La memoria prescritta

Al 34° congresso dell’Associazione nazionale magistrati, il presidente Luca Poniz ha criticato la Blocca-prescrizione: “É una legge svincolata dall’insieme di riforme strutturali necessarie, che rischia di produrre squilibri complessivi”. Quali? Mistero. Festa grande tra i difensori della prescrizione modello Andreotti-B., che ha incenerito 2 milioni e rotti di processi negli ultimi 15 anni. Ma anche un certo stupore. Breve riassunto delle puntate precedenti.

Elena Paciotti, presidente Anm: “Prevedendo che la prescrizione non decorra oltre il primo grado, si eviterebbero le impugnazioni fatte solo a questo scopo” (19.5.1998).

Mario Cicala, presidente Anm: “Dopo una sentenza di primo grado, non operi più la prescrizione” (17.5.1999).

Giuseppe Cascini, segretario Anm: “La prescrizione durante il processo non esiste in alcun paese al mondo. Finchè da noi sarà così breve, le parti avranno tutto l’interesse a far durare il processo il più possibile” (13.4.2011).

Rodolfo Sabelli, presidente Anm: “Il sistema di prescrizione non consente di arrivare a sentenza certa in tempi ragionevoli: va interrotta con l’esercizio dell’azione penale o con la sentenza di primo grado” (27.10.2012). “Bloccare la prescrizione all’esercizio dell’azione penale o tutt’al più alla sentenza di primo grado è un incentivo ai riti alternativi e un disincentivo alle impugnazioni strumentali” (2.12.2014).

Maurizio Carbone, segretario Anm: “Non chiediamo processi più lunghi aumentando la prescrizione, ma tempi certi sospendendola alla richiesta di rinvio a giudizio: da allora lo Stato ha interesse a punire quel reato” (6.2.2015).

Piercamillo Davigo, presidente Anm: “La prescrizione dopo il processo di primo grado è dissennata” (23.2.2017).

Francesco Minisci, presidente Anm: “Col ministro Bonafede siamo d’accordo che occorre fermare la prescrizione dopo la sentenza di primo grado” (28.6.2018).

Luca Poniz, segretario Anm: “Non riesco a capire perché con la prescrizione bloccata alla sentenza di primo grado i processi dovrebbero durare un tempo indefinito. S’è sempre detto che la prescrizione può avere un uso strumentale: il fatto che ora la si sospenda dissuade ricorsi strumentali. Già questo è un intervento sui tempi del processo” (1.8.2019).

Che un magistrato – poniamo, Poniz – perda la memoria, può capitare. Ma, mentre lo sventurato smentiva 20 anni di battaglie dell’Anm proprio quando finalmente c’è un ministro che le traduce in legge, nessun collega s’è alzato a contestarlo. Il che fa temere una pandemia togata di massa. La chiameremo Associazione Nazionale Smemorati.

Il coraggio di Sinisa: “Si può non essere forti”

Più che “La Panchina d’Oro”, il trofeo che i suoi colleghi allenatori vorrebbero gli fosse assegnato (“Ma lo accetterei solo se fosse per il mezzo miracolo che ho compiuto la stagione scorsa qui a Bologna: se invece volessero darmelo per la malattia, non m’interesserebbe”), per lui bisognerebbe inventare un premio che non c’è, come “Il Paziente d’Oro”. Perché per la prima volta, nella conferenza stampa tenuta a distanza di un mese dal trapianto di midollo osseo seguito alla diagnosi di “leucemia acuta mieloide” fatta dai medici dell’Ospedale Sant’Orsola ai primi di luglio, un “malato famoso”, Sinisa Mihajlovic, 50enne allenatore serbo del Bologna oltre che ex calciatore di Stella Rossa, Roma, Sampdoria, Lazio, Inter e nazionale jugoslava, ha voluto rivolgersi ai “malati qualunque”, quelli che nessuno vede e nessuno intervista, per far passare un messaggio importantissimo: “Voglio dire a tutti quelli che sono gravemente malati di non sentirsi meno forti se non affrontano la malattia con la forza con cui l’ho affrontata io; non devono avere vergogna o paura o sentirsi disperati per questo, ognuno ha la sua personalità e reagisce a suo modo. L’importante è non perdere mai la voglia di vivere perchè poi vi troverete ad apprezzare cose alle quali mai avevate fatto caso: come uscire e respirare aria fresca. È bellissimo, io ora ci sto attento: sempre. Per quattro mesi sono rimasto in una stanzetta d’ospedale con acqua e aria filtrata, e se volevo prendere una boccata d’aria fresca non potevo. Questa è una malattia bastarda, serve pazienza. Una dote che non avevo, ma che ho dovuto scoprire e che oggi mi rende un uomo migliore”. Il professor Michele Cavo, capo dell’equipe medica del Sant’Orsola, e la dottoressa Francesca Bonifazi, che tre anni fa è stata celebrata dal New England Journal of Medicine per aver messo a punto una terapia che abbatte le complicanze mortali dopo un trapianto, passate dal 68 al 32%, erano seduti accanto a Mihajlovic. “Certamente lo spirito aiuta – ha detto Cavo –, ma in termini di efficacia della terapia, l’atteggiamento del paziente non conta”. Insomma: spirito guerriero o spirito remissivo, non è questo che importa ai fini della guarigione, e Mihajlovic e i medici hanno voluto dirlo con forza. Nessun malato si senta mai in colpa se la disperazione, a volte, supera la voglia di lottare.

“A trenta giorni dal trapianto possiamo dire che c’è stato attecchimento: un passo fondamentale – ha spiegato Bonifazi –. Ma occorre cautela, i primi cento giorni sono importantissimi, ora siamo solo a trenta. Il ritorno alla vita normale di Sinisa dovrà essere graduale”. Mihajlovic ha poi detto molte commoventi cose. La più bella: “Grazie a mia moglie. Mi è stata accanto ogni giorno. È l’unica persona al mondo ad avere più palle di me. La amo. E grazie ai miei figli: tutti disposti a essere miei donatori. Sono la mia vita”.

Cento di Federico, il visionario capace di creare follie

Se Belpaese e Dolce Vita sono sinonimi (all’estero), va da sé che Federico Fellini debba essere celebrato quale monumento nazionale. Vogliamo dunque credere che l’Italia del 2020 non s’accenderà solo per gli Europei di calcio, ma con spirito popolare sentirà propria la festa preparata per il più geniale artista cinematografico italiano (e fra i massimi della storia del cinema mondiale), a 100 anni dalla nascita.

Era infatti il 20 gennaio 1920 quando il regista nasceva a Rimini, una data quasi palindroma, sintomo dell’aura magica destinata ad avvolgerlo fra eterni misteri e creative follie. Per questo l’anno felliniano “disvelato” ieri alla conferenza stampa romana dedicata programma di Fellini 100 è stato titolato “tutto si immagina”: Fellini è stato il più grande immaginatore del nostro cinema, il mago circense che meglio di ogni altro seppe rivelare la verità attraverso la bugia.

Il centro dei festeggiamenti non poteva che essere laddove tutto ebbe origine, la sua Rimini, “tradita” per il ventre molle della Capitale ma nella realtà sempre, e profondamente, amata.

Il sipario si alzerà il 14 dicembre con l’apertura della Mostra itinerante Fellini 100 Genio immortale che sarà allestita nel quattrocentesco Castel Sismondo fino al 15 marzo 2020, e destinata a viaggiare prima a Roma (a Palazzo Venezia) e poi a Los Angeles, Mosca e Berlino. Progettata dal talento degli artisti visuali milanesi di Studio Azzurro, l’esposizione sarà composta da tre nuclei tematici. Il primo corrisponde a un percorso nella Storia del nostro Paese osservata alla maniera di Fellini, ovvero filtrata dalla lente della sua macchina da presa: dunque gli anni Venti e Trenta, il Dopoguerra e la fine degli Ottanta. Il secondo nucleo avrà a che fare con il racconto su Federico dal punto di vista dei suoi “compagni di viaggio” di qualunque tipo: reali o immaginari poco conta se vale l’equivalenza squisitamente felliniana di immaginazione uguale realtà. La terza tappa, infine, prevede la presentazione del progetto del Museo permanente dedicato al Maestro di cui la Mostra è un antipasto. Per la gioia dei visitatori, anche meno esperti in materia felliniana, sarà esposto ogni genere di memorabilia e oggettistica (in buona parte inedita) legato al regista tre volte premio Oscar, escludendo l’onorario: dai taccuini del sodale musicista Nino Rota offerti dal Fondo Nino Rota alla primigenia sceneggiatura di Amarcord (in origine, Il borgo) e quella originale di Otto e mezzo su gentile concessione di Lina Wertmüller che ne è la proprietaria dopo esser stata l’assistente alla regia di Fellini su quel set. E ancora gli abiti ecclesiastici originali di Roma, i costumi del Casanova del cui film sarà esposto anche il ciak, e mille altre meraviglie provenienti da qualsivoglia fondazioni, fondi, archivi e collezioni (Catalano, Delli Colli, Rotunno, Tonino Guerra, Istituto Luce, Rai Teche..) che siano collegati al patrimonio visionario dell’immenso riminese.

Tutto questo, e molto altro ancora, sarà parte integrante e fondativa del permanente Museo Internazionale Federico Fellini, la cui apertura è prevista nel dicembre 2020. Esso sarà inteso come un grande spazio narrativo e immaginifico costruito dentro a Castel Sismondo e al settecentesco Palazzo Valloni, interconnessi fra loro da un percorso di installazioni ad ispirazione felliniana chiamato Piazza dei Sogni. Tecnologia e poesia si sposeranno sotto il segno di Federico, così sapientemente immortalato nel logo di Fellini 100 già presentato mesi fa per la firma di Paolo Virzì. Se istituzioni nazionali e locali costituiscono il Comitato Nazionale chiamato a coordinare le attività celebrative, alla progettazione del Museo è preposto un comitato tecnico-scientifico composto da Paolo Fabbri, Vincenzo Trione, Luca Beatrice, Mario Sesti, Laura Delli Colli, Stefano Della Torre, Francesca Fabbri Fellini e Sergio Metalli.

Tutankhamon, la vera maledizione fu Nefertiti

Dopo un’acclamazione ecumenica in Francia (quasi un milione e mezzo di visitatori), arriva in Inghilterra, alla Saatchi Gallery di Londra, la grande mostra archeologica Tutankhamun: Treasures of the Golden Pharaoh con 150 manufatti dalla tomba del noto faraone, di cui ben 60 mai usciti dall’Egitto. Annunciata da tutti i giornali inglesi in degna fanfara – The Sunday Times scrive per esempio: “Letteralmente abbagliante” –, una voce la avversa, quella dell’egittologo Nicholas Revees. A esser criticati non sono però i tesori in sé ma la loro appartenenza. “Sostengo che quasi tutti i tesori funerari ritrovati all’interno della tomba di Tutankhamon,” spiega lo studioso, “siano stati realizzati originariamente per la regina Nefertiti.”

Prima di diffonderci nella speculazione di Reeves, un po’ di storia dinastica dell’antico Egitto: Nefertiti (1370 a.C. circa – 1330 a.C. circa) è stata una Regina egizia della XVIII dinastia, moglie del faraone Akhenaton durante un regno, dunque, precedente al giovanissimo Tutankhamon (1341 a.C. circa –1323 a.C. circa). In più, molti egittologi (Reeves incluso), accordano alla regina un periodo di interregno in cui fu lei stessa faraone e quindi predecessore di Tutankhamon. Lo dimostrerebbe anche un dipinto esposto nella mostra, in cui le fattezze muliebri di una mummia che bacia il giovane re (nel rituale che consente ai faraoni deceduti di rivivere) richiamano quelle di Nefertiti. Le teorie di Reeves son presto dette: quando Howard Carter scoprì nel 1922 la tomba del faraone, già nell’anticamera trovò bagliori e opulenza: animali intagliati, oggetti in alabastro, scrigni ricolmi di ori, e due statue (ça va sans dire, dorate) del ka (il “soffio vitale”, la parte dell’anima che non abbandona il corpo) poste a guardia di una porta sigillata che conduceva alla vera camera funeraria di Tutankhamon. Reeves pone l’attenzione su un settore della parete nord della camera che parrebbe esser stata goffamente manomessa con schizzi di vernice per ricreare una sorta di muffa. Carter, dunque, avrebbe prima operato sul muro ma poi celato l’azione. Quello spazio non scavato corrisponderebbe alla camera funeraria di Nefertiti e ciò lo induce a ritenere che il giovane faraone sia stato sepolto in una tomba dapprima creata per la regina. La pratica di “riciclare”, non stupiamoci, era assai in uso nell’antico Egitto per “ammortizzare” i costi. I dipinti e le maschere mortuarie nella stanza funeraria del giovane faraone lo dimostrerebbero: in alcuni tesori il genere di Tutankhamon appare piuttosto ambiguo, eccessivamente aggraziato e in almeno una delle statue esposte alla Saatchi Gallery ha un forte accenno di seno. E ciò perché a esservi ritratta è Nefertiti, la cui immagine è stata poi riadattata. Il paragone è possibile grazie al celebre busto di Nefertiti dal vivo realismo. C’è infine anche la forma della tomba, la cui pianta che dall’ingresso vira verso destra indica il modello per le sepolture delle regine. Sebbene Mostaf Waziri, segretario generale del consiglio supremo delle Antichità dell’Egitto, l’anno scorso dopo le ricerche geofisiche effettuate abbia definito che: “La camera nascosta a fianco o dentro la tomba di Tutankhamon non esiste!” chiudendo così la questione, nel mondo accademico Reeves non è solo. La rivista National Geographic ha ritirato i fondi dopo tale dichiarazione, ma lo supporta Adam Lowe, fondatore di Factum Foundation e consigliere del British Museum e il Grand Egyptian Museum: “In realtà, tre dei quattro test radar suggeriscono che Revees ha ragione”.

E concordano, come ricorda il Guardian, anche su un altro aspetto: il dominio archeologico che l’Europa ha sempre avuto in Egitto consentiva ai governi ricercatori di appropriarsi, dalla Stele di Rosetta in poi, di ogni reperto. I tesori di Tutankhamon sono, invece, rimasti al Cairo come simbolo di identità nazionale e lì torneranno al venturo Grand Egyptian Museum, che sorgerà vicino alle piramidi entro il 2022, per il centenario della scoperta di Carter. Lowe e Revees sospettano infatti che quello “sarà un grande momento per annunciare al mondo una nuova scoperta”. E forse sapremo anche se la maledizione tanto temuta è stata in realtà scagliata da Nefertiti.

Dopo 400 morti il governo cede alla crisi

Due mesi di proteste innescate dal carovita, ma rapidamente ramificatesi seguendo i rivoli iracheni della società, dell’economia, della politica, e oltre 400 vittime della violenta repressione, uccise dalle forze dell’ordine e dai militari schierati a loro sostegno. Alla fine, ieri, il premier Adil Abdul-Mahdi, uno sciita, ha annunciato le dimissioni. Troppo tardi, secondo la folla di piazza Tahrir a Baghdad, per fermare il movimento. Secondo fonti mediche locali, citate dai media internazionali, molte delle vittime sono state uccise da colpi letali sparati dai militari al petto o al capo. La decisione è stata presa dopo la giornata di manifestazioni forse più cruenta, un giovedì di sangue che ha visto almeno 50 vittime nel sud sciita del Paese, specie a Nassiriya, una trentina, e a Najaf, e a Baghdad. Determinante l’invito della massima autorità religiosa sciita irachena, Grand Ayatollah Ali Sistani, al parlamento perché togliesse la fiducia al governo, sostenuto – ed appare paradossale – da Iran e Stati Uniti. Da settimane, in questo autunno caldo mediorientale, i disordini in Iraq s’intrecciano e si sommano con le sanguinose repressioni delle proteste in Iran e in Libano: il regime di Teheran difende e protegge governi amici – quello di Baghdad come quello di Damasco – e gli Hezbollah in Libano, ma così attizza il malessere interno. La crisi economica, amplificata dal ripristino delle sanzioni deciso da Trump, dopo la denuncia unilaterale dell’accordo sul nucleare, è più pesante da sopportare quando il governo spende grosse somme in interferenze internazionali e s’attira ritorsioni nei Paesi dove opera.

La comunità internazionale è preoccupata: l’Iraq è un focolaio di contagio integralista e terrorista e il disordine politico e sociale favorisce la rinascita delle milizie jihadiste o almeno loro sporadiche azioni – in una, sono stati gravemente feriti tre soldati italiani –. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres denuncia “l’uso continuato di veri proiettili contro i manifestanti”. E l’Ue condanna come “inaccettabile” l’uso di pallottole da parte delle forze di sicurezza”. Dopo l’appello del Grand Ayatollah, Abdul-Mahdi, 77 anni, giunto al potere da poco più di anno, dopo un lungo e difficile negoziato tra forze politiche e componenti religiose della società irachena, non godeva più dell’appoggio del Parlamento, dominato dai partiti-milizia filo-iraniani. La mobilitazione anti-governativa è iniziata il 1° ottobre nella capitale e in gran parte del sud sciita, ricco di risorse energetiche, ma da decenni trascurato dalle politiche di sviluppo.

“Abbassare il livello di allerta terrorismo è stato sbagliato”

“Appena saputo dell’attacco ho pensato che meno di un mese fa, il 4 novembre, il governo inglese ha abbassato dopo anni il livello di allerta terrorismo. Forse è stato un segnale sbagliato”. Francesco Marone è Reseach Fellow al Centro di ricerca su radicalizzazione e terrorismo dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale. L’attentato di London Bridge, dice al Fatto, ha tutte le caratteristiche di un attacco jihadismo, ma “al momento non è possibile avanzare ipotesi precise”, sottolinea.

Dottor Marone, che idea si è fatto del profilo dell’attentatore?

Sicuramente è terrorismo, ma la matrice non è ancora chiara. Mi fa pensare a un attacco di matrice islamica, anche perché le analogie con l’attentato del 3 giugno 2017, sempre sul London Bridge, sono molte. Per prima l’accoltellamento, ma anche il fatto che l’attentatore avesse un giubbotto esplosivo finto.

Perché indossare un giubbotto finto?

Da un lato per aumentare il terrore e fare in modo che la polizia, almeno in una prima fase, si tenesse alla larga. Dall’altro, però, ci sono attentatori che cercano il martirio, e far credere di indossare esplosivo aumenta le possibilità di essere uccisi.

C’è un rischio emulazione da parte di cellule jihadiste dormienti?

Difficile dirlo. In Europa stavamo vivendo una fase tranquilla, tanto da abbassare il livello di allerta attentati da livello 4, ‘altamente probabile’, al livello 3, ‘probabile’, come nel caso di Londra. Forse, con il senno di poi, si è rischiato di dare un messaggio pericoloso, come hanno fatto notare gli studiosi. Certamente l’aver scelto di nuovo quel ponte è significativo, perché l’effetto è scenografico, incoraggia l’emulazione. Aspettiamo di vedere se lo Stato Islamico lo rivendica.

Perché non rivendicarlo subito?

Forse anche loro aspettano di sapere qualcosa di più. Credo che siano molto tentati di attribuirselo, perché è un attentato di grande effetto. Per la nuova leadership sarebbe un segnale forte, per di più a pochi giorni dalla morte del califfo Al-Baghdadi. Se potranno rivendicarlo credo non si faranno sfuggire l’occasione. Ma probabilmente aspettano di capire di che si tratta.

Se avessero conosciuto l’attentatore, però, la rivendicazione sarebbe già arrivata?

Direi di sì. Ad esempio nel caso di Anis Amri, l’attentatore di Sesto San Giovanni, i contatti pregressi con la leadership Isis erano chiari e la rivendicazione è arrivata subito. Però non succede spesso: la maggior parte degli attentatori che hanno colpito in Occidente negli ultimi anni era ispirata a distanza.

Si sentirebbe di escludere la matrice suprematista?

No, perché nell’ultimo anno abbiamo visto come l’estrema destra stia copiando lo jihadismo, ad esempio documentando gli attacchi con video come successo in Nuova Zelanda. Però l’accoltellamento con giubbotto esplosivo è una firma del terrorismo islamico, come la location scenografica e la scelta a casaccio delle vittime. Il suprematismo tende a essere più selettivo, colpisce moschee, sinagoghe, obiettivi precisi individuati come ‘nemici’.

Si può tracciare un collegamento con la campagna elettorale e la Brexit?

Non escluderei che siano state prese in considerazione. Ma mentre in altri attentati, come quello di Atocha a Madrid nel 2004, il collegamento era evidente – si votava due giorni dopo – qui è difficile tracciarlo in assenza di ulteriori elementi.

Panico a Londra: 3 persone morte tra Natale e il voto

Sono circa le 2 di pomeriggio quando la polizia accorre a London Bridge. Sul ponte c’è un uomo che brandisce un coltello. Ha già ferito diversi passanti: la zona è piena di uffici, negozi e locali e a quell’ora a gente è in strada, di ritorno dalla pausa pranzo. Un video, ripreso da diverse angolazioni, mostra un uomo in jeans e maglione scuro lottare con l’attentatore: lo sovrasta, lo tiene fermo, gli impedisce di muoversi. Agenti armati accorrono, uno gli urla di lasciare la presa, lo prende per il bavero, lo trascina via. È un passante, si saprà dopo, intervenuto per fermare l’attacco. L’attentatore fa per rialzarsi e viene freddato da colpi d’arma da fuoco.

Caroline racconta al Guardian: “Ho visto un gruppo di 5 o sei persone, una aveva un’arma improvvisata. All’improvviso si sono messi a correre ed è arrivata la polizia, credo tre agenti. Ho sentito due colpi di arma da fuoco verso una persona a terra. Sono scappata in ufficio”.

John: “Sono andato a comprare un panino, e uscendo dal negozio ho sentito delle grida provenire dal ponte. Era un poliziotto, gridava e cercava di farsi largo fra la folla per traversare la strada. È corso in uno Starbucks, sembrava cercasse qualcuno. Diceva a tutti di scappare dalla parte opposta. Un uomo in bicicletta, in stato di choc, ha detto di aver appena visto un uomo abbattuto dalla polizia sul London Bridge. Maneggiava qualcosa sul petto, sembrava stesse cercando di attivare una bomba”.

La zona è cordonata, la gente resta nei locali o ripara in appartamenti vicini. La polizia cerca altri sospetti. Arrivano le ambulanze: i feriti, almeno 10 di cui due in condizioni gravi, vengono portati negli ospedali vicini. Appena possibile, la polizia evacua la zona. Karin Degiorgi: “Ero in un negozio sotto il ponte, ci hanno detto di restare dentro per circa 10 minuti, poi di lasciare la zona rapidamente. Per un po’ siamo rimasti a casa di un collega lì vicino, poi appena possibile sono tornata a casa.

A metà pomeriggio la conferma del vice-capo della polizia Neil Basu: è un attentato terroristico. Il sospettato è morto sul posto. Aveva indosso una cintura esplosiva che però, secondo i primi accertamenti, è risultata falsa. “L’inchiesta è condotta dall’antiterrorismo, ma devo sottolineare che stiamo valutando tutte le ipotesi sul movente. Qualsiasi speculazione per il momento è inopportuna” conclude, e va a Downing Street a riferire a Boris Johnson.

Londra ripiomba nell’angoscia post-attentato: la zona resta off-limits, e in tutta la città si rafforza la sicurezza, con pattuglie armate che tornano a presidiare i luoghi sensibili in un weekend pre-natalizio e in piena campagna elettorale.

E London Bridge evoca la memoria di un altro attacco: quello della sera del 3 giugno 2017, un sabato, anche quello pre elettorale, quando un furgone si abbatte sulla folla del weekend, poi i tre terroristi dilagano nei ristoranti e pub vicini e ammazzano 8 persone inermi. L’attentato è rivendicato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, ma i terroristi vivono a Londra. È il terzo attacco di matrice islamica in tre mesi, dopo quello di Westminster Bridge, a marzo, che costa la vita a 5 persone più l’attentatore, e quello di Manchester, 22 morti e 200 feriti nell’esplosione di una bomba al concerto di Ariana Grande. E poi l’attentato contro la Moschea di Finsbury Park, in cui muore l’attentatore, l’estremista di destra inglese Darren Osborn: il fallito attentato alla metropolitana di Parsons Green il 15 settembre 2017, l’auto che piomba sulle barriere di sicurezza del Parlamento il 14 agosto 2018.

La paura, ora, di ripiombare nel caos. “Chiunque sia coinvolto in questo crimine sarà perseguito e assicurato alla giustizia“ ha dichiarato il premier Boris Johnson. “Non ci faremo intimidire”.

Altro che talent: #Ragazzi contro e la vita vera degli adolescenti

È l’esperimento più controcorrente di questa stagione fatta di cuochi, politici, giornalisti e pescivendoli, casseruole sul fuoco e padellate in testa, tutto all’insegna del “guitto potere” (copyright Roberto D’Agostino). Un esperimento dove si recupera il documentario in presa diretta anni 70, quello di #Ragazzi contro (Rai2, mercoledì sera). Daniele Piervincenzi incontra gli studenti di un istituto superiore, un’apnea di tre giorni in spirito montessoriano, e discute con loro di bullismo, branco digitale, devianze, sentimenti. La riuscita di questo factual sta in quello che non c’è: Piervincenzi non è un professore ma nemmeno un Vip (va di moda portarli anche in cattedra), solo un cronista; postproduzione e sceneggiatura minimaliste a fronte del puro racconto dei ragazzi. Un programma fatto di fragilità e di forza (c’è chi ha dovuto rompere con la famiglia), su come l’adolescenza sia l’età più difficile e più decisiva della vita. E su come la vituperata tv, se usata senza filtri, possa farsi non maestra, ma testimone di vita.

P. S. Nicola Porro ha trovato disdicevole la mia ignoranza a proposito di Hoara Borselli, già primadonna del Bagaglino, ora prima politologa di Quarta Repubblica. Devo averlo punto sul vivo. In effetti avevo dimenticato che nel 2011 è stata collaboratrice del ministro Ignazio La Russa quale conduttrice di eventi (tanto da essere soprannominata “Miss Difesa”). Un’omissione importante. Ce ne scusiamo con l’interessata, e con l’interessato.

Strage quotidiana dei pedoni: blackout mediatico

“La città, in quanto formazione sociale fra le più significative, rientra certamente nell’ambito dei beni comuni”.

(da “Elogio della città?” di Giovanni Maria Flick – Paoline Editoriale libri – pag. 17)

 

Li chiamiamo “passaggi pedonali”, ma forse bisognerebbe parlare di “trapassi pedonali”. Se oltre seicento cittadini muoiono ogni anno in Italia sulle “strisce”, mentre tentano a loro rischio e pericolo di attraversare la strada, questo è innanzitutto un problema di pubblica sicurezza e di educazione civica. E spetta risolverlo, nell’ordine, al Parlamento con una legge che preveda pene molto più severe; ai ministri dell’Interno, anche a quelli che non vanno o vanno poco in ufficio; ai sindaci che non dispongono i controlli necessari e non ordinano di riverniciare regolarmente le “zebre”; e infine ai Vigili urbani che non sempre fanno rispettare i limiti di velocità e il diritto di precedenza dei pedoni.

Ma questa strage continua è anche un problema di comunicazione e di cultura. Di convivenza e di civiltà. Una questione sociale che interpella il sistema mediatico, i giornali, le televisioni e specialmente il servizio pubblico, a cui tocca il compito pedagogico di richiamare l’attenzione sul rispetto delle regole e della vita altrui. Non c’è bisogno di andare a Londra, o in qualche altra grande Capitale del nord Europa, per rendersi conto delle differenze di comportamento rispetto a Roma e a tante altre città italiane: nella “sfavillante” Lisbona di Fernando Pessoa chiunque può constatare che la precedenza dei pedoni è un diritto generalmente riconosciuto e rigorosamente applicato.

Seicento vittime all’anno, sacrificate nella giungla urbana sull’altare del traffico convulso e frenetico, sono un costo troppo alto da sopportare in una società moderna. E per un cittadino che viene investito sulle “strisce”, chissà quanti rischiano la pelle ogni giorno sui passaggi pedonali, sfiorati da auto, moto e motorini impazziti. È più che giusto e necessario, ovviamente, denunciare e perseguire i cento femminicidi all’anno consumati a danno delle donne; ma qui stiamo parlando di un massacro quotidiano che purtroppo è sei volte più grande, senza distinzioni di sesso e di età.

Di fronte a una tale emergenza, è opportuno chiedersi – come fa nel libro citato all’inizio Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia del governo Prodi I ed ex presidente della Corte costituzionale – se oggi sia ancora legittimo fare “l’elogio della città”, piuttosto che interrogarsi sulla possibilità di passare “dal luogo delle paure alla comunità della gioia”. E in effetti, anche la strage dei pedoni rientra in una riflessione più ampia sulla riorganizzazione della vita collettiva all’insegna della sostenibilità ecologica. Nel suo famoso saggio intitolato Il feticcio urbano, già nel ’68 il sociologo tedesco Alexander Mitscherlich spiegava come l’ambiente possa determinare e condizionare i comportamenti dei cittadini: per cui un contesto degradato tende a favorire l’indisciplina, l’emarginazione, il disagio sociale o addirittura la criminalità.

È proprio in forza della Costituzione, e in particolare degli articoli 2 e 9, che la città va considerata invece un “bene comune”: il primo articolo riguarda il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo “nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”; il secondo attiene alla “tutela del patrimonio storico e artistico della Nazione”. I pedoni, al pari di tutti gli altri cittadini, sono garantiti da questi due principi costituzionali. E la loro sicurezza e incolumità corrispondono, appunto, a diritti inviolabili: soprattutto sui passaggi pedonali.

Prescrizione, chi ha interesse a mantenerla

Il dibattito sullo stop ai tempi della prescrizione alla sentenza di primo grado sarebbe surreale se non nascondesse interessi molto concreti e tutt’altro che limpidi. Chi si oppone a questa legge, in vigore da un anno per processi relativi ai reati commessi dal 1° gennaio 2020, afferma che allungherebbe i tempi del processo. Vero, ma questo avviene su processi già lunghissimi che sono l’autentico nocciolo della questione, di cui parleremo più avanti. Per l’intanto la nuova legge se entrerà in vigore offrirà enormi vantaggi. Con l’attuale regime i magistrati vengono demotivati perché già durante l’iter del processo sanno che il loro lavoro cadrà nel nulla.

Lo Stato (cioè noi cittadini) spende un fracasso di soldi altrettanto per nulla. Non c’è la certezza della pena. La parte offesa non otterrà mai alcuna soddisfazione. Per evitare questa legge, che Di Maio ha definito giustamente “di assoluto buon senso”, gli oppositori ricorrono a un escamotage: la legge deve essere subordinata a una preventiva riforma del Codice di Procedura penale. È come dire: non se ne fa nulla. La precedente riforma, quella curata da Giandomenico Pisapia insieme a uno stuolo di giuristi, ha voluto un lavoro durato dieci anni per partorire peraltro un obbrobrio, un ibrido fra sistema accusatorio e inquisitorio che non ha funzionato. La riforma del Codice di Procedura penale, nel senso di uno snellimento dei processi, dovrebbe quindi correre in parallelo con la legge sulla prescrizione (che c’è già) e non rimandarla alle calende greche. A chiedere di rimettere in discussione la blocca-prescrizione sono soprattutto quei partiti, Forza Italia e Pd in particolare, che hanno nel loro Dna una particolare propensione a delinquere, come dimostra l’infinità di loro imputati in attesa di giudizio definitivo. Costoro se la caveranno perché la legge non può essere retroattiva. I loro successori no. Secondo la ricostruzione di Antonella Mascali sul Fatto nel solo 2018 i processi caduti sotto la mannaia della prescrizione sono 117.367 e al primo posto ci sono i reati in materia edilizia, 13.260. E qui casca l’asino perché i “reati in materia edilizia” sono quelli propri di “lorsignori”: corruzione, appalti truccati, traffico di influenze, finanziamento illecito ai partiti.

Il nocciolo della questione non è quindi la legge sulla prescrizione, ma l’abnorme durata del processo che va a incidere, fra le altre cose, sulla durata, spesso altrettanto abnorme, della carcerazione preventiva e sulla possibilità o meno, durante la delicata fase delle indagini preliminari, di dare informazioni sull’attività degli inquirenti. Al segreto istruttorio in questa fase, si oppone, bisogna dirlo, un’altra casta, quella dei giornalisti.

Alleggerire le procedure quindi. Purtroppo il sistema giudiziario italiano ha preso dal diritto bizantino, una stupenda cattedrale fatta di pesi e contrappesi, di ricorsi e controricorsi, di revisioni e controrevisioni, di misure e contromisure, che dovrebbe eliminare l’errore e invece finisce per favorirlo perché a distanza di tanto tempo i testimoni non ricordano o sono morti, le carte sono ingiallite, illeggibili e a volte scomparse. Il sistema anglosassone prende invece dal diritto latino (di cui noi dovremmo essere gli eredi, ma non lo siamo) un diritto di matrice contadina, pragmatico, efficiente, che sconta la possibilità dell’errore a favore della velocità dei processi. Il nostro impianto giudiziario, già farraginoso per queste ragioni storiche, negli ultimi anni è stato ulteriormente appesantito da leggi “pseudogarantiste” che sembrano fatte apposta per salvare i furfanti. Perché l’interesse dell’innocente è di essere giudicato il prima possibile, quello del colpevole il più tardi o possibilmente mai come è avvenuto tante volte a partire dall’“entrata in campo” di Silvio Berlusconi. Ritorniamo quindi alla nostra matrice latina. Un passo indietro che sarebbe in realtà un grande passo in avanti.