma io preferisco la proposta alla protesta” dice lapidario. Poi entra nel grande teatro e si mette a tavola accompagnato dalla compagna Francesca Verdini, dalla “zarina” Susanna Ceccardi e dal segretario regionale Daniele Belotti. Poi ci sono anche gli alleati Francesco Torselli di Fratelli d’Italia, Jacopo Cellai di Forza Italia e Giorgio Silli che sta con Toti. Sul nome del candidato è ancora mistero: Ceccardi (più probabile) o il sindaco di Grosseto Vivarelli Colonna. Sarà decisivo l’incontro con Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni. Obiettivo? Conquistare l’(ex) Toscana rossa.

Calabria, ora il “civico” c’è. Il Pd dice sì, M5S si divide

“Io ci sono.. Io Resto in Calabria”. L’imprenditore Pippo Callipo si candida alle Regionali del 26 gennaio. Il Pd lo appoggia. Zingaretti ne approfitta e lancia un ultimatum a Mario Oliverio che si voleva ricandidare a ogni costo sostenuto dalla parlamentare Enza Bruno Bossio. La deputata taccia come “aberrante” la scelta del segretario dem, il centrodestra si agita perché ancora non ha il suo candidato e il M5S si è messo fuorigioco da solo, dopo aver avviato una trattativa con il Pd in cui ha detto tutto e il contrario di tutto, per poi ripiegare sul docente universitario Francesco Aiello.

Sono bastate un paio d’ore di un sabato mattina a sgombrare il campo dai tatticismi politici e delineare gli schieramenti alle elezioni regionali della Calabria. Tutto è partito da una nota dell’imprenditore del tonno Pippo Callipo. “Esponenti della società civile, delle organizzazioni sindacali e datoriali – dice – mi chiedono un impegno diretto. Ho scelto di accettare la sfida”. “Lancio un forte appello – aggiunge Callipo – a partiti e movimenti civici: uniamoci e portiamo avanti questa battaglia di legalità, trasparenza e rinnovamento, facciamolo con coraggio senza badare a rendite di posizione e tatticismi”.

Non aspettava altro il Pd che, per bocca di Zingaretti, plaude alla candidatura di Callipo alla presidenza della Regione definendola come “l’elemento di grande novità politica. Il Pd lo sosterrà con il massimo impegno”.

Da quando è segretario, in Calabria il Pd ha avviato la stagione del repulisti con i vecchi ras del partito. L’ultimatum sta in fondo alla nota di Zingaretti: “Ora tutto il Pd calabrese si unisca intorno a Callipo. Con lui si può cambiare il destino della Calabria”. Sembra non averlo capito Enza Bruno Bossio arroccata su Oliverio. “È un errore politico marchiano. Ci prendiamo l’usato insicuro per non candidare Oliverio che, almeno, è l’usato sicuro”. La pensano diversamente il parlamentare Antonio Viscomi e il presidente del Consiglio regionale Nicola Irto: “Lavoreremo con Callipo per raccontare la storia di una Calabria che non perde la speranza”.

Il “re del tonno” rastrella adesioni al suo progetto politico: il merito, per buona parte, è dell’imprenditore vittima della ’ndrangheta Nino De Masi che lo ha convinto, tentando pure di mediare per un’alleanza Pd-M5S che convergesse sul nome di Callipo: “Ho creduto che i 5 Stelle potessero realizzare quella rivoluzione culturale che serve al Paese. Ho passato 4 giorni a telefonare a ogni parlamentare calabrese. Li ho supplicati uno per uno. Ma non ci sono riuscito. Vediamo se con Callipo in campo, saranno illuminati sulla via di Damasco”.

“Non credo, almeno dal mio punto di vista, che cambi alcunché”. Il presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra risponde in maniera pilatesca e prende le distanze dalla scelta di puntare sul professore Francesco Aiello: “Non è certo la domanda che si deve fare a me, sono altri che decidono”.

Volano gli stracci in casa 5S. La canditura di Callipo ha spiazzato i grillini che iniziano a vedere quello che il 26 gennaio rischia di essere un “suicidio di massa”. Per la deputata Federica Dieni, “Callipo è l’unico nome che ci farebbe vincere in Calabria. Io metterei in votazione la proposta di sostenerlo su Rousseau. Ma è la mia opinione personale, il capo politico ora deciderà cosa fare”.

“Aiello? Lo avete lo scelto voi” avrebbe risposto Di Maio a chi, in queste ore, gli ha sollevato la questione. Dalila Nesci si dissocia e addossa a Di Maio “la responsabilità politica di quest’operazione”. “Si è affidato a Parentela. – dice – La situazione è imbarazzante. In mezzo a noi ci sono dilettanti. Il M5S preferisce essere spettatore e naufragare nel mare delle decisioni altrui. In Calabria siamo il nulla”.

“Zanda e Dibba prendono soldi dai giornali”

È uno show a tutto campo quello di Matteo Renzi a Bologna. Contro la magistratura che “vuole decidere cosa sia politica e cosa no”, contro la stampa, “intitolerò a Marco Travaglio un’aiuola nella mia nuova villa”, ma soprattutto contro il Pd. “Lo dico a chi fa finta di niente, a chi fischietta e gode delle difficoltà di Open: questa storia riguarda più voi che noi, perché noi abbiamo i bilanci totalmente trasparenti, non tutti possono dire la stessa cosa”.

Dal palco del teatro delle Celebrazioni, davanti a 400 persone, il leader di Italia Viva ha attaccato gli ex compagni di viaggio, a partire da Luigi Zanda, tesoriere dem. Sul mega schermo appare l’intervista rilasciata a Repubblica: “Raccolse 7 o 8 milioni convogliandole alla Fondazione Open che finanziava le sue attività politiche, una evidente situazione di conflitto”.

Dalla platea parte un brusio, Renzi ride, “buoni”, calma gli animi e poi affonda: “Chi gliel’ha pagata la campagna elettorale a Zanda? In modo regolare, con un bonifico trasparente, potrebbe venire fuori che ha ricevuto dei soldi da Carlo De Benedetti. Esattamente come la fondazione Open, credo sia trasparenza e aiuto di un imprenditore importante a chi si fida”. Nel 2018 l’Ingegnere fece una donazione di 15mila euro a Zanda, ex componente del cda del gruppo Espresso. Un fatto acclarato, diverso dall’ipotesi, al vaglio dei pm fiorentini, di finanziamento illecito.

Poi tocca a Ugo Sposetti, tesoriere nazionale Pd, già attaccato dal deputato di Italia Viva Mauro Del Barba per la gestione delle fondazioni. Per Renzi “si sta criminalizzando chi fa politica, solo Silvio Berlusconi allora può farla, così si tagliano il ramo dell’albero su cui sono seduti”. La terza slide è dedicata al Fatto Quotidiano, un’intervista ad Alessandro Di Battista del M5S. “Questo signore è lo stesso che ha ricevuto un lungo contratto dallo stesso giornale che lo intervista? Per me è tutto trasparente, va bene, ma se qualcuno dicesse che i denari che ha ricevuto non sono per una prestazione professionale? A me sembrerebbe di sognare eppure è la stessa cosa che viene contestata ad alcuni dei nostri”. L’ultimo pensiero è dedicato a Liberi e Uguali, “ve lo ricordate quel partito? Quelli che dicevano che Renzi e Salvini erano uguali”, reo di aver proposto un emendamento per posticipare di un anno la legge che equipara fondazione e partiti. “Non permetteremo che si faccia i moralisti contro di noi quando si presentano gli emendamenti di nascosto nel silenzio di tutti, invito anche il M5S a votare contro. Forse c’è qualche fondazione che ha qualche amico di Leu?”. La chiusa è epica: “Male non fare, paura non avere”.

La norma anti-nuove Open: i dem tagliano le fondazioni

Da oggi in poi, ci potrà essere una sola Fondazione collegata al Pd. Il nuovo Statuto votato dai dem abolisce l’articolo 29, nel quale si diceva che il partito “stabilisce rapporti di collaborazione” con “fondazioni, associazioni e altri istituti”, “a carattere politico-culturale e senza fini di lucro”. E all’articolo 28 decreta che il Pd “promuove e supporta, anche finanziariamente, la ‘Fondazione Costituente’ quale soggetto nazionale di riferimento per le attività di formazione politica e culturale”. Si tratta di quella presieduta da Gianni Cuperlo, che però non è ancora stata registrata, proprio perché si stanno studiando le forme di finanziamento, visto che il Pd potrà coprire le spese solo fino al 30 per cento. Maurizio Martina, che ha coordinato il lavoro di stesura dello Statuto, ci tiene a dire che la riforma del partito è precedente allo scandalo Open. Però, ammette, “abbiamo provato a fare un lavoro che mettesse ordine pensando a ciò che serve a un grande partito”.

Di ordine, in realtà, c’è ancora bisogno: i dipendenti del Pd sono in cassa integrazione dal 2017, ovvero dall’epoca in cui il segretario Matteo Renzi raccoglieva 7 milioni di euro di finanziamenti per la sua Fondazione, mentre prosciugava le casse del partito. Nove milioni di rosso nel bilancio del 2016, causa campagna referendaria, mentre il 2017 chiudeva con un utile di 500mila euro e il 2018 (ancora gestione Renzi) finiva in perdita di 600mila euro.

La prassi di affiancare alle attività del partito quella delle fondazioni non è nuova. Nel 2010, per dire, fu costituita l’Associazione Berlinguer, diretta da Ugo Sposetti, che racchiudeva le 67 fondazioni degli ex Ds, un vero tesoretto, con tanto di patrimonio immobiliare e quadri pregiati.

Open, però, aveva la peculiarità di essere la cassaforte politica personale di un unico leader. Renzi, oggi, rigetta la definizione di “partito nel partito”. Eppure, Open ha da sempre avuto il compito di pagare la Leopolda (tanto per dirne una), la manifestazione per eccellenza del renzismo, anche quando l’ex rottamatore era segretario dei dem. Nata senza bandiere del Pd, è durata negli anni e poi (nella sua ultima edizione), è diventata l’evento fondativo di Italia Viva. “Il partito Leopolda”.

Luca Lotti, mentre era nel Cda di Open, diventò responsabile organizzazione del Pd. E basta scorrere la lista dei finanziatori della fondazione per vedere che molti fedelissimi contribuivano con cifre anche ingenti: dal 2012 al 2017, tra i politici, che consentirono a rendere pubblico il loro nome, ci sono Boschi (8.800 euro) e Lotti (9.600), Dario Parrini, oggi senatore rimasto tra i dem, ex segretario Pd Toscana, 6.200, l’europarlamentare Simona Bonafè e attuale segretaria del Pd toscana (4000), Francesco Bonifazi (12.800), Ernesto Carbone, l’ex deputato, che accompagnava Renzi in macchina alle consultazioni (29.600). E poi, il sindaco di Firenze Dario Nardella (6.600), Erasmo D’Angelis, che Renzi volle a capo della struttura di missione sul dissesto idrogeologico (6.400), Ivan Scalfarotto, tra i big di Iv (9.800). E ancora, Yoram Gutgeld, ex consigliere economico di Renzi (4.800), Andrea Marcucci, oggi capogruppo in Senato del Pd, (17.800), Michele Anzaldi (25.600), David Ermini, oggi vice presidente del Csm (20.800).

E molti deputati ed ex deputati oggi in Iv: da Edoardo Fanucci, ex parlamentare, oggi consigliere comunale, entrato in Iv (9.300), a Ernesto Magorno (7.200), Silvia Fregolent (6.600), Nadia Ginetti, Mauro Del Barba (8mila). E poi, c’ è il sindaco di Prato Matteo Biffoni (8mila). Nomi che sono stati lo zoccolo duro del renzismo e che oggi testimoniano in fondo anche la sua crisi e le sue divisioni, ma che comunque restano testimoni di una stagione “parallela”.

E poi, non bisogna dimenticare che mentre chiudeva Open, Renzi, con Bonifazi, diede vita alla Fondazione Eyu. Era ancora segretario del Pd, ma come raccontano le indagini in corso, molti finanziamenti non da poco finivano lì.

Per Renzi, 40mila euro a conferenza Top secret la lista

Per avere Matteo Renzi? “Forty thousand euros. Quarenta, qu-a-tro siii-ro”, scandiscono al telefono dalla Pro Motivate, una delle agenzie che propongono online l’ex premier come speaker. “Dovete contare anche un viaggio in business per una e a volte due persone”. Tanto costa ingaggiare il fondatore di Italia Viva a una conferenza che – facciamo credere all’interlocutore – sarà in programma l’anno prossimo a Barcellona, titolo “Populismo e dinamiche economiche”. Tema su cui Renzi – ci viene garantito – saprà dire la sua.

Del resto “politica globale, “affari correnti”, “finanza e tendenze future” sono solo alcuni degli argomenti elencati online di quello che è stato “il più giovane primo ministro in Italia e il più giovane leader del G7”. Analogo curriculum sponsorizza l’agenzia Chartwell Speakers, ma per “appena” 25mila euro. C’è un però: a sentire l’agente che risponde da Dublino, Renzi non è la scelta più azzeccata. Di conferenzieri che possano parlare di populismo ce ne sono altri, pure meno esosi: con 16mila euro, per esempio, ti porti a casa Anne Applebaum, un premio Pulitzer che “in quanto giornalista, e non politico, può affrontare il tema in modo più indipendente di Renzi”.

Dalla Chartwell quasi ci convincono, spendere tutti quei soldi per Renzi non conviene. È diventato troppo caro, più dei 20mila euro di cui parlava solo un anno fa Marina Leo, responsabile per l’Italia di un’altra agenzia che vende i suoi discorsi, Celebrity Speakers. “Sembrano tanti, ma la metà se ne va in tasse e lo speaker deve pagare le persone che mettiamo a disposizione, in quei soldi c’è pure il compenso dell’agenzia”, diceva alla stampa allora. Oggi che con i giornali non parla più, le si strappa solo: “È un’attività privata, non ha niente a che vedere con la sua attività di leader politico perché quando era primo ministro non poteva fare queste cose”.

Non c’entrerà la sua attività politica, ma è proprio questa ad averlo lanciato nel nuovo business. Il suo reddito dai 29mila euro dichiarati per il 2017 è salito a 830.000 euro nel 2018 e supererà il milione nel 2019. Dato per spacciato, non ha mai guadagnato tanto in vita sua. Dopo aver rottamato il Pd, Renzi è diventato una vera macchina da soldi. Altro che i 4.300 euro netti al mese percepiti come sindaco, i 6.700 che prendeva da Presidente del consiglio, ma anche i 14.634 che percepisce ora da senatore semplice.

Di quante conferenze parliamo? “Una cinquantina in due anni”, risponde il leader di Italia Viva. In media, un ingaggio ogni due settimane in giro per il mondo. Con viaggi e preparazione dei discorsi, sembra ormai un lavoro a tempo pieno, che però non lascia tracce. Non è infatti dato sapere dove sia stato di preciso, davanti a che pubblico abbia parlato, di cosa e chi l’abbia poi pagato. “La dichiarazione dei redditi è pubblica, la lista delle conferenze no”, taglia corto in uno dei messaggi che ci scambiamo nei giorni in cui la Finanza sta ricostruendo le vicende della sua fondazione Open. Dei suoi speech non c’è traccia nemmeno in rete o negli archivi dei giornali, al di là di qualche puntata a Pechino, Riad e poco altro.

A esplicita richiesta del calendario degli incontri, rivendica il diritto a non far sapere. “Capisco la vostra amarezza ma devo rispettare le regole di ingaggio”. Cioè? “Per molte conferenze vigono le regole Chatham house” dice, citando un impegno che dal 1927 vincola chi prende parte a certe riunioni a porte chiuse a non divulgare l’identità dei partecipanti. Gli incontri del gruppo Bilderberg ne sono un esempio.

Insistiamo, e non per curiosità morbosa. Fin dall’esordio nel 2018, la sua attività da oratore è fonte di polemiche. Come nel caso della visita a Riad di fine ottobre, dove al Future Investment Iniziative ha glorificato l’Arabia Saudita come “superpotenza, non solo nell’economia, ma anche nella cultura, nel turismo, nell’innovazione e nella sostenibilità”, sorvolando su bombardamenti allo Yemen e omicidio Khashoggi. Questione di opportunità, ma anche rischio di potenziale conflitto di interessi. Se va a Timbuctù o Washington pagato da industriali, fondi di investimento o lobby, lo fa privatamente o per conto del partito? “I compensi sono redditi personali, nulla va al partito”, dice Renzi. “Non c’è alcun conflitto di interessi tra l’attività di conferenziere e il ruolo di parlamentare. Né problemi di opportunità che invece ci sarebbero in caso di ruolo istituzionale come ministro in carica”. Tuttavia, a parlare non è un ex leader ma il capo di un partito che esprime due ministri e un sottosegretario, nonché 41 tra deputati e senatori.

Da qui, il legittimo sospetto. L’indomani di una “conference” in cui il loro leader è stato ospite (a pagamento) di un privato, saranno del tutto liberi e imparziali o subiranno qualche condizionamento? Anche la gestione dei soldi solleva punti di domanda. A maggio Renzi ha fondato la società Digistart, a settembre si è fatto sostituire temporaneamente nel ruolo di amministratore unico dall’amico di sempre Marco Carrai, oggi indagato nell’inchiesta sulla fondazione Open.

Come mai quel fugace passaggio a cavallo del debutto di Italia Viva? “La società è stata aperta e poi chiusa per le polemiche mediatiche – rivela -. Carrai avrebbe dovuto gestire la società ma alla luce delle polemiche e dell’annuncio della chiusura ha subito lasciato la carica”. La Digistart, sottolinea, non ha fatturato nulla. Renzi, invece, continua a farlo. E con gran profitto.