Racket di finte adozioni e bimbi comprati

Il servizio di sicurezza di Yerevan, alcuni malviventi locali, una trentina di famiglie italiane: tutti nella stessa trama, insieme a molti bambini. Loro erano vittime inermi: appena nati o ancora in culla nei reparti maternità, dove le infermiere non esitavano a stringere patti e mani, ottenere tangenti in cambio di favori per cedere bambini ai delinquenti in cambio di soldi. Lo stupore e l’indignazione dei cittadini armeni monta ma sono pochi i dettagli forniti dagli inquirenti.

“Due cittadini ameni hanno usato i loro contatti in ospedali e orfanotrofi per organizzare l’adozione di più di 30 bambini armeni destinati a cittadini italiani violando profondamente la legge armena” ha reso noto l’Nss, Servizio Sicurezza nazionale del Paese. Con un documento ufficiale che ne certificava l’abbandono oppure con finte diagnosi di malattie, dopo la nascita, gli infanti venivano ceduti in maniera illegale alle famiglie richiedenti. I criminali avrebbero anche interferito nei processi d’adozione delle famiglie armene per favorire quelle straniere. È l’ultima storia che scuote la società civile, una tela intricata percorsa dalle autorità, che adesso occupa i titoli della stampa del Paese intenta a seguire la pista italiana.

Il caso riguarda “numerosi casi” di bambini adottati in maniera illecita dal 2016 al 2018: in totale si tratta di 54 minori che oggi si troverebbero in Europa e negli Stati Uniti. Secondo il servizio di sicurezza armeno, di loro 30 sono stati adottati da famiglie italiane. La scia di questa indagine i giornalisti armeni l’avevano cominciata a seguire mesi fa, finendo nei vicoli ciechi delle informazioni riservate. Qualche reporter ha suggerito l’ipotesi del traffico di organi, una supposizione subito messa a tacere dal segretario del servizio di sicurezza Armen Grigorian: “Non c’è alcuna prova a riguardo, ma vi terremo al corrente”.

Nelle poverissime città dell’ex blocco sovietico, dove le richieste di adozioni dei paesi occidentali hanno raggiunto i loro picchi sin dal crollo dell’Unione Sovietica, non è il primo scandalo che riguarda orfanotrofi, corruzione, abusi e politici. Una dopo l’altra, davanti alle telecamere, tutte le alte cariche del Governo si sono espresse promettendo un pugno durissimo: “Qualsiasi istituzione o clinica che continua ad essere coinvolta in questa rete illegale sarà punita con il pieno uso della legge” ha detto il ministro della salute del Paese, Arsen Torosian. Parte della stampa nazionale contraddice l’altra metà che riporta di donne in stato di severa povertà messe a tacere nel caso avessero reso pubblica la loro gravidanza, o di altre sottoposte a pressione psicologica per cedere il bambino appena nato. Alcune sarebbero state avvicinate in cliniche per l’aborto: “Almeno una dozzina”, secondo le autorità, sarebbero state convinte a continuare la gravidanza in cambio di soldi e poi costrette a firmare documenti per l’invio dei nascituri agli orfanotrofi del Paese, più volte denunciati dai report di Human Right Watch. A loro volta i dirigenti dei centri avrebbero favorito le adozioni internazionali.

Omicidio Daphne, una vita venduta per 150 mila euro

“Un giorno dell’estate del 2017, Vince Muscat lascia il suo amico Alfred Degiorgio al BusyBee, il caffè sul porto vicino alla Valletta famoso per i suoi dolci alla ricotta. Degiorgio non resta a lungo. Pochi minuti dopo torna in auto e informa Muscat che hanno un contratto: uccidere la giornalista più importante dell’isola, Daphne Caruana Galizia”.

Stephen Gray è il reporter di Reuters che ha scavato nell’omicidio di Daphne per mesi. È stato lui a scoprire che Yorgen Fenech era il vero proprietario di 17 Black, la società registrata a Dubai da cui sarebbero partiti versamenti per le società segrete panamensi dell’ex capo staff del premier, i Keith Schembri e dell’ex ministro Konrad Mizzi. Grey racconta come tutto è iniziato: rivelazioni fatte fin dall’aprile 2018, nella speranza di ottenere la grazia, da Vince Muscat, che insieme ai fratelli Alfred e George Degiorgio è in carcere come presunto esecutore dell’omicidio dal dicembre 2017.

Ora sappiamo anche quanto valeva la vita di Daphne. 150 mila euro pagati, secondo fonti investigative sentite dal Times of Malta, da Yorgen Fenech all’intermediario Melvin Thelma, perché li distribuisse ai tre esecutori materiali. Soldi di cui si parla nelle intercettazioni fra Fenech e Thelma e negli interrogatori a cui sono stati sottoposti dalla polizia nelle ultime settimane.

In un primo tempo Daphne doveva essere eliminata da Alfred Degiorgio con un fucile di precisione fatto arrivare dall’Italia. Poi il piano cambia, diventa una bomba sistemata da Alfred, nelle prime ore del 16 ottobre 2017, sotto il sedile di guida dell’auto che il figlio Matthew aveva parcheggiato all’esterno del complesso dove vive la famiglia. Ordigno poi attivato a distanza. In ogni caso, la conferma che il mandante non ha mai pensato di farlo passare per un incidente: che l’intento, quindi, era eliminarla in modo così clamoroso da intimidire chiunque – giornalista, fonte, pubblico ufficiale – avesse intenzione, tolta lei di mezzo, di continuare a denunciare il malaffare ai massimi livelli della politica maltese. E proprio da quei vertici sarebbe arrivato l’ordine di uccidere la giornalista scomoda. Lo sostiene Fenech, che accusa Schembri, ex capo di gabinetto del primo ministro arrestato martedì. Ma c’è di più: secondo fonti di stampa locali, Fenech ha chiesto al capo delle polizia di ricusare il capo della omicidi Keith Arnaud. Sostiene che abbia tenuto sempre informato Schembri degli sviluppi dell’inchiesta, che abbia intimidito Fenech durante gli interrogatori, e che a gennaio scorso la moglie del poliziotto abbia trovato lavoro grazie all’interessamento di Schembri.

Tutto da dimostrare, e gli investigatori sembrano andarci piano: in cambio delle sue rivelazioni Fenech ha chiesto la grazia, e le sue sono accuse gravissime, che investono quello che per anni è stato il più stretto collaboratore del primo ministro Joseph Muscat che a sua volta, sapeva da 15 mesi che Fenech era sospettato: ha firmato lui l’autorizzazione alle intercettazioni, di prassi concessa dal ministro degli Interni. Era quindi costantemente informato di ogni sviluppo delle indagini: anche quelli riguardanti Schembri. Ed è sempre a Muscat che spetta la decisione di concedere a Fenech la grazia: un conflitto di interessi macroscopico, in una sovrapposizione di ruoli che testimonia l’emergenza dello stato di diritto a Malta. Tanto che il Parlamento europeo ha disposto una missione di una sua delegazione che a la Valletta, già la prossima settimana, dovrebbe incontrare il primo ministro, il leader dell’opposizione, il capo della polizia, il procuratore generale e la famiglia di Daphne. Un dibattito è previsto al parlamento europeo a dicembre. È inconcepibile che l’eventuale incriminazione per omicidio del più stretto collaboratore del primo ministro di uno stato membro dell’Unione europea non porti alla caduta di quel governo. Il leader dell’opposizione Adrian Delia è tornato a chiedere le dimissioni immediate di Joseph Muscat, dichiarando che: “Ogni minuto in più in cui resta in carica aumenta il rischio che giustizia non venga fatta”.

Il Congresso Usa è pro dissidenti, la Cina minaccia “ritorsioni”

Gli Stati Uniti fanno un passo avanti con l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act per sostenere le proteste che da maggio vedono attivi i gruppi pro democrazia e la Cina si arrabbia. Pechino avvisa: è pronta a prendere “decise contromisure” contro Washington dopo che il presidente Donald Trump ha firmato la legge a sostegno dei manifestanti. Oltre alla verifica annuale sullo stato dell’autonomia e delle libertà di Hong Kong, necessaria per mantenere lo status di partner commerciale privilegiato, c’è anche il divieto di vendita di lacrimogeni, proiettili di gomma e di tutto quanto possa essere utile alle forze di sicurezza per stroncare le proteste. Previste anche sanzioni verso esponenti di governo. In realtà è stato il Congresso a forzare la mano al presidente: in una dichiarazione, Trump ha parlato di “rispetto” per il presidente cinese Xi Jinping e ha affermato di sperare che “i leader e i rappresentanti di Cina e Hong Kong saranno in grado di risolvere amichevolmente le loro differenze”. Dichiarazione che non ha attutito la reazione di Pechino. La Cina ha convocato, per la seconda volta, l’ambasciatore Usa Terry Branstad chiedendo la fine delle interferenze di Washington. Il vice ministro degli Esteri Le Yucheng ha detto che le azioni americane “possono danneggiare ulteriormente le relazioni bilaterali”.

Sul fronte dello scontro fra dissidenti e polizia, ieri gli agenti sono entrati al Policlinico dove per giorni c’è stata una battaglia fra i giovani asserragliati e le forze di sicurezza. Ormai tutti erano andati via, tranne una ragazza malata. A Roma, in Senato, Joshua Wong, uno dei leader delle proteste è intervenuto in video. Wong ha ribadito di essere “rimasto deluso dall’indifferenza del ministro degli Esteri Luigi Di Maio sulla situazione dei diritti umani a Hong Kong. La mia richiesta è che l’Italia rimanga fedele alle promesse fatte all’Unione europea: non incoraggiare mai le violazioni dei diritti umani”.

Il “vizietto” di Trump: vincere le elezioni con l’aiuto straniero

Ci mancava un pizzico di sesso, nell’indagine per l’impeachment di Donald Trump. Ma s’era intuito che chi poteva mettercelo, oltre al presidente, era il rappresentante Usa presso l’Ue, anomalo come ambasciatore, esplicito nel linguaggio (“Io e Trump parliamo così, con tante parole di quattro lettere”, come ‘fuck’). Ed ecco saltar fuori tre donne che accusano Gordon Sondland, di molestie sessuali. Divenuto ambasciatore per i soldi dati alla campagna di Trump, Sondland, 66 anni, è uno dei testi chiave dell’inchiesta sul ‘quid pro quo’ che può costare al magnate la Casa Bianca: un baratto tra sicurezza nazionale – gli aiuti all’Ucraina stanziati dal Congresso – e calcoli politici personali: far inquisire a Kiev Joe Biden e suo figlio Hunter, con il sospetto di corruzione. I comportamenti disinvolti di Sondland non sono rilevanti nell’indagine sull’impeachment, che ha una settimana di pausa, in coincidenza con la Festa del Ringraziamento (che Trump ha passato a sorpresa coi soldati in Afghanistan rilanciando anche i colloqui di pace con i Taliban, ndr), dopo due settimane d’audizioni pubbliche: sono sfilati davanti alla Commissione Intelligence della Camera una dozzina di testi, alti funzionari del Consiglio per la Sicurezza nazionale come Fiona Hill, stretti collaboratori del vice-presidente Mike Pence come Jennifer Williams, diplomatici di carriera come l’ambasciatrice Usa a Kiev rimossa, Marie Yovanovitch, militari come il colonnello Alexander Vindman.

Non è stata invece sentita la ‘talpa’, l’agente della Cia che, denunciando la telefonata del 25 luglio tra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha aperto il caso.

È emersa una ‘diplomazia parallela’ verso l’Ucraina messa su dal presidente e affidata al suo legale Rudy Giuliani, l’ex sindaco della New York dell’11 Settembre; ed è parso chiaro il ‘quid pro quo’, di cui, secondo Sondland, tutti erano al corrente, anche Pence e il segretario di Stato Mike Pompeo.

Le audizioni sono concluse, almeno per ora, ma testimoni come l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale John Bolton o l’ex legale della Casa Bianca Donald McGahn, potranno ancora essere sentiti, se costretti a deporre dai giudici: la Casa Bianca si oppone. La prossima settimana, il presidente della Commissione, Adam Schiff, metterà a punto un suo rapporto, sintetizzando il materiale raccolto ma ha già fatto dichiarazioni tipo: “Abbiamo scoperto che per mesi il presidente Trump ha cercato, di nuovo, di ottenere influenze straniere nella nostre elezioni per ottenere benefici personali e politici ai danni del nostro interesse nazionale”. Ed ha già paragonato le attività di ostruzione alla giustizia dello staff di Trump a quelle che portarono all’accusa di impeachment di Nixon. La Commissione Giustizia, cui spetta decidere se raccomandare il rinvio a giudizio del presidente, si riunirà da mercoledì 4 dicembre. Il presidente Jerrold Nadler ha chiesto a The Donald se lui o i suoi legali intendono partecipare. La Casa Bianca ha tempo fino a domenica per rispondere. I democratici vogliono un voto della Camera in plenaria prima di Natale, così che da gennaio possa svolgersi, in Senato, il processo vero e proprio. Perché il Senato decida l’impeachment, ci vogliono i due terzi dei voti: 67 senatori su 100. I repubblicani sono 53, i democratici 45 più 2 indipendenti: bisogna quindi che venti repubblicani ‘cambino campo’ e votino con i democratici. È improbabile.

Ogni giorno emergono nuovi elementi: s’è scoperto che Trump sapeva già del rapporto della ‘talpa’ quando sbloccò gli aiuti militari all’Ucraina (391 milioni di dollari); che due funzionari della Casa Bianca si dimisero perché in disaccordo sul ‘quid pro quo’; che Giuliani cercò di ottenere un incarico per sé – con parcella da centinaia di migliaia di dollari – mentre premeva sul procuratore di Kiev, Yuri Lutsenko perché indagasse sui Biden padre e figlio. Trump continua a ostentare sicurezza. Giorni fa, s’è consultato con Mark Penn, l’uomo immagine di Bill Clinton all’epoca dell’affare Lewinski. Penn gli ha consigliato di girare il Paese durante il processo, come fece Clinton vent’anni fa.

Google & C. eludono il fisco? Vanno solo ringraziate

Tutti dovremmo ringraziare i giganti del web, di cui ieri abbiamo letto che riescono a nascondere 50 miliardi di profitti l’anno nei paradisi fiscali e, nella piccola Italia, a pagare solo 60 milioni di tasse (e si parla solo dei profitti, perché c’è pure chi riesce a eludere miliardi di Iva intermediando servizi fisici). Grazie a questo enorme spostamento di ricchezza, poi, Google, Microsoft, etc. sono strapiene di liquidità, che investono con larghezza in prodotti finanziari tipo titoli di Stato o azioni. Risultato: ormai pesano quanto banche e fondi d’investimento e, quindi, quando si dice che “I Mercati” vogliono questo o quello si può pensare pure al filantropo Bill Gates. Ora, le multinazionali del web fanno quello che hanno sempre fatto le multinazionali – pagare meno tasse possibile grazie a legislazioni di favore – ma portano questa pratica all’eccesso: la manifattura deve avere sedi fisiche, reti di vendita, dipendenti e dunque rapporti coi territori; le “websoft” sono ovunque e in nessun luogo. E bisogna ringraziarle, perché il paradosso di una ricchezza che si ritiene apolide (e come tale soggetta al fisco di nessun Paese, se non quello che gli fa il prezzo migliore) svela la contraddizione di fondo di un mondo coi soldi senza passaporto: senza controlli sui capitali, non ci sono politica o istituzioni funzionanti, non c’è democrazia costituzionale, non c’è “fondata sul lavoro”, né “rimuove gli ostacoli” e le altre belle cose di cui si riempie la bocca anche chi non capisce che in guerra, anche quella per i diritti di cittadinanza, ci si va armati.

Lotteria medico della mutua

Vicini e conoscenti avevano avvertito: “Guarda che se vuoi andare dal medico devi andare tre ore prima a prendere i numeretti fuori, perché visita solo 15 pazienti a turno”.

Il medico che copre questa zona di Roma ha circa 3.000 assistiti. Riceve il mattino o il pomeriggio per un’ora e mezza. Formalmente, è aperto tutti i giorni della settimana, ma l’orario è a scacchiera.

I vicini avevano fatto terrorismo psicologico: “Ti conviene prenotare una visita privata”.

Credendo nel pubblico, decisa a smentire il nichilismo neo-liberista del già sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giorgetti (“Nei prossimi 5 anni mancheranno 45 mila medici di base, ma chi va più dal medico di base?”), la cronista-ministro ombra della Sanità si reca dal medico condotto.

Purtroppo, quella mattina il medico non c’è; c’è il pomeriggio del giorno dopo. Sono solo 36 ore di attesa.

L’indomani si va davanti allo studio del medico con due di anticipo, decisi a sfatare la vox populi. In fila ci sono già parecchie persone. Un signore sui 75 anni si è incaricato di fabbricare dei numeretti artigianali strappando dei quadrati di carta da un bloc-notes che si è opportunamente portato da casa. A noi tocca il numero 11.

A un’ora dall’apertura dello studio si sono già assegnati i 15 pseudo-numeretti regolamentari, ma alcuni pazienti, che chiameremo esodati, continuano a restare in fila. Tra chi resta, c’è chi ha la febbre e quindi ha la priorità (“Ma qui abbiamo tutti la febbre”, sostiene una signora), e chi deve farsi fare “un certificato”, e quindi passerà avanti a tutti, extra-fila.

Arriva la segretaria, che apre lo studio: c’è comunque una piccola ressa per accaparrarsi il numeretto ufficiale, scritto con l’Uniposca su cerchi di legno compensato; la fila ufficiosa non vale più; si scoprono altri criteri di priorità. Il numero 15, paventando di perdere il posto a causa di slittamenti imperscrutabili, dice di sentirsi la febbre.

La segretaria appronta una pre-diagnosi veloce degli assistiti: chi aveva la febbre già prima, passa avanti senza numero; chi deve andare a lavorare prende i primi numeri (improvvisamente, il tasso di disoccupazione nazionale si riduce drasticamente; si scopre che giovanotti di 78-79 anni sono attesi al lavoro dall’altra parte di Roma); chi non ha urgenza è tecnicamente un codice verde e quindi slitta all’ultimo, ma solo se era in possesso di un pre-numero entro il 15, perché – la cosa è stata sperimentata – il medico non ce la fa a visitare più di 15 pazienti con un’ora e mezza. Qualcuno – io – chiede come mai il medico debba andarsene per forza dopo un’ora e mezza, se per caso è atteso in ospedale per una tracheotomia. Viene guardato malissimo in quanto distruttore di un delicatissimo equilibrio sociosanitario che si sta cercando di creare tra mille impedimenti, tra i quali gli orari arbitrari del medico non rientrano. La segretaria si fa garante dell’onore del suo superiore: “A volte rimane anche due ore”.

Il medico è arrivato, ha indossato il camice e intima al primo di entrare. Si fa avanti il primo che solleva la potenza burocratica del certificato. Si apprende che apporre una firma su un certificato (di sana e robusta costituzione? Di permesso per il lavoro? Di infermità temporanea?) può richiedere fino a 12 minuti. Secondo un rapido calcolo, con questo ritmo negli sperabili 120 minuti di visita passeranno da quella porta 10 cristiani. Non uno di più. Ci si chiede che fine faranno gli altri.

I presunti certificati sono tre. Per fortuna chi ha la febbre viene liquidato alla svelta con un’auscultazione delle spalle: Tachipirina e riposo. Il paziente numero 3 è un caso difficile: 21 minuti. Ci si interroga sulle diagnosi che sia possibile fare avendo a disposizione solo un ricettario, uno stetoscopio e una penna. La paziente 5 ci mette 45 secondi solo per alzarsi e raggiungere la porta del medico. Andata e ritorno, sono 1 minuto e mezzo buttati. Ci si scopre a fare pensieri poco empatici, da giungla. Tra chi aspetta, c’è chi tossisce perché ha la bronchite e chi tossisce polemicamente (e forse ha anche bronchiti, tracheiti, faringiti, otiti): ciò mette in pericolo la salute di tutti e si tradurrà in un costo ulteriore che graverà sul Sistema Sanitario Nazionale. Nessuno è disposto ad andarsene. Verso le 17:45, siamo tutti gravemente malati. Proliferano storie/leggende metropolitane di persone che dopo aver aspettato quattro ore, di cui tre fuori al freddo e sotto la pioggia battente, sono state mandate al pronto soccorso, dove sono rimaste quattro giorni su una barella prima di esser visitate.

Alle 18:10 il medico esce e chiede quanti pazienti rimangano. Si accorge che non ce la farà mai. Confabula con la segretaria la quale viene lasciata sola a comunicare agli utenti che i casi non urgenti sono invitati a tornare l’indomani mattina. Nessuno si muove. “Siamo tutti casi urgenti”, dice la numero 14, che viene quasi applaudita.

Alle 18:29 una nuvola di panico e nichilismo aleggia nella sala d’aspetto. Il tunnel carpale discute col reflusso gastroesofageo su quale dei due casi sia più urgente e quale invece possa andarsene a casa. Allo scadere dei 90 minuti regolamentari, il medico si riaffaccia e chiama eroicamente il prossimo.

È il nostro turno. Al cospetto del medico, si espone il problema. Lui ascolta, ma sa che non è grave, altrimenti il paziente sarebbe andato in ospedale. Ciò gli dà agio di prescrivere un farmaco da banco e fare raccomandazioni di massima, di quelle che si fanno ai sani: bere molto, idratarsi, ecc. La paziente, delusa, anche per ammortizzare l’attesa tira fuori una vecchia storia di ernia iatale che si risveglia al cambio di stagione. Il medico riflette, prende la penna e dice: “Con calma, si potrebbe pensare a una gastroscopia”. Entrambi sanno che quell’esame, che grazie a Renzi e Lorenzin è considerato inutile, nel pubblico a Roma si potrà agevolmente prenotare per il marzo 2023. Quando si esce, ci si sorprende a indossare la faccia incurante dei salvati; i sommersi siedono come anime in pena, ormai nell’ottica di tornare il giorno dopo, gli occhi pieni di paura alla prospettiva di quattro giorni di attesa su una barella del pronto soccorso.

Il sogno che sia tutto Open e il “sangue e merda” di Formica

Sarà pur vero che la politica, come insegnava il socialista Rino Formica, è sangue e merda. Ma anche se l’esperienza ci spinge a condividere l’analisi, questa rubrica continua sognare. Ieri pomeriggio ad esempio ci siamo appisolati immaginando che la renzianissima ministra Teresa Bellanova ricordasse all’improvviso la sua splendida storia di bracciante agricola, diventata a soli quindici anni sindacalista in lotta contro il caporalato.

Nel nostro sogno abbiamo così visto Teresa che durante una riunione di Italia Viva si alza e dice: “Caro Matteo, ti credo. Tutto nella tua fondazione Open è stato fatto rispettando la legge. Ma noi siamo qui perché vogliamo cambiare questo Paese. Vogliamo che i cittadini tornino ad avere fiducia nella politica. E soprattutto in tutti noi che li rappresentiamo facendoci eleggere in parlamento. Per questo voglio capire perché tu ti sia fatto prestare 700mila euro, poi restituiti, per comprarti una casa dalla famiglia di un imprenditore che il nostro governo aveva nominato come membro del consiglio di amministrazione di Cassa depositi e prestiti immobiliare. Non hai pensato, caro Matteo, che molti elettori, certamente sbagliando, avrebbero cominciato a nutrire i sospetti peggiori, se la cosa fosse diventata pubblica? Anche perché quell’imprenditore, senza che nessuno ne sapesse nulla, aveva pure regalato altri 300mila euro alla fondazione. Non potevi caro Matteo, aspettare qualche mese, e farti fare il mutuo direttamente in banca o comprare una casa diversa? O magari evitare, prima, di nominarlo in Cdp Immobiliare? Caro Matteo, te l’ho già detto, sono certa che tutto sia avvenuto in maniera corretta. Ma ammetterai anche tu che molti cittadini siano rimasti sorpresi nello scoprire che Open, tra il febbraio del 2017 e il giugno del 2018, ha ricevuto 800mila euro di donazioni da società di Gianfranco Librandi, passato da Forza Italia e Scelta Civica, e poi candidato nel 2018 con noi nel Pd? Vedi, caro Matteo, anche se certamente tutto è lecito, qui si parla di troppi soldi. I braccianti agricoli che ho per tanti anni rappresentato davanti a queste cifre non capiscono. E pensano, sbagliando te lo ripeto, che la politica sia solo una cosa sporca. Fatta di interessi, di soldi, di scambi di favori. Caro Matteo, si lo so: per le iniziative politiche, per organizzare convegni e incontri, il denaro serve. E visto che tutti assieme in parlamento abbiamo abolito il finanziamento pubblico ai partiti, sono i privati che ci debbono sostenere con le loro donazioni. Solo che, caro Matteo, i privati non sono tutti uguali. Per me oggi è difficile spiegare ai miei elettori che Open ha pure ricevuto 100mila euro da Vittorio Farina, un ex socio di Luigi Bisignani, uno degli uomini un tempo più vicini a Silvio Berlusconi e come lui iscritto alla Loggia di Licio Gelli. Perché per tutti Open era la fondazione della Leopolda. Era la fondazione che stava dietro al nostro modello di Italia da cambiare e rottamare”. A quel punto parte dei parlamentari, dei sindaci, e dei consiglieri regionali, presenti alla riunione di Italia Viva, si alza in piedi e applaude l’intervento di Teresa Bellanova. Renzi allora li guarda. Sorride tirato. E abbassando gli occhi dice: “Hai ragione Teresa, mi scuso per avervi messo in imbarazzo con scelte poco meditate”.

Ma è solo un sogno. Noi ci svegliamo proprio mentre le agenzie di stampa battono la notizia di richieste di risarcimento milionarie presentate da Renzi ai giornali (compreso il nostro). Ancora una volta, purtroppo, aveva ragione Formica.

Kant e Hegel non sono innocenti

In una lettera al Fatto il dottor Angelo Cannata mi imputa, con toni assolutamente cordiali, di aver arruolato Hegel fra gli illuministi e di averlo quindi accomunato a Kant. Di seguito la mia risposta.

Innanzitutto bisogna intendersi su che significato si dà all’Illuminismo. L’Illuminismo idolatra la Dea Ragione ritenendola l’unico strumento per comprendere la realtà, facendo così piazza pulita non solo della religione ma anche dell’intuizione. Io ho sempre interpretato l’Illuminismo, che nasce da una serie di grandi cambiamenti che lo precedono, la rivoluzione scientifica e quella industriale, come un progressismo. E nel progressismo, inteso in questo senso, stanno sia Kant che Hegel.

Qual è dunque la differenza fra i due? È che nell’Illuminismo di Kant (Aufklarung), una ideologia in ogni caso fortemente dogmatica, rimane comunque uno spazio per la dialettica, in Hegel la ragione diventa un sistema non confutabile. Se “tutto ciò che è reale è razionale” il discorso potrebbe chiudersi qui. Il fatto è un fatto, nella sua cruda oggettività, nella sua nudità, e non c’è che prenderne atto. Se tutto ciò che avviene doveva necessariamente avvenire, perché così vuole la razionalità della Storia, non si capisce quale spazio rimanga al pensare e all’agire. Basta aspettare che la razionalità della Storia si compia e raggiunga il suo fine ultimo. Sia Kant che Hegel abitano quindi nella grande corrente dello storicismo che ritiene che la Storia umana abbia un fine e quindi anche una fine. Un epigono è Fukuyama che dopo la caduta dell’Impero sovietico individuò, come fatto quasi giunto al suo compimento, la fine della Storia nella realizzazione della “democrazia liberale”, della “diffusione di una cultura generale del consumo”, del “capitalismo su base tecnologica” (La fine della Storia, 1992). Aveva appena finito di scrivere che ci fu l’attacco alle Torri Gemelle. La Storia non solo non era affatto finita, forse era appena cominciata.

Ma torniamo a Kant e Hegel. I due sono accomunati quanto meno dallo storicismo. Hegel inoltre interpreta malissimo, anzi al contrario, la dialettica eraclitea. Eraclito sosteneva che l’energia che tiene in piedi il mondo è la permanente dialettica degli opposti (“ognuno di questi opposti mutandosi è l’altro e a sua volta l’altro mutandosi è l’uno”). Hegel pone invece una fine alla filiera tesi-antitesi-sintesi, lo Spirito s’incarna nello Stato, anzi nello Stato di tutti gli Stati, nel Superstato che, guarda caso, è lo Stato prussiano.

So di dire una bestialità filosofica che non mi verrà perdonata ma, fin dai tempi in cui lo studiavo al liceo, ho sempre avuto l’impressione che Hegel fosse un perfetto imbecille o, quantomeno, un pazzo. Si leggano, se ne ha lo stomaco, le Lezioni di filosofia della storia e i deliri con cui Hegel, in spregio alla logica più elementare, manipolando a suo piacere i materiali che usa, descrive fin nei dettagli, completamente sballati non solo dal punto di vista storico, che è sempre opinabile, ma persino da quello geografico, che lo è un po’ meno, senza nemmeno prendersi la briga di compulsare un atlante, come lo Spirito, dopo essere passato per il mondo orientale e quello greco-romano, si sia finalmente incarnato, appunto, nella Germania del suo tempo.

Che questo professore tedesco, che mette disinvoltamente insieme, shakerandoli, Amore, Spirito, Religione e Ragione, abbia influenzato, insieme a Kant che a sua volta non è del tutto innocente, fra vecchi-hegeliani, giovani-hegeliani, neo-hegeliani, hegeliani di destra e hegeliani di sinistra, una parte cospicua del pensiero successivo, dice in quale stato confusionale sia precipitata la Modernità. Ed eccoci qua a dibattere sul trapassato, mentre i grandi problemi del presente sono assenti dal dibattito politico ma vengono discussi in una strettissima cerchia dagli ingegneri della Silicon Valley alcuni dei quali fanno resistenza all’intelligenza artificiale (vedi Tim Berners-Lee, il padre di Internet) mentre altri sostengono, come cosa positiva, che l’homo sapiens sarà superato da questa intelligenza dando vita ad un uomo che non è più un uomo, ad un Alteruomo, a un Superuomo, che non si integra più nell’uomo ma sta, come un nuovo Dio, a sé. Ecco a che cosa si è ridotto il profondo e comunque sempre umanistico insegnamento di Nietzsche: “l’uomo è un arco teso fra la scimmia e il Superuomo”.

Tutti i dilemmi del Black Friday

L’algoritmo di Amazon, nella sua infinita saggezza, ha deciso cosa sottopormi per il Black Friday: una impastatrice globale Kenwood, 6,7 litri, plastica e acciaio. Non ho idea di cosa sia, ma devo ammettere che sembra un buon affare: soltanto 439,99 euro invece che 950, un risparmio del 54 per cento. Un timer scandisce l’attesa: l’acquisto sarà possibile, alla mezzanotte del Black Friday, la fine del giorno del ringraziamento negli Stati Uniti. Quando gli americani, satolli del tacchino ripieno, si lanciano nel lungo mese dello shopping natalizio.

Il timer scorre. Restano poche ore per decidere se il Black Friday è una trappola per gonzi, un’esecrabile orgia di consumismo oppure una festa laica da celebrare in nome della convenienza. Bisogna decidere in fretta, l’impastatrice globale Kenwood è sicuramente molto ambita, a giudicare dalle 148 recensioni di clienti soddisfatti.

Nel 2018 gli americani hanno speso 6,2 miliardi nel Black Friday, tra acquisti on line e nei negozi, dopo lunghe file. E poi il Cyber Monday, il lunedì dopo il weekend consumistico, altri 7,9 miliardi. É tanto? Difficile dirlo.

Il Black Friday potrebbe anche essere una enorme inefficienza del sistema: i consumatori rimandano o anticipano gli acquisti per concentrarli nel giorno in cui – in teoria – i prezzi sono più bassi; i venditori si trovano alle prese con un picco di domanda che riduce un po’ lo stress sui magazzini nella stagione natalizia, ma implica uno sforzo logistico che soltanto i grandi gruppi riescono a sostenere. E chissà se i costi sono giustificati. Ovviamente sì, risponde l’ingenuo che crede nel mercato perfetto, altrimenti i venditori non si sottoporrebbero al rito del Black Friday, e neppure i consumatori. Ma ci sono spiegazioni meno banali.

I clienti sono vittima di varie trappole: esperimenti di economia comportamentale hanno dimostrato, per esempio, che la presenza di un conto alla rovescia stimola l’acquisto, nessuno gradisce perdere un’opportunità, anche se non ha bisogno del prodotto scontato. E siamo sicuri che si risparmi davvero? Scovare on line quando costava quella seducente impastatrice globale prima degli sconti da Black Friday è quasi impossibile, bisogna credere ad Amazon.

Dal lato dei venditori il Black Friday, così come la stagione dei saldi, rivela un comportamento collusivo, non certo una propensione al mercato selvaggio: è molto meglio concentrare tutti gli sconti in un giorno solo (o rimandarli a dopo le feste) invece che rubarsi clienti l’un l’altro durante la stagione più redditizia dell’anno. A rimetterci saranno i consumatori, ma poco importa: nessuno vuole presentarsi a Natale a mani vuote, pagheranno il necessario. Se gli sconti sono tutti nello stesso arco temporale, aumenta la domanda ma le quote di mercato restano le stesse, le imprese cercano di fare profitti aumentando i volumi ma con margini più bassi, poi tornano alla normalità, con volumi minori ma margini più elevati. La soluzione che premierebbe davvero il consumatore è quella di una competizione sui prezzi e sulla qualità che duri tutto l’anno, con possibilità per il cliente di comparare prodotti concorrenti in modo chiaro e trasparente. Amazon offre soltanto l’illusione di questa concorrenza perfetta, perché è in diretta competizione con le imprese che lo usano come vetrina. E quindi ha tutto l’interesse a distorcere, dietro la cortina fumogena degli algoritmi, la competizione a suo favore. Guarda caso quella luccicante impastatrice globale risulta “venduta e spedita da Amazon”. Nessun utente normale ha voglia di andare a cercare se altri rivenditori offrono condizioni migliori.

In Francia, dove la diffidenza verso le tradizioni americane si salda con quella per il capitalismo, c’è un accenno di protesta contro il Black Friday. Uno studio UFC-Que Chosir del 2016 calcola che i veri risparmi sono solo del 2 per cento ma si producono imballaggi inquinanti che, con il picco degli acquisti, poi sono difficili da smaltire. Una proposta di legge vuole aumentare i vincoli ambientali per scoraggiare la “frenesia del consumo”.

Nell’attesa di improbabili rivoluzioni normative, c’è una soluzione semplice per sottrarsi alla trappola del Black Friday. Non andare in negozio e tenere computer e smartphone a distanza di sicurezza, per evitare la tentazione dell’acquisto one-click. Meglio comprare quando si ha davvero bisogno: si perderà qualche promozione, ma si eviteranno anche tanti acquisti inutili. Ma è difficile resistere. Quella impastatrice globale sembrava davvero un buon affare, qualunque cosa sia.

Mail box

 

Al mio ex-compagno Orlando chiedo di stare con le vittime

Caro Andrea Orlando, ci conosciamo: tu sei stato un dirigente politico di Pci, Pds e Pd a La Spezia, io di Pci, Pds e Ds a Genova, ma non del Pd, al quale non ho mai aderito. Ti ho apprezzato come ministro quando, ben conoscendo i guai che produce la prescrizione dei reati, hai provveduto a bloccarla parzialmente da un grado all’altro del giudizio. Ma ho ancor più apprezzato il blocco totale della prescrizione dopo il primo grado, fatto approvare dal ministro Bonafede e che entrerà in vigore per i reati commessi dopo il primo gennaio 2020. Con estremo rammarico, invece, rilevo che attualmente il Pd – insieme ad Italia Viva – minaccia la crisi dell’attuale Governo se non sarà cancellato il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, paventando che così i processi non finirebbero mai e ciò porrebbe gli imputati in una situazione di “disagio” per un lungo tempo. Purtroppo, però – giova ricordarlo – nei processi non ci sono solo gli imputati, ma anche le parti lese. Ho sperimentato in maniera diretta, in un caso che ha riguardato una persona a me cara, come può essere lungo e travagliato il supplizio per la parte offesa, e come può essere al contrario allegra la vita di quelli che commettono reati e si godono i frutti del loro operato sperando nell’impunità. Mi riferisco, nello specifico, a un reato commesso il 7 luglio 2009 e denunciato dalla parte lesa il 13 luglio: dei tre imputati, uno ha beneficiato della prescrizione in appello, mentre gli altri due sono stati condannati e ora stiamo attendendo la sentenza della Cassazione alla quale hanno fatto ricorso. Ma la spada di Damocle della prescrizione incombe. In questi lunghi dieci anni ho assistito ai più biechi mezzucci messi in campo per ritardare i processi: ufficiali giudiziari che non riescono a notificare agli imputati, avvocati che si arrampicano sugli specchi con i cavilli più spregiudicati, imputati che mentono sapendo di mentire (è un loro diritto), testimoni mendaci, una girandola di pm che cambiano per i più svariati motivi e gli imputati che mettono in campo schiere di avvocati, che si possono permettere anche grazie ai proventi dei propri stessi reati.

Gli imputati, se colpevoli, sanno di esserlo e quindi sperano nella prescrizione. Se dal primo gennaio entrerà in vigore il blocco dopo il primo grado di giudizio, i colpevoli non potranno che chiedere clemenza invece di dilatare all’infinito i processi. Spero che il Pd, di cui sei vice-segretario, si ravveda e si schieri dalla parte dei danneggiati e della giustizia giusta, lasciando a Forza Italia, razzisti e fascisti vari il garantismo di comodo di cui sono portatori da sempre.

Cordialità,

Aleandro Longhi (esponente dei comunisti italiani)

 

L’attacco di Renzi ai pm è figlio del berlusconismo

Anche se la parabola politica di Berlusconi (per raggiunti limiti di età) sembra volgere al declino, credo che dovremo fare i conti ancora a lungo con l’eredità politica e morale di questo personaggio.

Infatti vent’anni e passa di berlusconismo – ma Salvini sta compiendo la stessa operazione – hanno inoculato nella società italiana e nel mondo politico il virus del discredito delle istituzioni, che molto giova a delinquenti e spregiudicati e poco serve a costruire una società che vuole riconoscersi nei fondamenti della nostra Costituzione.

Ne è esempio la reazione di Renzi contro i magistrati di Firenze che stanno indagando sulla fondazione Open. Dai toni, dalle affermazioni e dagli argomenti è chiaro che cerca di diffondere lo stile berlusconiano e che ha un’idea particolare delle istituzioni: valide se non gli danno fastidio, bacate se indagano su di lui o sui suoi familiari.

No, non sono meravigliato. Ho capito bene il personaggio ma mi stupisco che troppi italiani guardino il dito e non vedano la luna e continuino a porre fiducia in personaggi – come Salvini – che hanno già dimostrato spregiudicatezza e incapacità politica e morale.

Leonardo Gentile

 

Con fondamenta più solide il ponte non sarebbe crollato

Gentile direttore, in merito alla caduta del ponte sulla Torino-Savona, dopo tante ipotesi di politici e finiti competenti che si guardano bene dal dire la vera causa del crollo per non addossare colpe ad alcuno, diciamo la verità.

La causa è stata la frana, ma la vera causa è che le basi che sorreggono i pilastri erano superficiali. In poche parole, non erano abbastanza profonde, pertanto le basi di cemento sono scivolate insieme alla frana, fossero state più profonde la frana sarebbe passata senza causarne lo smottamento.

Antonio Perrone

 

Diritto di replica

In merito all’articolo “Sisma e macerie: in crisi i call center” pubblicato il 27 novembre ci teniamo a precisare che nessuna delle aziende del Gruppo Enel (Enel Energia, Servizio Elettrico Nazionale ed EnelX) si affida ad un servizio clienti in Albania.

Antonio Guerrera, Relazioni con i media Enel Spa

 

Ci scusiamo per l’errore con i diretti interessati e con i lettori; il tutto è frutto di nostra disattenzione, e abbiamo provveduto a eliminare ogni riferimento a Enel anche nella versione digitale dell’articolo.

fq