“Alcuni comprano barche e cavalli, io investo su Matteo”

Onorevole Gianfranco Librandi, come documenta l’Espresso lei è uno dei principali sostenitori della Fondazione Open, legata a Matteo Renzi. Ha donato 800mila euro, una cifra impressionante.

È stata fatta in diversi anni.

Quanti?

Ora non ricordo bene, non ho qui i dati. Ho aderito al progetto di Renzi per dare stabilità al Paese. Siamo in un momento delicato. L’unica persona che fa ancora delle cose sensate mi sembra Matteo.

Anche perché è la persona che ha voluto la sua candidatura con il Pd nel 2018.

La mia elezione non era scontata, il mio posto era tutt’altro che blindato. Ero già parlamentare (di Scelta Civica, ndr), non sono mica entrato lì per Renzi. Ora seguo un percorso e aiuto un progetto.

Alla faccia dell’aiuto…

Mettiamola così: ci sono imprenditori che si comprano la barca, o i cavalli… io invece sono interessato al mio Paese. Renzi mi sembra il purosangue più italiano che c’è. Spendo denaro per dare un paese migliore alla mia famiglia. Sarò un idealista…

Un idealista che cambia spesso idea. È stato in Forza Italia, Scelta Civica, Pd e ora Italia Viva. Ha fatto donazioni un po’ a tutti, persino alla Meloni.

Non ho dato nulla alla Meloni. Dalla mia azienda sono stati donati 10mila euro sul territorio, era una scelta dei miei familiari.

Sul territorio? La donazione era a Fratelli d’Italia.

In Lombardia. Mio fratello sosteneva un candidato locale.

In passato lei ha finanziato Sala, Parisi, Gelmini, Scelta Civica, Pd. Un totale di 499mila euro. Mezzo milione di donazioni a pioggia.

Sempre seguendo scrupolosamente la legge.

E non trova inopportuno che un imprenditore versi denaro al partito che lo candida?

Non è così. Da Sala, dalla Gelmini, dalla Meloni e da Parisi io non ho avuto niente.

Nel 2016 Forza Italia voleva eliminare il tetto massimo alle donazioni private. Lei era contrario.

Non bisogna esagerare.

Certo. Disse che senza il tetto “sarebbero stati troppo agevolati quei partiti che fanno riferimento a gruppi finanziari o di capitalisti nazionali o multinazionali”. Parlava di sé?

Io non ho mai esagerato. Faccio donazioni secondo legge, rispettando il tetto che c’è. E non ho mai scaricato quei soldi dalle tasse.

Era invece un sostenitore dell’abolizione del finanziamento pubblico.

Non mi è mai piaciuto troppo l’uso che ne è stato fatto.

Così si torna al via: senza finanziamento pubblico i partiti li finanziano gli imprenditori. Come lei. Che per coincidenza è stato candidato.

Mi scusi, è semplice: è come se lei avesse un amico che fa il fornaio, magari le regala il pane o le fa uno sconto.

Non la seguo.

Lei allude che io sia stato candidato per i soldi, ma io ci metto molta passione. Poi, è vero, ho messo anche una parte tangibile finanziariamente, perché credo nel progetto.

Crede più al progetto Renzi o a quello di Calenda?

Calenda è un mio amico, era con me in Scelta Civica, è una persona molto preparata.

È vero che il nuovo partito di Calenda ha la sede in un immobile di sua proprietà?

Sì.

Quanto paga di affitto?

Non ne ho idea, hanno fatto tutto i commercialisti.

Perché preferisce Renzi a Calenda?

Non ho gradito il fatto che Calenda volesse andare a votare a luglio. Il rischio di Salvini premier è agghiacciante. Mi sembra che Renzi abbia le idee più chiare di Carlo. Purtroppo è un po’ perseguitato.

Renzi?

È giusto che la magistratura indaghi, ma lo facesse con meno visibilità, meno clamore.

Perché ha dato i soldi a Open e non al Pd o Italia Viva?

Anche con il Pd abbiamo fatto alcune cose…

Cos’è che la convince tanto del programma di Iv?

Si vada a rivedere come sono migliorati gli indicatori economici durante il governo Renzi. Bisogna rilanciare l’economia. Io ho una proposta, sto per presentare un disegno di legge: bisogna lavorare 4 giorni alla settimana e pagarli come se fossero 5. In questo modo, col weekend lungo, si sblocca l’economia.

Non fa una piega. I soldi li mette sempre lei?

Conviene anche agli imprenditori. Lo stanno già facendo in Giappone.

Caso Toto, così “Marchino” contattò l’Ad di Autostrade

Marco Carrai avrebbe giocato un ruolo nella vicenda della consulenza affidata allo studio Legale Bianchi dalla Toto Costruzioni Generali e che per gli investigatori era solo un modo per finanziare la Fondazione Open, l’allora cassaforte del renzismo. L’imprenditore amico di Matteo Renzi avrebbe interagito “su mandato di Bianchi (Alberto, ex presidente della Open, ndr)”, con l’amministratore delegato di Autostrade per l’Italia. La novità è contenuta nel decreto di perquisizione del 23 novembre scorso dei pm Luca Turco e Antonino Nastasi nei confronti di Carrai, accusato di finanziamento illecito. E rivela un retroscena dell’indagine fiorentina finora inedito.

Per capire bene questa storia però bisogna fare un passo indietro. La Procura di Firenze infatti indaga Alberto Bianchi per traffico di influenze e finanziamento illecito. Al centro dell’inchiesta c’è una consulenza affidata allo studio legale Bianchi nel 2016 dalla Toto Costruzioni Generali. L’incarico riguardava una accordo transattivo tra la Toto e la società Autostrade, finite in un contenzioso che si trascinava da anni. Bianchi – che per l’occasione lavora all’interno di un collegio di avvocati – risolve la disputa tra le due aziende e riesce a far incassare alla Toto circa 70 milioni di euro. Per gli investigatori però la consulenza a Bianchi è solo un modo per nascondere un finanziamento. Infatti sospettano che una parte del denaro sia finito nelle casse della Fondazione Open, che ritengono essere “un’articolazione di partito politico”.

Ma gli inquirenti scoprono anche altro: ossia un presunto ruolo che sarebbe stato giocato da Carrai, che nella Open è stato membro del Cda. L’imprenditore avrebbe avuto un contatto con l’amministratore delegato di Autostrade per l’Italia, parte in causa con i Toto. “Risulta – è scritto nel decreto di perquisizione – l’intromissione dell’indagato nell’adempimento dell’incarico professionale affidato all’avvocato Alberto Bianchi dal gruppo Toto, avendo il predetto Carrai interagito, su mandato di Bianchi, con amministratore delegato di ‘Autostrade per l’Italia’”. Questo per i magistrati fiorentini rafforza “il rilievo che le operazioni di trasferimento di denaro dal gruppo Toto ad Alberto Bianchi e quindi da Bianchi alla Fondazione Open appaiono in effetti dissimulare un trasferimento diretto di denaro” dai Toto alla Open. I dettagli dei contatti di Carrai con i vertici di Autostrade per l’Italia non vengono svelati dai pm negli atti consegnati agli indagati. E non vi è neanche il nome dell’amministratore delegato con il quale Carrai avrebbe interagito. I vertici di Autostrade sono cambiati a inizio anno. Dal 2005 al 2019 il ruolo di amministratore delegato è stato affidato a Giovanni Castellucci (non indagato) che si è dimesso negli ultimi mesi del 2018. Gli è succeduto Roberto Tomasi (non indagato), nominato a gennaio del 2019.

Adesso quindi i magistrati approfondiranno il ruolo di Carrai nella vicenda dell’affidamento della consulenza dei Toto allo studio Bianchi e cercheranno di capire se vi siano state conseguenze del suo presunto intervento su Autostrade per l’Italia che da anni trascinava il contenzioso contro Toto. Di questo si fa riferimento anche nel bilancio consolidato 2016 della Toto Holding. La disputa riguarda l’appalto Anas “La Spezia”. “In riferimento alla Commessa Lotti 6/7 – è scritto nel bilancio – (…) si segnala che l’ 8 luglio 2016 è stato sottoscritto tra le parti l’accordo transattivo relativo alle riserve maturate nel corso dell’esecuzione dei lavori”.

Firmando l’accordo “Autostrade per l’Italia ha provveduto a riconoscere all’appaltatore un congruo indennizzo per i maggiori oneri sostenuti dall’appaltatore nel corso dell’esecuzione del lavoro per cause ad esso cliente imputabili ed a versare la rata di saldo pari a 75 milioni, del corrispettivo convenuto tra le parti”. Si conclude: “Da parte sua, l’appaltatore ha provveduto a rinunciare ad ogni ulteriore pretesa verso il committente ed ad interrompere ogni azione legale avanzata nei confronti di Autostrade per l’Italia”. Il gruppo Toto ha sempre ribadito la propria estraneità alle accuse.

Dalla Open alla Wadi: i finanziamenti gemelli Renzi-Carrai

In poche righe, nel decreto che dispone la perquisizione di Marco Carrai, si concentra un’intera stagione politica: quella che vede Matteo Renzi conquistare prima la segreteria del Pd e poi il governo. Una storia che, come aveva già rivelato il Fatto nel marzo 2016, nasce a Firenze e si sviluppa in Lussemburgo, dove Carrai fonda la società Wadi ventures sca.

“Le acquisizioni investigative – scrivono il procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco e il sostituto Antonio Nastasi – descritte nelle annotazioni della Guardia di Finanza evidenziano significativi intrecci tra la fondazione Open e le iniziative imprenditoriali lussemburghesi e fiorentine”. Risultato: “S’impone la necessità di accertare quali siano stati, nel dettaglio, i rapporti instauratisi tra gli indagati Bianchi (Alberto, ex presidente di Open, ndr), Carrai (membro del cda di Open, ndr) e i soggetti coinvolti nelle iniziative lussemburghesi e fiorentine”.

Il partito tra bancomat e rimborsi

Per comprendere la portata dell’inchiesta fiorentina bisogna partire innanzitutto da queste parole: “La fondazione Open – scrive la procura – ha agito da ‘articolazione’ di partito politico”. Le indagini della Finanza si sono concentrate sulle primarie del 2012 e sul “comitato per Matteo Renzi segretario”, sulle “ricevute di versamento da parlamentari”, sul “rimborso spese” che alcuni parlamentari hanno ricevuto da Open che, almeno per il caso accertato di Luca Lotti, ha “messo a loro disposizione carte di credito e bancomat”.

Bene. Ma qual è il ruolo di Carrai? “Risulta – continua la Procura – che l’indagato ha svolto un ruolo decisivo nel reperimento dei finanziatori e nel raccordo tra gli stessi e gli esponenti politici rappresentati dalla Fondazione”. Carrai – insieme con Bianchi – è indagato per finanziamento illecito. Per verificare l’assunto, la Procura s’è concentrata sulle sue società.

Firenze-Lussemburgo andata e ritorno

“Risulta – si legge ancora nel decreto di perquisizione – che Carrai è tra i soci dellaWadi Ventures Management Company sarl, con sede in Lussemburgo, il cui unico asset è la società Wadi Ventures sca”. Ad amministrarle, spiegano gli inquirenti, sono lo stesso Carrai, Gianpaolo Moscati e Renato Sica (non indagati).

Anche la Wadi Ventures ha sede in Lussemburgo. Ed è proprio questa seconda Wadi che “risulta destinataria di somme di danaro provenienti, fra gli altri, da investitori italiani già finanziatori della Fondazione Open e collegati a Carrai”.

Non solo. La procura aggiunge che “i soggetti presenti nelle compagini delle due società di diritto lussemburghese ricorrono, insieme con l’indagato, anche all’interno di altre società italiane collegate a Carrai”. Eccole: Yourfuture spa, Cambridge Management Consulting Labs spa, Cys4, Cgnal srl, K Cube srl. Hanno tutte la sede legale allo stesso indirizzo fiorentino: via La Farina 47.

A questo punto bisogna ricordare la premessa del decreto di perquisizione. Carrai – per l’accusa – ha avuto un ruolo decisivo nel reperire i finanziatori di Open e nel raccordarli con gli esponenti politici della fondazione stessa. A partire dal 2012.

Il primo milione della società

Il 2012 è l’anno in cui Renzi decide di scendere in campo a livello nazionale, sfidando Pier Luigi Bersani alle primarie, ma è anche l’anno in cui nascono le società finite nel mirino della Procura. Mentre Renzi annuncia la sfida a Bersani, “Marchino” Carrai vola in Lussemburgo, e il primo agosto crea la Wadi Ventures management Sarl. Pochi mesi dopo, siamo a novembre, arriva l’acquisizione delle partecipazioni della Wadi Sca. E il 27 novembre il finanziere Davide Serra, che già aveva sostenuto la fondazione Big Bang di Renzi, versa 50 mila euro nella Wadi Sca.

Serra – che non è indagato – è stato perquisito nei giorni scorsi. Attraverso il fondo Algebris, tra il 2017 e il 2018, Serra ha finanziato anche un’altra fondazione che orbita vicino al Pd, la Eyu, con 134 mila euro.

Ma torniamo al 2012. A ottobre Carrai crea in Italia un’altra società, la Cys4, che dovrebbe occuparsi di cybersecuity. Ed è un “dettaglio” che tornerà utile ricordare più avanti. Nel frattempo, ricordiamo che, ad aprire il portafogli, per investire in Wadi sca, c’è Francesco Valli, che ne diventa socio con 150mila euro: Valli (non indagato) fino al 2012 è stato a capo della British American Tobacco. Negli anni successivi la British American Tobacco – perquisita nei scorsi giorni – diventa finanziatrice della Open con 150mila euro.

Quando Renzi diventa segretario del Pd, nel 2013, quindi in un solo anno, nelle casse di Wadi sca sono entrati cinque soci e un milione 50mila euro.

E il nuovo socio entra in Finmeccanica

L’anno successivo – siamo arrivati alla primavera del 2014 – Renzi diventa presidente del Consiglio dei ministri. Nel cda di Finmeccanica prende posto un suo ormai storico sostenitore: Fabrizio Landi, esperto del settore bio-medicale, tra i primi finanziatori di Open con 10 mila euro. Interpellato dall’Huffington Post, Landi replicò: “Ma lei pensa che con 10 mila euro ci si compra un posto in Finmeccanica?”. Di certo, pochi mesi dopo Landi (non indagato) investe altri 75 mila euro acquistando azioni della Wadi sca. Landi è anche nel cda della Menarini Dyagnostic, branca della Menarini.

La Guardia di Finanza nei giorni scorsi ha perquisito le abitazioni e gli uffici di alcuni membri della famiglia Menarini che hanno finanziato la Open con 300 mila euro nel 2018.

Ma torniamo alla Wadi sca. Tra i soci che entrano in campo nel 2014 c’è anche il costruttore Michele Pizzarotti (non indagato) con un versamento da 100mila euro. Due mesi dopo il versamento Renzi viene accolto a Parma, nell’azienda del patron Paolo, dove davanti alle tv dichiara: “Occorre far ripartire l’edilizia. Il governo vuol sostenere le imprese italiane all’estero”. Nessun reato, come ovvio, ma un fatto è certo: il socio di Carrai riceve la visita del premier. E in quei mesi la Pizzarotti ha 4 miliardi di opere bloccate. Intervistato dal Fatto, nel 2016 Pizzarotti commentò: “È vero che il ministro Delrio ci ha accolto, ma senza alcun vantaggio per i nostri lavori. Non sapevo che la Wadi fosse controllata ad Carrai, l’ho scelta perché investe in start up in Israele, Paese più innovativo assieme alla California, dove peraltro la mia impresa lavora, nella convinzione di fare un affare azzeccato”.

Il progetto per puntare all’intelligence

Secondo l’accusa, come abbiamo visto, Carrai, che era nel cda di Open, “ha svolto un ruolo decisivo nel reperimento dei finanziatori e nel raccordo tra gli stessi e gli esponenti politici della fondazione”.

Nelle righe precedenti abbiamo passato in rassegna alcuni soci di Wadi sca che – come Landi, per esempio, ma non solo – hanno finanziato anche Open. E ribadiamo che nessuno di loro risulta indagato. Riprendiamo invece la società Cys4 che Carrai crea, sempre nel 2012, un mese prima delle primarie in cui Renzi sfida Bersani. Tra i soci della Cys4 troviamo la Cambridge management consulting labs. Da chi è composta? Dagli stessi soci della Wadi. L’oggetto sociale della Cys4 recita: “Prestazione, in Italia e all’estero, di servizi di progettazione, assistenza, consulenza nonché vendita di prodotti inerenti negli ambiti della sicurezza fisica e della sicurezza logica”. È merce che interessa all’intelligence. Software utili alla cosiddetta Cybersecurity.

La candidatura per la Cybersecurity

Quattro anni dopo la creazione della Cys4, nel 2016, Matteo Renzi (non indagato) intende nominare qualcuno a capo della sicurezza informatica del Paese, la cosiddetta Cybersecurity. E qual è il nome che mette sul tavolo? Quello di Carrai che, peraltro, proprio a causa della Cys4, sarebbe in palese conflitto d’interesse. La nomina sfuma – dopo le inchieste pubblicate dal Fatto e l’inquietudine manifestata dalla Cia – grazie all’intervento diretto del presidente Mattarella.

Ma resta un fatto. Carrai è l’uomo che, secondo la procura di Firenze, reperiva finanziatori e li raccordava con i politici della fondazione Open. È il socio della Wadi lussemburghese che riceveva denaro da “investitori italiani” che, a loro volta, avevano “finanziato” la Open. È l’uomo che crea la Cys4. È l’uomo al quale Renzi intende affidare la guida di un nuovo organismo – mai nato dopo lo stop imposto da Mattarella – che dovrà occuparsi d’intelligence. Ma tutta questa catena – uomini e società finiti nel mirino degli inquirenti – nasce nel 2012.

L’anno in cui Renzi inizia a scalare il Pd e punta Palazzo Chigi. L’anno in cui Renzi inizia la sua ascesa al potere.

Depositi&prestiti

Non essendoci lasciati intimidire dal trio B.-Previti-Dell’Utri e neppure da Salvini, specializzati in querele e cause per danni a raffica, figuratevi se ci spaventa la loro controfigura parodistica e farsesca, al secolo Matteo Renzi. Da qualche giorno le nostre buche delle lettere – la mia e quella del Fatto – sono intasate di atti di citazione a mazzi, anzi a strascico firmati da questo pover’uomo, che ci accusa di diffamarlo e ledere la sua presunta onorabilità perché ci ostiniamo a raccontare le sue imprese. Politiche e soprattutto affaristiche, visto che non si capisce più che mestiere faccia. Con tutto quel che avrebbe da fare con i compari di Open e di Eyu inseguiti dalle Procure e dalla Finanza, trova il tempo di annunciare di averci chiesto “poco meno di un milione di danni”, col simpatico hashtag “colpo su colpo”, degno di un bullo di Ostia più che di un senatore di Scandicci. Poi, per cambiare un po’, ha pure minacciato una querela penale perché ieri ho scritto di un aiutino del “governo Renzi” nel 2017 al gruppo Toto, che poi finanziò Open: la svista era evidente e l’avrei rettificata spontaneamente, ben sapendo che nel 2017 il governo era presieduto da Gentiloni. Ma il nome del premier non sposta di un millimetro la questione. Di quel governo, Renzi fu l’artefice e il dominus: avendo giurato l’addio alla politica, era rimasto segretario del Pd, partito di stra-maggioranza, e aveva piazzato tutti i suoi uomini nei posti-chiave, da Gentiloni alla Boschi, da Delrio a Lotti, dalla Madia a De Vincenti, da Padoan a Calenda, dalla Bellanova a Faraone, da Scalfarotto a Migliore. Dunque, ammesso e non concesso che Toto volesse ricambiare il favore finanziando Open, non avrebbe sbagliato indirizzo.

In ogni caso, in veste di querelati e denunciati, siamo in buona compagnia: il disperato sta trascinando in tribunale tutti quelli che osano parlare di lui senza leccargli l’epa e la pappagorgia. Affinchè smettano anche loro, come già fanno spontaneamente i giornaloni che da due giorni nascondono lo scandalo Open con titolini invisibili in prima pagina, perlopiù dedicati non ai fatti oggetto dell’inchiesta, ma alle farneticazioni del rignanese. Il quale è talmente disabituato alla critica e persino alla satira che ha denunciato persino Crozza, per dire quanto è lucido e sereno. Se ci avesse chiesto un consiglio, gli avremmo suggerito di lasciar perdere i tribunali. Sia perché quelli come lui dovrebbero starne alla larga. Sia perché un laureato in legge dovrebbe conoscere la differenza fra uno sbaglio innocuo o una parodia di Crozza e un reato di diffamazione.

Sia perché fare causa a chi dice la verità porta sfiga: si rischia di perdere (Salvini), ma pure di finire in galera (Previti e Dell’Utri) o ai servizi sociali (B.). In ogni caso, se il poveretto si diverte così, faccia pure: casomai la sua pesca a strascico nelle nostre tasche gli portasse davvero “parecchi soldini”, almeno di quelli si conoscerebbe la provenienza. Resta invece da spiegare dove abbia preso tutti gli altri: quelli che gli hanno consentito di passare da un misero conto in banca con 15mila euro (fu lui a esibirne l’estratto a Matrix nel gennaio 2018) all’acquisto in giugno di una villa da 1,3 milioni e di totalizzare – lo dice lui – 800mila euro di entrate l’anno scorso e 1 milione quest’anno. Ai primi del 2018 la sua carriera di conferenziere-globetrotter (pagato non si sa bene da chi né come: c’è persino una misteriosa associazione intestata all’incolpevole Giovanni Spadolini) era appena agli inizi. Lo stipendio da parlamentare scattò solo dall’aprile 2018 (non più di 400 mila euro lordi l’anno, comunque). E i libri e i documentari tv -per quanto geniali come i suoi – non portano guadagni milionari, salvo che ci si chiami Camilleri o Angela.
Dunque attendiamo fiduciosi la lista dei bonifici con relativi donatori. Ma con tutti i processi che sta innescando con le sue mani, non mancherà occasione. Tantopiù che oltre la metà del costo della villa, 700mila euro su 1,3 milioni, gliel’anticipò la generosa madre dell’imprenditore Riccardo Maestrelli, che lui aveva nominato a Cassa Depositi e Prestiti e naturalmente finanziava Open. Un prestito – dice Renzi – che lui restituì nel giro di quattro mesi. Cioè fra giugno e ottobre di quell’anno d’oro che è stato per lui il 2018: l’anno in cui, mentre completava nelle urne la distruzione della sinistra italiana, ingrassava il suo conto corrente da 15mila a 800 mila euro in pochi mesi. Non sono questioni penali, almeno per lui e per ora. Ma politiche, etiche, deontologiche. Un politico che da premier nomina un imprenditore a un incarico pubblico (Cdp) non dovrebbe accettare un euro di finanziamento al suo partito o alla sua fondazione, né tantomeno chiedergli un prestito per la sua villa. Altrimenti, come minimo, è conflitto d’interessi e, come massimo, corruzione. Per informazioni, rivolgersi a Raffaele Marra, arrestato quand’era capo del Personale della giunta Raggi e condannato in primo grado per corruzione perché, ai tempi di Alemanno, si era fatto dare soldi per una casa dal costruttore Scarpellini, senza peraltro dargli nulla in cambio. Vedremo se la legge è uguale per tutti. Le indagini dell’Antiriciclaggio sono appena partite. Nell’attesa, siccome Renzi conferma il mega-prestito alla famiglia del suo nominato, e ne ha pure ricevuto un altro da 20mila euro da Marco Carrai che colleziona incarichi pubblici nella Firenze renziana, dovrebbe spiegare se li ritenga conformi all’art. 57 della Costituzione: “…I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore…”. Ma forse ha solo equivocato il significato di Cassa Depositi e Prestiti. I prestiti li abbiamo visti: attendiamo notizie sulla cassa e i depositi.

Non chiamatelo saggio di diploma: “L’ultimo piano” è un film maturo

Sembra un rifugio post-apocalittico l’appartamento all’ultimo piano abitato da un manipoli di individui precari, chi socialmente e chi psicologicamente: il food-rider sfruttato, la studentessa universitaria ucraina, la madre single dalla vita incasinata e soprattutto il padrone di casa sulla cinquantina, ex punk ancorato a un passato claustrofobico. Nessuno sembra al posto giusto, ma tutti si specchiano fra quei muri-murales disfunzionali e seducenti. È una bella sorpresa il film L’ultimo piano proposto al Torino Film Festival come evento speciale dalla Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté: coral-collegiale a tutti i livelli, è frutto della realizzazione degli studenti a conclusione del loro triennio formativo. Se la sintesi lo definirebbe “saggio di diploma”, nella realtà è ben altro, perché appare come dramma socio-esistenziale compatto e compiuto, e dunque lontano dal compito scolastico che ci si sarebbe potuti attendere. Certamente contano la supervisione del direttore artistico Daniele Vicari e la produzione esecutiva della Vivo Film, ma queste nulla tolgono alla maestria dei 9 giovani registi (Cacchioni, Caporiccio, Carchedi, Di Nuzzo, Ferrari, Iacoella, Lapenna, Pinocchio, Podda) e dei loro compagni, fra cui 8 sceneggiatori e tanti altri per un totale di 60 ragazzi impegnati nei vari reparti. Insomma, un vero lavoro d’equipe qual è la sostanza stessa del fare cinema dal risultato di promettente eccellenza per ciascuno dei talenti messi in campo. Il lavoro passerà in première oggi all’Auditorium del Dams torinese.

Tahar Ben Jelloun, il militante pacifista innamorato dell’Italia

Auguri a Tahar Ben Jelloun per i suoi 75 anni (che compie insieme a Daniel Pennac, nato come lui in Marocco nel 1944). La ricorrenza consente di ragionare sulla fortuna dentro i nostri confini della letteratura francese contemporanea. Taluni autori d’Oltralpe beneficiano di un vero e proprio culto. Pensiamo almeno a tre nomi che infiammano i lettori più militanti: Houellebecq, Carrère, Ernaux. Ben Jelloun sembra scontare una ricezione più defilata. Eppure è l’autore più legato alla realtà italiana. Non solo per la sua costante presenza in libreria da più di trent’anni (dopo Einaudi e Bompiani ora è La nave di Teseo a pubblicare titoli vecchi e nuovi). Non solo per la vasta pubblicistica sulla nostra stampa (non si contano i suoi interventi sull’attualità, non ultimi i suoi strali contro le politiche migratorie di Trump e Salvini). Non solo per le sue numerose partecipazioni, oltre che a festival e conferenze, ai talk politici della nostra tv (i Democratici di Sinistra guidati allora da Veltroni lo candidarono alle Europee del 1999). Ma soprattutto perché, in mezzo alla sua nutrita bibliografia, fanno capolino due romanzi ambientati a Napoli (L’albergo dei poveri e Il labirinto dei sentimenti).

L’autore ha affermato che la città gli ricorda la sua terra natale: “La sua confusione straripante, la sua corruzione, i suoi problemi sociali, tutto mi riporta al Marocco” Se poi aggiungiamo la manifesta passione di Ben Jelloun per la filmografia di Sergio Leone, ecco che abbiamo il ritratto di un francofono innamorato del Belpaese.

L’autore premio Goncourt 1987 con Notte fatale – in un tempo dove la figura dell’intellettuale engagé è consegnata agli archivi – ha il merito di avere rinnovato l’etica dell’impegno. Ben Jelloun è tra i pochissimi intellettuali arabi capaci di raccontare l’Islam senza subire processi sommari di parzialità o di connivenza (nei suoi scritti, con puntiglio filologico, ha dimostrato più volte che il male è l’islamismo, deviazione strumentale a uso del terrorismo, e non l’Islam in quanto tale). Così come è altrettanto autorevole e incisivo nel denunciare il pericolo dell’intolleranza. Resta celebre il suo Il razzismo spiegato a mia figlia dove ribadisce che non esistono religioni che inneggino al pregiudizio o alla discriminazione.

La sua biografia è tutta nel segno di una indefessa militanza contro violenze e oppressioni (in La punizione ha raccontato della sua reclusione in un campo disciplinare dell’esercito marocchino a metà degli anni 60).

Ha scritto decine di reportage, una volta stabilitosi in Francia, per indagare la realtà degli immigrati maghrebini nelle periferie (è stato la firma più autorevole e prolifica su Le Monde). Non c’è sua opera che non contempli tra i suoi protagonisti gli esclusi e gli emarginati della società. Una sensibilità tanto acuta per la libertà dell’uomo che vale la pena menzionare la sua dichiarazione di poetica: “La letteratura non può cambiare il mondo, ma il silenzio è un’intollerabile complicità”.

Dean in carne e pixel: gioventù sì, ma riscaldata al microonde

Vivo, morto, X. Lo sappiamo, un cinema, e non solo questo, sempre più a corto d’immaginario arranca, e in mancanza di idee nuove si mette a riutilizzare le vecchie: remake, spin-off, versioni live-action di classici d’animazione, saghe, adattamenti, trasposizioni. Ma certe volte non basta, certe volte tocca stravolgere l’ordine naturale e resuscitare i morti. Macché horror, questa rivoluzione, anzi, involuzione non riguarda i generi, bensì gli attori: l’orrore, piuttosto. Complice una tecnologia che sposta questioni morali e rovelli etici un gigabyte più in là, la mozione d’ordine 4.0 farebbe saltare i punti di sutura al mostro di Frankenstein: se si può fare, che si faccia, nulla osta.

Sicché la gioventù bruciata viene riscaldata al microonde, e il mitico, maledetto James Dean ritrova il grande schermo a sessantaquattro anni dal fatale incidente automobilistico del 30 settembre del 1955: no, a essere restaurato non è il film, bensì lui, che la cura CGI (Computer-Generated Imagery) restituirà in carne e ossa in un lungometraggio girato ex novo. A officiare la resurrezione digitale la società di produzione Magic Company, che ottenuti i diritti dell’immagine di Dean dagli eredi ne farà il coprotagonista di un film sulla guerra in Vietnam, Finding Jack, diretto da Anton Ernst e Tati Golykh e previsto in sala per il Veterans Day del 2020 (11 novembre).

Se questa zombificazione non vi aggrada, siete in buona compagnia: i social sono tracimati d’indignazione, utenti più o meno illustri si sono stracciati le pic, rigettando l’impiego postumo del corpo e del viso dell’attore morto a soli ventiquattro anni e tre film. Il Captain America della Marvel Chris Evans ha sparato, pardon, twittato ad alzo zero: “È orribile. Forse potremmo chiedere a un computer di dipingerci un nuovo Picasso”. Un altro collega avvezzo al CGI, quell’Elijah Wood che fu Frodo nel Signore degli Anelli, condensa il disgusto in quattro lettere: “NOPE”, ma il primo premio va a un cinguettatore meno altolocato, che prende il titolo più celebre di Dean, Gioventù bruciata ovvero Rebel Without a Cause, mischia con la “resa grafica” ed esplode un terminale “Rendered Without a Cause”.

L’ironia non si risparmia, perché non è solo vilipendio di cadavere, ma concorrenza sleale: “Provate a immaginare di fare un provino e vedervi rubare il ruolo da un morto degli anni Cinquanta”. Già, le reazioni al film con Dean saranno sicuramente meglio del film stesso.

Ma il buon James, sebbene i familiari – “ignari” di Brandon Lee nel Corvo (1994) e Peter Cushing in Rogue One (2016) – gli rivendichino l’essere arrivato primo, o uno, al traguardo, non rimarrà solo: si replicherà a soggetto e, se è vero che la defunta Carrie Fisher dovrebbe comparire nel prossimo Star Wars: L’ascesa di Skywalker (uscita 18 dicembre) di J.J. Abrams non in CGI ma in riprese dal vero inutilizzate, l’orda dei morti viventi preme per (ri)entrare in sala.

Qualcuno ha guardato orizzontale ma lungo, e s’è attrezzato per la resurrezione dei corpi celebri. La Worldwide XR detiene i diritti di più di quattrocento star di ambiti diversi, dal cinema all’atletica, e al grido “gli influencer vanno e vengono, le leggende non moriranno mai” è pronta a far scritturare redivive icone del calibro di Bette Davis, Bettie Page, Christopher Reeve, Ingrid Bergman, Jimmy Stewart, Lana Turner, Rock Hudson. Nel novero, a suonare il mancato De profundis potrebbe prestarsi Dizzy Gillespie.

In confronto i vecchietti ringiovaniti di The Irishman, i Bob De Niro, Al Pacino e Joe Pesci a cui Martin Scorsese ha fatto un make-up all’ultimo pixel, sono il passato, se non fosse che proprio dal – letterale – trapassato remoto viene questo presente-futuro frammisto di hybris e avidità.

Nulla è immune all’effetto, e se il paradiso davvero può attendere, il palco meno: il soprano Maria Callas ha virtualmente riconquistato le platee globali, perché all’ologramma non si comanda, e da Amy Winehouse a Nat King Cole, da Elvis Presley a Michael Jackson la nostalgia è sempre più canaglia.

 

Lo studente disastroso che ha aiutato la letteratura

È difficile spiegare quanto Daniel Pennacchioni, soprattutto tra Ottanta e Novanta, sia stato importante per milioni di lettori. Difficile perché sembra di parlare di ere geologiche lontanissime, quando le edicole erano ancora vive, le librerie non dovevano affrontare una nemesi chiamata Amazon e – addirittura – era ancora lecito credere che la vita ti desse il tempo e il lusso per a) leggere, b) sognare, c) applicare entrambe le cose alla propria quotidianità.

Il suddetto Pennacchioni, che per fortuna nostra e più ancora sua si è fatto chiamare “Pennac” sin da inizio carriera, compirà 75 anni il prossimo primo dicembre. Nato a Casablanca in una famiglia di militari di origini corse e provenzali. Infanzia in Africa, Asia, Europa tutta e poi nello specifico Francia. Dislessico, studente disastroso. Fu salvato a fine liceo da un professore, che ne intuì la propensione alla scrittura – se non proprio il talento – e gli disse: “Tu con me non farai più temi, ma scriverai un romanzo a puntate”. Giusto per capire quanto la scuola possa cambiare a tutti la vita, in meglio o in peggio dipende (da troppi fattori). Insegnante per ventotto anni a partire dal 1970, per attitudine ma forse più ancora per guadagnarsi da vivere (e ritagliarsi tempo da scrivere in estate).

Esordisce con un pamphlet ferocissimo contro l’esercito, da lui ritenuto non meno che un mefitico microcosmo tribale, tanto per rimarcare la fascinazione che gli aveva provocato l’impronta familiare. Scrive due libri di fantascienza con Tudor Eliad, ma non se li compra neanche da solo. Prova allora con la letteratura per bambini e va un po’ meglio: un libro in particolare, Abbaiare stanca, rimane una delle maniere migliori per innamorarsi dei cani e capire come si viva accanto a loro. Nel 1985 scommette con alcuni amici, assai scettici sulla sua capacità di scrivere un giallo, che con quel genere lì avrà successo. Ha ragione lui, perché Il paradiso degli orchi fa il botto. Erano anni – chissà perché – adatti alle saghe, sorta di serie tivù cartacee ante litteram: basta pensare, tra i tanti, al Pepe Carvalho di Manuel Vázquez Montalbán e al Fabio Montale di Jean Claude Izzo. Il paradiso degli orchi apre la saga Malaussène, che regala un successo irripetibile a Pennac. Più volte l’autore ha raccontato di avere attinto non poco da Stefano Benni: si vede e si sente. La stessa ironia buona, la stessa capacità di inventare mondi impossibili e per questo possibilissimi.

Il Pennac della seconda metà degli Ottanta è come condannato a non sbagliare mai: lo attestano La fata carabina e La prosivendola, che completano la trilogia perfetta (nel 1995 uscirà poi Signor Malaussène).

La famiglia multietnica del povero Benjamin Malaussène, professione “capro espiatorio” perché la sua dote migliore è indurre tutti a compatirlo, entra nel cuore di tutti, al punto che un pellegrinaggio a Belleville – il quartiere parigino dove i Malaussène vivono – nei Novanta era obbligatorio o giù di lì. Pennac, pubblicato in Italia da Feltrinelli, diviene gallina dalle uova d’oro e ogni cosa che stampa va a ruba. Compreso un saggio del 1992, Come un romanzo, che contiene il decalogo perfetto per indurre i giovani ad amare la lettura. È ingiusto affermare che Pennac si sia fermato lì, come attestano i romanzi e i saggi – nonché i saltuari ritorni alla saga Malaussène – succedutisi dalla seconda metà dei Novanta fino ad oggi. È però innegabile che il decennio 1985-1995 sia coinciso con la sua epifania più fulgida. Sua e di molti lettori fortunati, che grazie (anche) a Pennac hanno allenato la fantasia e aperto gli occhi all’inverosimile. Nel 1994 Alessandro Baricco era già narciso (giustamente) e non ancora renziano (per fortuna). Conduceva un programma su Rai3, Pickwick, dove aveva il potere di farti innamorare di tutto quello che piaceva a lui.

Lo fece anche con Pennac, e che Dio lo benedica. Il mondo di Benjamin Malaussène era – e resta – un calderone di umanità varia e mai avariata, dove persino gli omicidi hanno un che di gentile. Madri sempre incinte, protagonisti che non invecchiano, sorelle ore infermiere ora fotografe e ora (forse) veggenti. Povere bimbe chiamate “Verdun” in onore di vecchietti reduci dall’omonima battaglia. Cani buffi e pestilenziali. Risate, sorprese, sogni. Una meraviglia perdurante e immortale. Grazie di tutto, Daniel. E tanti auguri.

Dai crac bancari a San Pietro: si riclica pure Barbagallo

Può sembrare ironico ma, travolta da un’inchiesta finanziaria costata il posto al direttore Tommaso Di Ruzza, l’Aif (l’Autorità antiriciclaggio del Vaticano) ha deciso come primo atto di riciclare l’ex capo della vigilanza della Banca d’Italia. Carmelo Barbagallo guiderà l’authority su volontà del Papa. “Cercherò di portare l’esperienza accumulata in quarant’anni in Banca d’Italia”, ha spiegato ieri. L’auspicio non è dei migliori. Oltretevere arriva una figura che ha lasciato a desiderare in quanto a efficacia della propria azione. Barbagallo, dal 2011 a capo degli ispettori di Via nazionale, ha legato il suo nome alla stagione peggiore della Vigilanza, quella dei scandagli bancari, iniziati col Montepaschi e finiti col dissesto delle 4 banchette (Etruria & C.) e delle popolari venete. Una scia di orrori culminata nella Commissione parlamentare di inchiesta sulle banche, dove gli uomini del governatore Ignazio Visco hanno messo in scena la solita autodifesa: i banchieri ci hanno ingannato e quando lo abbiamo scoperto li abbiamo denunciati ai pm. In audizione il dg della Consob, Angelo Apponi accusò Barbagallo di non avergli fornito tutte le informazioni di cui disponeva sulle banche decotte. Ne è emerso il sospetto che sia stata una “distrazione di sistema”. A giugno Barbagallo ha lasciato il posto dopo aver visto infrangersi i sogni di entrare nel direttorio (di cui però è diventato “consulente”). Visco lo ha sacrificato, insieme al dg Salvatore Rossi, per quietare il governo gialloverde.

Da Bankitalia, antico tempio massonico, al Vaticano. Alla corte di papa Francesco Barbagallo ritroverà l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone, ora capo del tribunale della Santa sede. Magari i due potranno chiarirsi su che fine ha fatto l’indagine aperta due anni fa proprio da Pignatone dopo l’esposto presentato dal banchiere Pietro D’Aguì, che conteneva pesanti riferimenti alle manovre di Barbagallo per bloccare l’acquisizione di banca Bim.

Zanchetta è già su un aereo. Ma la Procura non lo molla

Oggi è già di ritorno. Direzione Roma, Città del Vaticano. È volato in Argentina per sole 48 ore, monsignor Gustavo Zanchetta, il vescovo emerito accusato da almeno due seminaristi di “abusi continui ed aggravati” dal suo status di ministro del culto. Si è presentato davanti alla giudice Maria Laura Toledo Zamora, nell’aula II del Tribunale di Orán, accompagnato dal suo avvocato canonico e portavoce Javier Belda Iniesta, per una udienza di fatto tecnica. “L’incontro è stato una formalità – ha spiegato Belda Iniesta – per eleggere il domicilio del mio assistito per le comunicazioni processuali: la notifica avverrà tramite email di posta certificata. Sono state poi nuovamente registrate le sue impronte digitali che, precedentemente, la polizia non aveva preso in modo corretto”.

La procura, rappresentata da Maria Soledad Filtrín Cuezzo, ha provato nuovamente a chiedere le misure restrittive (il ritiro del passaporto vaticano), per impedire all’indagato Zanchetta di fare ritorno a Roma. Ma il giudice si è riservato di decidere fra tre giorni. “E comunque ha già respinto ad agosto tale richiesta – tiene a precisare Belda Iniesta – perché il Monsignore sta collaborando con la giustizia e non c’è motivo di attuare tali forme di coercizione nei suoi confronti”. E così monsignor Zanchetta si è presentato a Orán – dopo che la procuratrice Filtrín Cuezzo aveva richiesto giorni fa di emettere nei suoi confronti un mandato di cattura internazionale – e, dopo la breve udienza, ripartire per svolgere le sue “mansioni quotidiane” in Vaticano. Proprio in Vaticano, come ha raccontato nei giorni scorsi Il Fatto, il vescovo risulta però sospeso da ogni incarico (dal 4 gennaio 2019, per la precisione).

Mesi fa, prima ancora che iniziasse il processo a suo carico (a oggi deve ancora svolgersi l’udienza preliminare), a Zanchetta fu permesso di rientrare in Vaticano proprio grazie a un certificato, con tanto di sigillo della Segreteria di Stato vaticana. Firmato dall’arcivescovo venezuelano Edgar Peña Parra e dall’avvocato, oggi sospeso per altre vicende, Vincenzo Mauriello, nel documento si affermava che Zanchetta è un “impiegato del Vaticano” che lavora presso l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica (Apsa) e “ivi abita, nella residenza di Santa Marta”.

La paura per la procura è da sempre quella che il prelato, tornando in Vaticano, si possa sottrarre al giudizio in Argentina. Non esiste infatti alcun accordo relativo alle estradizioni tra Argentina e Stato Vaticano. Paura che si è riaffacciata proprio due giorni fa, nel processo per gli abusi sui bambini dell’Istituto Provolo.

Per la prima volta, un tribunale in Argentina ha condannato due sacerdoti dell’Istituto Provolo, che ha la casa madre a Verona, per una serie di abusi e violenze sessuali commessi tra il 2005 e il 2016 su vittime minorenni: bambini sordi, spesso orfani, che vivevano nell’educandato di Mendoza. Una sentenza pesante: 45 anni di reclusione per il prete argentino Horacio Corbacho e42 anni per il sacerdote veronese Nicola Corradi. All’arresto era invece sfuggito un altro religioso, il veronese don Eliseo Pirmati,accusato di violenza sessuale aggravata, atti osceni e corruzione di minorenni in un procedimento collegato. Dopo i primi arresti in Argentina, don Eliseo Pirmati è tornato a Verona, sfuggendo anche al successivo mandato di cattura. A giugno è stato filmato dall’Espresso mentre girava indisturbato per Verona. E, a oggi, risulta ancora libero in città. Nonostante la richiesta di estradizione da parte dei magistrati argentini, rifiutata finora dai giudici competenti della procura generale di Venezia.

Ma, nel processo contro Zanchetta, la procuratrice Maria Soledad Filtrín Cuezzo non ha intenzione di fermarsi. L’accusa di “atti e manovre di seduzione e manipolazione”, nel coinvolgere sessualmente le sue vittime, “con intenzioni malvage” non si baserebbe solo su due seminaristi. Ci sarebbero almeno altri venti testimoni pronti a confermare le “attenzioni ossessive” di Zanchetta.

“È stato molto difficile verbalizzare questi racconti, guardare la paura nei loro occhi, la loro totale impotenza nel reagire e difendersi”, ha spiegato Filtrín Cuezzo. “Anche se non ci sono stati veri e propri atti di violenza fisica ma palpeggiamenti, qui si tratta soprattutto di abusi di potere e abusi sulla coscienza di queste persone. I seminaristi coinvolti erano particolarmente spaventati perché Zanchetta fu presentato a Orán come amico del Papa. Avevano timore reverenziale, rispetto… nessuno poteva arrivare a immaginare di sottrarsi alle sue ‘attenzioni’. Questa di Salta, ai piedi delle Ande argentine, è anche una delle province più povere della regione… e molti dei seminaristi provenivano da qui”.

Degli “strani atteggiamenti” di Zanchetta, come “guardarli di notte passeggiando per le loro stanze a tarda notte con una torcia elettrica, chiedendo massaggi, entrando nelle loro stanze quando si alzavano, incitandoli a bere bevande alcoliche…”, parlano anche le denunce interne alla Chiesa. Tra il 2015 e il 2016, cinque sacerdoti (tre vicari generali e due monsignori) del vescovado di Orán allertarono le autorità ecclesiastiche locali e la Nunziatura apostolica in Argentina. La voce arrivò fino a Bergoglio che, per ben due volte, nel 2015 e nel 2016, chiamò a riferire a Roma il suo attuale vicino di residenza, il vecchio amico argentino Gustavo Zanchetta.