Storia del grande scippo che fece ricchi i Benetton

All’inizio del 2000, la società Schemaventotto, controllata dalla famiglia Benetton, acquistò dall’Iri il 30% della Autostrade Spa per 2,5 miliardi. Dopo 3 anni la sua quota era salita al 50% ed erano riusciti a recuperare metà di quanto pagato all’Iri per il 30%. Il valore dell’investimento residuo era salito di sei volte in tre anni, ed avevano ancora davanti 35 anni di concessione, con una società che nell’ultimo decennio ha guadagnato 750 milioni netti l’anno. In buona sostanza lo Stato ha regalato la nostra rete autostradale. Capire come questo sia potuto avvenire non è facile. Autostrade era gestita bene dall’Iri, aveva anche inventato il Telepass. Fu privatizzata solo per fare cassa col governo D’Alema, quando non ce n’era necessità perché le finanze dell’Iri erano state risanate. Fu svenduta perché gli investitori percepivano un “rischio regolatorio” elevato: la formula di revisione tariffaria era ambigua e non c’era un’Autorità indipendente che li tutelasse, mentre in passato le tariffe erano state spesso congelate dal governo.

A fare la fortuna dei Benetton (e degli azionisti della Schemaventotto) è stato il IV Atto aggiuntivo stilato nel 2002 dall’Anas, auspice il ministro Pietro Lunardi. Con l’Atto si dava un’interpretazione della formula tariffaria molto favorevole alla società. Secondo gli esperti del ministero dell’Economia le tariffe del quinquennio 2003-2007 avrebbero dovuto essere del 20% inferiori a quanto concesso dall’Anas. Si venne a creare un potenziale conflitto tra Lunardi e il ministro dell’Economia Tremonti che Berlusconi pensò bene di risolvere facendo approvare il IV Atto per legge, da parlamentari che non avevano neppure il diritto di leggerlo perché segretato. È a seguito dell’Atto che esplode il valore di borsa della società, consentendo ai Benetton, nel 2003, di lanciare un’Opa tutta a debito, scaricare il debito sulla Autostrade, vendere una quota per riprendersi la metà di quanto pagato all’Iri e tenersi il 50% della Autostrade.

Il IV Atto prevedeva anche un ambizioso programma di investimenti, quasi tutti per la realizzazione di terze e quarte corsie. Poiché la rete era soggetta a crescente congestione (in 20 anni il traffico era più che raddoppiato) si sarebbe potuto pensare che le nuove corsie fossero necessarie per accomodare la crescita del traffico nei 30 anni di concessione restanti. Quindi Aspi avrebbe potuto ripagarsi questi investimenti col reddito da loro generato, senza aumenti di tariffa. Una scelta imprenditoriale che il ministero avrebbe potuto lasciare alla società. I Benetton invece si sono fatti pagare gli investimenti a piè di lista, sostenendo che non avrebbero avuto effetti positivi sul traffico (se poi questo aumenterà i benefici saranno comunque loro). Stupisce che il Ministero abbia potuto accettare di aumentare i pedaggi per remunerare, e a un tasso assai elevato, investimenti che l’impresa dichiarava non dare quasi alcun reddito. Un investimento che in 30 anni non si ripaga genera una perdita finanziaria totale: perché Anas e Ministero hanno approvato questi investimenti? Forse perché nessuno poteva criticarli: tutto era secretato finché il ministro Toninelli non ha deciso di rendere pubblici convenzioni e piani finanziari. Sulla bilancia c’erano da un lato gli interessi di una società molto potente, dall’altro i “pedaggiati”, ignari e senza rappresentanza. Chi può stupirsi del risultato? L’incremento dei pedaggi della Aspi negli ultimi 15 anni, a parte il recupero dell’inflazione, è stato interamente dovuto proprio alla remunerazione degli investimenti in terze e quarte corsie. Un gran bel regalo.

La buona sorte dei Benetton (e dei soci Aspi) è continuata con la nuova Convenzione stilata nel 2007, ministro Antonio Di Pietro. Con questa la società si mette al riparo da ogni rischio regolatorio e blinda i benefici acquisiti. Dalla formula tariffaria sparisce qualunque riferimento al rendimento congruo sul capitale investito. Il parametro X cambia segno: nella convenzione del 1997 il segno era meno, perché la tariffa avrebbe dovuto diminuire per l’aumento di traffico e produttività; nella nuova convenzione il segno è più perché con la X si remunerano gli investimenti, di riduzioni non si fa più menzione.

Il crollo del Morandi ha evidenziato, oltre ai problemi di manutenzione, un altro aspetto della convenzione del 2007 passato sotto silenzio. Gli articoli 9 e 9bis prevedono, in caso di revoca per qualsiasi motivo il pagamento del valore attuale netto dei ricavi previsti sino al termine della concessione. Una clausola capestro che mette il concessionario al riparo anche dalle conseguenze di suoi gravi errori o inadempienze. Questa clausola non era prevista nella convenzione del 1997: perché un tale regalo? Anche in questo caso, tutte le obiezioni degli organi tecnici sono state superate dal governo Berlusconi (come nel 2003) facendo approvare per legge questa e tutti gli altri schemi di convenzioni già sottoscritti dall’Anas. Poco dopo i Benetton parteciparono al salvataggio di Alitalia.

Ultimamente i Benetton hanno sfiorato un altro grande colpo: la proroga di 4 anni della concessione prevista dal ministro Graziano Delrio nell’ambito di un complesso accordo per finanziare il Passante di Genova (la Gronda), che secondo le mie stime avrebbe portato ad Aspi un beneficio finanziario di una decina di miliardi. Toninelli ha bloccato l’approvazione, ma c’è da temere che prima o poi i Benetton trovino un ministro favorevole. Oggi, grazie a una legge voluta da Toninelli, gli incrementi tariffari dovrebbero seguire le regole dell’Autorità dei Trasporti, che prevedono di misurare il capitale investito e limitarne la remunerazione. Le concessionarie si oppongono. L’esito dello scontro avrà effetti rilevanti. I rischi di guai giudiziari o di nuovi regali potrebbero essere ridotti se lo Stato iniziasse ad applicare quanto previsto in tutti i contratti. Ed evitare di affidare in concessione le autostrade.

Barbareschi a giudizio per i soldi all’Eliseo

“È una cosa comica, cos’è il traffico di influenze, non c’è nessuna transazione di denaro, non ho dato e non ho preso niente. Sono cinque anni che passo le mie giornate a rompere le scatole ai politici perché si occupino di cultura, se questo è un reato, arrestatemi!”.

Luca Barbareschi risponde così alla notizia del suo rinvio a giudizio deciso ieri dal gup Vilma Passamonti, su richiesta del sostituto procuratore Antonio Clemente.

Il direttore artistico del teatro Eliseo è accusato di traffico di influenze dalla Procura di Roma, insieme al suocero ed ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio e al lobbista Luigi Tivelli perché avrebbe fatto pressioni illecite per fare ottenere al teatro 4 milioni di euro dalla Finanziaria 2017.

L’inchiesta si basa sulle intercettazioni del nucleo investigativo dell’Arma dei carabinieri, diretto dal comandante Lorenzo D’Aloia, in cui emergerebbe l’interesse “in prima persona” di Monorchio, che “teme il fallimento della società che gestisce il Teatro”, amministrata dalla “figlia Elena e dal genero Barbareschi”.

Monorchio “mediante Tivelli” avrebbe tentato di “intercedere con alcuni funzionari del ministero delle Finanze impegnati nella redazione dei capitoli di bilancio della Finanziaria”. L’atto legislativo del 23 aprile 2017, autorizza “la spesa di 4 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018” in “favore del teatro di rilevante interesse culturale Eliseo”.

Secondo l’accusa, per la sua opera di lobbying, Tivelli avrebbe chiesto a Monorchio “di essere ricompensato con una somma di denaro” pari a “70 mila euro” e avrebbe “ricevuto l’utilità dell’assunzione della figlia nella società che gestisce il teatro”.

“Non c’entra nulla mio suocero, tutto si basa su una telefonata, in cui un certo Tivelli, un simpatico burlone, ha chiamato mio suocero dicendogli di potergli dare una mano al Mef in cambio di 70 mila euro, mio suocero ha riso e l’ha mandato a quel paese – spiega Barbareschi a Il Fatto –. Il mio lobbista è Iannamorelli (Antonio, ndr) di Reti che ha preso con fattura regolare 50 mila euro in due anni per occuparsi di gestire con i parlamentari la legge per l’Eliseo, abbiamo fatto anche una festa, perché è stato un ottimo lavoro di lobbying. La legge l’ha fatta il Parlamento votando in maniera ecumenica, per fortuna l’ha fatta il centrosinistra, altrimenti pensi se l’avesse fatta il centrodestra, cosa succedeva”.

Attore, presentatore, regista e sceneggiatore, Barbareschi spazia da anni dal teatro al cinema fino alla fiction. Imprenditore nel settore dello spettacolo, è amministratore unico della Eliseo Srl che gestisce il teatro, ed è stato anche deputato alla Camera, eletto nel 2008 nella circoscrizione Sardegna e vicepresidente della Commissione trasporti, poste e telecomunicazioni.

Ma la Procura capitolina ha chiesto il rinvio a giudizio per Barbareschi anche per appropriazione indebita, perché si sarebbe impossessato di sipari, condizionatori, poltrone Frau che erano nel Teatro Eliseo per un valore di oltre 813 mila euro, oggetti appartenenti alla precedente gestione.

“Anche questo caso finirà nel nulla, il mio è l’unico teatro che senza prendere sovvenzioni sta in piedi, adesso però vedremo cosa succederà all’Eliseo – dice Barbareschi –, c’è differenza tra parlare di cultura e farla, io la faccio, questi sono chiacchiere e distintivo”.

Il pm: “Ergastolo per Cavallini, partecipò alla strage di Bologna”

 

“Un delitto simile non merita altra pena, nonostante il tempo passato e la condotta successiva dell’imputato. Gilberto Cavallini merita l’ergastolo”. Per i pm di Bologna anche il quarto (ex) Nar è colpevole, così come già furono giudicati con sentenza definitiva Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini. Dopo oltre 40 udienze, quasi 50 testimoni, telegrammi di massoni, scoperte sensazionali poi smentite, il processo per concorso nella strage del 2 agosto 1980 si avvia alla sua conclusione.

Cavallini, unico imputato, non avrebbe messo materialmente la bomba alla stazione di Bologna, che causò 85 morti e 200 feriti, ma aiutò i suoi sodali a farlo: “Anche se pensate che Cavallini abbia semplicemente offerto agli esecutori della strage solo un passaggio fino a Bologna mentre lui si dedicava ad altro – ha detto rivolto alla Corte il pm secondo Enrico Cieri – quantomeno dovreste tenere in considerazione il contributo di aver offerto una base logistica e documenti contraffatti”. I quattro erano nella stessa banda armata prima e dopo la strage e hanno vissuto in “una tempesta di fuoco condivisa”. Impossibile credere alla versione secondo cui quel giorno non erano a Bologna ma a Padova o Venezia, nemmeno insieme: “È stato un evidente errore logico quello di valutare – nei precedenti processi – le condotte singole dei Nar, come se fossero quattro buontemponi che il 2 agosto si organizzano per una gita”. Come se Cavallini avesse offerto loro “uno strappo, un passaggio per la strage”. E poi “la telefonata di Ciavardini all’amica per avvisarla di posticipare al 3 agosto un viaggio” e l’omicidio di Francesco Mangiameli, leader di Terza Posizione, ucciso perché “avrebbe potuto rivelare responsabilità sulla strage”.

Caposaldo dell’accusa rimane però Massimo Sparti “su cui non è stato acquisito nulla che lo contraddica”. Criminale comune, pentitosi dopo l’arresto, scarcerato dopo neanche un anno di prigione grazie a un tumore al pancreas in realtà inesistente. Sparti nel 1981 dichiara che Fioravanti il 4 agosto del 1980 si sarebbe recato da lui a Roma per un documento falso per Francesca Mambro. In quell’occasione avrebbe commentato l’avvenuta strage, “Hai visto che botto?”, riferendo anche di essersi camuffato da turista tedesco per non essere riconosciuto. Una versione sconfessata negli anni dai familiari (la tata e la moglie) ma che la Cassazione ha stabilito credibile.

Nel corso di questo processo è stato sentito, per la prima volta da un giudice, il figlio Stefano: “Mio padre era un violento e un bugiardo cronico e prima di morire mi spiegò che aveva mentito per il bene di tutti noi. Nei giorni della strage era con noi in provincia di Viterbo, non si mosse e lo ricordo bene perché ne sarei stato sollevato, io bambino non potevo muovermi altrimenti erano botte”. Un racconto inverosimile per la Procura di Bologna che lo ha denunciato per falsa testimonianza e depistaggio, come ha ricordato la pm Antonella Scandellari: “Ha detto di avere un ricordo indelebile del 2 agosto sostenendo che a pranzo arrivò Cristiano Fioravanti ma non è possibile, fu scarcerato quel giorno da Rebibbia alle 19:55”. Una circostanza che dimostrerebbe come il giovane Sparti avrebbe mentito sul punto e, di conseguenza, anche sul resto. “Cavallini sta a Mambro e Fioravanti come Ciavardini sta a Mambro e Fioravanti, è responsabile al pari degli altri della strage” – ha concluso Scandellari – “se fino adesso non è stato appurato è stato un errore giudiziario”.

Ma il piano spazzatura della Regione Lazio manca da quasi 8 anni

Il piano regionale dei rifiuti del Lazio ancora non c’è. E forse non ci sarà fino a marzo. Ma serve una discarica, perché quelle esistenti sono tutte in esaurimento. Il tema è lo smaltimento (fase 3), non il trattamento (fase 2) per il quale il Lazio nei numeri è autosufficiente, nonostante molte città, Roma compresa, si rivolgano all’estero. La Regione Lazio tenta così di sopperire a un suo stesso ritardo, emanando un’ordinanza che obbliga Roma Capitale a trovare “uno o più siti” sul suo territorio in grado di sopperire alla chiusura della discarica di Colleferro – gestita da una società regionale – nonostante la stessa abbia spazio per almeno un altro anno. Aree “temporanee”, individuate “in deroga” alle autorizzazioni ambientali.

Nel Lazio manca uno strumento di programmazione, assente dal 2012, ed è questa la causa principale dell’emergenza rifiuti romana, punta dell’iceberg di una crisi omogenea in tutta la regione. Lo certifica l’Unione europea, che la scorsa settimana ha bacchettato l’Ente guidato da Nicola Zingaretti. Lo dimostrano anche i numeri prodotti dalla stessa giunta regionale, nella proposta di piano approvata ad agosto, da dove si evince che anche Latina, Frosinone, Rieti e l’ex provincia di Roma (città esclusa) hanno gli stessi problemi: tutti inadempienti?

Partiamo dallo smaltimento. I dati Ispra sono quelli del 2017. Nel Lazio vengono prodotte 2,9 milioni di tonnellate di rifiuti l’anno, il 54,5% di indifferenziato, circa 1,6 milioni di tonnellate. Effettuata la raccolta (fase 1), i rifiuti finiscono dei tmb (impianti di trattamento meccanico-biologico) che li separa e produce “css” e “cdr” da bruciare e “fos” – gli scarti degli scarti – da portare in discarica. Quanta fos produce il Lazio? Nel 2017 “appena” 335 mila tonnellate. E quanto spazio c’è rimasto nelle discariche laziali? Dal 2012, anno dell’ultimo piano rifiuti, hanno chiuso tre discariche fra Roma e provincia: Malagrotta, Bracciano e Guidonia, e una a Borgo Montello (Latina). Un’altra, Albano Laziale (Roma), è ferma. Ad oggi sono rimaste attive Civitavecchia e Colleferro (Roma), Roccasecca (Frosinone) e Viterbo, per una volumetria residua totale di circa 500 mila metri cubi, pari a circa 600 mila tonnellate. Il calcolo è presto fatto: 2 anni di conferimenti. Metà dello spazio disponibile (254 mila mc) si trova a Colleferro, nella discarica gestita dalla società regionale Lazio Ambiente, che il 31 dicembre riconsegnerà le chiavi nonostante l’autorizzazione scada nel 2022, in virtù di un accordo politico fra Zingaretti e il sindaco Pierluigi Sanna a tutela della Valle del Sacco.

Il problema è quello iniziale: non c’è il piano rifiuti, che è lo strumento che serve a programmare grandezza, durata e caratteristiche degli impianti. Anche delle discariche. Serve per non derogare alle norme ambientali o aprire buche a caso. E chi li deve proporre questi impianti? Nicola Zingaretti e Virginia Raggi stanno litigando da due anni su questo punto. Il d.lgs 152/2006, art. 197, prevede che Province e Città metropolitane inviino alle Regioni le mappe con le aree idonee e non idonee, e su questo la Città metropolitana di Roma (guidata sempre da Raggi) ha ottemperato, come si evince dalla delibera regionale. È vero che l’ex Provincia non ha prodotto “la localizzazione di massima delle maggiori infrastrutture”, come prevede art. 20 del d.lgs 267/2000 richiamato nella precedente norma: ma si tratta di una prassi, non di un obbligo, come dimostra il fatto che le mappe siano state acquisite nel piano approvato dalla giunta Zingaretti; al massimo una mancanza che rischia di favorire gli operatori privati. A meno che l’emergenza creata dalla chiusura anticipata di un sito ancora capiente, non costringa Roma a scegliere una nuova discarica basandosi su strumenti normativi risalenti al 2012. Una volta approvato il piano, gli operatori, con preferenza per quelli pubblici, potranno proporre la realizzazione delle discariche, e sarà la Regione ad autorizzarle. O di impianti alternativi, come il separatore proposto da Lazio Ambiente per Colleferro, ma ancora fermo al palo.

La città di Roma non ha responsabilità? Tutt’altro. In primis, il fallimento, fin qui, della raccolta differenziata, cresciuta di appena tre punti percentuali in 3 anni. Raggi si era presentata, a inizio 2017, puntando a raggiungere il 70% entro il 2021, mentre a oggi è ferma al 45%, in alcuni municipi poco sopra il 30%. I cambi al vertice di Ama hanno bloccato il piano industriale, atteso da due anni, e con essi i nuovi impianti per trattare l’organico. Tutto ciò non autorizza gli altri comuni a puntare il dito sulla Capitale: Roma è poco sotto la media provinciale (43,22 contro 45, dati 2017) e, Viterbo a parte, sopra agli altri capoluoghi di provincia, con Frosinone al 15%.

Rifiuti, diktat di Zingaretti: “Raggi trovi la discarica”

Nicola Zingaretti ordina a Virginia Raggi di individuare, entro una settimana, “uno o più siti” a Roma da destinare a discarica. Con tanto di deroga alle normative ambientali. È arrivata ieri sera l’ordinanza che fa salire di livello lo scontro fra Regione Lazio e Comune di Roma sul fronte emergenza rifiuti. La necessità si deve al fatto che dal 31 dicembre – con questo provvedimento, dal 15 gennaio – la discarica di Colleferro, nella Valle del Sacco, chiuderà a seguito di un accordo fra il governatore dem e il locale sindaco di centrosinistra, Pierluigi Sanna, nonostante il sito a 40 km dalla Capitale abbia ancora spazio per un altro anno di conferimenti da Roma. Per questo ieri mattina la sindaca è andata a protestare in Consiglio regionale. I passi previsti: una commissione per individuare siti per lo smaltimento dell’indifferenziato; avviare la procedura per selezionare impianti di conferimento all’estero; individuare entro 15 giorni due nuovi siti di “trasferenza”, vista la scadenza di Ponte Malnome e approvare il piano industriale di Ama entro il 15 gennaio. La stessa ordinanza intima anche ai gestori degli impianti di trattamento dei rifiuti (tmb) di lavorare al massimo delle possibilità per evitare emergenze sul territorio capitolino. In questa partita a scacchi infinita Raggi si trova a un bivio: rispettare l’ordinanza e individuare un sito “temporaneo” da destinare a discarica – in deroga alle norme ambientali, vista l’assenza del piano rifiuti e il breve tempo a disposizione – oppure tenere la posizione e pretendere dalla Regione Lazio la proroga della chiusura di Colleferro e la riapertura della discarica di Albano Laziale, che insieme possono accogliere i rifiuti capitolini per altri 2 anni. La seconda opzione costringerebbe Zingaretti a optare per i “poteri sostitutivi” e dunque individuare lui stesso, da commissario, la nuova discarica. Una mossa impopolare per il segretario dem.

La decisione della Regione è arrivata all’indomani della fumata nera in Campidoglio sull’individuazione dei siti destinati alla prima proposta in campo, i cosiddetti “Stir”, impianti di compostaggio per la riduzione degli scarti e l’organizzazione in eco-balle. Zingaretti ne voleva una decina, circa uno per municipio, il M5s aveva quasi deciso per un unico sito alla Falcognana, in zona Ardeatina, a sud della città, dove sorge un’autorimessa. Ma l’accordo è saltato per l’opposizione di alcuni presidenti di municipio. Di qui la decisione di Raggi di andare allo scontro e presentarsi, ieri mattina, in Consiglio regionale per chiedere formalmente l’approvazione del piano rifiuti del Lazio, atteso dal 2012, che consentirebbe alla sindaca, in qualità di presidente della Città metropolitana di Roma, di individuare un sito fuori dal territorio comunale. Una guerra fra Roma e Regione che ieri ha messo in seria crisi, spaccandolo, il M5S Lazio, con il consigliere Cacciatore che si è schierato su posizioni anti Roma. E anti Raggi.

Toti, commissario al cubo che difende il cemento

Uno e trino. A pochi mesi dalle elezioni in cui correrà per la conferma, Giovanni Toti imperversa su giornali e tv. Ponti e alluvioni, lui c’è sempre. Invoca “scudi penali per i sindaci” e chiede misure straordinarie.

Toti oltre a essere governatore è anche tre volte commissario: all’emergenza del ponte Morandi, alle emergenze di protezione civile e alla grandi opere (come quelle legate al dissesto). Ma il punto, sostiene Alice Salvatore (consigliere regionale M5S), è proprio questo: Toti che chiede misure straordinarie per combattere il degrado del territorio ha davvero difeso la sua Liguria?

Raul Giampedrone, assessore e braccio destro di Toti, giura di sì: “In quattro anni abbiamo destinato 14 milioni alla manutenzione ordinaria e straordinaria, 192 milioni alla protezione civile e ben 344 alla difesa del suolo”.

Ma molti provvedimenti della giunta di centrodestra hanno fatto saltare sulla sedia chi difende l’ambiente ligure. Ermete Bogetti che guida Italia Nostra a Genova parla di “lacrime di coccodrillo” da parte della giunta Toti. Aggiunge: “Adesso chiedono lo stato di emergenza, uno sforzo straordinario, un piano straordinario… ora che il territorio della Liguria è devastato dagli effetti evidenti dei cambiamenti climatici, con inevitabili ripercussioni sulle infrastrutture. Ma costa e territorio sono competenze regionali! Cosa hanno fatto finora? A parte proclami, nulla si è fatto contro il dissesto idrogeologico”.

Il cahier des doléances è lungo. A cominciare dal famigerato piano casa, che ha spalancato le porte al cemento. Perfino più di quanto avesse già fatto il centrosinistra. Italia Nostra nel 2015 attaccò: “Si dà il via libera a costruzioni, ampliamenti, cambiamenti di destinazioni d’uso anche in aree che, per il loro particolare pregio ambientale e paesaggistico, erano protette da norme molto restrittive, comprese le aree di parchi naturali fino ad oggi in parte risparmiate dal saccheggio edilizio”. Cemento ed edificazione selvaggia distruggono il paesaggio e creano disastri.

“La Liguria che vogliamo guarda all’ambiente”, è lo slogan di Toti. Ma la sua giunta sarà ricordata anche per la legge che, caso più unico che raro, ha dato una sforbiciata ai parchi naturali: secondo le stime degli ambientalisti, sono stati tagliati 540 ettari ai più grandi parchi naturali regionali (Alpi liguri, Aveto e Antola). Non solo: “Hanno revocato”, sostiene Italia Nostra, “la classificazione di area protetta regionale a 42 territori nel Savonese, per un totale di oltre 22mila ettari, ed è stato abbandonato il progetto di realizzare un parco regionale nel finalese”.

C’è un altro tasto dolente: il parco nazionale del monte di Portofino che rischia di naufragare prima di nascere. “La Finanziaria 2017 ha inserito il Matese e il Monte di Portofino tra i parchi nazionali”, spiega Bogetti. Sarebbe la salvezza per questo promontorio unico al mondo che oggi è tutelato solo con un parco regionale di 1.055 ettari. Con un bilancio di appena 800mila euro e un solo guardia parco. Il progetto era quello di creare un parco che dai confini di Genova si estendesse a est fino a Sestri Levante per 15mila ettari. A molti, vedi le lobby del cemento e dei cacciatori, i nuovi confini non sono andati giù. E la Regione, con le parole dell’assessore Stefano Mai, è stata chiara: “Vogliamo che nasca il parco nazionale di Portofino. Ma con i confini attuali, con i tre comuni di Portofino, Santa Margherita e Camogli”. Da Roma hanno già fatto sapere che parchi nazionali così piccoli non se ne faranno e se non arriva un accordo entro fine anno si potrà dire addio al progetto. Vorrebbe dire perdere un milione già stanziato. Ma soprattutto veder sfumare decine di milioni per il futuro: “Il vicino Parco delle Cinque Terre”, ricorda Bogetti, “incassa venti milioni l’anno”.

E non finisce qui. “Ci sono altri due progetti di legge che ci preoccupano molto”, spiega il presidente genovese di Italia Nostra. Sono state proposte modifiche al testo unico regionale in materia di paesaggio: “Si vorrebbero escludere dall’autorizzazione paesaggistica gli interventi di ristrutturazione edilizia. Ma bisogna ricordare che questi a volte prevedono la ricostruzione anche totale di un immobile. È un rischio enorme per il paesaggio”. E ancora: “In un altro disegno di legge si prevede la possibilità di derogare alla destinazione d’uso di volumi oggi non destinati ad abitazione… come i sottotetti”. Secondo Bogetti “così si spalancano le porte a trasformazioni edilizie che possono creare barriere per le acque e costituire un grave rischio idrogeologico. Insomma, sostengono gli ambientalisti, prima di chiedere stati di emergenza Toti per combattere le alluvioni dovrebbe pensare a non cementificare. E c’è chi sottolinea che in Liguria l’assessore all’Ambiente è lo stesso che si occupa di Infrastrutture. Un connubio inedito.

Due nuove indagini a Genova. “Lavori chiesti dai pm mai fatti”

Due nuovi filoni. L’inchiesta partita dal Morandi sta terremotando il mondo delle autostrade. Spalancando una porta, finora rimasta ermeticamente chiusa, su concessioni, manutenzione e controlli di sicurezza. Procura e Finanza oltre quella porta hanno fatto scoperte allarmanti. “Chissà dove andremo a finire”, allarga le braccia un investigatore. Primo, la chiusura della A26 – la Genova-Gravellona – avvenuta lunedì è frutto di un nuovo fascicolo: “Omissioni di lavori che provocano rovine”, c’è scritto. In pratica: la Procura da tempo aveva chiesto ad Autostrade di compiere controlli accurati su almeno quattro ponti. Secondo i tecnici che hanno effettuato i rilievi per conto dei pm “c’era rischio di rovina”. Insomma, potevano crollare. Pare che la reazione non sia stata immediata come ci si attendeva. Di qui la svolta: lunedì i pm hanno detto al concessionario che se non chiudeva la A26 ci avrebbe pensato la Procura. Quindi è stato aperto il fascicolo (senza indagati). I viadotti incriminati sono almeno quattro: Pecetti e Fado, quelli chiusi ed esaminati in fretta e furia per conto di Autostrade; ma ci sono anche Letimbro (A10, Savona), Bisagno e Veilino sulla Genova-Livorno (A12). Qui Autostrade sarebbe già intervenuta. Ma tutta la A12 preoccupa. Ci sarebbero altri viadotti malati. Potrebbero esserci sviluppi. Secondo, i pm hanno aperto un ulteriore fascicolo per falso – senza indagati – che ha per oggetto i rapporti di sicurezza trimestrali di Autostrade. Quelli, in passato realizzati dalla controllata Spea, che fino a tre mesi fa davano ad alcuni viadotti un rassicurante voto 40. E che improvvisamente, ora che i rilievi sono compiuti da società esterne, hanno visto i voti schizzare a 70: lavori immediati o limitazioni del traffico. Si tratta dei viadotti Coppetti, Busalla, Archi e Bormida (su A7 e A26). La domanda degli inquirenti è: come possono essere cambiate così rapidamente le valutazioni? I pm hanno il dubbio che fino a oggi i controlli non fossero realizzati a dovere o fossero falsificati.

Regionali, anche in Calabria verso il no all’intesa col Pd. Ultimatum sulle restituzioni

Anche in Calabria la strada sembra segnata: il Movimento Cinque Stelle andrà da solo. L’accordo con il Pd, che per primo Luigi Di Maio non vuole, non è un’opzione presa in considerazione dalla base: “Tutti, ma veramente tutti, il 99% delle persone che ho incontrato sono dell’idea che il M5S debba rappresentare la terza via”, ha ripetuto ieri il capo politico a Porta a Porta, che insiste a dire che le Regionali non sono “un referendum sul governo”. Mentre in Emilia-Romagna la discussione si è praticamente chiusa lunedì, quando Di Maio ha incontrato gli attivisti a Bologna, in Calabria la questione è ancora in bilico. Se non altro perché Francesco Aiello – il professore universitario a cui il Movimento ha chiesto di correre come governatore – deve ancora sciogliere la riserva. Presto Di Maio incontrerà gli attivisti della Regione. Ma la maggioranza dei parlamentari calabresi – che è tornata a riunirsi martedì – è dell’idea che col Pd non si possa parlare, nonostante gli appelli dell’imprenditore Antonino De Masi affinché i giallorosa trovino un accordo.

Per i Cinque Stelle, però, resta aperta solo una soluzione: quella per cui sia il Pd a convergere sul candidato civico da loro indicato. Ma Di Maio, al momento, sembra piuttosto restio a intervenire per la mediazione: “Sembra che vogliamo decidere da Roma”, ha ripetuto ieri in tv. E sempre ospite di Bruno Vespa, il leader M5S, è tornato sul voto di Rousseau che la scorsa settimana ha sconfessato la sua linea (lui chiedeva una “pausa elettorale”, ma gli elettori M5S l’hanno bocciata). “Sono sempre in buona compagnia – dice Di Maio rispondendo alla domanda se si senta “isolato” – . Il Movimento è sempre stato un movimento che discuteva. Abbiamo storicamente così tante anime che è inevitabile che ci siano delle discussioni”. Solo di ieri, il pesantissimo j’accuse dell’eurodeputato Ignazio Corrao, che ha invitato il Movimento a tornare quello che era. Ma un’altra manifestazione del difficile controllo dei gruppi da parte dei vertici M5S è la fuga dalle restituzioni. Agli eletti è arrivata una mail imperativa: se non si versa entro il 31 dicembre, il collegio dei probiviri “si attiverà senza ulteriore indugio” per infliggere sanzioni disciplinari.

Rai, nomine saltate: veto di Di Maio su Orfeo al Tg3

La complicata tela che l’amministratore delegato Fabrizio Salini era riuscito a tessere in queste settimane si è stracciata all’improvviso di fronte alle tensioni all’interno della maggioranza di governo. L’accordo sulle nomine Rai che avrebbe fatto partire il piano industriale ieri è definitivamente saltato e ora bisognerà ricominciare tutto da capo.

Il nodo è su Mario Orfeo. Il Pd, che rivendica posti alla luce del suo ingresso in maggioranza, ha chiesto la direzione di un telegiornale, il Tg3, da affidare all’ex direttore generale ora parcheggiato alla presidenza di Raiway. Ma di fronte a questo nome, Luigi Di Maio ha detto no. A quel punto, di fronte al veto su Orfeo, i dem si sono a loro volta irrigiditi chiedendo di rivedere tutto, a partire dalla direzione del Tg1, dove siede, in quota M5S, Giuseppe Carboni.

L’accordo raggiunto martedì sera era il seguente: Stefano Coletta a Raiuno, Ludovico Di Meo a Raidue e Silvia Calandrelli a Raitre. Orfeo al Tg3 avrebbe preso il posto di Giuseppina Paterniti, destinata a Rainews in vista dell’accorpamento con la testata dei tg regionali, mentre Antonio Di Bella sarebbe scivolato verso l’approfondimento news o il coordinamento editoriale.

Ieri mattina i consiglieri, già fuori tempo massimo, attendevano da Salini i curricula dei candidati in vista del Cda di oggi, che però non sono mai arrivati, perché nel frattempo nella notte era saltato tutto. Secondo Di Maio quello di Orfeo è un nome troppo schiacciato sulla recente stagione renziana della tv di Stato. “Lui proprio no, fateci un altro nome”, è l’input arrivato dal leader pentastellato, pare non condiviso da tutto il M5S. “Se Orfeo non va bene, allora si rivede tutto”, la replica del partito di Nicola Zingaretti.

Lo scontro su Viale Mazzini, però, sembra il riflesso del momento di difficoltà generale del governo e della contrapposizione costante tra M5S e Pd su Regionali, legge di Stabilità, proseguimento dell’alleanza. “Le nomine arrivano in un momento delicato in cui Pd e 5 Stelle stanno litigando su tutto. Era evidente che le fibrillazioni si sarebbero riverberate pure sulla Rai e che non sarebbe andata liscia…”, fa notare un parlamentare dem. Per il Pd, però, il problema è Salini. “Lui ha il potere di andare avanti comunque, perché non lo fa?”.

L’impasse, tra l’altro, mette in grande difficoltà proprio l’ad, visto che le nomine sono il volàno per l’avvio del piano industriale, che è il core business della sua azione al vertice della tv di Stato. Senza il piano andrebbe in crisi anche il suo ruolo. Per non parlare della figuraccia di nomine annunciate e poi saltate. La linea dell’azienda è che si debba prima avere certezza sulle risorse e sul canone, perché se l’attuale manovra cambierà di nuovo le cifre, a quel punto occorrerà “ridisegnare il perimetro del piano industriale e, di conseguenza, anche le caselle che lo compongono”. Linea che però appare più un modo per prendere tempo in attesa di un nuovo accordo politico. Nel frattempo c’è da sostituire Carlo Freccero: l’interim della direzione di Raidue verrà preso dallo stesso Salini o da Marcello Ciannamea. Il Cda di oggi, dunque, sarà inutile. Poi ne è previsto un altro il 19 dicembre. Entro quella data un accordo andrà trovato. Altrimenti in Rai il banco rischia di saltare in modo definitivo.

Il testo che poteva far cadere il governo

La riforma del Meccanismo europeo di stabilità è considerato da Palazzo Chigi un treno “che non si può fermare”. È d’altronde la linea già espressa dal premier Giuseppe Conte all’ultima riunione dei ministri la settimana scorsa. Non tutti, però, nella maggioranza giallorosa la pensano così. Anzi, il gruppo di parlamentari più contrario è proprio tra i 5Stelle. Al punto che ieri alcuni di loro hanno tentato una mossa dirompente, bloccata anche grazie all’intervento del capo politico in persona, Luigi Di Maio. E passata sotto silenzio, complice la rissa a Montecitorio.

La scena, emblematica della rivolta interna ai 5Stelle e dei rischi per il governo si è svolta in mattinata. Il deputato 5Stelle, Alvise Maniero, uno dei più critici sulla riforma del vecchio Salva Stati, ha cercato di far inserire all’ordine del giorno dei lavori una risoluzione che impegnava il governo a non dare il via libera alla riforma del Mes senza un accordo complessivo che inglobi anche l’ultimo tassello dell’unione bancaria, la garanzia comune sui depositi, che la Germania ha finora bloccato.

È la famosa “logica di pacchetto” (che comprende anche un embrione di budget dell’area euro) che anche Conte continua a rivendicare nonostante ora si scopra – per bocca del ministro Gualtieri – che il testo del Mes fu di fatto definito a giugno e adesso è inemendabile. Un fatto che viola – accusano ora 5Stelle e Lega – una risoluzione di maggioranza che impegnava il governo a non approvare testi che in qualche modo potevano danneggiare l’Italia.

Il primo effetto della risoluzione sarebbe stato quello di far rinviare l’approvazione della riforma ben oltre la soglia di febbraio, indicata ieri dal ministro dell’Economia Roberto Gualtieri (un primo passaggio sarà fatto già al Consiglio Ue di dicembre). Una scelta in linea con quanto chiesto ieri in Senato da diversi 5Stelle al ministro Gualtieri. A quel punto è scattato l’allarme a Palazzo Chigi. Per fermare Maniero è intervenuto direttamente il ministro grillino per i Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, che – in una tesa riunione – ha accusato il deputato di voler far cadere il governo, costringendolo a ritirare il documento. Mossa che però è arrivata solo dopo una telefonata di Di Maio, che ha rassicurato Maniero sulla possibilità che si possa presentare una richiesta di rinvio. Una chiamata decisamente meno tesa, visto che il capo politico era stato informato della mossa dai suoi parlamentari.

Del tema si sarebbe dovuta occupare l’assemblea dei degli eletti 5Stelle nelle commisioni Finanze, Bilancio e Politiche Ue con lo stesso Di Maio, prevista in serata ma rinviata perché alla Camera si è votato fino a notte il dl clima. Sarebbe stata una riunione difficile perché nei gruppi 5Stelle monta la protesta.

Maniero, insieme al deputato Raphael Raduzzi si era già impegnato nella risoluzione parlamentare di giugno. Gualtieri, peraltro, già nel vertice di maggioranza tenuto a Palazzo Chigi aveva riconosciuto come “legittime” le osservazioni dei 5Stelle. Ieri Di Maio ha rincarato la dose: “Gualtieri non ha detto che il negoziato è chiuso, comunque questo non vuol dire che il governo abbia già valutato tutto il pacchetto in cui c’è il meccanismo di stabilità. Ha delle regole che dobbiamo guardare bene. Ci sono perplessità, anche nel M5S”.