Finalmente il teatro italiano ha scoperto la ceretta brasiliana, quella della bellissima attrice esibita nuda in proscenio dall’inizio alla fine di un discutibile Satyricon. Il proto-romanzo di Petronio (I secolo d. C.) è ora in replica a Roma diretto da Andrea De Rosa, che ha chiesto a Francesco Piccolo una riscrittura in grado di “raccontare la nostra decadenza” alla luce di quella dell’impero romano, allora cantata da Petronio, “maestro di eleganza”. Scordarsi l’eleganza: lo spettacolo è un rutilante, pacchiano, sguaiato circo, che si regge sulle spalle – e sulla pelle – di bravi interpreti (Antonino Iuorio, Noemi Apuzzo, Alessandra Borgia, Francesca Cutolo, Michelangelo Dalisi, Flavio Francucci, Serena Mazzei, Lorenzo Parrotto, Anna Redi, Andrea Volpetti), nonché ottimi ballerini, guidati dalla coreografa Anna Redi.
Spiega il regista nelle note: “Francesco ha individuato nell’impoverimento linguistico il tratto della nostra epoca: siamo ormai intrappolati dentro un linguaggio che, quanto più viene ripetuto, tanto più si svuota di significato. I luoghi comuni ci rassicurano, ci anestetizzano, ma nello stesso tempo ci allontanano dai fatti, dalle questioni, dalle persone”. E dal teatro, si è tentati di aggiungere, perché un’ora e un quarto di ripetizioni, tic, elenchi del menù, versi di canzonette, battute oscene e altre stupidità è davvero snervante: oltretutto, amplifica la presunta banalità e decadenza del nostro tempo.
La riduzione di Piccolo si concentra soprattutto sulla famigerata cena di Trimalcione, chiuso in gabbia come i personaggi mostruosi di Francis Bacon e assiso su un cesso d’oro à la Cattelan: così l’ha voluto lo scenografo e costumista Simone Mannino, imbastendogli un contorno trash in stile anni Ottanta. Burino e scurrile, sovrappeso e sgraziato, Trimalcione fa il paio con l’incantevole moglie Fortunata, che proprio fortunata non è, costretta alla nudità forzata, profumata e depilata nonché al ruolo più infelice in commedia: quello della radical chic convinta, vegana, animalista, terzomondista, buonista… la parte, insomma, della povera scema.
La trama è evaporata coi fumi dell’alcol; i personaggi pure: sopravvive qualche caratterizzazione, ma il testo è frammentato e le battute distribuite disordinatamente tra gli interpreti. L’ossessività della drammaturgia è esasperata dalla musica martellante e incessante di G.u.p. Alcaro – con tanto di metronomo alla ribalta – e le scene si rincorrono grossolanamente in un flusso insensato, tra feste, pasti, sesso, sesso orale, risse, funerali… Leitmotiv sono le liste di piatti dai nomi e ingredienti astrusi, le strofe delle canzoni, i tormentoni salottieri e/o da bar, dai radicali liberi al valore d’uso, da er dibattito al magnamo e bevemo, alla parodia del teatro, per nulla autoironica. Questa satira di scostumatezza varia è, tra l’altro, romanocentrica, ma “di cosa stiamo parlando?”. Già. Nel pastiche caciarone tutto scolora in volgarità, in sessismo, in superficialità, in inutilità. Chi sono questi mostri che si esprimono per elenchi e luoghi comuni? Cosa vogliono dirci? Cosa vogliono da noi?
Roma, Teatro Argentina, fino a domenica; Napoli, Teatro San Ferdinando, dal 9 al 19 gennaio