Per salvare la terra bisogna anche divertirsi

Se è vero che di clima e riscaldamento globale si parla ogni giorno, è pur vero che restano ancora molti i buchi neri dell’informazione. Quella elementare che ci aiuterebbe a comprendere cosa stia accadendo al nostro Pianeta e quali siano le azioni da compiere per contribuire al cambiamento auspicato. “Perché la Terra ha la febbre? E tante altre domande sul clima” ci aiuta a farlo. Il libro, pubblicato da Editoriale Scienza nella collana Teste Toste, è pensato per i bambini dai nove anni in su ma non disdegna un pubblico adulto, a cui rendere più agevoli concetti come effetto serra, permafrost e olocene. La climatologa del Cnr Elisa Palazzi risponde alle domande del divulgatore Federico Taddia. Un dialogo vivace, tra svago e informazione, fatto di interrogativi pertinenti e talvolta buffi. I gas serra diventano una coperta. Il T-Rex lo si immagina a spasso con l’ombrello. I pesci che grondano di sudore nell’oceano surriscaldato. Una miscela di linguaggi, impreziosita dalle illustrazioni di AntonGionata Ferrari, spiritosa ed efficace. “È importante dire le cose come stanno – spiega la ricercatrice – altrimenti la nostra Terra non guarirà mai”. Il privilegio è impararle divertendosi.

 

Perché la Terra ha la febbre?

Federico Taddia, Elisa Palazzi

Pagine: 96 Prezzo: 12,50

Editore: Editoriale Scienza

I tesori svelati dell’Arabia Saudita

Senza tener conto del titolo in inglese che fa solo molta scena, il pregio più mirabile da tributare alla mostra internazionale Roads of Arabia (inaugurata oggi 29 novembre al Museo nazionale romano alle Terme di Diocleziano), che giunge dopo sedici tappe in giro per il mondo a Roma – francamente un po’ in ritardo rispetto alla centralità che l’Urbe ha nel patrimonio archeologico dell’umanità –, è quello di restituire un’appropriata laicità alla civiltà araba. Per via di quei fraintendimenti culturali che si originano dai motivi più diversi e si scatenano endemici con la stessa ferocia di un mal di denti, gli accadimenti degli ultimi vent’anni (o giù di lì) hanno causato l’errata equivalenza tra cultura araba e islamismo. Mentre è possibile e doverosa una storia, o meglio una narrazione, del mondo arabo che concreta e fattuale non sia religiosa – intendendo teocentrica – ma intimamente laica, quindi umana.

Gli oltre 450 rari manufatti esposti, rinvenuti grazie a importanti scavi archeologici condotti a partire dagli anni ‘60 anche in collaborazione con l’Italia, esplorano il millenario patrimonio della penisola arabica dalla Preistoria fino al XX secolo. Tra tanti preziosissimi “cocci” (vasi, utensili, punte di frecce e lame ma anche gioielli e monili, e ancora prime raffigurazioni di animali, statue monolitiche antropomorfe o pezzi di colonne che si fanno più raffinati e fantasiosi via via che procediamo avanti nel tempo, attraversando il neolitico, l’età del bronzo e del ferro) la mostra si rende più interessante quando si incontrano le monete, le tavolette iscritte, i frammenti di grandi iscrizioni e di steli il cui scopo era tramandare gli avvenimenti e le personalità ai posteri, ma anche documentare il loro presente. Per esempio, alcune iscrizioni lihyanite (della popolazione dei lihyaniti, che svilupparono un proprio alfabeto le cui lettere coincidono tutte tranne una con l’arabo moderno) raccontano la vita dei mercanti locali. E anche quando ci si imbatte in alcuni manoscritti del Corano, l’interesse che rivestono è di testimonianza unicamente culturale, non religiosa.

Tuttavia, spaesa non poco l’ultima sezione quando accanto a un ricchissimo mantello Reale del XX secolo sono esposti (per un criterio di casuale contemporaneità) luccicanti pugnali, spade e armi da fuoco che potrebbero rischiare di suggerire la pericolosa suggestione che il potere è tale solo se accompagnato dal simbolo delle armi… una svista, per una mostra che inneggia al potere della conoscenza.

 

Roads of Arabia Museo nazionale romano alle Terme di Diocleziano, Roma

Un commissario sfigato indaga sul serial killer di Villa Borghese

A Villa Borghese, meraviglioso cuore di arte e natura nel centro di Roma, non succede mai nulla, al punto che un giorno il neopromosso commissario Giovanni Buonvino si trova di fronte ai resti squartati di un povero bambino. Braccia e gambe. Manca però la testa. Per buoni tre lustri, a differenza dei suoi colleghi, Buonvino è stato un poliziotto senza futuro, condannato per un errore del passato commesso quando era in servizio a Caserta. Mandò i Nocs a fare un blitz alla cresima del nipote del prefetto anzichè alla prima comunione del figlio di un boss. Tutta colpa di una confusione toponomastica. Uno scambio di strade. Così la frustrazione aveva portato anche la fine del suo matrimonio con l’amata Lavinia, scoperta a letto con un’amica.

Però poi la vita cambia, anche se fare il commissario a Villa Borghese al massimo può portare a indagare sui ladri di merendine. Invece no. Dopo i resti del bambino sbucano varie teste mozzate, accompagnate da messaggi deliranti. Tutto sembrerebbe ruotare attorno alla data del 18 maggio. Buonvino ha a disposizione una squadra improbabile di sette poliziotti, ognuno con gravi problemi. Un altro “regalo” del suo ex superiore. Assassinio a Villa Borghese apre la nuova collana di Marsilio, Lucciole, ed è soprattutto il primo giallo di Walter Veltroni. L’errore principale è però leggerlo con il retropensiero del veltronismo, come sinora hanno fatto quasi tutti. Da un lato gli eccessivi peana della stampa amica, dall’altro le stroncature di chi lo detesta. In realtà, se riuscite a coprire il nome dell’autore in copertina, vi immergerete in una trama solida con personaggi riusciti e un sorprendente colpo di scena finale.

 

Assassinio a Villa Borghese

Walter Veltroni

Pagine: 205

Prezzo: 14

Editore: Marsilio

D. C. (DOPO CHRISTIE)

La mia felicità dipende anche dalla tua morte

Da leggere. Non per la storia, che, di fatto, non c’è. Un pregio, ai miei occhi, non un limite. Viviamo un tempo capovolto nel quale le storie sono fine e non mezzo. Follia. Mi auguro che scrittori e lettori rovescino, presto, le parti. O finiremo con lo smarrire il senso di entrambe le condizioni. Da leggere, ma non per la lingua. Più che buona, non c’è dubbio. Asciutta, nervosa, incalzante: lo scrivere di chi dà del tu allo scrivere. Da chi si chiama Teller, del resto, è lecito attendersi che onori il destino inscritto nel cognome. È la mia storia è un libro da leggere in quanto romanzo morale. Esattamente ciò che, a mio personale (e sindacabilissimo) avviso, dovrebbe essere un libro. Un compagno di strada che ci costringe a cercare risposte proprio a quelle domande che preferiremmo eludere.

Facile? Tutt’altro. “A dare risposte sono capaci tutti – ci ricorda Oscar Wilde – ma a porre le vere domande ci vuole un genio”. Non conosco Janne Teller e non so dire se rientri o no in questa categoria. Una cosa, però, è certa: le domande vere non mancano. Anzi, sono il cuore pulsante di un testo che vive del turbolento confluire di quattro fondamentali correnti dell’esistere: realtà, verità, volontà, moralità. La vicenda si riassume in tre righe: un editore si ritrova tra le mani un manoscritto eccellente; un potenziale best-seller da milioni di copie. È la mia storia, accusa una voce di donna, gelida e tagliente come l’inverno. Non è un caso che risponda al nome di Petra Vinter. “Sto per morire”, confessa: “sta a te decidere”. Furto o plagio, dunque: che fare? Pubblicare o rinunciare? Ci sono “interessi da difendere”, è ovvio. “È facile essere migliori degli altri quando si deve pensare solo a se stessi”. “Gli affari sono affari”: l’editore “dirige un’impresa con novantotto dipendenti. Ha una famiglia. Un consiglio di amministrazione e degli azionisti a cui pensare”. “Il mondo è com’è, bisogna adattarsi”. E poi “bisogna essere pratici”: rifiutarsi di pubblicare la storia sarebbe inutile: finirebbe col pubblicarla qualcun altro. “Il mondo vuole libri come questo: cosa ci può fare?”. Inoltre, verificare cosa sia preso dalla realtà e cosa no, non è sua responsabilità. Dopotutto: da “dove nasce la finzione, se non dalla realtà circostante?”. Senza contare che “la letteratura che vende finanzia quella che non vende”. Né la Vinter potrà mai ricorrere alla giustizia: “non c’è una legge che proibisca di rubare le storie altrui”. E poi, se ci teneva così tanto, non avrebbe mai dovuto raccontarla a qualcuno. “Meno che mai a uno scrittore”. O vogliamo fingere di ignorare che “tutti gli artisti si sono sempre serviti del materiale che avevano sottomano”? Se qualcuno tradisce la nostra fiducia, dunque, “è perché siamo così idioti da fidarci?” Il peccato è suo ma la colpa, nostra? Ed “è sempre responsabilità di qualcun altro se il mondo è così?”. Meditiamo, dunque. Questo ci chiede la Teller.

Possibilmente ricordando che, se ogni fortuna che ci capita, “avviene sempre a spese di qualcun altro”, ne consegue che, se vogliamo la felicità, dobbiamo accettare l’idea “che essa sia l’infelicità di qualcun altro”. Siamo pronti? Sta a noi decidere: è la nostra storia.

 

È la mia storia

Janne Teller

Pagine:130

Prezzo:14

Editore Feltrinelli

“Strike”, dietro le inchieste del commissario c’è J.K. Rowling

“Quando inizi un’indagine è come osservare un acquario per la prima volta. Dai un’occhiata a quanti pesci ci sono, dai qualche colpetto sul vetro…”. È così che l’investigatore privato Cormoran Strike risolve i suoi casi: niente colpi di genio alla Sherlock Holmes, ma un minuzioso lavoro sul campo. Volendo fare un paragone, più che a Holmes assomiglia al vicequestore Rocco Schiavone. È un po’ il suo corrispettivo british: un uomo tormentato con un passato difficile alle spalle, trasandato e nello stesso tempo affascinante. Cormoran è il protagonista di Strike, la miniserie tratta dai polizieschi di Robert Galbraith in onda su Premium Crime dal 2 dicembre. Sette episodi per tre indagini. La prima ruota attorno al presunto suicidio di una modella problematica, la seconda sulla sparizione di uno scrittore che ha descritto la sua morte nell’ultimo libro, la terza entra direttamente nella vita di Strike che riceve un pacco contenente la gamba amputata di una donna. Siamo nei territori del poliziesco classico: una serie molto solida, senza particolari acuti, forse troppo compattata come nella tradizione della Bbc. A contribuire al suo fascino ci sono una Londra vagamente rétro e i due protagonisti, Cormoran e la sua assistente Robin.

Cormoran Strike è un ex militare che ha perso una gamba in Afghanistan. Figlio di una rockstar, da quando si è lasciato con la fidanzata aristocratica dorme in ufficio. Nel momento in cui Robin entra nella sua vita è pieno di debiti. La relazione altalenante fra il detective e l’assistente è uno dei motori della serie. L’esordio di Strike fu seguito sulla Bbc da 7,4 milioni di telespettatori. Un successo da attribuire alla qualità del prodotto ma soprattutto al nome della vera autrice dei romanzi da cui è tratta: dietro lo pseudonimo Robert Galbraith, si nasconde infatti J.K. Rowling, la creatrice del maghetto Harry Potter (Rowling ha anche collaborato alla serie). La conferma della vera identità dell’autore fece impennare le vendite del primo romanzo su Amazon del 500.000%: quel che si dice un’ottima strategia di marketing…

Un circo sguaiato poco “Satyricon”

Finalmente il teatro italiano ha scoperto la ceretta brasiliana, quella della bellissima attrice esibita nuda in proscenio dall’inizio alla fine di un discutibile Satyricon. Il proto-romanzo di Petronio (I secolo d. C.) è ora in replica a Roma diretto da Andrea De Rosa, che ha chiesto a Francesco Piccolo una riscrittura in grado di “raccontare la nostra decadenza” alla luce di quella dell’impero romano, allora cantata da Petronio, “maestro di eleganza”. Scordarsi l’eleganza: lo spettacolo è un rutilante, pacchiano, sguaiato circo, che si regge sulle spalle – e sulla pelle – di bravi interpreti (Antonino Iuorio, Noemi Apuzzo, Alessandra Borgia, Francesca Cutolo, Michelangelo Dalisi, Flavio Francucci, Serena Mazzei, Lorenzo Parrotto, Anna Redi, Andrea Volpetti), nonché ottimi ballerini, guidati dalla coreografa Anna Redi.

Spiega il regista nelle note: “Francesco ha individuato nell’impoverimento linguistico il tratto della nostra epoca: siamo ormai intrappolati dentro un linguaggio che, quanto più viene ripetuto, tanto più si svuota di significato. I luoghi comuni ci rassicurano, ci anestetizzano, ma nello stesso tempo ci allontanano dai fatti, dalle questioni, dalle persone”. E dal teatro, si è tentati di aggiungere, perché un’ora e un quarto di ripetizioni, tic, elenchi del menù, versi di canzonette, battute oscene e altre stupidità è davvero snervante: oltretutto, amplifica la presunta banalità e decadenza del nostro tempo.

La riduzione di Piccolo si concentra soprattutto sulla famigerata cena di Trimalcione, chiuso in gabbia come i personaggi mostruosi di Francis Bacon e assiso su un cesso d’oro à la Cattelan: così l’ha voluto lo scenografo e costumista Simone Mannino, imbastendogli un contorno trash in stile anni Ottanta. Burino e scurrile, sovrappeso e sgraziato, Trimalcione fa il paio con l’incantevole moglie Fortunata, che proprio fortunata non è, costretta alla nudità forzata, profumata e depilata nonché al ruolo più infelice in commedia: quello della radical chic convinta, vegana, animalista, terzomondista, buonista… la parte, insomma, della povera scema.

La trama è evaporata coi fumi dell’alcol; i personaggi pure: sopravvive qualche caratterizzazione, ma il testo è frammentato e le battute distribuite disordinatamente tra gli interpreti. L’ossessività della drammaturgia è esasperata dalla musica martellante e incessante di G.u.p. Alcaro – con tanto di metronomo alla ribalta – e le scene si rincorrono grossolanamente in un flusso insensato, tra feste, pasti, sesso, sesso orale, risse, funerali… Leitmotiv sono le liste di piatti dai nomi e ingredienti astrusi, le strofe delle canzoni, i tormentoni salottieri e/o da bar, dai radicali liberi al valore d’uso, da er dibattito al magnamo e bevemo, alla parodia del teatro, per nulla autoironica. Questa satira di scostumatezza varia è, tra l’altro, romanocentrica, ma “di cosa stiamo parlando?”. Già. Nel pastiche caciarone tutto scolora in volgarità, in sessismo, in superficialità, in inutilità. Chi sono questi mostri che si esprimono per elenchi e luoghi comuni? Cosa vogliono dirci? Cosa vogliono da noi?

 

Roma, Teatro Argentina, fino a domenica; Napoli, Teatro San Ferdinando, dal 9 al 19 gennaio

Livia Drusilla, l’imperatrice pronta a prendersi Roma

Sono iniziate a Cinecittà le riprese di Domina, una nuova serie Sky Original con Kasia Smutniak protagonista prodotta da Fifty Fathoms e Sky Studios con la produzione esecutiva di Cattleya. I 10 episodi diretti da vari registi guidati dall’australiana Claire McCarthy racconteranno in chiave di dramma epico la straordinaria ascesa di Livia Drusilla, una ragazza ingenua che dopo aver visto sgretolarsi il suo mondo sulla scia dell’assassinio di Giulio Cesare diventò la terza moglie di Augusto e la madre di Tiberio e arrivò a essere l’imperatrice più potente di Roma, guidata da un profondo desiderio di vendicare suo padre e garantire il potere ai suoi figli. Nella viscerale saga familiare dominata da strategie, cospirazioni, seduzioni e delitti appariranno anche Liam Cunningham (Il Trono di spade) nella parte del padre della protagonista, Livio; Isabella Rossellini (Balbina), Claire Forlani (Ottavia), Matthew McNulty (il futuro imperatore Gaio) e Christine Bottomley (Scribonia).

Si sta per concludere a Sofia la lavorazione di The Land of Dreams, un insolito musical ambientato nella New York anni ’20, prima della Grande Depressione, in cui il trentenne Nicola Abbatangelo dirige Caterina Shulha, George Blagden, Kevin Guthrie, Paolo Calabresi, Stefano Fresi, Edoardo Pesce, Carla Signoris e Marina Rocco. Prodotto da Marco Belardi per Lotus Production/Leone Film Group con Rai Cinema e 3 Marys Entertainment, racconterà la favola d’amore che, in un’epoca di speranze e grandi cambiamenti, legherà Eva (Caterina Shulha), una giovane immigrata che lavora come lavapiatti ma sogna di diventare una cantante, e Armie (George Blagden), un abilissimo pianista dotato di una fervida fantasia. Scopriranno entrambi che vita e sogno potranno mescolarsi e diventare la ricetta della felicità.

Suleiman scopre che tutto il mondo è Palestina

Dieci anni dopo l’acclamato Il tempo che ci rimane, qualcosa è cambiato. Ispirandosi ai diari del padre Fuad e alle lettere della madre ai parenti in esilio, là inquadrava l’indifferenza giovanile, l’attivismo politico della maturità e la successiva osservazione senza parole, qui passa il confine e allarga il campo d’azione. Allo specchio c’è sempre lui, ma stavolta le apparenze ingannano, perché Elia Suleiman scappa dalla Palestina solo per accorgersi che la Palestina è ovunque.

Da Parigi a New York, qualcosa, qualcuno gli ricorda sempre la madrepatria, e viene il dubbio: e se la Palestina anzichè indicazione geografica, e non solo, tipica fosse una costante sociopolitica, un continuum antropologico, una condizione dello spirito? Se il silenzio è assenso, siamo a cavallo, perché il regista e sceneggiatore si ritaglia da attore il ruolo del testimone ammutolito dalle brutture del mondo: Jacques Tati vive e lotta con lui, ma lo slapstick che fu oggi trova, più che il linguaggio, l’afasia del corpo e la liofilizzazione delle gag. In Concorso all’ultimo Festival di Cannes, dove ha ottenuto la menzione della giuria, Il paradiso probabilmente (It Must Be Heaven) mette al minimo, con inquadrature fisse, e sovverte, con il protagonista che guarda sovente in camera, il dispositivo cinematografico per concentrarsi sul dispositivo retorico: la figura è la sineddoche, il tutto per la parte. Tutto il mondo è Palestina, tutto il mondo è a immagine e somiglianza della Nazareth in cui Suleiman è nato il 28 luglio del 1960. Che siano i poliziotti sui pattini o il Segway nella Ville Lumière oppure i newyorkesi armati fino ai denti, l’inversione è servita e debitamente coreografata: dalla Palestina microcosmo per il mondo al mondo microcosmo per la Palestina, e chissà che l’espediente artistico di Suleiman non sia il mero precipitato della realtà. Non è un film di pronta beva, Il paradiso probabilmente, ovvero lo si può trangugiare come se nulla fosse, ma è la meditazione che lo eleva a potenza, il retrogusto che ne rivela l’amarezza, la rabbia stilizzata, il contenimento mancato.

Già, in qualche sequenza l’esule Suleiman tradisce la frustrazione e abbandona l’aplomb, appesantendo la silhouette abitualmente snella del suo cinema: gli americani iper-armati non avrebbero sfigurato nelle comiche di Benny Hill, né i produttori francesi che lo snobbano o, peggio, gli cassano il progetto perché “poco palestinese” si smarcano dal didascalismo. Ma sono peccati veniali, conseguenza e non causa del troppo tempo passato in purgatorio: palestinese esule, cineasta apolide, Suleiman dinanzi al Paradiso non potrà che attendere, al più ironizzare. Lo fa, barattando la commedia degli orrori che lo stato dell’arte vorrebbe con la commedia degli errori che l’arte può concedersi: il Cinema, probabilmente. Dal 5 dicembre in sala, si sorride. A denti stretti.

 

Lontano lontano, con Di Gregorio la poesia è sempre una questione da “terza età”

Un viaggio senza navigatori. Ignorando dove, come e quando, semplicemente aspirando a una nuova vita. Possibilmente esentasse. Ma i tre protagonisti non sono certo cervelli in fuga o ambiziosi studenti, al contrario si tratta di pensionati precari romani, Attilio, Giorgetto e Il professore. Garbata, “malin-comica” e inconfondibile, arriva Lontano lontano la nuova commedia di Gianni Di Gregorio, da lui scritta, diretta e co-interpretata con Giorgio Colangeli e il compianto Ennio Fantastichini, alla sua ultima apparizione sul grande schermo. Se l’idea di una storia su un pensionato povero che vuole andarsene è stata suggerita a Di Gregorio dall’amico Matteo Garrone, il tono è tutto suo, così semplice eppure profondo, capace di rendere universale un angolo di Trastevere o la profonda periferia, ai loro occhi lontana e misteriosa quanto la Luna. Il film, presentato al Torino Film Festival e in uscita il 5 dicembre, si articola in una settimana in cui i tre simpatici “ragazzi” decidono di partire, organizzandosi alla bene meglio fra pratiche surreali e la messa in sicuro di quei due soldi “che sono la rovina del mondo”, sentenzia l’Attilio di Fantastichini, attore che Di Gregorio non conosceva personalmente finché il produttore Barbagallo non gliel’ha suggerito, “da allora è stata alchimia perfetta” chiosa l’ineffabile Gianni, ormai considerato “specialista del cinema sui vecchietti”. Un piccolo grande film di cuore, denso di sapienza antica (semplice o dotta non conta) e di buon vino.

Dal Ruanda con dolore

Nessuno le aveva descritto l’orrore. Lo scoprì a nove anni. “Ero tornata in Africa dal Belgio, dove ero stata bambina con mia madre in esilio politico. Sono nata in Congo, ma assieme ai miei genitori, due medici, ci stabilimmo in Ruanda”. E fu lì che la piccola Marie-Pierra scoprì l’atrocità del genocidio. “Per strada vedevo tanti ragazzini della mia età privi di braccia o gambe, e troppe guardie armate, che a volte li prendevano in consegna e li facevano sparire. Seppi cos’era accaduto in quel Paese, una guerra non fra stati confinanti ma un massacro all’interno della comunità, fratelli che si ammazzavano tra loro a milioni. Piansi e gridai per giorni e mesi, e continuai a farlo per lungo tempo. Non potevo sopportare quell’idea di morte”.

Così, per salvare la propria anima, Marie-Pierra si rifugiò nell’arte. “Scrivevo racconti su racconti, cantavo arie d’opera, dipingevo. Ma dove vivevo non c’erano neppure negozi che vendessero tele e pennelli, e procurarseli costava troppo. Internet? Con quelle connessioni disastrose ci mettevo un’ora a scaricare un brano. Chiesi alla mia famiglia di lasciarmi tornare in Europa. Alla fine cedettero, ma non capirono. Sono originari dei villaggi: misero a disposizione un alloggio per me e la mia sorellina a Namur, ancora in Belgio, e poi a Bruxelles. Così lasciai di nuovo l’Africa a 16 anni, ma a 19 mi ritrovai senza casa: mi avevano aggredita, ero sola, mi salvarono gli amici”. E il talento: oggi, che di anni ne ha appena 23, Marie-Pierra è diventata Lous and the Yakuza, la nuova stella dell’urban-roots rap internazionale. Un contagioso singolo in francese (Dilemme), che sta scalando le classifiche di mezzo mondo, un album (Gore) previsto per metà marzo (“non ci voglio ospiti: con il formidabile team che mi assiste vogliamo dimostrare di poter confidare su noi stessi”), un primo concerto italiano annunciato alla Santeria Toscana di Milano per il 2 aprile. Un volto da modella, il tatuaggio che ha sulla fronte lo ha disegnato lei. Simboleggia, dice, “il contatto tra terra e cielo e le braccia aperte in segno di accoglienza”. Ma sulla pelle Lous avverte la vibrazione subdola del razzismo: “Ogni giorno. Ai controlli degli aeroporti fermano solo me, e mai i bianchi. Mi chiedono il motivo dei miei viaggi. E per strada le donne stringono al braccio le borse, temendo che voglia scipparle. Ma ho fiducia che le cose, seppur lentamente, possano cambiare, che io non debba più veder nascere ovunque epigoni del Ku Klux Klan determinati a farci fuori considerandoci animali. Quando avrò dei figli spero crescano senza sentirsi pecore nere, e che siano fieri delle loro origini. Anche la musica può influenzare positivamente l’opinione pubblica, a patto che gli artisti black non si sentano costretti a piegarsi a compromessi umilianti per farsi accettare dal mercato del pop bianco”. Il vento dell’odio, sottolinea Lous, soffia forte anche dalle nostre parti. “Amo l’Italia, mi sento accolta. Ma bisognerebbe far capire a certi politici che lasciare i migranti a bordo delle navi è un modo bieco, disumano, per privarli della loro dignità. Se potessero, gli africani vivrebbero volentieri a casa propria, ma sono spinti via da guerre e carestie, e pagano un prezzo sovrumano per chi specula sulle loro terre, mirando a oro, diamanti, petrolio e risorse naturali. Se avrò successo”, confida Lous, “nei prossimi anni voglio costruire ospedali in Congo e Ruanda, dare una mano alla sanità pubblica e al sistema sociale, creare opportunità per i giovani, con standard d’eccellenza. E nel frattempo convincere le sorelle nere che potranno farcela, spingendo via le barriere che trovano. Perché, come canto in Dilemme, ‘la vita è un cane che deve essere tenuto al guinzaglio’.”

Nella sua, Lous ha già ringhiato mille volte di fronte agli avversari. Ma sorride quando ti cita gli studi in filosofia. “I miei idoli? Platone e Aristotele. Due che lavorando insieme, hanno aperto la mente all’umanità. Millenni fa”.