Quell’insostenibile voglia di Craxi

C’è voglia di Craxi nell’aria. A vent’anni dalla sua morte, il 19 gennaio del 2000, Hammamet diventa un film sulla leggenda di san Bettino politico e martire, vittima della cospirazione di Mani pulite, regia di Gianni Amelio, interprete Pierfrancesco Favino (straordinario), soldi di Rai Cinema, coproduttore Agostino Saccà, ex giovane socialista ed ex direttore generale della Rai per volontà di Silvio Berlusconi. E Giuseppe Sala torna sull’eterna proposta di dedicare una via di Milano all’ex segretario socialista: “Penso che politicamente sia il momento di affrontare la questione”, scrive pensoso il sindaco di Milano. “Più che prendere iniziative, io vorrei capire anche la città che tipo di idea ha. Secondo me non sarebbe sbagliato un dibattito in Consiglio comunale, certamente potrebbe essere il primo passo”.

La figlia, Stefania Craxi, prende subito sul serio Sala: “Abbia la forza di fare un passo in avanti. Gli intitoli una importante via nella sua città”. Perché non una piazza? Perché non piazza Duomo dove, al numero 19, Bettino aveva lo studio dove gli venivano portate le buste gialline gonfie dei soldi delle mazzette?

Più sobrio, come sempre, il figlio Bobo Craxi, che twitta così: “Gentile Beppe Sala, Sciúr sindíc, grazie. Non un gesto politico toponomastico, ma un semplice memento: ‘Qui visse / qui nacque il primo milanese presidente del Consiglio dei ministri’. È più semplice e non rinnova inutili antichi rancori. Buon sant’Ambrogio”.

Poi Bobo spiega: “Non amo la politica toponomastica. Soprattutto non vorrei che questo fosse l’ennesimo pretesto per un litigio sul nome di mio padre”.

Il Sciúr sindíc, dopo aver gettato il sasso, ritira la mano: “Torno sul dibattito relativo a Bettino Craxi per chiarire meglio il mio pensiero. Intitolargli una via rischierebbe di riproporre, più che altro, vecchie contrapposizioni. Mettere ancora gli uni contro gli altri ha poco senso, meglio capire se c’è spazio per riconciliarci con il nostro passato e fra di noi. Il mio invito è quindi un altro: fare i conti con la complessità di una storia che, nel bene e nel male, ha significato molto”.

Stefania insorge: “Basta ‘chiacchiere e tabacchiere di legno’. Le forze di opposizione sono d’accordo. C’è, invece, la volontà politica della maggioranza di Palazzo Marino di titolare una via importante a Craxi? Bene. Si proceda per la strada maestra. E non si cerchino scorciatoie ed escamotage di comodo con pseudo targhe”.

Guerra in famiglia: povero Bobo, era sua l’idea della “pseudo targa”. “Altrimenti”, conclude Stefania, “tali dichiarazioni hanno il gusto della presa in giro. Il sindaco Sala dice che una via a Craxi riaprirebbe contrapposizioni. È vero. Ma solo a sinistra. Nella sua maggioranza. Non altrove. Quindi basta ipocrisie. Basta nascondersi dietro un dito. Diciamo come stanno le cose. La solita sinistra ipocrita cerca formule per non affrontare un tema che ancora oggi li divide”. Come darle torto?

Sala, per uscire vivo dalla trappola in cui si è cacciato da solo, prova a dire che “le ricorrenze hanno anche un valore simbolico, venti anni sono un tempo giusto per aprire una riflessione seria”. In attesa che il sindaco avvii una riflessione seria (per quanto ci riguarda è vent’anni che la facciamo e non aspettiamo gli anniversari), il presente s’impone sul passato. Sì, perché la realtà è più forte della fiction. Favino porterà sullo schermo, da gennaio, il Craxi di Hammamet, sconfitto e consegnato alla (sua) storia. Ma abbiamo vivo e vegeto un Craxi in sedicesimo, che si è fatto un partitino determinante per le sorti del governo.

Matteo Renzi è il nuovo Ghino di Tacco che occupa il sentiero stretto che porta all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Senza di lui, c’è il voto e la probabilissima vittoria dell’altro Matteo, che occuperebbe il Parlamento con una maggioranza sufficiente non solo a scegliere un capo dello Stato di suo gradimento, ma anche a ribaltare la Costituzione senza neppure passare per un referendum.

Ora l’attacco alla magistratura per i suoi personali problemi giudiziari lo rende ancor più simile a Bettino. “Chi decide oggi che cosa è un partito? La politica o la magistratura? Su questo punto si gioca una sfida decisiva per la democrazia italiana”. E ancora: “I pm attaccano la democrazia”. E per finire: “Presto parlerò in Parlamento”. Come Bettino nel 1993, quando cantò il “così fan tutti”?

Intanto si avvicina Sant’Ambrogio, festa del patrono della città in cui Sala consegnerà gli Ambrogini d’oro. Non ancora a Craxi, ma – par condicio – a Francesco Saverio Borrelli e a Filippo Penati, il procuratore e l’imputato (prescritto). Chissà se si riferiva a questo, Bobo Craxi, quando qualche giorno fa ha twittato: “Ti faccio l’elenco degli scandali dei Pd negli ultimi venti anni? Solo che ai ladri comunisti a Milano danno le benemerenze”.

Mail box

 

Elogio delle Sardine che ci fanno sperare

Vorrei condividere con voi il mio sentire a proposito di questo inaspettato e imprevisto ‘stato nascente’ delle cosiddette ‘Sardine’.

Intanto come non dire che è rigerminata la speranza, che questi ragazzi confermano la presenza intorno a noi di valori positivi, di un volersi e sentirsi bene insieme, di aprirsi a orizzonti e mondi intravisti oltre il buio e indicibili credi.

Non l’ho letto da nessuna parte ma io ho subito pensato a Greta, a quello spirito e a quella voglia di futuro che fa aprire gli occhi e risvegliare, in un moto condiviso e irrefrenabile. Tutti insieme per abbattere ogni tipo di inquinamento, morale e materiale, e combattere sconcerto, rassegnazione, pessimismo, egoismo, passività.

Il nemico è Salvini certo, con la sua politica vecchia tutta un’eco del tempo che fu, con i suoi legami e supporti inquietanti, con l’insofferenza per verità ed equità. Ma queste ‘Sardine’ esprimono anche una maniera di rimettersi in cammino là dove hanno fallito le generazioni precedenti, stanche e scoraggiate, impotenti, inconcludenti, litigiose; di riaffermare l’utopia, di non poterne più delle parole contro chi bussa alla nostra porta, senza però far nulla perché da quella stessa porta non escano più frotte di ragazzi capaci e desiderosi alla ricerca, altrove, di futuro e diritti rubati.

Alessandra Savini

 

Giornali loquaci su Spelacchio meno sui soldi di Matteo Renzi

“I giornaloni nascondono l’inchiesta Open”, scrive Marco Travaglio. Eppure erano tanto loquaci quando cantavano le gesta di Spelacchio, l’albero più spregiudicato del West, o facevano assurgere agli onori delle cronache un mucchio di calcinacci di casa Di Maio. Anche la sentenza, con relative condanne, sulla trattativa Stato-mafia rischia di finire nel dimenticatoio, perdendosi nella notte dei tempi. Il che significa che “non esistono i fatti, ma solo le interpretazioni” (Nietzsche). Anche per il filosofo Antiseri “non esistono i fatti nudi e crudi da una parte e le teorie dall’altra. I fatti sono sempre inquadrati in una teoria, vanno considerati secondo un determinata prospettiva o idea, o interesse”. Sono tali prospettive che illuminano i fatti. Se i fatti vengono interpretati in modo fazioso, secondo un interesse di parte, prevale la prospettiva del paraculismo, se, invece, vengono inquadrati secondo il punto di vista dell’interesse generale e dei valori della Costituzione della Repubblica, allora ci troviamo di fronte alla prospettiva del Fatto Quotidiano. Tertium non datur.

Maurizio Burattini

 

Salvini e Meloni avanzano Grillo prenda le redini

È meglio che in questa fase Grillo guidi il M5S come un partito vero e proprio, senza se e senza ma. Con un centrodestra oltre il 50% non c’è tanto da scherzare.

Elio Ferrara

 

Le querele temerarie minacciano la libertà

Cosa rischia un politico se querela un giornalista che ha diffuso notizie “scomode” e poi il giudice respinge la sua richiesta di risarcimento di danni milionaria? Niente. Il politico soccombente pagherà solo le spese legali e processuali, senza altre conseguenze. Questa intimidazione a costo zero è denunciata da anni dalla Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi), che ha avviato una petizione contro le “querele temerarie”. Il caso è di stretta attualità, visto che la “querela bavaglio” è un mezzo sempre più usato da potenti inquisiti per limitare la diffusione delle notizie sui loro affari. Una consuetudine potenziata dal berlusconismo, che si protrae dal fondatore (B.) fino al successore (Renzi). Le testate solide hanno mezzi e studi legali per difendersi e andare avanti. Per un piccolo giornale o un free-lance, invece, questo rischio può indurre all’autocensura. La stampa che liscia il potere non rischia querele, quella che ne svela gli intrighi, sì. Firmare la petizione in difesa dei “nostri” cronisti – quelli che rischiano per permettere a noi cittadini di esercitare la sovranità consapevole – è un gesto costituzionale.

Massimo Marnetto

 

In politica come nel calcio bisogna saper fare squadra

Travaglio ha ragione, tanto che il M5S e il Pd dovrebbero accettare il suo consiglio. Come nelle squadre di calcio vincenti, quando è necessario, undici elementi si trasformano in una sola unità lasciandosi alle spalle le glorie e i malumori personali. Quello che conta è vincere.

Omero Muzzu

 

Raccolte fondi in tv, manca la trasparenza

Aderisco spesso, per quanto mi è possibile, alle raccolte fondi per iniziative umanitarie, mediante sms o modesti bonifici: essendo io soggetto emotivo mi immedesimo facilmente con chi si trova in condizioni di difficoltà, in questo nostro disgraziato Paese e non solo. Ormai non c’è giorno in cui nei programmi tv non appaia una richiesta di denaro per emergenze calamitose, ricerche mediche, soccorso a popolazioni.

Ogni volta mi chiedo (solo io?) perchè alla scadenza di ogni sottoscrizione non venga reso noto quanto sia stato raccolto? Perchè scaduti sei mesi dall’evento non venga reso noto come sono stati spesi i fondi raccolti?

Paolo Mazzucato

Le donazioni di Librandi e l’incredibile opacità delle fondazioni

Sono rimasto allibito nel leggere su questo giornale l’intervista fatta all’imprenditore Librandi. Le risposte sono semplicemente sconcertanti e dimostrano inesorabilmente l’intreccio tra affari e politica. Mi ha anche impressionato la disinvoltura con la quale il signor Librandi rispondeva alle domande, ribadendo che tutte queste donazioni sono state fatte seguendo scrupolosamente la legge. Senza vergogna, sapendo che il problema non è una questione legale. Questa intervista è un documento da conservare perchè riassume in una sola pagina tutta la storia politica italiana.

Gentile Salvatore, il suo stupore è comprensibile. Gianfranco Librandi ha risposto a tutte le domande con totale candore, senza il minimo imbarazzo. Il deputato di Italia Viva è quello che si suole definire un “peone”: un parlamentare sostanzialmente sconosciuto, privo di peso politico all’interno del suo gruppo. Eletto nel 2013 con Scelta Civica, il partito di Monti. Prima ancora, consigliere comunale con Forza Italia. Il 4 marzo 2018 il suo nome finisce a sorpresa e senza tanti clamori tra i candidati del Pd alle Politiche, in terza posizione nel listino plurinominale del collegio Lombardia 1. Non basta, i dem eleggono solo due parlamentari, ma Librandi viene graziato: Barbara Pollastrini, che lo precedeva in lista, è eletta anche nella circoscrizione di Monza e opta per quel collegio, lasciandogli il posto. Una serie di coincidenze fortunate. Che c’entra Librandi col Pd? Perché un imprenditore semi sconosciuto, ex berlusconiano, finisce in Parlamento con il centrosinistra? Che c’entra Librandi con Renzi? Mistero. La risposta è arrivata in questi giorni: il Nostro è uno dei massimi finanziatori della fondazione renziana Open: 800mila euro di donazioni, una cifra imbarazzante. Ma l’imbarazzo non sfiora né lui né Renzi. Nelle sue risposte quasi naif, Librandi coglie un punto: fino a prova contraria non c’è nulla di illegale o illegittimo in quella enorme massa di denaro regalato alla Open. E questo è il vero problema. Come fa notare Openpolis, le fondazioni politiche non hanno l’obbligo di pubblicare le donazioni ricevute e questo “fornisce ai partiti che vogliono nascondere finanziamenti la soluzione ai loro problemi su un piatto d’argento”. Da quando è stato abolito il finanziamento pubblico ai partiti, i veri soldi passano da lì. Di recente il ddl “spazzacorrotti” ha disciplinato gli obblighi delle fondazioni, ma senza intervenire compiutamente su questo aspetto.

“Renzi ha avuto la notizia da Bankitalia”

Luciano Nobili, deputato di Italia Viva eletto nel 2018 grazie a una candidatura, nel Pd di Renzi, in ottima posizione nella circoscrizione Lazio 1, gira i talk con l’ingrato compito di difendere nella tormenta mediatica il suo leader. Giovedì a Rainews 24 ha colto in fallo l’editorialista de L’espresso Gigi Riva che – dopo il suo rimbrotto e la minaccia di causa per 100 mila euro di Renzi – con una nota ha chiesto scusa a tutti. Nobili poi è andato a presidiare L’aria che tira (condotta ieri su La7 da Francesco Magnani) contro Emiliano Fittipaldi, autore del pezzo sulla segnalazione all’UIF relativa al prestito di 700 mila euro ricevuto da Renzi prima di comprare casa a Firenze. Fittipaldi cercava di spiegare la storia del prestito restituito alla famiglia Maestrelli meno di 5 mesi dopo ma Nobili lo incalzava per chiedergli chi gli avesse fornito la carta dello scoop.

Prima Nobili ha premesso che tre soggetti erano in possesso del documento: Renzi, la GdF e la Procura poi con logica ficcante, ha escluso che Renzi avesse dato la carta a Fittipaldi, e a quel punto ha chiesto a Fittipaldi chi glielo avesse dato. Nella foga però Nobili ha detto una cosa, che se fosse vera sarebbe enorme: “Il documento pubblicato da Fittipaldi era un segreto – ha tuonato – quel documento era in possesso di Matteo Renzi perché la Banca d’Italia glielo ha trasmesso”. Ora, tutti sanno che la segnalazione di operazione sospetta, fatta dalla banca all’UIF di Bankitalia non può essere rivelata né tanto meno ‘trasmessa’ a Renzi. Sentito in serata sul punto dal Fatto, Nobili ieri ha corretto il tiro: “No intendevo dire che Renzi ne era a conoscenza nel senso che essendo una legge che ha fatto lui, sa bene che un bonifico di quella portata su un personaggio pubblicamente esposto sarebbe stato segnalato alla Banca d’Italia quindi ne era pienamente a conoscenza”. In trasmissione aveva detto altro. Per fortuna la Banca d’Italia non è permalosa come Renzi.

Alessandro Telich, detto “er tavoletta” l’uomo che criptava le parole di Diabolik

Uno dei punti di forza dell’organizzazione del narcotrafficante Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, a capo di uno dei più potenti, ricchi e spregiudicati gruppi criminali della Capitale, è la possibilità di avere tra i suoi uomini un cervellone. L’informatico romano Alessandro Telich, detto “tavoletta”, arrestato giovedì scorso in aeroporto, dopo essere sbarcato da Dubai, e appartenente agli Irriducibili. Crea un’applicazione VoIP per rendere le conversazioni dei cellulari criptate al segnale delle intercettazioni. Per questo motivo la Guardia di finanza deve ricorre al vecchio sistema delle ambientali e agli appostamenti. Telich “fonda a Dubai nel 2011” la Imperial Eagle DWC-LLC, una scelta non casuale, perché come scrive il sito (klineapp.com), è “una nazione che non si trova obbligata a fornire informazioni e/o dare accesso ai server di servizi Voip”.

Il simbolo e nome dell’azienda rimandano “all’Aquila Imperiale”, per gli inquirenti un chiaro riferimento “al tradizionale simbolo rappresentativo della società calcistica SS Lazio”. La società fornisce “soluzioni per la protezione della privacy, società di servizi di sicurezza e software di crittografia” che “sviluppa inoltre applicazioni di comunicazione sicura con funzionalità di crittografia e sicurezza di livello militare”. Telich crea altre due app che si trovano in rete: la knote, simile al classico block note, e la Kline, versione base di quella plus.

Fornisce, spiegano gli inquirenti nell’informativa, “apparecchiature di elevato livello tecnologico per sistemi di sicurezza”, ma anche “disturbatori portatili, fissi e veicolari di radiofrequenze e reti Gsm e rilevatori”, e “interventi di bonifica” in appartamenti e auto. Nel suo canale youtube dei video sui rilevatori di campi magnetici con “stun guns manganello elettrico”.

L’informatico è spesso chiamato da Fabrizio Fabietti, braccio destro di Diabolik e arrestato con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, per intervenire nelle bonifiche: “Sto con un amichetto mio che deve fare la macchina, ora te lo passo e gli dai appuntamento”. “Dobbiamo fare tre bonifiche, sono tutti impauriti, mi sa che ti faccio lavorare di brutto, tutta Roma vuole fare le bonifiche”, ripete Fabietti.

Per ripulire casa servono 600 euro, mentre per l’auto ne bastano 300. La sua società è in grado di fornire “utenze telefoniche non riconducibili ad alcuna persona fisica o giuridica”, ovvero con “sim anomime europee”, usando il sistema di crittografia end-to-end, con un protocollo di sicurezza di “cifratura a blocchi utilizzato dal governo degli Stati Uniti”. Il costo è di 1000 euro.

“Questo è il top dei top, lui c’ha il telefono, c’ha il sito suo a Dubai, i telefoni quelli chiusi, mille euro uno”, dice Fabietti a chi gli chiede informazioni.

Durante una partita di droga, gli inquirenti sospettano sia stata tra il Nord Afria e il litorale laziale, Piscitelli chiede a Fabietti e Telich di fornire i telefoni al loro corriere. “Questo, cascasse il mondo, deve averci il telefono che funziona – e aggiunge –, se vanno in Marocco, se vanno in Francia, io per primo voglio essere sicuro di non perderli”.

Telich è sicuro della sua tecnologia. “Quando tu hai quell’applicazione installata è fatta appositamente perché tutti ce l’hanno – spiega a Fabietti -, se poi c’hai il tuo telefono personale, per me non ci stanno problemi, io non c’ho facebook, non c’ho niente, non li metto proprio per precauzione, ogni applicazione che tu vai a mettere dentro crei una vulnerabilità per la sicurezza, che non ti posso neanche controllare”.

L’informatico avvisa Fabietti anche dei nuovi aggiornamenti. “Poi ci vediamo la prossima settimana e ti metto l’app nuova, che passiamo ad un’altra app, c’è anche l’autodistruzione, imposti anche chat, riesci anche ad impostare i messaggi che si autodistruggono, capito? Puoi impostare da un minuto a dieci giorni”.

Far West Napoli, 10 ore di fuoco: 1 morto, 2 feriti

Un omicidio e due gambizzazioni in poco più di dieci ore, l’ultima sparatoria in mattinata, in un bar vicino alla centrale via Toledo, lo struscio dello shopping coi negozi che avrebbero aperto di lì a poco agghindati per le feste natalizie. E così Napoli ripiomba nell’angoscia dell’emergenza criminalità e sicurezza provocata da una camorra che spara senza pensarci troppo, per dominare piccoli giri di droga ed il pizzo di Natale ai commercianti. Dei tre episodi, due, forse, sono collegati tra loro, secondo le prime e frammentarie ricostruzioni della Polizia di Stato, investita delle indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia della Procura di Napoli guidata da Giovanni Melillo.

Il fuoco dei proiettili inizia a crepitare alle 21:10 circa di giovedì: in via Cupa Capodichino, nel quartiere Miano, zona a nord di Napoli, viene ucciso un uomo di 30 anni, Alessandro Napolitano. Stava rientrando in auto nell’abitazione della madre quando il killer lo ha raggiunto con diversi colpi di arma da fuoco. Alla testa e alla bocca quelli mortali. Sul posto sono stati trovati 5 bossoli a terra e due ogive nell’auto. Dietro le formule generiche del “non si esclude alcuna pista” ci sarebbe la storia di un giovane estraneo ad ambienti di camorra, con un lavoro, forse punito per aver frequentato la persona sbagliata e per averne parlato con disinvoltura in giro. Di qui i proiettili sparati sulla bocca come una sorta di firma sul movente del delitto, se le primissime ipotesi dovessero trovare riscontri in indagini appena avviate dal pm di turno in Procura.

Poche ore dopo, si torna a sparare da tutta un’altra parte della città. Alle due e mezza della notte tra giovedì e venerdì in vico Paradiso alla Salute, zona Pignasecca, un 19enne viene ferito alle gambe da diversi colpi di arma da fuoco. Si chiama N. M. ed agli agenti ha raccontato di essere stato sorpreso da due persone mentre stava rincasando. La zona sarebbe sotto il controllo della famiglia Saltalamacchia. Sul posto però gli investigatori della Polizia non hanno trovato bossoli nè tracce di sangue. L’agguato potrebbe essere avvenuto da un’altra parte. I sanitari dell’ospedale Vecchio Pellegrini hanno giudicato le ferite guaribili in 40 giorni.

Alle 8 di mattina nuova sparatoria, con modalità da film poliziottesco Anni 70: due persone a bordo di uno scooter sono arrivate alla Caffetteria Sommella di via Pasquale Scura, un vicolo all’angolo tra via Pignasecca e via Toledo, uno dei due è sceso ed è entrato nel bar pieno di gente per i caffè e le colazioni, gambizzando il 23enne Antonio Giarnieri, un dipendente che lavora lì da oltre cinque anni. Vive nella zona e non ha precedenti. Non è in pericolo di vita. Anche lui è stato ricoverato al Vecchio Pellegrini, dal quale, poche ore dopo, è stato trasferito con una scorta di polizia al Loreto Mare per ragioni di sicurezza.

Le due gambizzazioni, infatti, potrebbero essere un botta e risposta all’interno delle dinamiche criminali tra i clan dei Quartieri Spagnoli. Ed i poliziotti hanno voluto evitare contatti tra i parenti dei due feriti. I due agguati sarebbero avvenuti in un contesto noto agli investigatori: quello del controllo di una piazza di spaccio dei Quartieri Spagnoli raggiungibile solo a piedi. Una zona che in questo momento sarebbe attraversata da un vuoto di potere, contesa da quel che resta delle famiglie camorristiche dei Masiello-Mariano contrapposte alle famiglie dei Ricci-Esposito, dopo le numerose operazioni messe a segno negli ultimi anni dalla Dda di Napoli. In questo contesto, gli inquirenti suppongono che si possa sparare a vista, senza uccidere, per questioni di quote settimanali di droga non pagate, o altri sgarri tra cosche che fanno e disfanno alleanze nel giro di pochi giorni, per il controllo della rata di Natale del pizzo. Un Natale che a Napoli si riempie di bossoli.

Killer di Sacchi intercettato “Glieli levo tutti e settanta”

“Ascoltami, sto con un amico mio che conosci, bello fulminato! Ma se invece io vengo a prenneme qua-a cosa che m’hai detto ieri e glielo levo tutti e settanta? Vengo da te, te faccio un bel re…”. La voce è di Valerio Del Grosso, il giovane romano arrestato il mese scorso con l’accusa di omicidio di Luca Sacchi, il 24enne ucciso la notte del 23 ottobre nel quartiere Coli Albani a Roma. Dall’altra c’è Marcello De Propris, arrestato ieri con l’accusa di concorso in omicidio per aver fornito la pistola.

Le conversazioni era stata intercettate dalla polizia, che stava seguendo già su De Propris per vicende di droga, e confluisce solo dopo nell’indagine per omicidio, quando gli inquirenti si accorgono che a parlare è il killer. Del Grosso, insieme all’amico “fulminato” Paolo Pirino, già in carcere per lo stesso reato, avevano organizzato la compravendita di 15 kg di hashish con Giovanni Princi, amico d’infanzia di Sacchi, che in cambio l’avrebbe pagata 70 mila euro. La borsa con i soldi la tiene la fidanzata di Luca, Anastasiya Kylemnyk.

La trattativa sarebbe durata alcune ore, con un “ruolo attivo” di Princi ed Anastasia, mentre su Sacchi non “ci sono elementi per dire che fosse coinvolto, partecipe e consapevole della compravendita e dell’acquisto di droga”. Ieri è stato arrestato Princi con l’accusa di spaccio, mentre Anastasia è solo indagata. “Non ho tempo, non sono qui per piacere”, aveva detto Princi a Federico Sacchi, fratello di Luca, la notte in cui si incontrarono al pub dove sarebbe dovuto avvenire lo scambio. Secondo gli inquirenti, il “lavoro” a cui fa riferimento è lo spaccio di droga, “suo core business”.

Quando Del Grosso vedendo lo “zaino” con “mazzette di banconote da 20 e 50 euro”, cambia idea. Chiama De Propris per aggiornarlo: “È un po’ ambigua la situazione, lo sai? Non poi capì Marcè quanti so, non poi capiiii. Me sta a partì la brocca proprio de brutto”. “Te stai a cagà sotto, te stai a cagà sotto…”, replica De Propris che lo schernisce. “Io invece voglio fa un casino”, risponde Del Grosso. Ma qualcosa va storto. Del Grosso in compagnia di Pirino raggiunge il pub John Cabot, con una smart bianca, a noleggio. Escono brandendo una pistola e una mazza da baseball. Colpiscono alla nuca la ragazza con la mazza, che cade a terra, mentre Sacchi, che aveva preso lezioni di arti marziali, prova a difenderla. Ad un certo punto però Del Grosso esplode un colpo di pistola colpendo Sacchi alla testa. I due fuggono, mentre il giovane resta a terra.

Il giorno seguente De Propris, venendo a conoscenza del fatto che lo scambio non era riuscito, scrive un sms a Del Grosso. “Mongoloide portame a tuta”. Per gli inquirenti la “tuta” è una parola in codice che si riferisce alla pistola usata la sera prima.

“Ho fatto una cazzata, ti devo parlare”. La confessione che Del Grosso fa la mattina successiva al suo datore di lavoro è inserita nella richiesta di applicazione di misure cautelari. “Ieri sera verso le 23 ho sparato a una persona, dalle parti di via Latina, stavamo facendo uno scambio di marijuana di 15 chili in cambio della somma di 70 mila euro, poi qualcosa è andato storto ed è iniziata la colluttazione prima con la ragazza presente e poi con gli altri, poi ho notato uno dei presenti mettere la mano nei pantaloni come per estrarre un’arma”.

Del Grosso racconta ulteriori dettagli: “Anche io avevo con me una pistola, l’ho estratta e ho sparato nella sua direzione. Ti giuro che non volevo colpirlo. Poi ho preso da terra lo zaino contenente il denaro e insieme a Paolo siamo scappati. Scappo in Brasile, tanto abbiamo settantamila euro”. In realtà, saranno la madre e il fratello di Del Grosso a denunciare il figlio, consegnandolo alle autorità, che poi rintracciano Pirino.

Sul ruolo di Anastasia, gli inquirenti ritengono che abbia “agito con freddezza e professionalità nella gestione della trattativa con l’incarico affidatole di detenzione del denaro e di partecipazione alla delicata fase dello scambio”. La mancata collaborazione con le autorità è “la chiara, predominante, volontà di preservare le relazioni criminali acquisite nel mondo della droga con il quale non intende recidere i legami”. Martedì ci sarà l’interrogatorio di garanzia per Princi, poi toccherà ad Anastasia.

“Anche un’ex donna di spettacolo ha opinioni”

Egregio Direttore, intendo replicare all’articolo gravemente diffamatorio, ai miei danni, a firma Nanni Delbecchi. Il mio accostamento a “Rin tin tin”, lo stesso titolo dell’articolo, i dubbi espressi sul mio curriculum e, addirittura, alla mia intelligenza (“un talk si giudica anche dalle menti che lancia”) travalicano ampiamente i limiti del diritto di critica per risolversi, invece, nel gratuito dileggio e nella diffamazione. Il Vostro critico ha attinto informazioni sul mio conto da Wikipedia. Gli è, peraltro, sfuggito che partecipo, da tempo, a due diverse trasmissioni tv (Quarta Repubblica e Non è L’Arena). Delbecchi si chiede, a quale titolo, un’ex donna dello spettacolo possa esprimere opinioni. Io credo in virtù della propria cultura, dell’interesse verso l’attualità ed anche degli studi fatti. I miei (ho un diploma magistrale) non sono culminati nella laurea, ma questo non mi impedisce di avere delle idee. Penso che la partecipazione di un professionista della tv vada valutata sulla base del contenuto dei suoi interventi e del rispetto che mostra di avere per le persone e le opinioni altrui. Rispetto che pare manchi, del tutto, al giornalista, per cui mi riservo di adire le sedi meglio viste a tutela del mio onore e del mio decoro.

Hoara Borselli

Gentile signora Hoara, l’accostamento a Rin Tin Tin a mio modo di vedere era lusinghiero; “Le avventure di Rin Tin Tin” con l’indimenticabile sergente O’Hara era uno dei miei programmi preferiti da bambino. Ma veniamo al punto che più mi preme. Lei scrive: “Delbecchi si chiede, a quale titolo, un’ex donna dello spettacolo possa esprimere opinioni”. Non ho scritto questo, né avrei potuto, non avendo il piacere di conoscere la Sua carriera. Ho sostenuto invece, e lo ribadisco, che la credibilità di una trasmissione di parola si giudica dai suoi ospiti, nessuno escluso. Attribuirmi l’affermazione di cui sopra, con tutta la caccia alle streghe politicamente corrette che ne consegue: questo sì, mi pare elemento diffamatorio nei miei confronti.

Hoara, domani è un altro talk. Il duro mestiere dell’ospite tv

Leggo che Nicola Porro invoca il mio intervento sulla questione Delbecchi/Hoara Borselli (primaria rispetto a quella palestinese, chiaro) e non vorrei dare l’impressione di svicolare di fronte ai temi basilari del Paese. Sorvolo sul cattivo gusto di Porro nel definire Delbecchi “un frustrato che ha problemi con il sesso”, non accorgendosi per giunta che, nell’infervorata arringa, chiama la Borselli “ragazza” nonostante “la ragazza” abbia 43 anni. Si potrebbe dunque pensare che i problemi di sessismo, invece, li abbia Porro, ma voliamo alto. Credo però – e non me ne voglia il bravo collega Delbecchi – che in effetti la sua tesi secondo la quale la signora non sia all’altezza dei temi trattati a Quarta Repubblica per via del suo passato da soubrette, risulti un po’ debole.

Figuriamoci se Porro non può chiedere a Hoara Borselli il suo parere sui 5 Stelle o sul vantaggio dei voucher nel processo di erogazione dei servizi. È evidente che la Borselli sia la stella polare che tutti cercavamo in queste notti così buie per l’informazione. E ha ragione Nicola Porro quando afferma “Selvaggia Lucarelli, tu che scrivi nello stesso giornale e difendi le donne, non ti verrebbe in mente forse di spiegare a Dalbecchi che forse non è quello che uno ha fatto nel passato ma quello che uno dice importante in televisione?”. Giusto. Chi se ne frega del curriculum della Borselli: è la lucidità di pensiero quella che conta. Mi limiterò dunque a giudicarla basandomi su una sua dichiarazione a campione, quella di una puntata di Quarta Repubblica del 18 novembre.

Interrogata da Porro sulle mancate scuse di Salvini alla Cucchi e sulla sua mirabolante frase sulla “droga che fa male” a commento della sentenza, Hoara ha risposto con una foga da opinionista consumata: “Non vedo perché Salvini dovrebbe chiedere scusa a Ilaria Cucchi. Salvini non ha mai negato che Cucchi sia morto, la droga è stata l’INNESTO con il quale Cucchi è stato arrestato, se non ci fosse stato il problema della droga Cucchi non sarebbe stato arrestato… Salvini in maniera maldestra ha voluto dire che l’accertamento dei fatti non può far passare in secondo piano la lotta che lo Stato deve fare nei confronti della droga. Perché la droga c’è!”.

Intanto mi sento di ringraziare la Borselli perché mi ha aperto gli occhi: la droga c’è. Tutti noi convinti che Pete Doherty fumasse foglie di eucalipto dovremo ricrederci. La Borselli ci faccia sapere al più presto se esiste anche la mafia, perché il dubbio che sia solo un circolo ricreativo per rancorosi lo abbiamo in tanti, ci serve un suo parere spartiacque.

A Porro chiedo però di chiarirle la differenza tra la parola “INNESCO” e “INNESTO”, perché non vorremmo mai che le confondesse e che in primavera, al primo sole, nel tentare l’innesto dei suoi gerani imperiali in terrazzo, facesse saltare in aria il condominio. La mancata conoscenza dell’italiano base è l’innesco di molti, pericolosi equivoci.

Riguardo invece la sua luminosa opinione sul rapporto causa-effetto tra l’utilizzo di droga e la morte di Cucchi, sorge il dubbio che ci sia anche un rapporto causa-effetto tra le sue opinioni e l’utilizzo di qualche droga. Che la droga sia stata la causa dell’arresto di Cucchi l’abbiamo capito tutti, ma – e questa per la Borselli sarà una notizia – di norma ci si ritrova SEMPRE ammanettati per qualche supposto reato, a meno che non si sia fan del bondage o non si passeggi per Pyongyang cantando “Kim Jong Un è grasso come un Cappùn!”. Dunque, anche a voler portare avanti la sagace teoria secondo la quale se un carabiniere sociopatico ti gonfia di botte la colpa è anche un po’ tua perché ti sei fatto arrestare, andrebbe ricordato che DELINQUERE fa male, non la droga nello specifico.

Infine, quando la Borselli dice: “Salvini in maniera maldestra ha voluto dire che l’accertamento dei fatti non può far passare in secondo piano la lotta nei confronti della droga”, confesso di essere sempre più convinta che debba esserci un rapporto causa-effetto tra uno spigolo urtato da piccola sulla nuca e le lucide teorie della Borselli. Dunque un processo in cui si discute di omicidio preterintenzionale non deve mettere in ombra il problema della droga. Ma tu pensa. Io al posto suo aprirei la discussione “Come il processo Tortora ha messo in ombra il problema del maltrattamento dei pappagalli legati al trespolo”.

Infine, l’apice. La Borselli dice “Salvini non ha mai messo in dubbio la morte di Cucchi!”. Ma tu pensa. In effetti l’ex ministro è così smaccatamente dalla parte della famiglia di Stefano da non insinuare neppure che in realtà Cucchi sia vivo e si stia facendo una caipirinha a Barbados con Elvis Presley e Michael Jackson. Grazie Hoara. Grazie anche e soprattutto per la tua ultima, illuminante riflessione sulla foto in cui il carabiniere fa il baciamano alla Cucchi: “Potrebbe significare la resa e la genuflessione dell’arma e non sarebbe giusto perché i colpevoli non sono tutti i carabinieri!”. Giusto. Io nella prossima ospitata a Quarta Repubblica al posto della Borselli, suggerirei al maresciallo dei Carabinieri di sferrare un pugno a Ilaria Cucchi alla fine della prossima udienza, così da lanciare due messaggi importanti: i Carabinieri non sono genuflessi e essere la sorella di un drogato arrestato per droga e poi ammazzato di botte è l’innesco del pugno. Anzi, l’innesto.

A proposito. Hoara Borselli ha iniziato come Miss Malizia e oggi è opinionista nei talk politici. I concorsi di bellezza fanno male, è evidente.

David Rossi, graphic novel di un suicidio imperfetto

Suicidio. Da Roberto Calvi a Michele Sindona, passando per Sergio Castellari, Raul Gardini e Gabriele Cagliari. Malafinanza e malapolitica a braccetto, in una traiettoria che ha sempre caratterizzato la storia italiana. Suicidio. Ma davvero? Anche per David Rossi, capo della comunicazione di Mps trovato morto la sera del 6 marzo 2013 nella stradina su cui affacciava il suo ufficio a Rocca Salimbeni, la magistratura ha sancito una verità ufficiale. Molto controversa però. Come la serie di incongruenze che hanno caratterizzato il lavoro dei giudici di Siena. E queste “verità” (e non-verità) Emanuele Fucecchi le ha ricostruite nella sua graphic novel Caduta verticale. Cospirazione e morte all’ombra del Monte dei Paschi (qui a fianco alcune tavole), per i tipi di Aliberti con una prefazione di Marco Travaglio. La trama di un labirinto con troppe ombre.