Un altro femminicidio a Chieti: uccisa dal marito con un tronco

È un bollettino di guerra. Non passa giorno che una donna, in qualche luogo, non venga uccisa dal marito, dal fidanzato, dall’amante, da un corteggiatore respinto, comunque da un uomo. L’ultima in ordine di tempo ieri mattina, alcuni giorni dopo la Giornata Mondiale contro il femminicidio, a Torino di Sangro (Chieti) dove Domenico Giannichi, 68 anni avrebbe ucciso la moglie, Luisa Ciarelli, 65 anni, al termine di una lite furibonda iniziata in macchina e proseguita in una stradina di campagna, dove Giannichi ha colpito Luisa alla nuca con una grossa pietra o probabilmente con un grosso ramo o tronco, fino a ucciderla, in una radura nei campi, a Montesecco. Poi, come spesso accade, l’uomo, ora ricoverato in ospedale in stato confusionale, rientrato a casa ha chiamato i carabinieri. Questo è quanto emerge dalle prime notizie raccolte dalla Compagnia dei Carabinieri di Ortona, coordinati dal Maggiore Roberto Ragucci su delega della Pm della Procura di Vasto Gabriella De Lucia. E come sempre si tratta di “Una famiglia perbene, spettacolare” – come la descrive il sindaco di Torino di Sangro, Nino di Fonso – che aggiunge: “Una notizia tremenda che ha sconvolto il paese”. Una famiglia che fino ad alcuni anni fa era titolare del mini market A&O e che altri descrivono schiva, riservata, solitaria.

Non si conosce al momento il movente del delitto, seppure sia spesso comune a tutti i femminicidi: la violenza. La violenza che arma uomini convinti che le donne, in quanto esseri inferiori debbano subire, non debbano avere opinioni, o non possano decidere della loro vita o con chi volerla condividere. Una spirale che non accenna a diminuire. Diversa la dinamica secondo il difensore di Domenico Giannichi, l’avvocato Alberto Paone di Lanciano: “L’uomo ha ferite ed ecchimosi sul volto perché con la moglie c’è stata una zuffa e insieme sono rotolati nella scarpata”. Parole che lasciano intendere una corresponsabilità o meglio, un incidente dai tragici esiti. L’ultima parola per capire se la donna sia stata prima colpita a morte e poi gettata nella scarpata o se i coniugi siano precipitati insieme e lei sia deceduta magari battendo la testa spetterà all’autopsia.

“Così in Cambridge Analytica si lavorava per non far votare”

La storia raccontata da chi in Cambridge Analytica ha lavorato per tre anni e mezzo come business director. “Il mio unico rimpianto? Non aver capito prima cosa stesse succedendo”. Brittany Kaiser, texana di 33 anni si definisce una whistleblower,ma la sua testimonianza arriva dopo le rivelazione dell’ex dipendente, Christopher Wylie. Ha però testimoniato di fronte al Congresso per aiutare a ricostruire cosa sia successo nella campagna elettorale di Trump del 2016, quando la società Cambridge Analytica è stata accusata di aver utilizzato dati sottratti illegalmente agli utenti di Facebook per pilotare l’esito delle elezioni. Il suo libro “La dittatura dei dati” è in libreria anche in Italia (Sperling&Kupfer).

Brittany, ha iniziato lavorando alla campagna di Obama. Poi però è passata anche per Bannon e Kellyanne Conway. Chiaramente era lavoro, per lei. Ma in origine, perché è andata in Cambridge Analytica?

Stavo scrivendo la tesi del mio dottorato di ricerca, incentrata sulla “diplomazia preventiva”, su come presidenti, primi ministri e ambasciatori possano ricevere informazioni che gli permettano di intervenire sulle situazioni prima che diventino violente e oppressive. Mi si è allora posta la questione: dove e come prendere quei dati? Nessuno mi aveva ancora insegnato nulla sulle analisi predittive. In Cambridge Analytica in pochissimo tempo ho imparato più di quanto avrei mai potuto immaginare sull’industria dei nostri dati e su come usarli per portare le persone a prendere decisione che forse non avrebbero mai preso autonomamente.

Quando ha capito che qualcosa che non andava?

Un mese dopo la fine della campagna di Trump. A tutti coloro che non avevano partecipato alla campagna, me inclusa, non era concesso sapere cosa veniva fatto con i database durante il periodo di propaganda. Nella lunga presentazione ci mostrarono, ad esempio, che avevano usato i dati per capire che tipo di persone poteva essere persuaso non tanto a votare Trump, quanto a non votare l’avversario. C’era il chiaro intento di allontanarle dal processo politico. E per farlo si diffondono messaggi fuorvianti, costruiti per istillare paura e insicurezza.

E funzionava?

Quando usi i dati per fare queste campagne, i risultati sono immediati e verificabili anche perché la maggior parte dei soldi per la propaganda politica ormai viene spesa online. Puoi misurare qualsiasi cosa: da quanto spesso le persone parlano di te, quali temi li colpiscono, quali guidano le loro azioni, che tipo di interazioni hanno con i contenuti, gli orientamenti di voto. Le persone condividono, scrivono, fanno donazioni. Ti accorgi se la campagna funziona. E se no, aggiusti il tiro. Ecco perché la campagna di Trump è stata così potente. Inoltre, alla fine negli Usa non è tanto importante il numero dei voti quanto la strategia, conta più il “dove”. Trump ha vinto grazie a pochi voti in Stati decisivi.

Lei è molto critica nei confronti di Facebook. Perché?

Hanno permesso che quei dati fossero presi senza il consenso degli utenti. Senza contare che in Facebook ci sono almeno 4mila sviluppatori che hanno accesso ai dati personali di chiunque. Centinaia di milioni di compagnie vorrebbero metterci le mani sopra. Zuckerberg, poi, nega di avere avuto un ruolo nel problema o di averne in generale: ma è la maggiore piattaforma per la comunicazione al mondo, ha la responsabilità di prendere decisioni etiche. Solo che continua a non farlo e si protegge dietro la libertà di espressione. Pure se falsa o discriminatoria o disinformativa.

Ha rimpianti?

Di non aver capito subito che qualcosa che non andava. Avrei voluto capirlo prima delle elezioni.

Non era certo la prima volta…

No, Cambridge Analytica ha lavorato su moltissime campagne in tutto il mondo. C’è una industria multimiliardaria poco trasparente da cui solo alcune compagnie traggono benefici.

Chi le aiuta?

Il motivo per cui Cambridge Analytica poteva fare ciò che faceva è che c’era una dimensione legislativa assente. Negli Usa puoi comprare i dati di qualsiasi persona che abbia più di 18 anni e farne ciò che vuoi senza il suo consenso. Ma avere accesso legalmente ai dati è un conto, decidere di usarli in modo etico o meno è un altro. E le aziende non prenderanno mai decisioni etiche di loro spontanea volontà. Faranno sempre tutto ciò che possono con i loro dati se serve ad aumentare i loro profitti.

I De Benedetti jr vendono Repubblica a John Elkann

Nel giornale simbolo, Repubblica, non vogliono crederci. Quando il sito Dagospia lancia un flash nel tardo pomeriggio la reazione è incredulità e rabbia: “Ieri i fratelli De Benedetti hanno deciso di vendere la Gedi (Repubblica, Stampa, Espresso, etc.) a John Elkann, attuale azionista al 5,9%”.

Incredulità e rabbia, si diceva, perché il presidente del gruppo editoriale Gedi Marco De Benedetti e l’amministratore delegato Laura Cioli solo mercoledì – in una riunione in redazione col sindacato interno e il direttore Carlo Verdelli – avevano negato qualunque ipotesi di vendita. A quel punto dal giornale chiedono alla società di smentire in fretta la notizia di Dagospia. Passano diverse ore e, alla fine, arriva invece il comunicato “su richiesta della Consob” che conferma tutto: “Sono in corso discussioni concernenti un possibile riassetto dell’azionariato di Gedi”. Il consiglio d’amministrazione di Cir (la società dei fratelli De Benedetti) è convocato questo lunedì “per l’esame di tale possibile operazione”.

In realtà la trattativa è praticamente chiusa: Exor NV (la finanziaria olandese che è la cassaforte della famiglia Agnelli) acquisirà il pacchetto di maggioranza del gruppo editoriale da Cir, oggi al 43,7% (che comunque manterrà una quota nella società). L’idea di Elkann, a quel punto, è effettuare il “delisting” del titolo, cioè l’uscita della società dalla Borsa.

Aveva ragione De Benedetti senior, dunque, nella polemica un po’ sguaiata di ottobre coi suoi eredi, anche se la sua offerta da 40 milioni per l’intera società (a bilancio per sei volte tanto) era più che altro una provocazione. Il valore del gruppo Gedi, peraltro, è confermato a circa 240 milioni – al lordo dei 120 milioni di passivo – anche nel report dedicato alla società da Mediobanca questo mese. Problema: tre quarti del valore è dato dal comparto “radio”, quello dei quotidiani e periodici – nonostante si parli di 25 testate – è assai lontano dal 20% (una quarantina di milioni).

Numeri che renderebbero più conveniente una vendita “a spezzatino”, opzione non esclusa quando sarà conclusa l’operazione (controllo agli Agnelli e delisting, appunto). I comitati di redazione dei giornali del gruppo, Repubblica in testa, si aspettano ora di sapere assai in fretta cosa intende questo vecchio-nuovo azionariato. Domanda legittima, tanto più che la strategia di Elkann in questi anni è stata sempre quella di spostare gli interessi della famiglia fuori dall’Italia: cosa vuol farci adesso con tutti quei giornali e una società in perdita? Al momento lo sanno solo gli interessati. È però di certo una coincidenza interessante che questa operazione vada di pari passo con la cosiddetta “fusione” tra l’ex Fiat e Psa, operazione che vedrà fin da subito i francesi al comando e nel medio periodo potrebbe riservare pessime notizie per gli insediamenti produttivi in Italia.

Il cuore del Jobs Act finisce davanti alla Consulta

È il cuore della riforma del lavoro voluta e sostenuta dal governo Renzi, la cui iniquità ha generato – giustamente – una contestazione costante: il Jobs Act sarà portato sia di fronte alla Corte costituzionale, sia di fronte alla Corte di Giustizia dell’Ue per le regole sui licenziamenti collettivi. Secondo la Corte d’Appello di Napoli, il sistema discrimina gli assunti dopo il 7 marzo 2015, data di approvazione della legge.

Lo spartiacque ha determinato un paradosso ormai noto: nell’ambito della riduzione di personale, infatti, il licenziato che era in azienda prima che entrasse in vigore la norma può rivolgersi ai magistrati per chiedere di essere reintegrato; chi è arrivato dopo, invece, può al massimo ottenere un indennizzo economico. Il caso che ha portato i giudici di Napoli a interpellare la Consulta e la Corte Ue riguarda una impiegata che lavorava per una ditta che si occupa di ambiente. Nel 2016 l’appalto viene vinto da un’altra azienda, la Balga Srl, e la donna passa alle dipendenze di quest’ultima in virtù della “clausola sociale”. Pur avendo un’anzianità più lunga, risulta però formalmente entrata in servizio solo tre anni fa, con il Jobs Act. Nel 2018 la Balga sforbicia, licenzia lei e altri otto addetti. Questi fanno ricorso sui criteri di scelta. Nel processo emerge però che se i licenziamenti fossero dichiarati illegittimi, per gli otto colleghi – assunti prima della riforma renziana – sarebbe disposto il reintegro, per la donna solo un indennizzo: “ Quattro mensilità – spiega l’avvocato Arcangelo Zampella – e niente reintegrazione. È discriminatorio”. La Corte napoletana concorda: per i giudici, il Jobs Act ha generato una disparità ingiusta alla luce della Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. “Sarà un gioco di specchi – dice Lorenzo Fassina, responsabile dell’ufficio giuridico Cgil – per cui servirà un dialogo ufficioso tra le corti”. I nostri giudici costituzionali potrebbero aspettare la pronuncia di quelli europei. Alla Corte di Giustizia, tra l’altro, pende già un ricorso per una vicenda simile accaduta a Milano.

La Consulta invece, si è espressa nel 2018 solo sulla cancellazione dell’articolo 18 sui licenziamenti individuali. In quell’occasione, ha detto che sostituire il diritto al reintegro con un indennizzo economico non è di per sé incostituzionale. Quel risarcimento, però, non può essere ancorato solo all’anzianità del licenziato – come faceva il Jobs Act – ma deve considerare altri fattori. Sempre la Consulta non ha ritenuto ci fosse discriminazione per il diverso trattamento riservato agli assunti dopo il 2015. “Il fluire del tempo – si legge sulla sentenza – può costituire un valido elemento di diversificazione”. Per i licenziamenti individuali. Ora però dovrà valutare i collettivi.

Dopo l’autogol del Tesoro corsa per salvare Pop Bari

La via crucis bancaria italiana riparte da Bari. La corsa al salvataggio della Popolare, il più grande istituto di credito del Sud, è iniziata ieri – secondo quanto filtra dal Tesoro – con la richiesta di intervento al Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd), già impegnato nel soccorso a Carige. Giovedì il piano è stato al centro di una riunione al ministero dell’Economia con uomini della banca, del Fitd, del Mediocredito centrale (Mcc) – l’istituto controllato dal Tesoro tramite Invitalia – e della Banca d’Italia.

L’accelerazione si è resa necessaria dopo il fallimento della strategia pensata dal Tesoro. La popolare di Bari doveva essere la prima beneficiaria della norma (art. 44) contenuta nel decreto Crescita di aprile scorso. Prevedeva la possibilità per le imprese del Sud che si fondono tra loro di trasformare le imposte differite (Dta) in crediti di imposta, fino a un massimo di 500 milioni. Per le banche è una manna, perché i crediti valgono ai fini del patrimonio di vigilanza. Per evitare lo stop europeo per aiuti di Stato la norma prevede il pagamento di un canone all’erario. Problema: senza l’ok di Bruxelles non poteva diventare operativa, e il via libera non è mai arrivato. Fonti vicine alla popolare raccontato che il Tesoro non l’avrebbe mai notificata a Bruxelles, temendo di vedersela bocciare. Uno stallo durato sette mesi, in cui via XX Settembre ha persino pensato di utilizzare una procedura particolare, prevista da un regolamento Ue del 2014 (la cosiddetta “Gber”), che permette di derogare all’obbligo di notifica a Bruxelles. Peccato però che non sia applicabile al comparto bancario. Nessuna banca si è fatta avanti per il matrimonio ed è scattata l’accelerazione.

La popolare di Bari, 350 sportelli e 3mila dipendenti non se la passa bene. Al vertice è tornato Vincenzo De Bustis, che la guidò dal 2011 al 2015, anni in cui l’istituto – caldamente invitato da Bankitalia – si caricò la disastrata Tercas che ne ha appesantito i conti. Il 2018 si è chiuso con un “rosso” di 400 milioni e i crediti deteriorati ammontano al 15% degli impieghi. Il rapporto tra costi e ricavi è al 108%. Un problema che coinvolge i 70 mila soci, che hanno in mano un titolo che valeva 9,5 euro e oggi viene negoziato a 2,6 euro. Secondo rumors finanziari, Pop Bari ha bisogno di un’iniezione di capitali freschi tra gli 800 milioni e il miliardo.

Stando ai documenti circolati, le tappe del piano, una cinquantina, sono davvero strettissime tra loro. Il primo passo era previsto per ieri, con la richiesta al Fitd – a cui aderiscono tutte le banche italiane – di sottoscrivere un bond (At1) da 120 milioni, che sarà poi convertito in azioni come successo a Carige. Tutto si dovrebbe chiudere il 20 dicembre. Sempre ieri è partita una seconda operazione che dove portare Mediocredito ad acquistare 800 milioni di crediti formalmente “in bonis”, ma verosimilmente destinati a non essere più tali nel breve. Il tutto si dovrebbe chiudere entro il 31 dicembre. In questo modo si libererebbe capitale per 50 milioni. In totale: 170 milioni freschi che dovrebbero permettere di scavallare Natale e poi provvedere alla vera e propria ricapitalizzazione, che coinvolgerà sempre Mcc e altre compagini pubbliche come Amco, la società del Tesoro che gestisce i crediti deteriorati. Quest’ultima dovrebbe rilevare un portafoglio di prestiti ormai in sofferenza di quasi 1 miliardo, mentre Mediocredito parteciperà all’aumento di capitale con una quota rilevante (“oltre il 10% del fondi propri”). Per farlo, il Tesoro farà approvare una norma ad hoc e provvederà a ricapitalizzare l’istituto.

Il 18 dicembre il Cda di Pop Bari approverà la ricapitalizzazione e la trasformazione in Spa (prevista dalla riforma Renzi del 2015). Il tutto si dovrebbe chiudere con l’ok dell’assemblea degli azionisti l’11 maggio prossimo. Nel piano sono previsti anche “meccanismi di ristoro per i soci”.

Vasto programma da chiudere in pochi mesi, dopo i 7 persi al solito dal Tesoro nel dialogo con Bruxelles.

In piazza per il clima (e basta Black Friday)

Questa volta il filo rosso era la critica al Black Friday, diventato il “Block Friday”: “Amazon nemico della Terra”, si leggeva chiaro e tondo su un maxistriscione a Milano, dove molti ragazzi hanno agitato scatoloni della nota azienda digitale di fronte al suo negozio. E non è un caso che il quarto sciopero globale per il clima, svoltosi ieri in oltre cento città d’Italia, abbia coinciso proprio con il giorno dei maxisconti. “Vogliamo sostituire quella che è la giornata mondiale del consumo con una giornata di protesta”, hanno dichiarato i ragazzi dei Fridays For Future a poche ore dall’inizio.

La partecipazione è stata senz’altro minore rispetto a quella, massiccia, del 27 settembre, “solo” 300.000 persone, forse perché le scuole non hanno giustificato le assenze, forse perché piove, anche se le temperature di questo novembre sono alte e anomale. La fantasia dei cartelli, molti riciclati dalle altre manifestazioni (d’altronde niente sprechi), è sempre la stessa: “Se continua così il Natale lo famo a Ostia”, recita uno slogan romano. Molti e suggestivi i flashmob: a Milano – 20.000 persone – l’uomo vitruviano di da Vinci viene simbolicamente arrostito; a Roma – 30.000 persone – un gruppo di Fridays vestiti con tute bianche insanguinate protestano contro l’accordo con il Mercosur (mercato comune del Sudamerica), a Pisa sei classi di bambini simulano una terra che si trasforma da verde in fuoco: Greta Thunberg dall’imbarcazione che la sta riportando in Europa apprezza e condivide su Twitter.

C’è un po’ di tutto in questa manifestazione: dai collettivi degli studenti in lotta contro tutto agli Extinction Rebellion, dai Parents For Future e i Teachers For Future agli attivisti di Europa Verde, dai movimenti vegan-animalisti alle sardine: molto poche, per la verità, nonostante l’invito aperto dei Fridays For Future.

E proprio sulle sardine i ragazzi in piazza sono divisi: per molti il messaggio è lo stesso, dice una ragazzina con gli occhiali che tiene in mano un cartello “Supporta le sardine, dì no alla pesca intensiva”, per altri la battaglia ambientale deve restare distinta. D’altronde, anche se in modi diversi, tutti questi giovani studenti hanno capito che quella del clima è un’urgenza assoluta e che non sempre alle dichiarazioni di emergenza climatica, ultima quella del Parlamento Europeo l’altro ieri, seguono fatti, quei fatti che loro invece chiedono a gran voce. Lunedì si apre a Madrid la conferenza Onu sul clima (Cop25). La venticinquesima, appunto. Eppure i gas serra continuano, implacabilmente ad aumentare.

Autonomia, ora la legge quadro Intese modificabili alle Camere

Finora aveva navigato sottotraccia, ora che la “legge quadro” sulle autonomie regionali è emersa in Conferenza Stato-Regioni, dove è passata all’unanimità, non poteva mancare qualche ostacolo: il ministro degli Affari regionali Francesco Boccia vorrebbe portare quel breve testo di 3 articoli in Consiglio dei ministri lunedì e poi presentarlo come emendamento al ddl Bilancio per “blindarne” l’approvazione entro fine anno e iniziare il percorso per le intese con le regioni a gennaio.

Insomma,da ieri sono arrivate le prime voci contrarie, nessuna di particolare peso, anche se il grillino Luigi Gallo passa per essere la voce pubblica di Roberto Fico sulle materie su cui il presidente della Camera non vuole esporsi: “La proposta non è condivisa col Parlamento, Boccia si fermi su questa assurda proposta di inserirlo in legge di bilancio”, è la posizione di Gallo e pure quella del renziano Davide Faraone (“il tema non potrà essere affrontato nel Bilancio”). In realtà il percorso interno alla manovra non è una conditio sine qua non, ma comunque nella Nota di aggiornamento del Def di settembre la “legge quadro” è annunciata come “collegato alla manovra”.

Il lettore forse si porrà una domanda: di cosa stiamo parlando? Bisogna partire dall’inizio. La (pessima) riforma del Titolo V della Costituzione, voluta dal centrosinistra nel 2001, introdusse l’autonomia differenziata tra le regioni su alcune materie (massimo 23), ma senza indicare un percorso per ottenerla: dopo le richieste di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna nel 2017 l’allora governo Gentiloni firmò un (pessimo) pre-accordo con le tre regioni ribattezzato “secessione dei ricchi”, ma di nuovo senza sciogliere il nodo del percorso; la (pessima) strada per farlo scelta dal governo Conte 1 fu di considerare le intese finali identiche a quelle tra lo Stato e le religioni. In sostanza, il Parlamento poteva approvarle o respingerle in blocco, ma non modificarle.

Questa “legge quadro” tenta appunto, sorprendentemente con l’accordo delle Regioni, di formalizzare un percorso valido per chiunque chieda autonomia che preveda un ruolo centrale del Parlamento: “Le intese andranno alle Camere con legge ordinaria e saranno emendabili – dice al Fatto il ministro Boccia – Certo, le modifiche dovranno essere poi accettate dalle Regioni, che potranno però non controfirmare il testo”.

Nella “legge quadro” la procedura prevede l’intervento delle commissioni competenti (entro 60 giorni) su uno schema di pre-intesa con la singola regione che chieda più poteri, poi l’eventuale firma e a quel punto, entro 30 giorni, “la presentazione alle Camere del ddl di approvazione dell’intesa”.

Un passo avanti, rispetto all’impostazione “gialloverde”, che riguarda anche l’hardware del percorso verso l’autonomia. “Secondo l’articolo 3 della Carta, compito dello Stato – dice Boccia – è rimuovere le diseguaglianze: la sfida qui è avere uno Stato più snello ma anche più forte e per esserlo serve una visione solidale sugli investimenti pubblici”.

A questo fine la legge quadro istituisce un “fondo perequativo” da 300 milioni l’anno a regime (3,3 miliardi fino al 2034) vincolato agli investimenti nelle aree con deficit infrastrutturale: il Sud, certo, ma anche ad esempio la zona di Rovigo e, più in generale, le aree interne e montane, quelle in via di spopolamento e in cui gli investimenti privati arrivano con difficoltà (a questo obiettivo saranno vincolate pure le partecipate dello Stato).

Il tema più scivoloso della legge quadro riguarda i temi su cui ci sono i soldi: come previsto dalla Carta, prima di devolverli vanno comunque fissati i “Livelli essenziali delle prestazioni” (Lep) su assistenza, trasporto pubblico e norme generali sull’istruzione (quelli in materia di salute esistono già). Il ddl assegna a un’apposita task force guidata dalla Ragioneria generale il compito di stilarli entro un anno: “È un tempo ragionevole – dice Boccia – perché i dati ci sono già. Comunque se si dovrà aspettare un po’, aspetteremo. Per ora non devolveremo le materie Lep, ma tanta competenza amministrativa” (a titolo di esempio: rifiuti; discariche; eccetera). Se la fiducia del ministro nella velocità di elaborazione dei Lep sarà malriposta, però, tornerà in campo come criterio di devoluzione la l’assai criticata “spesa storica”. Se non altro, però, le intese con le regioni non saranno più eterne, come prima, ma valide al massimo per dieci anni.

Per la discussione di merito, comunque, c’è tempo: ora è il tempo del posizionamento politico. Mercoledì ci sarà un vertice di maggioranza sul tema convocato dal ministro grillino Federico D’Incà, che ha seguito e condiviso tutta la pratica fin da settembre.

“I no a Von der Leyen hanno violato le regole”

Il sì alla nuova commissione europea lo rivendica, innanzitutto per motivi politici: “La presidente Von der Leyen è molto distante dal M5S, ma ha assunto precisi impegni con noi”. Poi c’è il tema interno: “Se decidi una linea a maggioranza poi la devono seguire tutti, le nostre regole sono anche i nostri valori”. L’europarlamentare dei 5Stelle Dino Giarrusso parte da qui.

Dieci a favore della commissione Von der Leyen, due contro e due astenuti: la delegazione del M5S è andata in ordine sparso. Perché?

A luglio avevamo discusso tra noi, e alla fine avevamo votato all’unanimità per la Von der Leyen, anche perché si era impegnata su punti importanti come la revisione del Trattato di Dublino e un maggior impegno antimafia a livello europeo. Abbiamo regole molto stringenti che ci differenziano dagli altri partiti, e una di queste ci impegna a rispettare la posizione della maggioranza.

Pochi giorni fa non si votava la presidente, ma la commissione. È legittimo che ad alcuni di voi non piaccia, no?

Rispetto moltissimo chi ha votato contro, ma se avessimo votato tutti no non saremmo stati comunque decisivi e saremmo rimasti isolati, senza poter incidere. Mentre ora potremo vantare un credito. Però il punto centrale è che se non osserviamo le nostre regole diventiamo come il Pd o la Lega. E poi se qualcuno era contrario avrebbe sempre potuto chiedere che i nostri iscritti votassero sulla piattaforma web Rousseau.

Dica la verità: vi siete divisi tra contiani, voi dieci, e dimaiani, i quattro critici.

Proprio no, Conte e Di Maio non c’entrano. Ci siamo divisi sulle idee. Anche uno dei dieci era indeciso eppure ha votato sì, attenendosi all’indicazione che ha prevalso.

Ora sembrate quasi invocare sanzioni per i contrari.

Non invoco nulla. Ma è inaccettabile condannare la scelta della maggioranza.

Si riferisce ad Alessandro Di Battista e alla sua intervista sul Fatto di ieri?

No, oggi ho parlato con Alessandro: ci manca tanto, spero torni presto. Credo che lui avrebbe seguito l’indicazione presa dalla maggioranza.

Di chi parla allora?

Di chi si autopromuove sui social come un paladino dei valori del M5S, accusando implicitamente di essere “impuri” i dieci che democraticamente hanno votato sì. Non è corretto. Peraltro è lo stesso che ha spinto perché il nostro ex capogruppo in Regione Sicilia Giancarlo Cancelleri diventasse viceministro a mandato in corso, forzando il senso di una regola e facendo arrabbiare molti attivisti, assieme a portavoce come Dalila Nesci che ora vuole candidarsi in Calabria.

Lei si riferisce all’europarlamentare Ignazio Corrao. Ma Cancelleri lo ha nominato Luigi Di Maio.

Certo, e ne è padrone. Ma c’è chi ha spinto per quella forzatura creando un precedente.

Lei cosa pensa del Mes?

Così com’è non va bene, perché rischia di nuocere ai cittadini italiani.

Ora come può ripartire il M5S europeo?

Dagli attivisti, dai territori e dal rispetto reciproco. Siamo guerrieri, lottiamo per i cittadini: chi urla “siamo peggio del Pd” non fa il nostro bene.

I Verdi si rifiutano di accogliervi nel loro gruppo: vi imputano il legame “poco chiaro” con la Casaleggio. E forse anche il governo con la Lega e le posizioni sull’immigrazione.

Nessun legame opaco, non siamo telecomandati da nessuno. Una parte dei Verdi teme che una delegazione rilevante come la nostra possa toglierle un po’ di spazio. Però spero ancora che l’intesa si trovi.

Mes: Di Maio punta al rinvio e chiede a Conte un vertice

Si dovrebbe svolgere domani, 1 dicembre, a quanto risulta al Fatto, un vertice di governo sulla questione Mes. Mentre il premier Giuseppe Conte si prepara a rispondere alle accuse di “tradimento” da parte di Matteo Salvini nel dibattito previsto alla Camera per lunedi, è Luigi Di Maio, in quanto ministro degli Esteri titolare dei trattati internazionali, a prendere l’iniziativa.

Il capo politico dei 5Stelle, sulla base della riunione del gruppo parlamentare di due giorni fa, ritiene che nel testo di riforma ci siano troppe “criticità” e quindi chiederà che Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, chieda all’Eurogruppo del 4 dicembre di rinviare le decisioni. Se Gualtieri dovesse avere successo il Consiglio europeo del 12 e 13 dicembre cancellerebbe dall’ordine del giorno il punto sul Mes che a quel punto slitterebbe in primavera.

L’idea di Di Maio è anche quella di collegare la riforma del Mes a quella dell’Unione bancaria. Il punto è affrontare la proposta del ministro dell’economia tedesco, Olaf Sholz, che vorrebbe introdurre un rischio per le banche che acquistano titoli di Stato misurato sul rating del debito dei diversi Stati membri dell’Eurozona. Una proposta che rischia di massacrare le banche italiane. “Se firmiamo ora il Mes, poi toccherà all’Unione bancaria e così il nostro sistema bancario andrà in crisi” è il ragionamento che Di Maio farà al governo.

Difficile capire se una proposta di questo tipo possa trovare spazio e se Gualtieri se ne farà carico. Di Maio ha fatto qualche verifica a Berlino e Parigi e sembra ottimista sul fatto che Francia e Germania possano dare appigli all’Italia.

Ma dipende anche da quello che farà Conte. Il presidente del Consiglio si prepara al dibattito di lunedì con l’obiettivo di smontare quelle che definisce vere e proprie fake news da parte di Salvini. Ieri, ad esempio, è rimasto colpito dall’intervista alla Stampa in cui il leader leghista definisce il Mes un “organismo privato” mentre, come è noto, è un trattato intergovernativo. “Oggi la Lega si straccia le vesti”, spiega Conte ai suoi collaboratori, “ma ha sempre partecipato alle decisioni”.

Conte cercherà di comprovare la correttezza dei comportamenti del suo primo governo e intende presentarsi “in assoluta aderenza” all’ultimo documento ufficiale del Parlamento, la risoluzione Molinari e D’Uva n. 6-00076 del 19 giugno 2019, riformulata in aula proprio dallo stesso Conte. Allora il presidente del Consiglio invitava a tenere insieme la “valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto di approfondimento dell’Unione economica e monetaria” e cioè il Mes, la garanzia sui depositi bancari (Edis) e il bilancio dell’area euro.

Quella risoluzione si concludeva con tre impegni: a) “Non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti”, quindi certamente l’Italia; b) promuovere, in sede europea, “una valutazione congiunta dei tre elementi del pacchetto di approfondimento dell’unione economica e monetaria”; c) “render note alle Camere le proposte di modifica al trattato Mes, elaborate in sede europea, al fine di consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva finché il Parlamento non si sia pronunciato”.

Altro passaggio importante è la “Relazione sull’attività dell’Italia in Europa” presentata in Consiglio dei ministri dall’ex ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, il 27 febbraio 2019. In quella relazione si legge che “l’Eurosummit del 14 dicembre ha sostanzialmente approvato quanto deciso dall’Eurogruppo del 3 dicembre” e il compromesso raggiunto “ha riguardato, innanzitutto, la revisione dei suoi strumenti finanziari di supporto precauzionale cioè le linee di credito a condizioni precauzionali” che oggi, otto mesi dopo, Salvini si è ricordato di impugnare.

La casa abusiva: il candidato M5S parte già zoppo

Ci mette meno di 24 ore il candidato governatore del M5S in Calabria Francesco Aiello a finire nei guai. Tutto grazie a una villa parzialmente abusiva di cui il docente universitario è proprietario a Carlopoli, in provincia di Catanzaro. La notizia arriva da Repubblica, che cita pure alcune sentenze del Tar e del Consiglio di Stato. “Non è una villa ma è una casa” e “non c’è alcun ordine di demolizione”, dice ora il professore. Che si difende, ma l’abuso resta. “Aspetto chiarimenti” è stato il commento di Luigi Di Maio.

Per capire l’abuso bisogna partire la storia dell’edificio costruito negli anni ‘80 quando i suoi genitori, defunti, acquistarono il terreno: “All’epoca giocavo a ping pong. – racconta Aiello – Se mio padre o il suo tecnico hanno sbagliato i conti e il Comune gli ha dato la concessione edilizia, di chi è la responsabilità? La magistratura amministrativa dice che è il Comune di Carlopoli a dover indicare la strada alternativa”.

Insomma l’abuso c’è ma, per il prof candidato, non è tale da demolire l’edificio per mancanza di cubatura. Piuttosto potrebbe essere sanato se al terreno in cui è stata costruita la casa si accorpasse quello confinante, che è edificabile e di proprietà dello stesso Aiello. Tradotto, una volta accorpati i due terreni lo stabile rispetterebbe la cubatura: “Potrei costruire altre due case, ma non voglio”. La decisione la deve prendere il Comune: “Immagini quante domande ho fatto, senza mai aver risposte”.

La polemica sulla casa ha amplificato le perplessità della base grillina, che ieri a scritto a Casaleggio: “Tutti insieme per la democrazia”, è l’incipit della lettera, a cui segue la richiesta di votare su Rousseau il candidato governatore.

Per Aiello, la polemica sulla sua casa abusiva è “una falsa notizia: è una situazione che ho ereditato e sto pazientemente aspettando di conoscere la decisione per un fatto che non ho commesso”.

Una spiegazione, però, se l’è data: “Siamo in Calabria per cui tra poco mi aspetto che mi accusiate di essere juventino, di avere i piedi 44 e il naso storto. Ovviamente questo gioco io so da dove è partito. Glielo dico?”.

Ma Aiello ci ripensa subito: “No. Mi dicono di non dirlo”. E attacca il commissario regionale del Pd Stefano Graziano: “Ha detto che rappresento il passato. Io sono uno che lavora 37 ore al giorno perché, lei non lo sa, ma io c’ho un fattore di correzione k. Ogni ora di lavoro mio corrisponde a quasi 3 ore di lavoro degli altri. C’ho un limite di produttività molto più elevato. Secondo lei questa è la novità o il passato in Calabria?”. “Sto cercando di alzare il livello – il prof è un fiume in piena – Io li asfalterò nei dibattiti. Io sono uno che si occupa di innovazione, anche quando parlo e gesticolo. I miei gesti trasudano innovazione: qua stiamo parlando di cose serie e la invito a visitare la mia pagina Facebook per capire di chi stiamo parlando”.