L’Anm critica la riforma, Orlando ne approfitta: “Grillini, parliamone”

Il congresso dell’Associazione nazionale magistrati, che ieri si è aperto a Genova, è servito ad Andrea Orlando come una palla al balzo da buttare sul tavolo della trattativa con M5s sulla riforma della prescrizione, in teoria in vigore da gennaio, ma che il Pd vuole fermare.

Il vice segretario dem parla via Twitter: “La riforma della prescrizione da sola crea squilibri, adesso che lo dice anche l’Anm si può prendere in considerazione questo dato? Senza rispondere che chi lo dice è amico dei corrotti (la corruzione si prescrive in 20 anni!)?”. E il segretario Pd, Nicola Zingaretti ripete: “Accanto alla prescrizione bisogna garantire i tempi certi e brevi del processo. Se si ottiene, non facciamo nessun problema”.

Nel pomeriggio a parlare di riforma della prescrizione e della necessità che sia affiancata da altre riforme era stato Luca Poniz, il presidente dell’Anm. Da Genova, ha ribadito la posizione del sindacato delle toghe: la riforma della prescrizione svincolata dall’insieme di riforme strutturali necessarie, “come da noi contestualmente richieste, rischia di produrre squilibri complessivi che sarebbe, però, errato attribuire alla riforma in sé e alla sua ratio ispiratrice”.

Quindi, la politica deve trovare “un punto di equilibrio tra irrinunciabili riforme organiche di un sistema complesso, sapendo percorrere vie come il significativo potenziamento di riti alternativi”. Detto in questo contesto politico, sembra proprio un invito a sospendere l’entrata in vigore della riforma. Da qui il tweet di Orlando. Poniz ha poi pronunciato un no netto al progetto di legge sulla separazione delle carriere che vede in Parlamento un partito trasversale sostenitore: “Comporterebbe il rischio per il pubblico ministero di un controllo da parte del sistema politico”. No anche al sorteggio per eleggere i consiglieri del Csm: “È evidente che il tema di fondo sia politico-costituzionale: quale Consiglio vogliono le istituzioni e la politica? E, domanda a noi stessi, quale Csm vogliono i magistrati? Vedono in esso un amico che li protegga o un’istituzione che li tuteli?”.

Riferimento voluto allo scandalo nomine che ha travolto il Consiglio l’estate scorsa, che ha fatto precipitare la fiducia dei cittadini nei magistrati e che ieri Poniz ha definito “una ferita profonda”. Proprio oggi al Congresso ci sarà un confronto tra togati del Csm.

In Europa gran parte dei reati non si prescrive (quasi) mai

La riforma della prescrizione ancora una volta fa traballare un governo, ma solo la Grecia ha un sistema come il nostro dove corre anche in pieno processo. In altri Paesi europei è tutta un’altra storia. Dalla Francia, dove di fatto la maggior parte dei reati sono imprescrittibili, alla Spagna, alla Germania, dove se sei un politico è previsto un gran giro di vite. In generale, sono in vigore regimi in cui è sempre prevista la capacità in tutte le fasi processuali e durante le indagini di sospendere o far ripartire da zero la prescrizione sia pure con modulazioni diverse, a seconda del tipo di reati e della loro gravità. Rispetto all’Italia si fa la differenza anche tra la prescrizione dei reati e quella della pena.

Il sistema francese. In Francia la prescrizione potendo ripartire da capo a ogni atto, come accennato, è praticamente impossibile. Per i reati catalogati come “crimini”, cioè quelli più gravi, giudicati dalla Corte d’Assise, è di 10 anni. Per i “delitti”, reati di media gravità, di competenza del “Tribunal Correctionnel” la prescrizione è di 3 anni mentre per le contravvenzioni, di competenza del “Tribunal de Police” è di un anno. Ma ci sono binari a parte sia al rialzo sia al ribasso. Prima di tutto non si possono prescrivere crimini contro l’umanità e alcuni, gravi, in ambito militare. I “crimini” di terrorismo e traffico di droga si prescrivono in 30 anni, i “delitti” sempre in questo ambito, in 20 anni così come gli abusi sessuali. Invece, per la diffamazione a mezzo stampa, se non ci sono elementi di odio razziale, la prescrizione è di 3 mesi. Passiamo ai tempi di prescrizione della pena: 20 anni per i crimini, 5 anni per i delitti e 2 anni per le contravvenzioni. La prescrizione decorre dal giorno del compimento del reato, come in Italia, ma per i reati contro i minori parte dal giorno in cui la vittima ha raggiunto la maggiore età. È stata la riforma del 2012, che prevede l’interruzione della prescrizione per qualsiasi atto “di istituzione o di azione giudiziaria” (dei pm, dei tribunali ecc.) ad azzerare la possibilità che ci sia la prescrizione della pena.

Il sistema tedesco. C’è una distinzione tra prescrizione della perseguibilità e prescrizione della esecuzione, come in Francia. Per i reati puniti con l’ergastolo la prescrizione della perseguibilità, esclusa per genocidio e omicidio, avviene dopo 30 anni; per quelli puniti con un massimo della pena oltre i 10 anni, è di 20 anni; per i reati che prevedono una pena tra 1 e 5 anni, la prescrizione è di 5 anni; per tutti gli altri reati è di 3 anni. E veniamo alla prescrizione dell’esecuzione pena: 25 anni per condanne superiori a 10 anni; 20 anni per pene tra 5 e 10 anni; 10 anni per pene tra 1 e 5 anni; 5 anni per pene sotto all’anno. Non esiste prescrizione per la pena dell’ergastolo. Prevista la sospensione della prescrizione per abusi sessuali sui minori fino a quando la vittima compie 30 anni.

Regime di ferro per i politici: se un parlamentare federale o un membro di una Land finisce sotto accusa, la prescrizione viene calcolata non dalla data di compimento del reato ma da quella in cui è iniziato il procedimento. La prescrizione, inoltre, si interrompe per qualsiasi attività giudiziaria, compreso incarichi a periti. Dopo ogni interruzione, riprende dall’inizio.

Il sistema spagnolo. Imprescrittibili i reati contro l’umanità e quelli di terrorismo se hanno causato morte e pure quelli commessi contro persone e beni protetti in caso di conflitto armato. Per tutto il resto ecco i tempi di prescrizione dei reati: 20 anni, quando la pena massima prevista è dai 15 anni in su; 15 anni, quando la pena massima è tra i 10 e i 15 anni. La prescrizione è di 10 anni quando la pena è tra i 5 e i 10 anni; 5 anni negli altri casi.

Il tempo si calcola a partire dal giorno in cui è stato commesso il reato. Ma se la vittima è un minore, da quando è diventato maggiorenne. Anche in Spagna ci sono i tempi di prescrizione dell’esecuzione della pena: 30 anni nel caso si preveda oltre 20 anni di carcere; 25 anni per reclusione tra i 15 e i 20 anni; 20 anni per “inabilitazione oltre i 10 anni e reclusione da 10 a 15 anni”; 15 anni per “inabilitazione da 6 a 10 anni e reclusione da 5 a 10 anni”, 10 anni per le altre pene gravi; 5 anni per quelle meno gravi, 1 anno per le pene lievi.

Lotti difende sé e l’ex sodale Matteo: “Open non era un partito nel partito”

“La Fondazione nello statuto spiegava cosa faceva: chi donava soldi lo sapeva, tutto trasparente, con i bonifici online e tutto tracciabile, come le spese”. A Milano per l’assemblea di Base Riformista, l’area del Pd che riunisce gli ex renziani rimasti nel partito, Luca Lotti si discosta da quella che definisce “l’impostazione data dai pm” nell’indagine su Open, la fondazione che fino al 2018 ha raccolto finanziamenti in supporto all’attività politica di Matteo Renzi. “Non ho mai avuto la percezione che si trattasse di un partito nel partito, e a indagini in corso non c’è altro da aggiungere”, dichiara nel chiostro della sede della Società Umanitaria. Ma se al lavoro dei magistrati va il suo rispetto, a Renzi Lotti manda un messaggio di solidarietà: “Come a tutti coloro che sono stati coinvolti in perquisizioni o in partite più grandi di loro senza nemmeno rendersi conto, solo perché hanno dato una mano e finanziato una fondazione che faceva un’attività chiara”.

A proposito di Renzi, c’è chi gli chiede se per comprare casa avrebbe mai accettato un prestito da qualcuno che prima aveva nominato in una società pubblica. “Questa domanda non ha senso, io faccio quello che ritengo opportuno. È un caso in cui è stato violato il segreto bancario”, taglia corto l’ex sottosegretario di Stato. Che diventa ancora più risoluto con chi gli fa notare che l’indagine su Open è guidata dallo stesso magistrato citato dall’ex pm Luca Palamara in un’intercettazione. “Gli va messa paura…”, diceva Palamara alla presenza dello stesso Lotti, in uno degli incontri del maggio 2019 dove secondo i magistrati di Perugia si intendevano influenzare le nomine dei vertici di alcune procure. Tra le altre anche Firenze, che si voleva “liberare” da Giuseppe Creazzo, già titolare delle indagini sulle società della famiglia Renzi e oggi al lavoro sui finanziamenti di Open. La reazione di Lotti? “Non commento parole uscite sui giornali in maniera per me illegittima, e pubblicate in maniera ancor più illegittima. La procura di Firenze farà il suo lavoro e alla fine delle indagini vedremo”.

Ma la questione non riguarda solo la magistratura. I milioni sui quali si indaga rilanciano il dibattito sul finanziamento ai partiti e sull’influenza degli interessi privati. Se ne discute anche nella corrente degli ex renziani, che al Fatto precisano: “Questo convegno è finanziato con i contributi dei parlamentari che credono nel progetto di Base Riformista: 500 euro a testa, ci siamo autotassati”. Mentre in prima fila, oltre a Lotti, sono già accomodati il ministro della Difesa Lorenzo Guerini e l’ex ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, a fare gli onori di casa ci pensano il coordinatore dell’area Alessandro Alfieri e il portavoce Andrea Romano. Entrambi si dichiarano favorevoli a ridiscutere le norme sul finanziamento pubblico ai partiti, riformate proprio dal Pd con l’abolizione dei rimborsi elettorali per mano del governo Letta nel 2014. “Una base di finanziamento pubblico come era in passato forse è una cosa su cui riflettere tutti insieme se non vogliamo che fare politica sia solo per chi ha molti soldi”, ragiona Alfieri. E Romano rilancia: “Abbiamo sbagliato ad abolire il finanziamento pubblico, perché così si è indebolita la politica e si sono create zone d’ombra che vanno sanate: non è possibile che a fare politica sia solo chi ha soldi propri”. Tutti d’accordo, anche il deputato Piero De Luca: “Meglio ripristinare il vecchio finanziamento pubblico quale strumento di democrazia. Abbiamo vissuto una stagione di eccessiva demagogia, è il momento di ripensarci”. L’unico che non ci sta è proprio Luca Lotti: “Facevo parte di quel gruppo di persone che hanno abolito il finanziamento pubblico: lo rifarei”. Poi aggiunge: “Piuttosto discutiamo di una legge sulle lobby e su come i privati possono finanziare partiti, fondazioni e associazioni”

L’amico del prestito, la nomina e l’affare del nuovo stadio viola

Un’amicizia che viene da lontano e in nome del mattone. L’anello di congiunzione tra Matteo Renzi e Riccardo Maestrelli sono le proprietà immobiliari. Da ultima la villa di via Pietro Tacca, sul declivio signorile di Piazzale Michelangelo con vista panoramica su tutta la città, per cui l’ex premier si è fatto prestare 700 mila euro dalla madre dell’imprenditore Maestrelli e finita sotto la lente della Procura di Firenze che ha aperto un’inchiesta al momento senza ipotesi di reato. Ma prima ancora, nell’ottobre 2017, il Renzi caduto in disgrazia dopo la sconfitta referendaria va a vivere in un appartamento a pochi passi da Ponte Vecchio quando insegna alla sede fiorentina della Stanford University. Ma nemmeno per quei 7,5 vani in via de’ Guicciardini si rivolge a un’agenzia: la casa è di Andrea Bartolozzi, imprenditore del vetro da Montelupo fiorentino (compaesano di Luca Lotti), molto amico proprio di Maestrelli. Entrambi si sono avvicinati al giglio magico renziano grazie all’imprenditore lucchese Andrea Bacci, tra i soci fondatori della “Noi Link” poi confluita nella fondazione Open e che tre anni fa ristrutturò la casa di Renzi a Pontassieve.

Poi c’è il progetto del nuovo stadio di Firenze partito proprio quando Renzi era sindaco e voluto dai fratelli Della Valle. Si farà nell’area Mercafir dove dal 2007 Maestrelli ha un diritto cinquantennale e ha investito ben 15 milioni per fare della frutta e della verdura il suo core business. Ora che il nuovo stadio si farà grazie al nuovo proprietario della Fiorentina Rocco Commisso, l’area sarà oggetto di un bando pubblico e Maestrelli, amico di vecchia data dell’attuale sindaco Daroi Nardella, con ogni probabilità sarà pagato un indennizzo.

Alla fine del 2014 è proprio il governo Renzi a nominare Maestrelli nel cda di Cassa Depositi e Prestiti Immobiliare. Quattro anni dopo la madre, Anna Picchioni, versa 700 mila euro sul conto dell’ormai ex premier che li usa per l’anticipo della villa e dopo quattro mesi li restituisce. La Procura di Firenze, dopo la “segnalazione operazione sospetta” dell’Unità Antiriciclaggio di Bankitalia, ha aperto un fascicolo per ora solo conoscitivo. Renzi quei soldi li ha tutti restituiti grazie alle entrate dalla conferenze in giro per il mondo (120 mila euro) e ai 450 mila provenienti dal documentario prodotto dall’agente Lucio Presta “Firenze secondo me”.

L’amicizia tra Maestrelli e Renzi, però, viene da lontano, almeno dai tempi in cui quest’ultimo è sindaco di Firenze: Riccardo Maestrelli è uno dei finanziatori storici del giovane “rottamatore”. Prima si dà da fare, e non poco, per far eleggere Renzi sindaco organizzando una cena all’hotel Hilton di Firenze in cui saranno raccolti 80.000 euro. Lo ammette lo stesso Renzi il 17 maggio 2012 quando, per rispondere alle accuse di aver intascato i rimborsi elettorali provenienti dall’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, pubblica la lista dei suoi primi 56 finanziatori su un totale di 150. Al primo posto della lista c’era Bacci, al 26 esimo proprio Maestrelli che, insieme alla famiglia, fino a oggi avrebbe finanziato l’ascesa politica di Renzi per un totale di 300.000 euro. Non solo: Riccardo, con i fratelli, controlla al 50% il B&B di Villa Ruspoli che nel 2012 ospitava la fondazione Big Bang, confluita in Open insieme a “Noi Link”. Ma l’amicizia tra i due viene celebrata anche in vacanza: nell’estate del 2014 Renzi, da presidente del Consiglio, decide di trascorrere qualche giorno al mare a Forte dei Marmi. Dove? All’hotel di lusso “Villa Roma Imperiale” dei Maestrelli.

L’affare dei pagamenti digitali e l’arrivo del renziano in Cdp

È una delle nomine toccate a Matteo Renzi nella spartizione delle poltrone della galassia di Cassa Depositi e Prestiti: Federico Lovadina è stato messo a capo della Sia, la società controllata da Cdp (con l’85%) e Poste che realizza le reti per i pagamenti telematici, in sostanza l’infrastruttura su cui si regge il sistema dei Pos, che rende quindi la società strategica nella corsa al potenziamento dei pagamenti telematici. Lovadina rientra nella terna dei posti strappati dal fiorentino nelle partecipate, insieme a Roberto Cociancich (Sace) e Lucia De Cesaris (Cdp immobiliare). Una nomina che oggi fa storcere il naso a molti nei palazzi romani, vista la piega presa dalle inchieste fiorentine sui finanziamenti alla Open, la cassaforte del renzismo. Lovadina arriva infatti in Sia per gestire un’azienda che da tempo pensa a una fusione. Tra le candidate c’è la Nexi, società leader dei pagamenti digitali che poco tempo fa ha acquistato la Bassilichi, altra società del settore, fiorentina, i cui vecchi proprietari, i fratelli Bassilichi (non indagati) sono stati perquisiti dalla Finanza come molti altri finanziatori della Open.

Lovadina ha i giusti quarti di renzismo. È un fedelissimo dell’ex premier dalla prima ora, onnipresente nella rete toscano-fiorentina del giglio magico. Pistoiese, classe 1979, Lovadina di professione fa l’avvocato, anche se l’arte preferita è collezionare poltrone. Renzi lo nomina nel cda di Ferrovie dello Stato nel 2014, nella tornata delle nomine che lo aveva spinto a prendersi Palazzo Chigi cacciando Enrico Letta. Oggi Lovadina è socio dello studio legale tributario Bl (Bonifazi & Lovadina) con il senatore dem Francesco Bonifazi, tesoriere di Italia Viva (e già del Pd di Renzi) e con il fratello dell’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, tornata a esercitare nello studio la professione dopo la parentesi al governo. E anche lui cresciuto, come la Boschi, alla corte dello studio fiorentino di Umberto Tombari, dove Maria Elena ha mosso i primi passi nella professione.

Il curriculum è fitto e le poltrone non mancano, specie nelle partecipate toscane, come quella di presidente di Toscana Energia. Lovadina è anche stato nominato nel cda di Prelios, uno dei principali gruppi immobiliari privati europei (l’ex Pirelli Real Estate) risorto negli ultimi anni grazie al business della gestione dei crediti deteriorati. In Italia è guidato da Fabrizio Palenzona, storico lobbista delle autostrade e degli autotrasportatori, anche lui uomo dalle mille poltrone, ieri come oggi: l’ex vicepresidente di Unicredit ancora troneggia come presidente all’Aiscat, l’Associazione della concessionarie autostradali ed è grande amico di Marco Carrai, l’imprenditore, più vicino a Renzi e indagato nell’inchiesta fiorentina per finanziamento illecito.

Nella tornata di nomine in Cdp Renzi ha deciso di puntare la sua fiche sulla Sia, società certamente meno rilevante rispetto alle altre coinvolte, ma evidentemente considerata più strategica.

Di certo Sia è in una fase di transizione. Da mesi si inseguono i rumors di una possibile fusione con Nexi per creare un maxi polo italiano. L’ultima prova di una possibile intesa è sfumata a marzo scorso quando l’incontro tra i manager di Cdp, Sia, Poste e Bain Capital (come portavoce dei fondi Nexi) si è concluso con un nulla di fatto. Secondo le indiscrezioni di stampa lo stop sarebbe arrivato per l’opposizione dei vecchi vertici di Sia che, di fronte alla prospettiva di un potenziamento aziendale attraverso una fusione, preferivano procedere con acquisizioni. Neanche l’intervento, a febbraio scorso, dell’amministratore delegato di Cdp, Fabrizio Palermo, che aveva fatto pressing sul board per portare a segno la fusione, è servito. Da allora, su Sia – Nexi circolano solo voci. Per la seconda si parla anche di una trattativa per una alleanza da un miliardo con Intesa San Paolo, la prima in ottica sbarco in Borsa. L’opzione Nexi, però, potrebbe riprendere quota. Tanto più ora con l’arrivo di Lovadina alla guida, l’uomo che nel 2017 curò l’acquisizione da parte di Nexi della fiorentina Bassilichi.

La nomina di Lovadina è arrivata martedì. Nello steso giorno è scoppiato il terremoto delle indagini su Open, la fondazione, ora liquidata, guidata da Alberto Bianchi, il fundraiser di Renzi, avvocato toscano di cui Lovadina è considerato un pupillo. I Bassilichi, in veste di finanziatori (non indagati) della Fondazione sono stati visitati dalla guardia di Finanza nell’ambito delle indagini avviate dalla procura fiorentina, insieme ad altri imprenditori e professionisti.

“Ho incontrato Carrai ma non si parlò dei Toto”

Giovanni Castellucci, ex amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, ha incontrato Marco Carrai alcune volte. “Mai però – assicurano fonti vicine a Castellucci – hanno parlato del contenzioso che Autostrade aveva con il gruppo Toto. “I due – continuano le fonti vicine all’ex ad – hanno parlato di altri argomenti, come l’aeroporto di Firenze del quale Carrai è presidente. O anche della valutazione sull’impatto ambientale o delle sinergie tra gli aeroporti di Firenze e Bologna, nel cui capitale sociale, nel 2017, era entrata Atlantia (che controlla Autostrade per l’Italia-Aspi)”. Peraltro, concludono, la questione Toto era seguita da una struttura tecnica.

Nel decreto di perquisizione a Marco Carrai, indagato per finanziamento illecito a Firenze, come rivelato ieri dal Fatto, si legge che l’amico di Matteo Renzi ha interagito con l’Ad di Autostrade “su mandato” di un altro renziano della prima ora, ossia l’avvocato Alberto Bianchi. I contatti si sarebbero tenuti proprio nel periodo in cui il legale fiorentino seguiva il gruppo Toto in un contenzioso che si trascinava da anni contro Autostrade. E sono gli anni in cui il numero uno di Autostrade era Castellucci (non indagato).

Ma procediamo con ordine. Al centro dell’inchiesta c’è una consulenza affidata allo studio legale Bianchi nel 2016 dalla Toto Costruzioni Generali. L’incarico riguardava una accordo transattivo tra la Toto e Autostrade, finite in un contenzioso. Per gli investigatori quella consulenza però nasconde un finanziamento: i pm sospettano che una parte del denaro sia finito nelle casse della Fondazione Open (allora cassaforte del renzismo), che ritengono aver agito in passato come “un’articolazione di partito politico”.

Mentre indagano, i finanzieri, guidati dal colonnello Carlo Levante, scoprono in questa vicenda anche il presunto ruolo di Carrai, che nella Open è stato membro del Cda. È scritto nel decreto di perquisizione: “Risulta l’intromissione dell’indagato nell’adempimento dell’incarico professionale affidato a Bianchi dal gruppo Toto, avendo il predetto Carrai interagito, su mandato di Bianchi, con l’amministratore delegato di ‘Autostrade per l’Italia’”. Nel decreto non si spiegano i dettagli, che tipo di contatto ci sarebbe stato e tanto meno con chi.

In Autostrade dal 2005 al 2019 l’Ad era Giovanni Castellucci, che si è dimesso negli ultimi mesi del 2018. Gli è succeduto Roberto Tomasi (non indagato), che prende il suo posto nel gennaio 2019. Fino ad allora era direttore generale. Fonti vicine a Tomasi spiegano che il manager non conosce nè Carrai nè Bianchi, quindi non li ha mai incontrati. Saranno gli approfondimenti dei pm a svelare se l’incontro c’è stato, con chi e quale rilevanza abbia per l’inchiesta.

Intanto ieri Bianchi ha dichiarato: “Non esiste nessun archivio segreto dei finanziatori di Open. Tutti i contributi sono stati effettuati su un unico conto intestato ad Open, ne era conoscibile e tracciata la provenienza, la data e l’importo”.

“È falso – ha aggiunto – che Open mi abbia restituito contributi che avevo versato a titolo di donazione, come dimostrerò. (…) Sono stato oggetto di perquisizioni e sequestri estesi che si sono spinti indietro fino al 2007. L’ipotesi di reato a mio carico è riferita al 2016”.

Il fedelissimo Moretti nella rete di “Marchino”

I finanzieri guidati dal colonnello Carlo Levanti, a partire da giugno, hanno consegnato alla procura di Firenze ben sei informative sul ruolo di Marco Carrai che, secondo le accuse, ha “svolto un ruolo decisivo nel reperimento dei finanziatori” della fondazione Open, la cosiddetta “cassaforte del renzismo”, e “nel raccordo tra gli stessi e gli esponenti politici rappresentati dalla Fondazione”.

Gli investigatori del Nucleo di polizia economica e finanziaria di Firenze hanno messo nel mirino una serie di società legate a Carrai, accusato di finanziamento illecito. Due società hanno sede in Lussemburgo – la Wadi Ventures Management Company sarl e la Wadi Ventures sca – mentre le altre hanno sede a Firenze. Parliamo delle società Cys4 srl, Cgnal srl, K Cube srl, Yourfuture spa, Cambridge Management Consulting Labs spa e K Cube srl.

La Cgnal srl si occupa di “sviluppo e vendita di software” e “servizi di consulenza relativi ai settori dell’informatica e dell’analisi dei dati”. Agli investigatori delle Fiamme Gialle non è sfuggito che la Cgnal, prima di trasformarsi in srl era stata costituita come Spa. Nessun reato, ovviamente, ma i bilanci svelano che la Cgnal, il 12 febbraio 2018, delibera la copertura della perdita di 440mila euro e, contestualmente, la trasformazione da spa in srl. E la Cambridge Management incrementa il suo controllo sulla Cgnal portandolo al 70,83 per cento. Il punto è che anche la Cambridge Management ha i bilanci in passivo. Le due società, almeno per il momento, non sembrano decollare.

Ma a chi appartiene davvero la Cgnal? I finanzieri in questi mesi hanno verificato che Carrai la controlla due volte, sia attraverso la Cambridge Management, sia attraverso la Carfin, che appartiene anche a suo fratello Stefano. C’è poi un terzo socio, con una piccola quota del 5,5 per cento: la Dedalus Italia spa. Parliamo di un grande gruppo industriale che è “leader internazionale nel software sanitario”.

A presiedere la Dedalus holding, che controlla la Dedalus Italia, troviamo Giorgio Moretti (non indagato), considerato un renziano della primissima ora. E per i finanzieri non si tratta di un nome inedito. Vedremo perché. Intanto Moretti è socio di Carrai anche in un’altra società: le palestre Klab – rinomate del capoluogo fiorentino – sono riconducibili alla Cki srl, il cui 9 per cento è detenuto da Carrai e il restante 91 per cento da Moretti, con la sua Kontact srl. Per Moretti è stato chiesto il rinvio a giudizio per una vicenda legata proprio alle palestre di una sua vecchia società, la Kgo, nella quale Carrai non aveva alcun ruolo. Nel 2009 l’Agenzia delle Entrate di Firenze segnala che “l’attività svolta dalla Kgo” sembra avere “natura commerciale” nonostante operi “sotto la veste di ente non commerciale”. Formalmente è una “società sportiva dilettantistica”. In altre parole, non dovrebbe avere fini di lucro ma secondo l’accusa, invece, li ha. Risultato: non è in regola con il fisco – per circa 5 milioni – perché ha usufruito di agevolazioni che non le spettano. Nell’ottobre 2011 arriva la transazione con l’Agenzia delle Entrate. Per la procura di Firenze, però, grazie a un intermediario, Moretti avrebbe corrotto l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, Nunzio Garagozzo, per usufruire di “un indebito risparmio d’imposte pari a 2 milioni di euro”. Moretti finisce imputato per concorso in corruzione e bancarotta fraudolenta impropria per infedeltà patrimoniale. La Kgo finisce in concordato preventivo e il suo ramo d’azienda viene acquistato dalla New Gekom, che è della Cki, ovvero la stessa società di Moretti e Carrai che gestisce la Klab.

La legge finanziaria del 2017, con Luca Lotti ministro dello Sport (estraneo all’indagine di Firenze), approva un pacchetto di norme che, almeno in teoria, sembra poter tornare utile a Carrai e Moretti. Dal 2018 le “attività sportive dilettantistiche” – ad alcune condizioni – possono essere “esercitate con scopo di lucro”. Insomma, ci si potrà finalmente guadagnare. Con agevolazioni sull’Ires, ridotta alla metà (a patto che queste società siano “riconosciute” dal Coni) e l’Iva che scende al 10 per cento. Lotti ha sempre rivendicato che non s’è trattato di una legge ad personam: coinvolge migliaia di operatori. Ed è vero. Ma tra questi potrebbero usufruirne pure Carrai e Moretti che, nel frattempo, ha sponsorizzato anche la Casaleggio Associati.

“Proventi personali”: il giro del mondo del senatore Matteo

Il 16 e 17 dicembre di un anno fa, riferisce per iscritto al Fatto un diplomatico italiano in Cina, il senatore Matteo Renzi si è recato nella città di Yibin nel sudovest cinese, nella provincia del Sichuan, per tenere un discorso all’apertura di una fiera che promuove le eccellenze gastronomiche. E in autunno, tra il 25 e 26 ottobre, era a un convegno a Chongqing dal titolo International brand innovation. La società Bojin International Exchange Culture ha organizzato le manifestazioni di Yibin e Chongqing. Ancora più indietro nel tempo, il 3 giugno 2018, il politico che viaggia assai per svolgere conferenze ben retribuite era a Pechino per discettare di tecnologia digitale. E poi Qatar, Israele, Francia, Stati Uniti, Kazakistan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti. Negli ultimi diciotto mesi, per un resoconto parziale, il senatore semplice di Firenze, che ha un tasso di presenza del 45 per cento a Palazzo Madama, 2.507 votazioni su 5.571, ha preso decine di aerei, a volte per incontri a titolo gratuito, a volte per eventi retribuiti.

Questi sono una tipologia dei “proventi personali”, come li definisce, che hanno permesso all’ex primo ministro di restituire il prestito di 700.000 euro della famiglia Maestrelli per acquistare una villa a Firenze da oltre un milione di euro; “proventi personali” che, sommati all’indennità di senatore e al documentario televisivo, hanno prodotto un reddito di 830.000 euro nel 2018 e più di un milione nel 2019. Nel 2017 era di 28.345 euro. “Per rispondere a chi dice che vivo di politica”, ha chiosato il senatore, che nel 2004, a trent’anni, era presidente della provincia di Firenze, poi sindaco a Palazzo Vecchio, premier per mille giorni, due volte segretario del partito democratico, fondatore di Italia Viva. Per quale altro motivo, se non la carriera politica sempre attiva, i paesi più ricchi del Golfo sgomitano per inserirlo nei palinsesti dei seminari in cui si valuta finanche la migrazione degli uccelli e mai l’evoluzione democratica?

In ogni rassegna, con maggiore orgoglio nel Golfo, Renzi viene presentato come ex primo ministro e senatore di Firenze. E l’ex primo ministro e senatore di Firenze replica che non c’è da pensare male perché le stesse opportunità, ancora più copiose, capitano ai colleghi ex primi ministri, i britannici David Cameron e Tony Blair, il francese Francois Fillon, l’australiano Kevin Rudd e tanti, tanti illustri dal passato glorioso. Con una differenza: Cameron e compagni non siedono in Parlamento né sono azionisti di governo. Allora per Renzi si creano circostanze non gradevoli. Il 19 giugno 2019, per esempio, l’ex primo ministro era all’Air Show di Parigi, il rinomato salone dell’aeronautica militare e civile, ospite d’onore del gruppo Altran, una multinazionale francese che si muove in un settore industriale che porta a una feroce rivalità con gli italiani. Leonardo, ex Finmeccanica, non collabora più con il Gruppo Altran per attività sensibili che richiedono il nulla osta sicurezza.

I francesi, per l’intervista di giugno con la giornalista Annalisa Chirico, hanno versato il gettone per Renzi a un’associazione culturale. Perché Renzi, come spiegato al Fatto, non riceve il denaro dalle aziende, ma tramite agenzie specializzate oppure, per l’appunto, associazioni culturali. È accaduto in una cinquantina di occasioni in giro per il mondo, ha precisato Renzi. Il mondo che gira Renzi, spesso, è il mondo del Golfo Persico. Il 23 marzo 2019 era tra gli emiri a Dubai per la Varkey Foundation dell’omonimo filantropo che fa beneficenza per l’educazione scolastica dei bambini indigenti. Il 26 marzo 2019 doppietta emiratina per Ideas Abu Dhabi.

Il 25 aprile 2019 ha festeggiato la Liberazione con i sauditi al Financial sector conference di Ryad. In estate ha fatto una capatina negli Stati Uniti, in Montana e in Colorado, un po’ di vacanze e pure una sorta di ritiro di studio (senza ricevere compensi), e poi il 22 settembre ha ripreso le prestazioni oratorie a Pechino.

L’autunno caldo, però, stavolta l’ha trascorso nel Golfo. Il 31 ottobre ha partecipato al Future Investment Initiative a Ryad, la cosiddetta “Davos del deserto”, l’anno scorso boicottata dagli occidentali per l’omicidio di Jamal Khashoggi, giornalista, scrittore, oppositore dei regnanti sauditi e minaccia per l’erede al trono, il principe Mohammed bin Salman. Il 22 novembre, in maglia a collo alto, il senatore di Firenze ciondolava un po’ imbarazzato, ripreso dalle telecamere di Mediaset, per la pista di Ryad su cui s’è disputato un gran premio di Formula E, che sta per macchine elettroniche e dunque Renzi ha elogiato l’introduzione elettronica nelle corse, che non fa rumore, però fa passione e futuro, di certo futuro.

Il 9 e 11 dicembre è in calendario al forum di Anthony Scaramucci, portavoce per due settimane di Donald Trump e già manager di Goldman Sachs. Gli emiratini apprezzano l’inventiva di Scaramucci e l’aiutano con l’Abu Dhabi Global Market. Sin dai mille giorni di Palazzo Chigi, i sovrani del Golfo che si detestano, vedi i sauditi e qatarioti, trattano con uguale riguardo l’ex premier.

Per non citare gli emiratini, che dell’epoca del premier Renzi ricordano la disastrosa avventura in Alitalia con Etihad. Renzi frequenta la capitale saudita Ryad, ma conserva un rapporto eccellente con la famiglia Al-Thani, che nell’aprile 2018 l’ha accolto per inaugurare la biblioteca nazionale. Il Qatar ha investito in Air Italy (ex Meridiana), nell’ospedale Mater Olbia, nei terreni della costa Smeralda. E secondo una conversazione del magistrato Luca Palamara, che riportava una confidenza di Luca Lotti, a maggio Renzi era a Doha per vendere la Roma. Soltanto una suggestione, bella grande. Come il giro del mondo di Matteo.

Balle di giornata

Da un po’ di tempo i giornaloni hanno smesso di menarla con le fake news. Forse perché si sono ripresi il monopolio in esclusiva.

1. Per tre anni hanno raccontato che ogni nave di Ong ha il diritto di sbarcare sempre e comunque in un Italia e che lo Stato italiano, e soltanto esso, ha il dovere di aprire i suoi porti, anche se non sono i più vicini al luogo del salvataggio o del rilevamento del carico umano. Pazienza se la Corte dei diritti dell’uomo, interpellata da Carola Rackete, le diede torto: lo Stato italiano ha il dovere di assicurare l’incolumità e la salute dei migranti e di accogliere i malati o in pericolo di vita, ma non di farli sbarcare tutti. Niente, hanno continuato a ripetere la fake news fino all’altro giorno, quando il Tribunale dei ministri di Roma ha prosciolto Salvini e i funzionari del Viminale sul caso della nave Alan Kurdi dell’Ong tedesca Sea-Eye: “Lo Stato di primo contatto non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio”, cioè quello di cui la nave batte bandiera. In quel caso, la Germania. Non la solita Italia.

2. Sul Mes, o fondo Salva-Stati, Repubblica riesce a titolare a tutta prima pagina: “Di Maio&Salvini, ritorno di fiamma”. Un modo come un altro per non mettere in prima una sola sillaba sullo scandalo Open che leva il sonno all’ex beniamino della ditta. Ma anche una scemenza sesquipedale, visto che al Mes si oppone tutta la sinistra europea. Tant’è che ieri, sul sito di Repubblica, si potevano leggere l’uno sull’altro due titoli vagamente schizofrenici: “Salva-Stati, il M5S e Leu sulla stessa linea” e

“Di Maio e Di Battista riportano a destra il M5S”. I 5Stelle contemporaneamente di sinistra e di destra. Non è meraviglioso?

3. Solita emergenza rifiuti a Roma: solita perché gli impianti mancano dalla chiusura della discarica di Malagrotta nel 2012. E soliti titoli sulla sindaca Raggi colpevole di tutto, addirittura “commissariata” (il solito Messaggero). Peccato che i sindaci siano competenti solo sulla raccolta: gli impianti sono affare delle Regioni. Sul Lazio regna dal 2013 la giunta Zingaretti, che in sei anni è riuscita a non varare un nuovo piano rifiuti: è ferma al piano Polverini del 2012 (quando Malagrotta era aperta). E ora chiude la discarica di Colleferro, ancora capiente per un anno, e lancia ultimatum alla Raggi per impreziosire la Capitale con 15 siti di ecoballe. Ora, la Commissione Ue ha appena scritto al governo per minacciare una nuova procedura d’infrazione contro l’Italia. Secondo i giornaloni, è una “bacchettata” e una “strigliata al Comune e alla Regione”.

Ecoballa sesquipedale. Il j’accuse è tutto per la Regione: “Se esiste una sovracapacità di trattamento meccanico-biologico (tmb) disponibile in Regione, perché si sono verificati episodi di mancata raccolta dei rifiuti a Roma”? “Quali misure ha adottato la Regione per evitare il ripetersi di simili problemi in futuro?”. “Entro il 2025 la Regione esaurirà la capacità di discarica necessaria per accogliere i rifiuti residui dagl’impianti tmb”. “La Regione Lazio continua a raccogliere rilevanti quantità di rifiuti urbani indifferenziati”. E il Comune? Mai citato. Quindi è colpa della Raggi.

4. Alla Rai, tanto per cambiare, i partiti litigano sulle nomine: il Pd, che già controlla Rai3 e Tg3 gentilmente offerti dai feroci censori giallo-verdi, vorrebbe piazzare al Tg3 Moiro Orfeo, già caporedattore di Repubblica (De Benedetti), direttore del Mattino e del Messaggero (Caltagirone), del Tg2, del Tg1 e infine dell’intera Rai, dove completò le epurazioni renziane lasciate a metà da Campo Dall’Orto: dopo Giannini, accompagnò alla porta la Gabanelli e Giletti. Ora Di Maio, che ha vinto le elezioni senza piazzare finora un solo direttore di fede 5Stelle (solo indipendenti come il dg Salini, il direttore del Tg2 Freccero e quello del Tg1 Carbone), è accusato di essere “esattamente come quelli di prima”, un “nuovo lottizzatore”. E non perché vuole promuovere a Rai3 Franco Di Mare (quello che faceva marchette ai Pampers). Ma perché ritiene che Orfeo sia troppo. E da che pulpito viene la predica? Da Repubblica, le cui battaglie contro la renzizzazione della Rai nel 2014-2018 sfuggono ai più, come quelle contro le epurazioni di Giannini, Gabanelli e Giletti e la cacciata di Bianca Berlinguer dal Tg3 per leso renzismo. Per Sebastiano Messina, chi si oppone al ritorno di chi trasformò la Rai in TeleRenzi è “un inquisitore che diventa malandrino”. Che nostalgia della Rai pluralista con tre reti su tre e tre tg su tre renziani! Ah la bella succursale di Repubblica , che ingaggiava Francesco Merlo (240mila euro l’anno) e Carlo Verdelli (300mila) nella fantomatica “Direzione per l’offerta informativa”! Quelli sì erano tempi! E non tornano più. Forse.

5. Su La Stampa, Mattia Feltri commenta da par suo lo scandalo Open. “Renzi è il più garantista del mucchio, gliene si dà merito”: dicesi “garantista” chi insulta i magistrati che indagano sui suoi cari e minaccia con cause civili chi dà notizie sulle indagini; ergo – Renzi non ce ne voglia – il padre del garantismo non è Cesare Beccaria, ma Cesare Previti o, a scelta, Marcello Dell’Utri e Silvio B. “Senza partiti non c’è democrazia”: purtroppo, per la Costituzione, i partiti sono solo uno degli strumenti con cui i cittadini possono “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (sul “metodo democratico” sorvoliamo: dal 1948 si guardano bene dal darsi una personalità giuridica). “Populista è chiunque in questi anni si sia battuto, fino a ottenerla, per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti”: ma ad abolire il finanziamento pubblico fu il 90,3% degli elettori nel referendum radicale del 1993. Dunque è il popolo che è populista.

Per scacciare certe ombre ci vuole un super eroe con doti da esorcista

Le cose positive: nasce un nuovo personaggio da edicola, Samuel Stern, prodotto da una giovane casa editrice, Bugs Comics, il primo numero disponibile oggi non è male, soprattutto grazie ai disegni di Luigi Formisano. Anche il potenziale narrativo del personaggio è promettente. Samuel Stern è una specie di esorcista, un “consulente esoterico”, che si batte contro i demoni ma non è prigioniero degli schemi della religione e dell’occulto, sa che il vero male da esorcizzare è quello che ha origini molto umane, la violenza domestica, i traumi subiti dai bambini, il senso di sconfitta generato dalla perdita del lavoro. Tutto questo apre la porta alle “ombre”, un male che è in ultima analisi sempre umano. I due scrittori della serie, Gianmarco Fumasoli, Massimiliano Filadoro dimostrano di avere alcune buone idee su come raccontare il male a fumetti e su come reinventare un personaggio che ha la stessa funzione di Dylan Dog, affrontare orrori immaginifici e paranormali per parlare di quelli reali. Visto che la materia prima c’è, non si capisce perché gli autori abbiano dovuto ingabbiare le idee originali in schemi e cliché così usurati. L’intero impianto della serie ricorda troppo quello di Outcast, altra serie recente di Robert Kirkman a tema esorcismi, e poi la libreria dell’occulto, l’ambientazione irlandese, l’improbabile look da rocker di Samuel Stern, i ricordi struggenti della figlia abbandonata: la somma di dettagli presi da altri personaggi del genere – tipo John Constantine “Hellblazer” – non produce una sintesi ma un collage. Ci voleva un po’ più di coraggio per produrre una serie più originale, anche se l’ambizione è il mero intrattenimento. Per prodotti di qualità media, in questo mondo di offerta di storie molto superiore alla domanda, non c’è spazio.

 

Samuel Stern N. 1 – Il nuovo incubo

G. Fumasoli, M. Filadoro e L. Formisano

Pagine: 96

Prezzo: 3,50

Editore: Bugs Comics