Dopo i Gilet, a Parigi marciano i trattori

I trattori si sono messi in marcia durante la notte: direzione Parigi. Non faceva neanche giorno e già circa mille veicoli venuti dalle campagne bloccavano gli accessi alla capitale. Oltre 300 chilometri di file sono stati contati alle 8:45 sulle strade della regione della capitale e la sua tangenziale. Avrebbero voluto raggiungere l’Arco di Trionfo passando per l’avenue Foch ma si sono imbattuti negli sbarramenti della polizia. Un gruppo di alcune centinaia di agricoltori è comunque riuscito a raggiungere a piedi o in automobile gli Champs-Elysées e a rovesciare delle balle di fieno davanti al Fourquet’s, il ristorante di lusso che era stato preso di mira anche dai Gilet gialli.

Accerchiati da agenti in assetto antisommossa hanno promesso che non avrebbero lasciato la capitale finché non avessero ottenuto un incontro all’Eliseo. Incontro che è stato fissato con il premier Edouard Philippe per la mattina del 3 dicembre. Il movimento quindi per ora è sospeso. La parola d’ordine però resta: “Macron, réponds-nous”. Sui loro trattori hanno messo cartelli con la scritta: “Voglio vivere del mio mestiere” e “Lasciatemi lavorare”.

La mobilitazione di ieri, a pochi giorni dallo sciopero generale del 5 dicembre, era stata indetta dai sindacati Fnsea-Federazione nazionale dei sindacati degli agricoltori e JA-Giovani Agricoltori. Il nodo della protesta è il prezzo sempre più basso dei prodotti agricoli. La legge detta Egalim, entrata in vigore nel febbraio 2018, avrebbe dovuto mettere fine alla guerra al ribasso dei prezzi nella grande distribuzione, che si ripercuote sui produttori. Ma non è stato così: “Chiediamo ai distributori e agli industriali di permettere agli agricoltori di tornare a vivere dignitosamente del loro lavoro”, ha detto alla stampa francese Baptiste Gatouillat, vice presidente di JA. Rivedicano dunque innanzi tutto il diritto ad un reddito degno: secondo gli ultimi dati dell’Istituto di statistica Insee, circa il 20% degli agricoltori francesi ha dichiarato un reddito pari a zero o addirittura deficitario per il 2017.

I più poveri sono i produttori di cereali (30%) e gli allevatori di caprini e ovini (28%). Il reddito netto medio della categoria è inferiore ai mille euro al mese. Un terzo vive con appena 350 euro al mese. La maggior parte di chi è proprietario dell’azienda non può sperare in una pensione superiore ai 760 euro. Gli agricoltori denunciano anche gli accordi internazionali liberali firmati dalla Francia e dall’Ue con il Mercosur e il Canada.

Temono l’importazione ogni anno di tonnellate di carne a tasso ridotto e prodotta con standard sanitari meno esigenti. “Invece di sostenerci – ha aggiunto Gatouillat – il governo ci impone nuove spese rendendoci meno competitivi. Chiediamo una concorrenza leale, e che per tutti valgano gli stessi standard”. Non è la prima volta che gli agricoltori francesi gridano il loro malcontento. Il settore è in crisi cronica. La popolazione agricola rappresenta solo il 2,8% degli attivi in Francia e il numero di aziende agricole continua a calare malgrado le diverse politiche messe in atto dai governi: da 514mila del 2008 sono passate alle 448mila del 2018, secondo la Msa, l’ente previdenziale agricolo, ma erano più di un milione alla fine degli anni 90. Il tasso di suicidi tra gli agricoltori, proprietari e dipendenti, è molto alto, superiore del 12% rispetto al resto della popolazione. Un agricoltore si suicida ogni due giorni in Francia. Alle 17 di ieri finalmente un gruppo di rappresentanti sindacali ha potuto incontrare il ministro dell’Agricoltura, Didier Guillaume.

Omicidio Caruana. “Accuso il capo staff del premier Muscat”

Il mandante dell’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia è Keith Schembri, ex capo dello staff del premier Joseph Muscat. Lo sostiene Yorgen Fenech, l’uomo d’affari che era alla guida della holding Tumas e dirigente della Electrogas, arrestato una settimana fa prima di tentare fuggire con il suo yacht. Fenech ha raccontato che Schembri gli propose, una settimana prima del suo arresto, un piano per scomparire: sarebbe dovuto andare in Tunisia in barca per poi recarsi a Dubai, dove sarebbe stato al riparo da qualsiasi inchiesta giudiziaria.

Alla riunione aveva partecipato anche il medico della famiglia Fenech, Adrian Vella che aveva messo a disposizione la sua residenza a Gozo. Per quale motivo Fenech non accettò, non lo ha detto. Questa è la versione dell’ex re del gas e dei casinò che ora si propone come testimone principale dell’indagine. La polizia tentenna: alcune fonti citate da Times of Malta ricordano che Fenech aveva fornito diverse informazioni inaffidabili nei primi interrogatori. Di certo il caso, come una valanga, può spazzare via il governo Muscat e i suoi fedelissimi. Per tre di loro i guai sono già iniziati: oltre a Keith Schembri, arrestato, due ex ministri, Chris Cardona e Konrad Mizzi, si sono dimessi. Ieri sera il primo ministro Muscat ha rispedito indietro l’invito del capo dell’opposizione, Adrian Delia, a presentare le dimissioni. Delia ha chiesto a Muscat se fosse disposto “a farsi carico della responsabilità per le ramificazioni politiche delle indagini sull’omicidio di Daphne Caruana Galizia”. Muscat ha replicato: “Le istituzioni stanno lavorando e le stiamo difendendo, il mio compito è quello di garantire che un caso così delicato sia risolto sotto il mio mandato. Se il leader dell’opposizione pensa che devo dimettermi, ha i modi e i mezzi per presentare un voto di sfiducia”. A questo punto i parlamentari del Partito Nazionalista hanno lasciato l’aula. Ma anche questa parte politica ha i suoi malumori: Delia ha deciso di annullare la manifestazione organizzata per domenica prossima dopo che il suo predecessore Simon Busuttil – fu il candidato premier contro Muscat nelle elezioni del giugno 2017 – ha pubblicato sui social alcune frasi chiedendo come Delia potesse sostenere l’iniziativa quando due suoi deputati “erano in rapporti con Yorgen Fenech”.

Quest’ultimo sta cercando di ottenere l’immunità. Il periodo di 48 ore per il quale Fenech può essere trattenuto – è stato arrestato per la quarta volta – scadrà alcune ore dopo che Melvin Theuma, in manette per un giro di riciclaggio e reo confesso di essere stato il mediatore fra il mandante dell’assassinio e i killer, dovrebbe testimoniare davanti al magistrato. A Theuma è stata concessa l’immunità in cambio di informazioni. È la stessa protezione che ha chiesto Fenech, ma è un argomento delicato; la famiglia di Caruana Galizia ha chiesto un incontro urgente con il procuratore generale “per chiarire la situazione intorno alla richiesta di Yorgen Fenech di perdono presidenziale”. Il timore è che uno dei responsabili dell’omicidio della giornalista possa evitare la condanna puntando il dito contro gli altri componenti della cricca.

Uruguay, fine di un’era. Per un pugno di voti il potere passa a destra

Ancora si contano i voti in Uruguay. E la Corte elettorale – un organismo che, da sempre, prende molto sul serio l’antico detto “chi va piano va sano e va lontano” – assicura che il conteggio finirà per prolungarsi, presumibilmente, fino a domani. Mancano infatti, al computo finale – quello in assenza del quale non potrà esservi alcuna proclamazione ufficiale del vincitore delle elezioni presidenziali – i cosiddetti “voti osservati”. Vale a dire: i 35.229 voti (poco più dell’1 per cento del totale) che, deposti per le più varie ragioni in seggi diversi da quelli designati dalla medesima Corte, dovranno ora, in virtù d’un alquanto bizantino regolamento elettorale, esser computati a parte.

Ovvia domanda: perché una tanto minuscola frazione del voto ancora mantiene formalmente aperta la contesa presidenziale? Tutto ciò accade perché quei 35.229 voti sono, sia pur di poco, superiori ai 28.866 voti di vantaggio accumulati da Luís Lacalle Pou, il candidato del Partido Nacional – o meglio della super-coalizione che al Partido Nacional fa capo – nei confronti di Daniel Martínez, il candidato del Frente Amplio. Il che comporta due concomitanti conseguenze. La prima: una teorica situazione di stallo. La seconda: un pratico e piuttosto paradossale scenario nel quale tutti già sanno chi è il vincitore, ma è il sicuro perdente quello che va festeggiando.

Nessuno dubita che, a conteggio ultimato, il 46enne figlio di Luís Alberto Lacalle de Herrera, presidente tra il 1990 e il 1995, una parentesi “blanca” tra i due mandati “colorados” di Julio María Sanguinetti, sarà nominato vincitore. E questo per un’elementare questione aritmetica: gli bastano 2.651 (il 7,5%) di quei fatidici 35.229 suffragi tanto a lungo “osservati”, per assicurarsi la vittoria. E considerato che, solo un mese fa, al primo turno, proprio il Partido Nacional era stato il più beneficiato da questo conteggio aggiuntivo, pressoché impossibile è che questi voti non li ottenga con preventivabile abbondanza. Il prossimo 30 di marzo Luís immancabilmente riceverà la banda presidenziale da Tabaré Vazquez (lo stesso “dottor Tabaré” che cinque anni fa lo aveva sconfitto e che, a quanto pare, già lo ha molto cavallerescamente chiamato per congratularsi). Ma gli striminziti margini della sua vittoria (48,71% contro i 47,51% di Martínez) non gli concedono alcun margine di trionfalismo. Al primo turno, lo scorso ottobre, l’insieme dei partiti d’opposizione (Partido Nacional, Partido Colorado, Cabildo Abierto, Partido de la Gente e Partido indipendiente) aveva superato il 55 per cento dei voti contro il 39% di Daniel Martínez, ex intendente (sindaco) di Montevideo. E lecito sembrava attendersi, nel ballottaggio, un risultato non troppo lontano da quella cifra. Il Frente Amplio ha invece recuperato, in un mese, quasi 200 mila voti (un 9% del totale), senza mai giungere a mettere davvero in dubbio la vittoria di Lacalle, ma avvicinandolo fin sulla soglia (umiliante, date le premesse) di un pareggio tecnico. “Volevano seppellirci – ha gridato alla folla il solitamente molto contenuto Daniel Martínez tamburellandosi il petto come un gorilla – non sapevano che siamo dei semi”.

Bella immagine e – almeno in parte – vera. Il Frente Amplio è uscito vivo da queste elezioni che dovevano sotterrarlo. Perdente, inevitabilmente logorato da quindici anni di potere, privo di veri leader e forse non del tutto pronto a germogliare di nuovo come un seme, ma di certo vivo. E anche ben radicato nel futuro, visto che una larga maggioranza dell’elettorato della fascia 18-25 anni, proprio per il Frente ha finito per votare.

Non è facilissimo capire che cosa, in quest’ultimo mese abbia favorito la sua incompleta, ma clamorosa “resurrezione”. Forse la campagna “voto a voto” lanciata da Martínez. Forse il recupero di alcuni “monumenti” come José Mujica (da Martínez nominato futuro ministro per l’Agricoltura) e Danilo Astori (futuro ministro degli Esteri). Forse (e più probabilmente) la paura del nuovo che in Uruguay, da sempre, rende invisibile ai radar dei sondaggisti una fetta dell’elettorato, sistematicamente giocando, contro le previsioni, a favore di chi governa. O forse, come non pochi sostengono, il tanfo nostalgico – nostalgico dei tempi cupi della dittatura – emanato da un inquietante “appello alle forze militari” lanciato, alla vigilia del voto, dall’ex generale Guido Manini Rios, capo di Cabildo Abierto, il freschissimo partito “legge e ordine” che al primo turno, puntando sulla esasperazione per la crescita della criminalità diffusa, aveva ottenuto un molto consistente 10% (al secondo turno, quasi il 30% dei voti del Cabildo siano andato proprio al Frente).

Chissà: forse un po’ di tutto questo e forse altro ancora. Una cosa è comunque certa. Quali che siano la forza del mandato di Luís Lacalle e la solidità della coalizione che lo sostiene, quali che siano la residua vitalità del Frente e la sua capacità di fare opposizione, dopo quindici anni l’Uruguay sta per voltar pagina. Non ci furono terremoti dopo che, nell’ottobre del 2004, il dottor Tabaré Vazquez sbaragliò al primo turno i tradizionali partiti “Blanco” e “Colorado” portando per la prima volta la sinistra al potere. Non si prevedono terremoti oggi che Lacalle ha riportato i conservatori alla presidenza. Ma – sullo sfondo d’un continente oggi percorso dai più diversi e spesso illeggibili venti di rivolta – una nuova epoca è indiscutibilmente cominciata. Nuova e, nonostante la proverbiale stabilità uruguayana, assolutamente imprevedibile.

Porro mette in scena il “C’era una volta il west” sui 5 Stelle

“I 5 Stelle sono finiti?” I sogni son desideri, ma anche talk-show. Per avverare il sogno, l’Uomo Vogue di Mediaset, al secolo Nicola Porro, ha invitato a Quarta Repubblica un ventaglio di ospiti come sempre all’insegna del pluralismo; il suo direttore al Giornale Sandro Sallusti, sicurissimo che i pentastellati siano finiti (come se Lothar chiedesse l’opinione di Mandrake), Maria Giovanna Maglie (d’accordo con Sallusti), Goffredo Buccini (d’accordo con la Maglie), Luca Telese nelle vesti dell’avvocato d’ufficio (quello di chi non può permettersene uno proprio). In studio c’erano i cartonati di Grillo e Di Maio a grandezza naturale; mancava la forca, come in C’era una volta il west, forse dovevano finire di montarla. Ma tra gli opinionisti c’era pure una certa Hoara. Però: vuoi vedere che arriva anche Rin Tin Tin? Ma no, falso allarme, nessun sergente O’Hara, solo un caso di omonimia con Hoara Borselli, signora di bella presenza ma mai sentita nominare. Siccome la credibilità di un talk si giudica anche dalle menti che lancia, ci siamo chiesti chi fosse tale insigne politologa (d’accordo con Sallusti, con Maglie e con Buccini), e abbiamo chiesto lumi a Wikipedia. Ebbene: Hoara è stata “letterata” di Paolo Bonolis nel varietà Il gatto e la volpe, vincitrice di Ballando con le stelle, primadonna nel varietà del Bagaglino Gabbia di matti… E ora, dopo tanti titoli accademici, editorialista principe di Nicola Porro. Bello vedere che anche in Italia si premia il merito.

Ricerche mediche “aggiustate” però la scienza tace

Per la giustizia è tutto a posto. Ma per la comunità scientifica va bene così? Si possono falsificare le immagini degli esperimenti, o evitare di fare l’esperimento di controllo, senza che nessuno abbia nulla da dire? Queste le domande che restano, al termine di una lunga indagine giudiziaria della Procura di Milano su alcuni articoli dei più importanti scienziati italiani impegnati nella ricerca sul cancro. Il professor Alberto Mantovani di Humanitas, Pier Giuseppe Pelicci di Ieo, Pier Paolo Di Fiore di Ifom, Marco Pierotti, con Maria Angela Greco, Elena Tamburini e Silvana Pilotti dell’Istituto dei tumori, sono stati indagati dai pm Francesco Cajani e Paolo Filippini per aver manipolato le immagini di alcuni loro studi pubblicati sulle riviste scientifiche internazionali. Sono luminari della ricerca che manovrano milioni di euro provenienti da fondi pubblici, donazioni private, raccolta del 5 per mille. Hanno ricevuto, solo nel periodo analizzato dalla Procura (2005-2012), cifre altissime: 9,37 milioni Di Fiore; 3,06 Mantovani; 1,48 Pelicci; 3,60 Pierotti, per un totale di 17 milioni erogati dal Cnr, dal ministero della Salute e da quello dell’Università. E sono stati beccati ad “aggiustare” la documentazione delle loro ricerche.

Ora il giudice dell’indagine preliminare Sofia Fioretta ha chiuso l’inchiesta iniziata nel 2014, archiviando le accuse e sostenendo – con argomentazioni ardite – che i professori “non hanno attuato alcuna attività di falsificazione”. Già i due pm avevano chiesto l’archiviazione, sostenendo che le manipolazioni sono accertate, ma che non esiste in Italia il reato di “frode scientifica” (come c’è invece quello di frode assicurativa e di frode sportiva), dunque non è possibile perseguire i comportamenti dei sette oncologi eccellenti. La gip è stata più creativa: ha ravvisato “un falso innocuo e innocente”, realizzato “perché non c’era tempo o denaro per eseguire la replica, o perché concorrenti stavano arrivando prima” (che stupidi gli scienziati che invece fanno tutto per bene). Sono stati dunque commessi “errori poco significativi”. Non sono state eseguite le repliche degli esperimenti, ma questo “non inficiò il contenuto” delle ricerche e “non minò la validità scientifica della tesi pubblicata”. Insomma: i luminari hanno sbagliato, ma in modica quantità. Eppure gli esami dei periti della Procura hanno accertato le manipolazioni: tre nei lavori di Pelicci-Ieo, quattro in quelli del gruppo di Pierotti-Istituto dei tumori (e cioè due di Pilotti e una a testa di Greco e Tamburini), una nei lavori di Di Fiore-Ifom e una in quelli di Mantovani-Humanitas. Ma niente di male, va tutto bene così, ci rassicura la gip Fioretta. Chiusa la partita giudiziaria, a questo punto rivolgiamo alcune domande alla comunità scientifica:

1. Esistono, nella pratica scientifica, falsi “innocui e innocenti”, manipolazioni, ma “poco significative”? 2. È normale che sette luminari della ricerca oncologica pubblichino sulle riviste scientifiche internazionali delle immagini che risultano manipolate in 21 casi su 27 analizzati? 3. È compatibile con il metodo scientifico che, eseguito il primo esperimento, si tarocchi la replica, “perché non c’era tempo o denaro” per eseguirla, “o perché concorrenti stavano arrivando prima”? 4. Poiché è impossibile, sul piano giudiziario, stabilire la connessione diretta tra ricerche eseguite e fondi ottenuti, è comunque normale, sul piano scientifico ed etico, ottenere soldi, pubblici e privati, con il prestigio guadagnato (anche) con ricerche taroccate? 5. La comunità scientifica è sicura che fare quadrato (corporativamente) e gioire per i “falsi innocenti” sia il modo migliore per difendere la scienza e il metodo scientifico, oggi minacciati da ciarlatani, cialtroni e no-vax?

Immigrazione non fa rima con delinquenza

Circa 30 anni fa, in Italia, è iniziato lo spettacolare declino della criminalità violenta e il simmetrico incremento della sicurezza individuale. I tassi di omicidio, cioè l’indicatore più attendibile del livello complessivo dei reati, si sono ridotti dell’83% dal 1991 al 2018: da 1916 a 331 casi all’anno. Sono 0,55 morti per 100 mila abitanti. Un tasso tra i più bassi del mondo. Reati gravissimi come i sequestri di persona sono scomparsi da oltre un decennio, e tutto il resto della delinquenza privata, dai furti (-40%) alle rapine (-53%), è anch’esso fortemente diminuito.

La violenza mafiosa è crollata a un punto tale da configurare una svolta di proporzioni storiche: 856 omicidi di mafia nel 1988-92 contro 15 nel 2013-17. Come se non bastasse, la débâcle criminale è avvenuta in contemporanea a una colossale ondata migratoria che ha scosso dalle fondamenta la società italiana. I reati gravi hanno cominciato a diminuire proprio mentre la popolazione nata all’estero iniziava una crescita di quasi venti volte.

Secondo le teorie sociologiche correnti, questo esercito di giovani maschi, candidati naturali al disadattamento e alla protesta violenta, avrebbe dovuto far impennare tutti gli indici della delinquenza. Queste teorie si basano su quanto è in effetti accaduto negli Stati Uniti tra l’Ottocento e il Novecento quando il crimine organizzato era un valido strumento di ascesa sociale per generazioni di giovani immigrati che si trovavano sbarrate le strade normali di avanzamento.

Questo processo si è però interrotto negli anni Novanta del secolo scorso. Gli Usa hanno sperimentato un’“invasione” di immigrati del tutto simile a quello dell’Italia e dell’Europa, e anche lì la criminalità violenta è scesa invece di aumentare. È una semplice coincidenza?

I sociologi americani hanno affrontato il tema e trovato una risposta radicalmente controcorrente: la recente immigrazione ha attivamente contribuito alla flessione della criminalità. Secondo i ricercatori di Harvard, la variabile cruciale è il profilo socioculturale dei nuovi migranti: si tratta di gente “mite”, che proviene da ambienti dominati da valori familistici, comunitari, osservanti delle leggi. Chi proviene da questi luoghi non prende in considerazione l’illegalità e il mercato criminale come mezzi per farsi strada nella giungla della società di arrivo. Gli studi di Harvard sono stati confermati da varie altre indagini universitarie.

Non abbiamo ricerche equivalenti in Italia. Ma ci sono elementi molto evidenti da considerare, il primo dei quali è simile alla variabile individuata negli Stati Uniti: molto spesso i giovani immigrati in Italia sono vittime delle mafie e delle clientele politiche dei Paesi di origine.

Un secondo fattore è la dispersione territoriale degli immigrati. Non si sono formati da noi quei vasti ghetti di giovani disperati, discriminati e sottoccupati, che popolano le periferie di Londra o Parigi. Gli immigrati in Italia mostrano buoni tassi di occupazione e nutrono, secondo le indagini disponibili, atteggiamenti non ostili verso la società ospite. E tutto ciò ci ha protetto anche dagli attentati terroristici.

C’è poi da mettere in campo l’efficienza delle forze dell’ordine italiane che preclude agli stranieri l’accesso alle vette della piramide illegale. Ciò spiega perché i vuoti che le campagne antimafia hanno creato dagli anni 90 in poi nei piani alti della delinquenza non sono stati riempiti da cartelli mafiosi albanesi, rumeni o marocchini ma da gruppi e generazioni di autoctoni.

Quanto detto non è sufficiente a provare un rapporto di causa-effetto tra immigrazione e declino della criminalità. Ma si può tranquillamente affermare, in ogni caso, che l’“invasione” migratoria recente non ha affatto stimolato la violenza criminale, e che esistono indizi, semmai, di una sua possibile, indiretta, influenza deflattiva.

Ma le sardine sanno perché vince Salvini?

Tutto ciò che va contro Salvini, tutto ciò che riporta in piazza la gente dalla parte giusta, va bene. Ma lo strepitoso successo delle Sardine annuncia un’erosione elettorale della destra, o alla fine lascerà intatte le ragioni di quel consenso? Marco Revelli ha notato che le critiche alle Sardine assomigliano ai discorsi della gente che dà buoni consigli non potendo più dare cattivo esempio. È vero ma, come ha scritto George Orwell, “per difendere il socialismo, occorre cominciare attaccandolo”.

Leggendo i tweet entusiasti del peggior Pd e i peana che si susseguono sui grandi giornali che hanno avuto un ruolo cruciale nel demolire la sinistra; sapendo che a Torino vi confluiscono le Madamine Sì Tav e i vertici della Compagnia di San Paolo, a Milano i più accesi sostenitori dell’Expo, e a Firenze il sottobosco politico del governo delle Grandi Opere, la domanda che affiora alle labbra è: siamo di fronte a una gigantesca strumentalizzazione, o c’è qualcosa, nelle Sardine stesse, che ne autorizza questa interpretazione “di sistema”? Il manifesto del movimento individua il proprio nemico nel “populismo”. Il che significa considerare alla stessa stregua il consenso al Movimento 5 Stelle e quello al sovranismo neofascista di Salvini: è questa, mi pare, una prima connotazione “di sistema”. Ma ammettiamo che il vero bersaglio sia la Lega: io non credo che il successo di quest’ultima sia la malattia. Credo invece che quel consenso sia il sintomo mostruoso della vera malattia: l’enorme ingiustizia sociale che ha sfigurato questo Paese. La destra estrema appare l’alternativa – nera, terribile, portatrice di morte – a un ordine mondiale che si predicava senza alternative.

E invece le nostre Sardine sembrano convinte – almeno a leggerne i testi – che il problema sia il populismo: e non l’ingiustizia e la diseguaglianza (parole assenti dai loro manifesti). Per capire meglio, sarebbe necessario esplicitare alcuni punti della pars costruens del manifesto: “Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie”. Un testo che diventerebbe interpretabile se di questi politici fossero fatti i nomi.

Il passo chiave è quello in cui si legge: “Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto”: chi potrebbe contestare tutto questo? Ma rimane una domanda: è bellissimo che chi è in grado di aiutare gli altri, si ribelli alla sporca retorica della estrema destra, ma non dovremmo forse anche chiederci perché ci siano così tanti “altri” da aiutare? E, soprattutto, se il punto critico non stia nello smontaggio dello Stato (cioè nel progetto della Costituzione) che questi “altri” avrebbe dovuto aiutare? Ancora: non sarà che il silenzio e la solitudine di questi “altri” è il nostro vero problema? In piazza con le Sardine sembrano esserci soprattutto i “salvati”: certamente diversi da quelli che stanno davanti alla televisione e tacciono. Ma questi salvati finalmente in movimento hanno coscienza delle ragioni per cui i “sommersi” votano in massa per Salvini, o ancora più in massa non vanno a votare?

Quando poi si legge come descrivono Milano (“La città dove oggi celebriamo i 500 anni dalla morte di Leonardo da Vinci, che ha dato i natali ad Alessandro Manzoni, ospitato Giuseppe Verdi, dove c’è il Teatro alla Scala, tempio della musica classica e della lirica riconosciuto a livello mondiale”), si capisce perché Giuliano Ferrara, incontenibilmente entusiasta delle Sardine, le abbia definite “un movimento spontaneo di fiancheggiamento dell’establishment”. C’è da sperare che i prossimi giorni gli diano torto, e che dalle Sardine arrivino risposte chiare e concrete sulle scelte da fare: a partire dalla disponibilità a scendere in piazza coi ragazzi dei Fridays for Future.

Perché siamo tutti felici che lo spazio pubblico torni a riempirsi di cittadini che non intendono cedere alle sirene dei nuovi fascismi, e sono il primo a voler credere nel valore positivo e liberatorio delle Sardine. Ma se si trattasse di cittadini che sostanzialmente vogliono che l’Italia resti quella che è, fascisti esclusi, saremmo al punto di partenza: perché se l’Italia rimane quello che è – cioè un Paese atrocemente diseguale, con un’economia che uccide e un’ingiustizia crescente – i fascisti continueranno a veder aumentare il loro consenso. Sardine o no.

Mail box

 

Ci vuol altro che il Reddito per finanziare i criminali

Egregio direttore,

non passa giorno che non si senta dell’arresto di qualche delinquente che gode del Reddito di cittadinanza. Di questo dobbiamo ringraziare Di Maio e i Cinque Stelle, che con la loro legge bandiera sono riusciti a finanziare la malavita.

Pietro Volpi

 

Caro Pietro, sono gli stessi che percepiscono pensione, disoccupazione, cassintegrazione, 80 euro, Rei ecc. Per fortuna ne vengono scoperti molti perché ci sono i controlli, così smettono di percepire indebitamente misure destinate ai veri poveri. Ma lei davvero crede che 500 euro in media al mese possano “finanziare la malavita” che naviga nei miliardi?

M. Trav.

 

Ho firmato la vostra petizione perché conosco Cosa Nostra

Egregio direttore,

le dico perché ho firmato subito la petizione del suo giornale “No ai permessi premio per i boss stragisti che non collaborano. Vogliamo subito una legge!”.

L’ho firmata perché ho visto il corpo martoriato di Pio La Torre e del suo autista Di Salvo; ho visto i corpi a brandelli del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e del mio collega Domenico Russo; ho visto i corpi del capitano dei carabinieri Mario D’Aleo e degli appuntati Giuseppe Bommarito e Pietro Morici; ho visto i carabinieri assassinati insieme al boss catanese Alfio Ferlito; ho visto la strage Chinnici; ho visto morire 5 miei colleghi della sezione investigativa della Squadra mobile di Palermo: Ninni Cassarà, Beppe Montana, Roberto Antiochia, Lillo Zucchetto e Natale Mondo. Ho visto gli attentati di Capaci, via D’Amelio, Firenze, Roma e Milano, ho visto un uomo che venerdì 17 luglio ’92 mi diede un appuntamento per lunedì 20, ma non si presentò: era Paolo Borsellino. Ho visto da giovane la strage di Ciaculli, a pochi passi da casa mia; ho visto, a Palermo, centinaia e centinaia di morti ammazzati. Ho visto, anche nella mia vita prima di diventare poliziotto, numerosi esponenti di Cosa Nostra, e ne ho carpito mentalità e movenze gergali. Ho visto Leoluca Bagarella, quando non gravato da mandati di cattura, vivere a 200 metri dalla mia abitazione a Palermo; ho conosciuto, per lavoro, ben nove pentiti di Cosa nostra, compreso Tommaso Buscetta.

Ora leggo le conclusioni dei giudici di Strasburgo e della Consulta, e mi si accappona la pelle. Ma costoro che film sulla mafia hanno visto?

Ma conoscono la mentalità mafiosa, quando parlano di redenzione del detenuto? Ho firmato il giorno stesso dell’uscita della petizione, condividendo la sua iniziativa, anche perchè i miei capelli canuti e la mia conoscenza del mondo di Cosa nostra escludono qualsiasi redenzione dei mafiosi: utopia allo stato puro.

Spero intervenga una legge che possa impedire la concessione di permessi premio in mancanza di vero pentimento e dissociazione da Cosa Nostra.

Con stima,

Pippo Giordano ispettore Dia in pensione

 

Carenza di medici e insegnanti, affidarsi ai giovani non basta

Le carenze dei medici, specialmente quelli destinati alla emergenza-urgenza e al Pronto soccorso, sono ormai episodi quotidiani risolti in buona misura con l’assunzione di neo-laureati. Qualcosa di analogo avvenne alcuni decenni fa, quando il governo Fanfani creò la scuola media unificata e furono istituite scuole anche in centri assai distanti da quelli urbani. Purtroppo però esisteva una notevole carenza di personale docente e si dovette ricorrere addirittura a studenti universitari, alcuni dei quali finirono per essere nominati vicepresidi. La storia quindi si ripete, pur in settori assai diversi: si fanno leggi anche socialmente utili, ma non si predispongono le strutture idonee a realizzarle.

Nicodemo Settembrini

 

DIRITTO DI REPLICA

Secondo quanto si legge nel titolo dell’articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano e Ilfattoquotidiano.it, la Venere al Bagno del Giambologna sarebbe un’opera “falsa” o “farlocca”. Si tratta di due definizioni errate nel titolo e nel sottotitolo dell’articolo perché non si può parlare di una “falsa” scultura del Giambologna, ma sarebbe più appropriato parlare di un’opera antica e di grande pregio e valore storico sulla quale esistono attribuzioni contrastanti. Testualmente si legge, nel titolo: “Uffizi, lo strano caso della Venere (falsa?) del Giambologna”. E ancora nel sottotitolo: “La mostra – In catalogo una statua bronzea, per molti farlocca, appartenente a un mercante ritenuto vicino al direttore Schmidt”. Per questi motivi le Gallerie degli Uffizi chiedono formalmente alla testata Il Fatto Quotidiano di rettificare, sia nella versione cartacea che nell’eventualità di pubblicazione online, il titolo e il sottotitolo dell’articolo pubblicato oggi a pagina 19.

Le gallerie degli Uffizi

Ringraziamo le Gallerie degli Uffizi per la precisazione e cogliamo l’occasione per precisare a nostra volta che gli aggettivi contestati non si riferivano affatto all’autenticità dell’opera in sé (il pezzo e il catenaccio in prima pagina parlano chiaramente di un problema di datazione tra 1597 o 1697) ma alla sua attribuzione al Giambologna.

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Violenza. Le donne muoiono per le botte, ma anche per l’abbandono economico

Scrivo a proposito della giornata sulla violenza alle donne. Se ne parla ogni anno e non cambia nulla… Io mi reputo vittima, anche se non è fisica la violenza di cui parlo io, è l’abbandono economico, è la disfatta come luogo finale per la colpa di aver amato, è la legge che non fa il suo corso, costringendo chi è stato condannato a pagare per il mantenimento. Ho passato anni senza lavoro, ho fatto debiti per stare a galla, angosce a livelli tali da portarmi un infarto nel 2013. Un infarto che, almeno, mi ha lasciato un’invalidità che mi ha permesso la pensione anticipata (e la sopravvivenza). Per i miei debiti – bolli auto e bollette non pagate – mi sono rivolta direttamente al presidente della Regione Zaia. Zaia mi ha risposto che non è di sua competenza e di scrivere alla Regione, la Regione di rivolgermi a chi è competente, l’assessore non ha potuto fare nulla. È la forza che viene a mancare quando ti ritrovi a più di 60 anni sola… Il mio ex marito ha rubato 90.000 euro a una zia di cui era tutore, proprio negli anni in cui non percepivo reddito e lui non pagava gli alimenti, nonostante un tribunale avesse stabilito che doveva pagare. C’è violenza e violenza, e non so quale sia la peggiore.
Aurelia (nome di fantasia)

 

Cara Aurelia, la violenza fisica che subisce una donna, 9 volte su 10, è accompagnata dalla violenza economica. Una violenza che, proprio come scrive lei, ti distrugge ma in modo così subdolo e sottile da non rendersi subito percepibile come tale. Eppure – e non siamo noi donne a dirlo, bensì la Convenzione di Istanbul – “gli atti di controllo e monitoraggio nei confronti di una donna in termini di uso e distribuzione di denaro” sono “una violazione dei diritti umani”. Una violazione e discriminazione tanto più forte se consideriamo che nel nostro Paese una donna su due non lavora, e quando lavora guadagna molto meno del suo partner. Per prevenire, “Guida contro la violenza economica” (stilata dalla Casa delle donne maltrattate di Milano, con la Global Thinking Foundation): non delegate mai la gestione delle finanze di coppia o dei vostri beni al compagno; se siete alla ricerca di un lavoro, cercate un impiego che sia fonte di autonomia finanziaria; separate il patrimonio e i debiti, utilizzando oltre a un conto corrente comune anche uno personale; conservate le copie dei documenti finanziari e legali; tenete riservati i codici di accesso al conto personale. Forse leggendo queste buone prassi ad alcune verrà da sorridere, ma in Italia il 21% delle donne non ha un conto corrente proprio: una percentuale che sale al 30-40% in alcune zone del Sud.
Maddalena Oliva

Italia viva, governo in agonia

Italia Viva è viva, vivissima. Il governo invece non si sente tanto bene. Se non bastassero tutti i problemi delle ultime ore sulla prescrizione, i parlamentari renziani mettono il carico anche sulla manovra. Italia Viva continua a essere un vulcano di proposte: tutte, proprio tutte, mettono in discussione parti fondamentali della manovra. Sentite quanto è esigente il siciliano Davide Faraone: la plastic tax rimodulata? Non basta! Va cancellata del tutto. Altrimenti si fa casino. “La vera notizia sulla plastic tax – dice Faraone – non è la rimodulazione ma il fatto che resti ancora in manovra, nonostante gli appelli delle imprese. Noi di Italia Viva abbiamo presentato un emendamento per abolirla perché crediamo che nessuna nuova tassa debba essere imposta a un Paese in recessione”. Poi c’è Raffaella Paita, ve la ricordate? Era la candidata che ha regalato la Liguria alla destra dopo 10 anni di governo rosso. Ora è una pasdaran dell’edilizia scolastica: “Per le scuole chiediamo sicurezza, subito. Non possiamo permettere che quello che dovrebbe essere il luogo di crescita e di formazione divenga invece un luogo di pericolo. Il nostro piano prevede 3 miliardi da investire subito, il governo non aspetti”. Tutto giusto, per carità. E in fondo ora che la manovra si discute in Parlamento, che saranno mai 3 miliardi in più?