Rc auto. La beffa delle polizze farlocche: così l’automobilista ci rimette due volte

 

Tre giorni fa sono uscita in macchina per andare a fare la spesa. A metà strada, a una rotonda in pieno centro abitato, una macchina mi è venuta addosso senza rispettare la precedenza. Molto rumore, il paraurti e il cofano completamente distrutti, il fastidio di compilare il Cid sotto la pioggia, ma fortunatamente nessun danno fisico. La brutta sorpresa è arrivata quando mi sono rivolta alla mia assicurazione, o meglio, a quella che credevo fosse la mia assicurazione. L’impiegato al telefono mi ha risposto che la compagnia non può fare nulla perché, attenzione, la polizza che ho sottoscritto online sborsando più di 400 euro è falsa. Ha aggiunto: “La prossima volta faccia attenzione, per strada e su Internet”. Ora che cosa dovrei fare?

Carolina Liberti

 

Gentile Liberti, purtroppo quello che le è successo è un fenomeno che negli ultimi anni è letteralmente esploso a causa del duplicarsi di siti fake di assicurazioni online il cui nome ricorda tanto società vere. Ad esempio: polizzafacile.net, zurichassicura.it, mondoassicurazioni.net. Quasi settimanalmente l’Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni (Ivass) fa chiudere questi siti. Tanto che solo nei primi nove mesi di quest’anno ne sono stati segnalati 140, contro i 103 di tutto il 2018 e i 50 nel 2017 per un giro d’affari che supera i 3 milioni di euro ed è in continua crescita. Un monitoraggio che, tuttavia, non basta a evitare che migliaia di automobilisti vengano ingannati, perdendo centinaia di euro. Chi, infatti, stipula una polizza Rc auto con compagnie non autorizzate non solo non è coperto in caso di incidente, ma rischia pure il sequestro del veicolo e una sanzione fino a 3.471 euro. Come ci si può tutelare? Il primo passo da fare per chi ha un qualsiasi dubbio è di rivolgersi all’Ivass per verificare se il sito segnalato figura tra quelli pirata già scoperti. Ma anche quando le truffe sono ben orchestrate, ci sono diversi accorgimenti da seguire: controllare sul sito dell’intermediario le sue generalità e il numero di iscrizione al Registro unico degli intermediari assicurativi (Rui) e diffidare da chi fornisce contatti esclusivamente tramite mail o Whatsapp. Un ulteriore campanello d’allarme deve scattare se viene chiesto di versare il premio con strumenti di pagamento online o carte ricaricabili che non consentono di risalire all’identità dell’intermediario. Dal canto suo l’Ivass può solo segnalare questi siti o le compagnie farlocche alla polizia postale e all’autorità giudiziaria, mentre agli automobilisti non resta che pagare e pure tanto.

Patrizia De Rubertis

Il “Paracadutista” che mise la bomba in piazza Fontana

Nel pomeriggio del 12 dicembre 1969, 50 anni fa, un uomo si avvicina a un camion Om fermo in piazza Fontana. Afferra una borsa, entra nella Banca nazionale dell’agricoltura. Quando esce, non ha più la borsa. Si allontana. Dopo non molto, deflagra lo scoppio che segnerà la storia d’Italia.

Chi è quell’uomo? Lo hanno cercato – o protetto – per 50 anni. L’uomo della bomba era Pietro Valpreda, ballerino anarchico, “la belva umana”, secondo i giornali del dicembre 1969 e il tg di Bruno Vespa, era lui il colpevole designato, ma innocente. È un fascista di Ordine nuovo, invece, secondo la sentenza della Cassazione del 2005 che indica nel gruppo di Franco Freda e Giovanni Ventura i responsabili della strage, non più processabili perché definitivamente assolti nel 1987.

Chi è, allora, l’uomo che entra nella banca con la borsa piena di esplosivo? È chiamato “il Paracadutista”. Era un militante di Ordine nuovo di Verona. Era in stretti rapporti con il gruppo milanese La Fenice di Giancarlo Rognoni e con l’ordinovista padovano Massimiliano Fachini. Tra il 1968 e il 1969 ha il compito di mettersi in contatto con i gruppi dell’estrema sinistra veronese. È la strategia di intorbidare le acque, coinvolgere e infiltrare i “rossi”, i maoisti, gli anarchici, a cui devono essere attribuite le azioni violente che i “neri” hanno in programma. Operazioni “false flag”, sotto falsa bandiera, teorizzate dagli ambienti militari atlantici e protette dai servizi segreti dell’Occidente. Creare disordine, attribuirlo ai “rossi”, attendere la richiesta d’ordine della Nazione: un golpe, nella speranza di alcuni, una svolta autoritaria, per altri.

Chi è “il Paracadutista”? Prova a dargli un nome – dopo 50 anni di processi e di inchieste segnate da depistaggi, esfiltrazioni, protezioni, rimozioni – il magistrato Guido Salvini, che condusse la terza indagine sulla strage, negli anni Novanta. Nel suo libro La maledizione di piazza Fontana, scritto con Andrea Sceresini ed edito da Chiarelettere, racconta quanto gli ha confidato Giampaolo Stimamiglio, uomo di Ordine nuovo di Verona, camerata del “Paracadutista” e grande amico di Giovanni Ventura. È proprio Ventura a svelare a Stimamiglio i segreti di piazza Fontana: “È stato Zorzi a trasportare gli ordigni”, racconta. Delfo Zorzi, ordinovista di Mestre, oggi vive ricco in Giappone. È stato processato per la strage, ma assolto. “Lui non è entrato in banca, è entrato un ragazzo giovane… il figlio di un funzionario di banca”. Chi è? Anche Carlo Digilio, l’esperto di armi della cellula di Ordine nuovo di Mestre, riferisce quanto gli ha confidato Zorzi: “Guarda che io ho partecipato direttamente all’operazione di collocazione della bomba alla Banca nazionale dell’agricoltura. Me ne sono occupato personalmente e non è stata cosa facile, mi ha aiutato il figlio di un direttore di banca”. Conferma anche un personaggio che Salvini chiama “l’Antiquario”: “Sì, è il Paracadutista che stava fuori dal camion. È lui che ha preso in mano quella borsa. È un segreto che sanno pochissime persone”.

Dunque Ventura, Zorzi, Stimamiglio, Digilio, “l’Antiquario” parlano del “Paracadutista” e del “figlio di un direttore di banca”. Unisce i punti Salvini: il Paracadutista e il figlio del funzionario di banca sono la stessa persona. “Il padre del Paracadutista lavorava in banca, era funzionario della Cassa di risparmio di Verona, Vicenza e Belluno”. Ecco il ritratto che ne fa Salvini: “Nel 1969 il Paracadutista aveva poco più di vent’anni. Era un giovane benestante: il padre, col suo stipendio di dirigente, poteva assicurare alla famiglia un tenore di vita piuttosto agiato. Viveva a Verona, studiava alle scuole serali e frequentava la cellula di Ordine nuovo. Era considerato un attivista di primo piano, un elemento operativo. Aveva svolto il servizio militare nei corpi d’élite e non disdegnava l’uso della violenza”. La sua ex fidanzata testimonia a un processo celebrato nel 1971 per alcuni piccoli attentati e assalti degli ordinovisti veronesi. Racconta: “Nel dicembre 1969 il mio fidanzato si assentò dalla scuola per cinque o sei giorni. Quando lo rividi gli chiesi il motivo di tali assenze e mi rispose che era stato a Milano”. Tra quei giorni d’assenza c’è anche il 12 dicembre. Il certificato penale del Paracadutista è piuttosto corposo. Nel 1963, a soli 17 anni, la questura di Verona lo denuncia per vilipendio delle Forze di liberazione: era stato sorpreso a sputare sul monumento al Partigiano. Quando Ordine nuovo, nel febbraio 1969, inaugura la sua sede di Verona, è il Paracadutista a intestarsi il contratto di affitto.

Partecipa all’assalto alla facoltà di Magistero di Verona, in cui rimangono feriti tre attivisti di sinistra: viene individuato e arrestato. È tra gli imputati del processo celebrato a Roma contro Ordine nuovo: nel 1973 viene condannato a 3 anni di carcere, ridotti a 2 in appello. Ma nel frattempo è scappato in Grecia, dove con altri camerati latitanti apre un ristorante italiano e un’agenzia di viaggi. Viene espulso dalla Grecia nel 1975, dopo la caduta del regime dei Colonnelli. Il Paracadutista si trasferisce in Svizzera, poi fa ritorno in Italia. “Nessuno si premurerà più di disturbarlo”, conclude Salvini. Il suo nome è Claudio Bizzarri.

Dai “capitani” agli Emiri: come siamo volati in basso

Alitalia è una metafora del Paese, per molti decenni il suo biglietto da visita, prestigiosa e ammirata nel mondo quando anche il Paese godeva di prestigio e ammirazione. Fondata nel dopoguerra con capitali pubblici, ha il compito di garantire i collegamenti internazionali dell’Italia. Il suo primo quarto di secolo è foriero di crescenti successi e bilanci sempre in utile grazie all’elevata capacità tecnica, la riconosciuta qualità del servizio, la capacità di accrescere l’offerta e rinnovare la flotta che la porterà a essere il primo vettore con soli aerei a reazione. A fine anni ’60, all’apice del successo, Alitalia è il settimo vettore mondiale e il terzo europeo davanti a Lufthansa e Klm.

Questo scenario cambia radicalmente con le crisi petrolifere degli anni ‘70 che fanno impennare costi e prezzi dei voli, riducendo drasticamente i tassi di crescita del mercato. Alitalia supera questa fase e recupera bilanci in equilibrio anche se non troverà mai più i successi della prima fase. Negli anni ‘90 per una concomitanza di fattori avviene la virata in negativo. L’Ue liberalizza il mercato comunitario, creando le basi per una crescita della concorrenza grazie ai low cost. Le compagnie tradizionali virano sul lungo raggio, non aperto alla concorrenza, e i governi che li posseggono avviano processi di quotazione per reperire gli ingenti capitali necessari. Alitalia cerca di farlo diversamente, aggregandosi con Klm. I due vettori sono perfettamente complementari: Klm, priva del segmento nazionale, è fortissima nel lungo raggio; l’esatto opposto di Alitalia. Ma l’aggregazione, che sarebbe stata la miglior decisione nella storia di Alitalia, fallisce per le resistenze italiane, politiche e sindacali. Senza Klm anche Malpensa 2000 diviene un progetto fallimentare, un aeroporto hub costruito per un vettore del tutto carente nella flotta di lungo raggio e che dovrà dividere in maniera costosa la sua capacità su due mezzi hub incoerenti. Questi sono i primi errori industriali gravi di Alitalia. Il terzo è l’ingresso nel 2001 nell’alleanza mondiale Skyteam, promossa da Delta e Air France-Klm, che gli costa una sconsiderata riduzione di circa il 30% della sua capacità di lungo raggio. Avviene mentre le maggiori compagnie fanno l’esatto contrario e dopo aver inaugurato il secondo hub a Malpensa.

Intanto, mentre Alitalia ridimensiona il lungo raggio, i low cost entrano in massa nel medio-breve raggio: trovano facile accoglienza e condizioni favorevoli, se non vere e proprie sovvenzioni nel gran numero di aeroporti minori, privatizzati, che le ospitano. Nel frattempo viene anche chiusa l’Iri, promotore e controllore storico di Alitalia, e la proprietà passa direttamente al Tesoro che non ha alcuna competenza industriale utile. Decollano pertanto le perdite e il governo Prodi avvia a fine 2006 la privatizzazione, ma all’inizio del 2008 la strana alleanza tra sindacati e centrodestra fa fallire la generosa offerta d’acquisto di Air France e genera in vitro i Capitani coraggiosi, i quali attuano lo sconsiderato piano Fenice, il primo di tanti basato sulla contrazione espansiva, secondo cui mandando a casa il personale (6 mila dipendenti ma quasi 9 mila includendo i precari) e tagliando (del 40%) la flotta, si attuerà una miracolosa crescita in stile ‘pani e pesci’ del traffico e dei ricavi.

Per non farsi mancare nulla i Capitani trovano il coraggio di tagliare ulteriormente il lungo raggio, concentrandosi sui voli domestici proprio alla vigilia del completamento dell’alta velocità ferroviaria. Dopo il decollo dei Capitani la flotta di lungo raggio sarà la metà esatta di quella lasciata dall’Iri. Alla vigilia di Natale del 2012 il dimissionario governo Monti sottoscrive uno sconsiderato contratto di programma che permette di finanziare lo sviluppo futuro dell’aeroporto di Fiumicino attraverso aumenti tariffari stellari a carico dei suoi utilizzatori correnti, di cui il principale – che pesa per oltre il 40% del traffico – si chiama Alitalia. Esso dovrà far fronte ai nuovi livelli tariffari con proventi declinanti per effetto della crescente concorrenza low cost.

Nel 2014, con Alitalia in una nuova prevedibile crisi e disavanzi fuori controllo, arrivano gli Emiri coraggiosi di Etihad con un dichiarato piano di rilancio di lungo raggio che però non realizzano, limitandosi al ridimensionamento del breve. Pertanto Alitalia si riduce ancora assieme al suo personale. E ogni volta che avviene, regala passeggeri di breve raggio ai low cost e di lungo raggio ai grandi hub europei. Rapidamente travolti a loro volta dalle perdite, Etihad presenta nei primi mesi del 2017 un nuovo piano di contrazione espansiva, lacrime e sangue per i lavoratori che i medesimi, non essendo masochisti, respingono in massa nel referendum. Il 2 maggio gli azionisti privati si arrendono e nazionalizzano Alitalia, consegnandone le chiavi al governo e chiedendo l’amministrazione straordinaria, non prima di aver designato in continuità quelli che dovranno esserne i commissari straordinari.

Il governo coraggioso presta 900 milioni, più di tutti quelli sborsati complessivamente dai Capitani del 2008 e dagli Emiri del 2014, ma senza chiedere ai commissari di ristrutturare l’azienda e riportarla alla competitività. Dovranno limitarsi a venderla entro pochi mesi, un obiettivo che non conseguono in oltre due anni e mezzo. Nel 2017 Alitalia poteva solo essere risanata o chiusa, non certo venduta, in quanto nessun attore di mercato mette la sua liquidità in un secchio di cui non son stati chiusi i buchi. Risanarla sarebbe stato meno costoso che chiuderla ma non è stata fatta nessuna delle due cose, adottando in questo modo la soluzione più costosa delle tre. La storia di Alitalia dagli anni ‘90 è un manuale di come non si gestisce una compagnia aerea e non si fa politica industriale, meritevole di essere adottato in tutte le scuole mondiali di management e di politiche pubbliche.

Conte contro Salvini. Ma sul Mes Di Maio apre il nuovo fronte

Le parole più dure, Giuseppe Conte le riserva a Matteo Salvini. Annuncia querela nei confronti del leghista che ieri lo ha di nuovo accusato di “tradimento” sulla riforma del Mes, il meccanismo europeo di Stabilità (il vecchio Fondo salva stati). Lunedì riferirà alla Camera sull’accordo che sta spaccando anche la sua maggioranza. “Spazzerò via mezze verità e palesi menzogne circolate sul trattato”, promette.

Il premier però ci arriva, per così dire, zoppo. E il colpo gli arriva dall’interno. A Montecitorio i deputati M5S hanno dato mandato a Luigi Di Maio di discutere con lui e il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri una linea che sostanzialmente sconfessa quella tenuta finora dai due, secondo cui il trattato non si può fermare né modificare e il via libera, previsto al consiglio Ue di febbraio (dopo un primo passaggio a dicembre) è inevitabile.

Di Maio invece l’ha messa così: “Non è il fatto che si modifichi il Mes il problema, ma il come. C’è massima fiducia in Conte e Gualtieri, ma è evidente che occorre migliorare il negoziato difendendo gli interessi dell’Italia. Se qualcosa non è accettabile va migliorata. E la riforma del Mes si può migliorare, siamo qui per questo”. Un misto tra tatticismo – ricompattare i gruppi parlamentari, che ormai non controlla più, evitando di lasciare alla Lega una battaglia cara al Movimento – e l’ennesimo smarcamento dal premier. Mercoledì, per dire, Di Maio era stato informato del tentativo di alcuni deputati di presentare una risoluzione che impegnava il governo a non dare l’ok alla riforma senza il contestuale accordo anche sulla garanzia comune europea sui depositi bancari che Berlino non vuole. Un tentativo fermato perché “avrebbe fatto cadere il governo” (copyright Federico D’Incà, ministro per i Rapporti col Parlamento). È la “logica di pacchetto” un tempo promessa dal premier e che oggi è la linea dei 5Stelle. Di Maio ne ha parlato ieri con Gualtieri e lo stesso Conte: avrebbe l’effetto di stanare il bluff tedesco ma portarla davvero avanti significa rinviare la riforma per mesi o anni, visto che la Germania e i paesi nordici non hanno intenzione di completare l’Unione bancaria. L’Italia ha il potere di veto sull’accordo ma né Palazzo Chigi né il Tesoro vogliono davvero usarlo. Ieri Gualtieri si è spinto perfino a mettere in guardia il parlamento dal non ratificare il testo: “Se l’Italia fosse l’unico Paese dell’euro a non farlo darebbe un senso di fragilità e debolezza…”.

Per capire il problema serve fare un passo indietro. La riforma contiene modifiche nel complesso negative per l’Italia, perché rafforza un’istituzione intergovernativa esterna all’Unione, gli dà poteri che si sovrappongono alla Commissione e conferma l’imposizione ai Paesi che chiedono i prestiti la ristrutturazione preventiva dei debiti pubblici considerati “insostenbili”. In sostanza disciplinare paesi come l’Italia attraverso il manganello del mercato, vecchio pallino dei paesi nordici che pure avevano proposto misure più draconiane. Il negoziato condotto dal governo gialloverde, o meglio da Conte e dall’allora ministro Giovanni Tria e chiuso a giugno, si è concentrato soprattutto nell’evitare queste ultime.

Senza un accordo nella maggioranza, lunedì a Conte non resterà che guadagnare tempo, rinfacciando il silenzio di Salvini che da vice premier non ha mai rilasciato una dichiarazione contro la riforma che pure era già definita a dicembre 2018. La linea è la stessa da giorni: insistere sul fatto che della riforma si sia parlato anche in diverse riunioni e Consigli dei ministri. Ieri lo scontro ha raggiunto livelli poco decorosi. Salvini ha annunciato un esposto, e chiesto a Sergio Mattarella di intervenire. Il premier non l’ha presa bene: “Io non ho l’immunità, lui sì, e ne ha già approfittato per il caso Diciotti. Veda questa volta, perché io lo querelerò per calunnia di non approfittarne più”.

Conte però deve guardarsi soprattutto dal fronte interno. Gran parte dei parlamentari M5S e anche di LeU non hanno intenzione di cedere, anche perché agli atti resta la risoluzione parlamentare di giugno che impegnava Conte e Tria a informare le Camere e non firmare accordi potenzialmente dannosi. Ieri la riunione a Montecitorio è iniziata con le slide di Alvise Maniero e Raphael Raduzzi, i due deputati che seguono il dossier, e si è conclusa con l’uscita di Di Maio. Ai parlamentari è stato fatto pure trapelare un tentativo del premier di convincere Paesi come Francia e Germania a rinviare l’ok alla riforma.

La prescrizione falcia l’appello: ecco perché bisogna bloccarla

La tendenza sembra chiara: le prescrizioni negli ultimi 10 anni – secondo dati del Ministero della Giustizia – si sono ridotte complessivamente del 18%. Tuttavia non si può ignorare che i procedimenti finiti al macero nel 2018 siano ancora un numero esorbitante: 117.367, incluse le 2.409 prescrizioni davanti al giudice di Pace ( solo dibattimento). Dieci anni fa erano addirittura 151.189.

In controtendenza rispetto al dato complessivo del calo delle prescrizioni è il trend opposto delle Corti d’Appello, dove le estinzioni dei procedimenti causa tempo scaduto sono in continuo aumento da cinque anni.

Per quanto riguarda l’incidenza della prescrizione sui procedimenti definiti, nel 2018 complessivamente è stata del 9%. Dieci anni fa era del 10.7%. Quindi, in tutti questi anni c’è stato un lievissimo miglioramento pari appena all’1,7%. Tutte le cifre elencate, insomma, contribuiscono all’incertezza della pena in maniera ancora rilevante.

Su 100 procedimenti in corso, nove si prescrivono. Di questi, quattro durante le indagini preliminari e cinque nei tre successivi gradi di giudizio.

La “mattanza” dell’udienza preliminare

Nel 2018 la prescrizione è avvenuta in fase di udienza preliminare nel 41% dei casi. Cioè quando il giudice deve decidere, per esempio, se rinviare o meno a giudizio uno o più imputati. O se deve accogliere o meno la richiesta di archiviazione da parte di un pubblico ministero. Una percentuale significativa, che conferma come il calcolo della prescrizione a partire dalla data del reato consumato e non dalla sua scoperta ha un peso notevole sull’esito certo, qualunque esso sia, di un procedimento. Nel 2018, in questa fase, sono andati al macero 57.707 procedimenti. Quasi ventimila prescrizioni in meno rispetto al 2017.

Primo grado, situazione stabile

Nei processi di primo grado, la prescrizione avviene nel 34% dei casi. Nel 2018 sono morti 27.747 processi. L’incidenza della prescrizione è dell’8,3% rispetto ai definiti. Dato sostanzialmente stabile rispetto al 2017 quando sono stati prescritti 300 processi in più circa.

Il nodo decisivo della Corte d’appello

In Appello – come detto – i processi finiscono sempre di più con la dichiarazione della prescrizione. Nel 2018 questa sorte è toccata in 29.216 processi con un’incidenza sui definiti del 25,4%. Nel 2017, andati in fumo, per prescrizione dei reati, 28.185 processi, un migliaio circa in meno. Cinque anni fa, addirittura c’erano state oltre 5 mila prescrizioni in meno. È evidente che se la prescrizione si blocca con il primo grado, si avrà – per i cittadini – la certezza che venga pronunciata una sentenza nel merito definitiva.

Il dato marginale della Cassazione

In Cassazione il dato migliore, dovuto al filtro dell’inammissibilità e alla tagliola della prescrizione che arriva prima.

Nel 2018 ci sono state 646 dichiarazioni di prescrizione con un’incidenza dell’1,1%. Di fatto numeri uguali al 2017 quando le prescrizioni sono state 660.

Furti e truffe tra i reati più prescritti

Per quanto riguarda il criterio della “classifica” ministeriale dei reati più prescritti nel 2018, è stato quello di indicare i reati per i quali ci siano state almeno mille prescrizioni nel 2018. La maglia nera ce l’hanno i reati in materia edilizia con un totale di 13.260 prescrizioni. Al secondo posto le contravvenzioni al codice della strada con 9.185 prescrizioni.

Il reato di truffa è al terzo posto con 7.020. Al quarto posto per prescrizioni, 5.056, c’è il reato di furto. Quinto posto per i reati tributari con 4.800 prescrizioni in un anno.

La nota sempre dolente della durata dei processi

I tempi medi dei processi sono di 332 giorni presso la Procura della Repubblica, di 401 giorni in Tribunale e di 860 giorni in Corte d’Appello. In Cassazione 156 giorni.

Il tempo ha “cancellato” la morte di Martina

“Per la giustizia italiana la morte di mia figlia non è esistita”. Bruno Rossi è uno storico leader dei portuali genovesi, da tutta la vita si batte per i diritti degli altri, ma ieri per la prima volta ha avuto la tentazione di arrendersi: la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato la prescrizione nel processo per la morte della ventenne genovese. Otto anni e quattro mesi dopo che è precipitata dal terrazzo di un albergo di Palma di Maiorca.

Secondo i magistrati di primo grado Martina era caduta cercando disperatamente di sottrarsi a un tentativo di violenza sessuale. Due ragazzi di Arezzo, Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, erano stati condannati per tentata violenza sessuale di gruppo e morte come conseguenza di altro reato (sei anni ciascuno, tre per ogni reato). Ma ieri la seconda accusa è caduta sotto la tagliola della prescrizione. “Resta in piedi soltanto la tentata violenza sessuale di gruppo, ma è ormai certo che quei due imputati non faranno un giorno di carcere”, sussurra Franca Murialdo, la mamma di Martina. Certo, potrebbe essere confermata la condanna per il solo reato rimasto (la violenza sessuale di gruppo che ha termini di prescrizione più lunghi), ma con tre anni di condanna in Italia non si va in galera. Ma ai due imputati potrebbe andare perfino meglio: “Ieri la corte d’appello di Firenze ha rinviato il processo a dopo l’estate 2020, è incredibile”, allarga le braccia Bruno.

Se la violenza sessuale di gruppo fosse derubricata in violenza semplice ecco che anche il secondo reato sarebbe prescritto. Ovviamente, poi resta l’ipotesi che siano assolti. Una cosa è certa: l’unica risposta che la giustizia italiana ha saputo dare per la morte di Martina è la prescrizione. Colpa della lentezza delle indagini spagnole: “In un attimo si sono convinti di aver trovato la soluzione: suicidio. Ma per trasmettere i documenti ai pm italiani ci hanno messo anni”, sospira Franca.

Dal 2013 le autorità italiane hanno cominciato un’indagine resa complessa dal tempo trascorso, dalla distanza e, secondo i giudici di primo grado, da reticenze e dichiarazioni false. Nella sentenza di primo grado un punto della ricostruzione dei protagonisti viene giudicato “non verosimile, né in alcun modo credibile”. Non solo: nelle intercettazioni dell’indagine c’è un compagno degli accusati che sostiene di aver “svignato” le domande della polizia e agli agenti risponde con 47 “non ricordo”. A convincere i magistrati che si sia trattato di una tentata violenza ci sono diversi elementi: secondo i periti, la traiettoria seguita dal corpo di Martina nella caduta è incompatibile con un gesto volontario. Ancora: sul corpo di Martina non erano stati trovati nè i pantaloni, né le ciabatte che indossava quella sera. Secondo i magistrati, una conferma arriverebbe anche dai graffi evidenti presenti sul collo di Albertoni. Il ragazzo aveva sostenuto che “Martina era impazzita e gli era saltata addosso urlando frasi senza senso”. I magistrati di primo grado non gli avevano creduto: “Ha sostenuto che Martina fosse “impazzita… perché doveva trovare una spiegazione ai graffi sul collo”, hanno scritto nella sentenza. Martina non solo morta, ma anche descritta da qualcuno come una pazza, forse sotto effetto di farmaci o di droghe.

Tutto falso, hanno detto i giudici di primo grado: “Non soffriva di patologie psichiatriche, non assumeva psicofarmaci, non era in cura da psicologi”.

Franca, assistita dall’avvocato Stefano Savi, ieri non si dava pace: “Speravo almeno di avere giustizia. Invece chi ha provocato la morte di mia figlia non sconterà un giorno di pena, mentre per me la vita è diventata un ergastolo di dolore. Fine pena mai”.

Giustizia, fallisce il blitz di FI per salvare il colpo di spugna

Il deputato di Forza Italia Enrico Costa è una furia, ma sa di aver già incassato una piccola vittoria. Perché ieri – sebbene la capigruppo di Montecitorio abbia bocciato la sua proposta di far approdare in aula con massima urgenza il ddl che cancella lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado che entrerà in vigore a gennaio – Costa, dicevamo, è riuscito a mettere nell’angolo il Pd. Che avrebbe voluto come gli azzurri far slittare, se non cancellare del tutto, le nuove norme della legge Bonafede, ma invece ora è appeso alla promessa del Movimento 5 Stelle di trovare rapidamente la quadra su una serie di accorgimenti tecnici che garantiscano tempi certi al processo penale.

Il premier Conte ieri è stato ottimista rimettendo di nuovo il sereno in casa dem: “Non ci sono posizioni inconciliabili: stiamo riflettendo su un pacchetto di misure che garantiscano la ragionevole durata dei processi senza dire che il processo si estingue” ha detto rassicurando quanti nel Pd si erano rimessi sugli scudi a sentir parlare in mattinata Luigi Di Maio. Che sulla questione della prescrizione ha tagliato corto: “La verità è che la legge c’è già, entra in vigore il 1 gennaio e fa in modo che non ci siano furbetti impuniti che la fanno franca”. Dimenticando di dire quello che i dem si aspettavano finalmente di sentire, ossia che per la maggioranza è prioritario occuparsi anche che i processi non vadano troppo per le lunghe. Il capo pentastellato, complici i suoi attacchi a Matteo Renzi per la vicenda Open, invece ha addirittura mandato la colazione di traverso a Davide Faraone di Italia Viva. “Dietro la definizione di ‘furbetto’ affibbiata a chi beneficia della prescrizione, infatti, c’è un mondo: la totale ignoranza del dettato costituzionale, lo sloganismo senza significato, l’idea forcaiola per cui chiunque sia sottoposto a un procedimento sia colpevole a prescindere e debba, perciò, essere sottoposto a un processo senza fine”. Se l’offesa in realtà cela la promessa di dare battaglia contro l’entrata in vigore delle nuove norme sulla prescrizione, con la creatura renziana al fianco di Forza Italia e Lega, è presto ancora per dirlo. Per questo per ora prevale in seno alla maggioranza la sensazione che per varare almeno una bozza della delega per riformare il processo penale non si debba attendere oltre l’Immacolata.

Chi per conto di Zingaretti si occupa di Giustizia già una ventina di giorni fa aveva sottoposto al ministro Bonafede una serie di proposte su cui ci sono stati confronti a palazzo Chigi e pure alla Camera, ma che non sono stati risolutivi, per usare un eufemismo. Perché la questione ha fatto traballare il governo e dopo ogni incontro i toni si facevano più aspri in seno all’alleanza giallorossa. Poi però ci sono stati molti segnali di fumo nelle ultime 24-36 ore, tanto che più d’uno in casa 5 Stelle ha lasciato intendere che si era vicini a un accordo. E che il governo non rischiava certo a causa di questo tema.

E pure dal Pd era stata accolta con favore la mediazione raggiunta al Mef per rivedere alcune le pene previste dal decreto fiscale: un ammorbidimento da parte dei 5 Stelle a cui i dem hanno risposto abbassando le armi sulla prescrizione: e infatti, nonostante avessero lasciato trapelare la minaccia, non si sono accodati alla richiesta di Forza Italia per esaminare subito il ddl Costa che sterilizza le norme che entrano in vigore a gennaio. Anche a costo di dover affrontare il prossimo 3 dicembre un dibattito in aula in cui al partito di Zingaretti, l’opposizione dei forzisti e di tutto il centrodestra rinfaccerà di “strisciare sotto i piedi di Bonafede”, per dirla con il capogruppo azzurro in commissione Giustizia, Enrico Costa che si prepara a dare battaglia anche nell’emiciclo di Montecitorio.

Salvini già prepara la campagna di Roma (con la Bongiorno)

Un migliaio di persone e sei camionette tra polizia e carabinieri fuori a garantire la sicurezza. Questo l’esordio di Matteo Salvini a Roma, per lanciare la sfida alle prossime comunali con un candidato che però ancora non c’è.

Il Teatro Italia è striminzito, ci si sta stretti, nella zona universitaria di piazza Bologna. Salvini prende la parola quasi alle 8 di sera, è in camicia e cravatta. Le parole più dure le riserva non a Virginia Raggi ma a Giuseppe Conte. “Ho sentito che vuole querelarmi. Prenda il biglietto e si metta in fila con Carola Rackete e la signora Cucchi. Non vedo l’ora di trovarmelo di fronte in tribunale. Conte mi ricorda il Marchese del Grillo: io so io e voi nun siete un…”, afferma il leader leghista. Che poi torna su Roma. “Vinceremo, ma dobbiamo arrivare al voto preparati, con un piano per la città. Questo è solo l’inizio di un percorso. Vogliamo un sindaco onesto e capace, perché solo onesto non basta”. Parla della Capitale con accento milanese e l’effetto è distopico, come il famoso Rugantino che aveva per protagonista Adriano Celentano. A un certo punto chiede: “Non ditemi che qualcuno di voi usa lo scooter…?”, dimostrando di conoscere poco le abitudini dei romani.

Ci sono molti ex An ed ex Pdl tra i suoi seguaci: Barbara Saltamartini, Fabrizio Santori, lo stesso coordinatore Francesco Zicchieri, Cinzia Bonfrisco, Claudio Durigon che viene dall’Ugl. Un bel gruppo che si è buttato sul carro del vincitore e vede in Salvini l’unica speranza di sopravvivenza politica. Colpisce, però, sentire l’ex An Saltamartini accusare la Raggi non licenziare nessuno in Ama per tenersi un bacino elettorale, quando Gianni Alemanno, da sindaco, con le assunzioni pubbliche ci è andato giù pesante.

Poi c’è una candidata in pectore, Giulia Bongiorno. “Sono palermitana ma 23 anni fa mi sono innamorata di Roma”, dice, prima di raccontare la sua odissea di 4 mesi per rinnovare la carta d’identità. Nelle prime file c’è pure Alberto Bagnai, ma a scaldare la platea arriva Antonio Maria Rinaldi. “Gli altri stanno asserragliati nei palazzi, mentre noi stiamo in mezzo al popolo, noi siamo il popolo!”. Anche la musica ha il suo significato: apertura con “Fratelli d’Italia”, mentre Salvini è accolto dal “Nessun dorma”.

“Renzi spieghi sulle consulenze. No al Mes e alla Von der Leyen”

L’uomo che riempiva le piazze è rimasto dov’era, un passo di lato: “Ma la passione per la politica è sempre fortissima, e alle prossime elezioni politiche ci sarò”. E comunque anche fuori dai Palazzi dove da un po’ di tempo comandano loro, i 5Stelle, Alessandro Di Battista ha molto da dire sui temi su cui il governo discute, anzi litiga: “Se fossi in Parlamento voterei contro l’accordo sul Mes, il fondo salva stati. E quanto sta accadendo sulla fondazione Open conferma l’urgenza di una legge sul conflitto d’interessi”.

Partiamo dall’inchiesta sulla fondazione vicina a Matteo Renzi. Al di là delle eventuali responsabilità penali, cosa racconta della società e della politica italiana?

In una delle ultime interviste pubbliche, da Fabio Fazio, dissi che la corruzione non è più quella della bustarelle, ma si fa con le consulenze. E l’unico modo per smascherarla è appunto una serie legge sul conflitto d’interessi. Prima la politica era più forte delle lobby, poi le lobby hanno prevalso e ora i politici si trasformano direttamente in lobbisti.

Ma non è colpa anche del M5S? Dannando la politica tradizionale e il finanziamento pubblico come sterco del diavolo non avete indirettamente favorito lo strapotere delle lobby?

Noi non abbiamo abolito il finanziamento privato. Da quanto leggo, l’ipotesi degli inquirenti è che le norme con cui è regolato siano state aggirate, ossia che certi imprenditori o multinazionali abbiano restituito il favore per alcune leggi ai governi Renzi e Gentiloni finanziando la fondazione legata ai renziani. Le ricche consulenze commissionate dal gruppo Toto all’avvocato Bianchi (colui che gestiva la fondazione Open, ndr) sono un fatto, e non parlo della loro liceità.

Voi siete contro il finanziamento pubblico, ma Casaleggio si fa dare dai parlamentari i soldi per la piattaforma Rousseau, e sono denari pubblici: tanti.

Sono soldi che i parlamentari accettano di prendere dai loro stipendi per destinarli funzionamento di una piattaforma. Non aggirano norme sul finanziamento, e quei soldi non vengono versati in cambio di favori.

Il governo dovrà occuparsi della blockchain, un tema centrale anche per la Casaleggio associati. Il rischio di un conflitto d’interessi è evidente, non crede?

La blockchain è il futuro, perché è un sistema che consente di colpire il malaffare. La Casaleggio se ne occupa come si occupava del reddito di cittadinanza, e su questo serve un dibattito pubblico e trasparente.

Lei è sempre molto duro con Renzi…

È uno che esiste solo nelle pagine dei giornali, non nel Paese. Si rivende un’identità politica in Arabia Saudita (dove ha partecipato a un convegno dove c’erano grandi produttori di armi, ndr). Anzi, da cittadino vorrei sapere se il senatore Renzi ha ricevuto soldi per conferenze o consulenze. Se ci fosse la legge sul conflitto d’interessi non sarebbe legale.

Resta il fatto che Renzi governa con il Movimento.

Ho criticato l’alleanza con il Pd proprio perché tanti renziani erano rimasti nel partito. Ero molto perplesso su questo governo, ma ora mi auguro che faccia le cose e vada avanti, almeno fino all’entrata in vigore del taglio dei parlamentari.

Crede che rischi di cadere prima?

Conosco i parlamentari e la loro passione per le loro poltrone. Centinaia di posti in meno possono rappresentare un problema. Certo, ai renziani non credo converrebbe: senza stare in Parlamento si è esposti a intercettazioni.

Il governo potrebbe franare per debolezza. Il M5S è dilaniato.

Io penso che il Movimento debba alzare il tiro su determinati temi, come la giustizia, il Mes e le fondazioni dei partiti. Luigi Di Maio lo sta facendo e io sono dalla sua parte, lo sostengo in questa linea.

Ripeto: i 5Stelle esplodono.

Voglio che il Movimento porti avanti le sue battaglie, come la revoca delle concessioni ai Benetton. Su questo noi 5Stelle ci giochiamo il futuro.

Il M5S si è spaccato anche nel parlamento europeo nel voto sulla commissione von der Leyen. Brutto, no?

Comprendo le ragioni dei nostri europarlamentari Ignazio Corrao e Piernicola Pedicini, che hanno votato contro la commissione von der Leyen. Nella grande maggioranza dei suo componenti è fatta di esponenti del liberismo, e il Movimento invece deve essere sempre più anti-liberista. Le proteste in varie parti del mondo sono contro questo sistema, contro l’establishment.

Il presidente del Consiglio Conte deve trattare con l’Europa. Così rischiate di indebolirlo mortalmente, no?

Rispetto il presidente Conte, ma su questioni dirimenti come il Mes deve essere sovrano il Parlamento. Se io fossi un eletto, voterei contro il Mes: questo accordo così com’è rischia di spalancare le porte alla troika. L’Italia deve alzare la voce.

Con il Pd litigate molto anche sulla giustizia.

Quello della prescrizione è un tema su cui i dem devono per forza cedere. Fosse per me, andrebbe bloccata al momento del rinvio a giudizio. È evidente che il Pd votasse con Forza Italia contro questa riforma il M5S non potrebbe portare avanti questo governo. Ma non credo accadrà.

Anche il Pd ha il diritto di discutere di leggi e obiettivi politici, no?

Ritengo che i dem e la Lega siano estremamente simili tra loro, come lo sono Renzi e Salvini.

Quindi alle Regionali in Emilia Romagna e in Calabria non si sarebbe alleato con il Pd? Almeno era favorevole a presentarsi?

Gli iscritti si sono espressi, e io rispetto il loro voto, come sempre.

Lei cosa ha votato?

Non ho votato.

Entrerà nella nuova struttura del M5S?

Vediamo. Non vivo di denaro pubblico e devo lavorare per mantenere la mia famiglia.

Italia Viva cerca sponde in FI e Lega

La campagna di reclutamento di nuove leve in Italia Viva arranca. Ma Matteo Renzi è certo di fare il botto di fine anno. Perché più che in una resa dei conti contro chi lo attacca – sulla storiaccia dell’inchiesta sui finanziamenti alla fondazione Open – intende trasformare il Senato in un palcoscenico formidabile dove andarsi a prendere gli applausi.

“Sono in moltissimi a contestare le norme che cancellando il finanziamento pubblico hanno costretto i partiti ad arrangiarsi come hanno potuto”, ragionano i suoi. E gli altri che dicono? L’ex governatore abruzzese e oggi senatore dem, Luciano D’Alfonso è il meno timido di tutti. “Negli ultimi anni Open si è occupata di mettere in campo l’agenda politica con cui Renzi ha guidato l’Italia, la più compiuta ed efficace stagione riformista che noi abbiamo modo di ricordare: tutto questo non può essere criminalizzato. Qui si tratta della stessa praticabilità della politica per cittadini che non dispongono di patrimoni milionari”.

Nonostante i milioni non siano mai stati un problema grazie a Berlusconi, anche in Forza Italia si ragiona così: “Sulla vicenda Open, Matteo Renzi pone questioni importanti e di origine antica su cui la politica tutta dovrebbe prendere con coraggio una posizione. Sul tappeto c’è la questione del finanziamento ai partiti e del traffico di influenze, che ha lasciato una troppo ampia discrezionalità all’attività della magistratura” dice la vicepresidente di Forza Italia al Senato, Gabriella Giammanco. Ha dunque ragione Giuseppe Cucca di Italia Viva a sottolineare che “il tema dei costi connessi alla possibilità di fare politica è molto sentito”.

E che per questo Renzi non si farà sfuggire l’occasione di uscire dall’angolo dove lo ha messo l’inchiesta per sparigliare, portando il tema in aula a Palazzo Madama subito dopo il via libera alla manovra. I tempi della controffensiva del capo di Italia Viva sono molto contenuti: il gruppo renziano potrebbe pretendere che un’intera seduta sia dedicata alla discussione di una mozione: Renzi sta affilando i coltelli perché sa che oggi è toccato alla sua Open, ma nessuno degli altri leader di partito si sente al riparo.

Dopo la raffica di querele annunciate ai giornali, ora sta pesando il significato politico della mancata censura da parte degli altri partiti ai suoi attacchi frontali ai magistrati di Firenze (“Gli stessi che hanno arrestato i miei genitori”). E tutto lo lascia ben sperare. La replica del sindacato delle toghe è stata secca, ma isolata. Di “intimidazioni” ha parlato l’Anm esprimendo solidarietà ai colleghi. Epperò, al netto delle richieste dei 5 Stelle perché Renzi faccia chiarezza da quanto sta emergendo dall’inchiesta, il silenzio è assordante. Tace soprattutto Matteo Salvini che con i magistrati che si sono occupati di lui non è mai stato tenero: sui 49 milioni della Lega, si rivolse al Colle.