Gualtieri sul Mes: “Il trattato è chiuso, attenti a votare no”

Era attesa e non si può dire che la lunga audizione in Senato del ministro dell’Economia sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità (il vecchio fondo salva-Stati) non sia stata un evento. In primo luogo perché Roberto Gualtieri ha fissato alcuni paletti quanti ai fatti: ha spiegato che il testo che delinea il futuro Mes è stato sostanzialmente “chiuso”, ultimato, tra l’Eurogruppo e il Consiglio europeo tenutisi a giugno (governo gialloverde); che “la mia valutazione è che il negoziato non possa essere riaperto: una richiesta in tal senso dell’Italia non avrebbe alcun consenso”; che “adesso c’è un lavoro in corso solo su aspetti esterni al Trattato, anche se rilevanti”.

Quanto alle opinioni, secondo Gualtieri questa riforma “non è significativa né nel bene, né nel male: tutto questo dibattito è immeritato”. Tanto più, ha buttato lì, che a riaprirla “c’è il rischio che peggiori”, mentre ora “sono in discussione i termini di completamento dell’Unione bancaria e questo sì che è un tema rilevante: noi auspichiamo un meccanismo comune di garanzia dei depositi, ma senza le condizionalità chieste dalla Germania sul trattamento dei titoli di Stato detenuti da banche e assicurazioni”, che “questo sì potrebbe avere effetti negativi sull’Italia. Ecco, io userei il nostro capitale politico per questo”.

La firma definitiva sul nuovo Fondo salva-Stati, comunque, dovrebbe arrivare “a febbraio” e non a dicembre: “Da marzo inizieranno i processi di ratifica nei Parlamenti”. E qui Gualtieri ci aggiunge una piccola “condizionalità”, come amano al Mes: “Se l’Italia fosse l’unico paese dell’euro a non ratificare la riforma darebbe un senso di fragilità e di debolezza”. Il Parlamento, insomma, può votare solo se non vota contro: strada ferrata già vista all’opera col bail in sulle banche e altre “riforme” di derivazione comunitaria. Insomma, come chiarito da Giuseppe Conte al Consiglio dei ministri di giovedì scorso il Trattato che riforma il Mes è di fatto inemendabile. Ed è proprio il ruolo del premier, a questo punto, a essere finito in discussione.

Quale è il problema? Serve un riassunto. Dopo un vertice della ex maggioranza una settimana prima, il 19 giugno – vale a dire cinque giorni dopo l’Eurogruppo decisivo del 14, gestito dall’ex ministro Tria, e un giorno prima del Consiglio europeo con Conte – il Parlamento (Lega e 5S) aveva votato una risoluzione che impegnava il governo, tra le altre cose, “a rendere note le proposte di modifica del Trattato Mes (…) per consentire al Parlamento di esprimersi con un atto di indirizzo e, conseguentemente, a sospendere ogni determinazione definitiva”, oltre che a “esprimere la valutazione finale solo all’esito della dettagliata definizione di tutte le varie componenti del pacchetto” (cioè l’unione bancaria e il budget unico dell’Eurozona).

Gualtieri, all’epoca all’opposizione, ha difeso il Conte 1: “Ha rispettato il mandato parlamentare”. La cosa è più che dubbia, eufemizzando, e l’opposizione (Lega in testa) ritiene invece che il Parlamento “sia stato completamente scavalcato” dal via libera del premier a un testo che, nei fatti, non è più modificabile: “Questa è infedeltà in affari di Stato. Conte riferisca in Parlamento. Se non arriva, lo porteremo in tribunale: si cerchi un avvocato”, ha detto Claudio Borghi in un’aula della Camera infuocata. È proprio lì che il Mes ha vissuto il suo momento di colore con tanto di insulti volanti e parapiglia nell’emiciclo.

Risultato: una sedia rotta (pare dal leghista Belotti), un polso slogato (il berlusconiano Mulè in funzione di paciere), una deputata che lascia l’aula in lacrime (Muroni di LeU), la seduta sospesa. È il prologo di quel che accadrà quando Conte riferirà sul tema la settimana prossima, probabilmente mercoledì: oggi glielo chiederà la capigruppo.

Da Amazon&C. solo 64 milioni al fisco

Fare utili in Italia, ma portarli fuori dai confini con escamotage di ottimizzazione fiscale di vecchio corso ma riadattati su contenuti 2.0: i giganti del web, ovvero le loro filiali locali, hanno pagato al fisco italiano nel 2018 solo 64 milioni di euro, il 2,7 per cento del fatturato. Tutte insieme. Amazon, Microsoft, Google, Facebook, Alibaba solo per citarne alcune. Apple, non inclusa nel campione, ha pagato dal canto suo 12,5 milioni.

Il calcolo è nell’ultimo rapporto del centro studi di Mediobanca, secondo cui a livello mondiale le venticinque “WebSoft” con fatturato superiore agli 8 miliardi di euro hanno risparmiato tra il 2014 e il 2018 oltre 49 miliardi di tasse spostando circa la metà dell’utile ante imposte in Paesi con basse aliquote fiscali. Il risparmio sale a 74 miliardi se si includono i 25 di Apple.

Sono 15 le società analizzate per l’Italia, tra cui Amazon che ha pagato 6 milioni, Microsoft 16,5 milioni, Google 4,7 milioni, Oracle 3,2 milioni e Facebook 1,7 milioni. Ed Apple, con 12,5 milioni. In seguito ad accordi con le autorità fiscali, le aziende hanno poi pagato sanzioni per 39 milioni, in diminuzione rispetto ai 73 milioni del 2017. Il fatturato aggregato in Italia è pari a 2,4 miliardi di euro, lo 0,3% del fatturato mondiale. I 64 milioni pagati nel 2018 ne rappresentano il 2,7%, in calo rispetto al 2,9% del 2017.

Il meccanismo è noto: si spostano i ricavi dalle controllate italiane in Paesi dove le aliquote fiscali sono basse oppure, tramite il “cash pooling”, le filiali italiane trasferiscono parte della loro liquidità alle controllanti, che gestiscono in modo accentrato la tesoreria del gruppo. In Italia rimane solo il 14 per cento della liquidità totale, mentre l’84,7 per cento va a finire in Paesi a fiscalità agevolata. Nel 2018 l’aliquota media effettiva del campione preso in considerazione a livello mondiale è stata del 14,1 per cento, di gran lunga inferiore all’aliquota ufficiale del 21 per cento degli Usa e di quella del 25 per cento della Cina.

Liquidità oltretutto estrema che il rapporto definisce anche “ambigua”: a fine 2018 i giganti del WebSoft detenevano oltre 507 miliardi di liquidità, oltre un terzo del totale attivo (tre volte di più della media di una multinazionale). Il 22%, ovvero 305 miliardi),è investita in titoli a breve termine (la metà sono titoli di stato Usa), “percentuale – si legge – addirittura superiore a quella mediamente registrata dalle maggiori banche Ue e Usa”. Dal 2014 al 2018, poi, la loro liquidità è aumentata in media di circa 49 miliardi ogni anno ed è stata utilizzata prevalentemente per acquistare società minori e azioni proprie: nel 2018 l’acquisto di azioni proprie (78 miliardi) è stato di circa quattro volte superiore a quello del 2014 (20 miliardi). E siamo di fronte a entità economiche enormi. Nel 2018 l’aggregato dei giganti WebSoft ha segnato vendite per 850 miliardi e utili per 110.

La nuova Commissione targata Von der Leyen spacca i 5 Stelle

Che sia gialloverde o giallorosa, alla maggioranza di governo italiana i voti sull’Europa riescono decisamente indigesti: ne esce sempre divisa. E, la prima volta, a luglio, il governo Conte ci saltò addirittura su. Questa volta, forse, non succederà, perché la spaccatura che si registra non è fra le due principali forze del Conte2, ma è interna a una di esse.

Chiamati a dare la loro investitura alla nuova Commissione europea guidata dalla cristiano-sociale tedesca Ursula von der Leyen, gli eurodeputati del Movimento 5 Stelle si spaccano: 10 pentastellati appoggiano il nuovo esecutivo comunitario, due votano contro e due si astengono. Tiziana Beghin, capo-delegazione M5S, parla di “scelte personali”: “Il Movimento ha diverse anime e c’è chi legittimamente non si sente a proprio agio. Ma oggi M5S, pur con riserve e con cautele, appoggia questa Commissione”. Ma le dichiarazioni dei dissidenti non sono concilianti come quella della Beghin. Piernicola Pedicini, che ha votato no, dice che “è in gioco l’identità del Movimento”. Per Ignazio Corrao, l’altro no, che considera la nuova commissione “peggio di quella di Juncker”, “O si torna a fare movimento con coraggio, per cambiare davvero le cose, o si muore”. Il leader M5S è stato avvertito nella serata di l’altro e ha cercato di far desistere i colleghi, ma senza successo, ma al momento i vertici non valutano sanzioni per la posizione di dissenso espressa dai parlamentari. Ci sono comunque segnali di frizioni nel Movimento che rispecchiano in Europa il disagio che si registra in Italia.

Se il governo giallorosa non è coeso nell’emiciclo di Strasburgo, non lo è neppure il centrodestra: Lega e FdI votano contro; Forza Italia fa, invece, quella che definisce “una scelta europeista” e vota a favore. Dal punto di vista europeo, gli screzi italiani, questa volta, contano poco: Ursula von der Leyen e la sua squadra ottengono l’investitura dell’Assemblea di Strasburgo a larga maggioranza, 461 sì, 157 no e 89 astenuti (su 751 eurodeputati). I voti grillini mancanti sono ininfluenti.

A luglio, invece, il Movimento era risultato decisivo: oltre ai sì di Partito democratico e Forza Italia, la Von der Leyen, che era passata per soli 9 voti, aveva avuto quelli determinanti dei 5 Stelle, che avevano votato in contrasto con i leghisti, allora ancora loro partner nel governo gialloverde, facendo sentire forse per la prima volta con forza la loro presenza nel Parlamento Ue.

Il Conte2, che sul voto grillino di luglio ha costruito parte del suo nuovo rapporto con l’Ue, rischia però di vedere la sua credibilità scalfita, agli occhi della Von der Leyen e del suo team, dall’episodio di ieri. Anche se l’euforia del momento rende la nuova presidente e i suoi commissari sordi e impermeabili alle polemiche: questa volta, non ci sono state spaccature su base nazionale fra i gruppi europeisti dell’Assemblea, che sulla carta dovevano sostenerli: i popolari, i socialisti, i liberali e i macroniani.

A conti fatti, la Commissione Von der Leyen fa meglio di quella Juncker: nel 2014, l’esecutivo guidato dall’ex premier lussemburghese ebbe 423 voti a favore, 209 contrari e 67 astenuti (su 751). Il record in questa classifica è italiano: la Commissione di Prodi, nel 1999, ottenne 510 sì, 51 no e 28 astenuti sugli allora 626 eurodeputati, oltre l’80% dei suffragi. Ma era tutta un’altra Europa, dove le forze sovraniste e populiste non avevano il peso che hanno oggi.

Il risultato di ieri mostra che i malumori delle forze europeiste del Parlamento uscito dalle elezioni di maggio si sono sfogati a luglio e poi nella bocciatura di tre commissari designati, a sorpresa quella della francese Sylvie Goulard. Ursula è la prima donna alla presidenza della Commissione e il suo esecutivo, che entrerà in carica il 10 dicembre per cinque anni, è quello con il maggior numero di donne: 11, oltre alla presidente. Prima del voto, la von der Leyen ribadisce gli impegni presi in aula a luglio: insiste sul clima e sul Green New Deal (e mostra emozione per Venezia sott’acqua); sul fronte migranti; sulla riforma degli accordi di Dublino che è una priorità; sul salario minimo europeo e sul completamento dell’Unione bancaria. La Von der Leyen parla di “una maggioranza travolgente” e di “un voto per il cambiamento”, ma annacqua – lei, ex ministro della Difesa – le speranze di chi vede nella difesa la nuova frontiera dell’integrazione europea (“l’Unione non sarà mai un’alleanza militare”). E sulla Brexit dice: “Sarò sempre una remainer”.

La Cassazione: via la condanna a Woodcock. Fu un fatto poco rilevante, processo da rifare

Per il pm di Napoli Henry John Woodcock si potrebbero riaprire prospettive di carriera: la condanna in sede disciplinare per un’intervista rubata sul caso Consip è stata annullata ieri, con rinvio, dalla Cassazione.

Quella condanna gli precludeva di fatto la possibilità di avere incarichi semi direttivi e direttivi. La Suprema Corte ritiene deboli le motivazioni con le quali la sezione disciplinare del Csm ha sanzionato Woodcock con la “censura” per aver tenuto nei confronti dell’allora procuratore reggente di Napoli Nunzio Fragliasso un “comportamento gravemente scorretto”, non avendolo avvertito di un colloquio privato dell’11 aprile 2017 con la giornalista Liana Milella poi finito nero su bianco su Repubblica del 13 aprile 2017 con l’escamotage di riportare il virgolettato di Woodcock come raccolto da persone a lui vicine.

In quell’occasione il pm, violando secondo l’accusa una disposizione di Fragliasso del 12 aprile 2017 che aveva raccomandato “in particolare” a lui e comunque a tutti i pm coinvolti nel caso di “mantenere il più assoluto riserbo con gli organi di informazione”, parlò con la giornalista amica della vicenda Consip, politicamente incandescente perché coinvolgeva il padre di Renzi e parte del Giglio magico.

Woodcock, nella chiacchierata destinata a rimanere uno scambio di confidenze tra amici ventennali, come ha confermato Milella al Csm, disse che secondo lui il capitano dei carabinieri Gianpaolo Scafarto aveva commesso “ gravi errori” nelle indagini, escludendo però l’ipotesi di un complotto contro Renzi: “Solo un folle potrebbe pensarci”.

Erano i giorni avvelenati dalle polemiche per l’iscrizione di Scafarto nel registro degli indagati di Roma con accuse di falso, depistaggio e rivelazione di segreto. Per le quali l’ufficiale dei carabinieri è stato prosciolto: il Gup di Roma Forleo ha ritenuto che Scafarto avesse commesso errori senza dolo. I magistrati della Suprema Corte, ieri, accogliendo parzialmente il ricorso della difesa di Woodcock, ritengono che il Csm nell’argomentare la censura inflitta il 4 marzo scorso, non avrebbe affrontato la questione dirimente della “rilevanza del fatto”. Anche alla luce degli effetti sostanzialmente nulli che quell’intervista ebbe, sia sui rapporti tra le procure di Roma e Napoli, che erano buoni prima e sono rimasti buoni dopo, sia sulla stessa immagine del pm, non scalfita, come immutata è rimasta la stima di Woodcock tra i colleghi e all’interno dell’ufficio. Tanto che il nuovo procuratore capo, Giovanni Melillo, gli ha affidato i reati contro la Pubblica amministrazione.

La sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli, composta da consiglieri diversi da quelli che hanno comminato la sanzione, dovrà ora riprendere in mano il procedimento per “provvedere a deliberare” sulla base dei principi e dei rilievi della Cassazione “la sussistenza o meno dell’esimente” relativa alla “scarsa rilevanza del fatto”. E quindi decidere se confermare la condanna stabilendo che l’omessa notizia della chiacchierata con la Milella sia stata rilevante o annullare la censura.

Woodcock, come la collega Celeste Carrano, era stato invece assolto dall’accusa più grave di una presunta scorrettezza nella gestione delle indagini: aver leso il diritto di difesa del presidente di Publiacqua, il renziano Filippo Vannoni, per averlo sentito come testimone e non come indagato, con l’avvocato, attraverso un interrogatorio del genere “tintinnio di manette” con la presunta minaccia di avergli mostrato dalla finestra il carcere di Poggioreale chiedendogli se vi volesse “trascorrere una vacanza”. Tutti i presenti a quell’interrogatorio, sentiti durante il contraddittorio al Csm, hanno smentito questa versione. E la scelta di non iscrivere nel registro degli indagati Vannoni è stata ritenuta corretta.

Dagli stupri impuniti alla malasanità: storie d’ordinaria ingiustizia

La salvifica prescrizione per imputati colpevoli non fa avere giustizia sul fronte penale, neppure a tanti cittadini comuni vittime di malasanità o ai familiari di pazienti morti. Sia l’omicidio colposo sia le lesioni personali gravissime colpose hanno come termine di prescrizione 7 anni e 6 mesi. Ma il Pd, come gli avvocati penalisti, fanno ancora barricate contro il blocco dopo il primo grado.

Per esempio, gli accertamenti delle responsabilità nell’ambito delle colpe mediche sono molto difficili, i tempi delle perizie lunghissime e così la tagliola della prescrizione è spesso garantita. Da Nord a Sud.

A Bologna, Daniela Lanzoni è morta di setticemia dopo l’asportazione di un rene sano a soli 54 anni. Lei ha perso la vita in questo modo assurdo mentre gli imputati del Policlinico Sant’Orsola, accusati di omicidio colposo, l’hanno fatta franca grazie alla prescrizione dichiarata al processo d’appello, il 25 ottobre 2016. La donna è morta il 27 settembre 2007, due giorni dopo l’inutile operazione eseguita per un incredibile scambio di cartelle cliniche: una Tac e un altro referto intestato a una paziente con lo stesso cognome ma più vecchia di ben 32 anni hanno portato i medici ad asportarle un rene perfettamente funzionante. In primo grado era stato condannato a un anno e 10 mesi l’ex primario di Urologia Giuseppe Severini, imputato oltre che per omicidio colposo anche per falso. Il tecnico radiologo Stefano Chiari era stato condannato per omicidio colposo a 1 anno. Il Sant’Orsola si era costituito parte civile così come i familiari della vittima, risarciti.

In Liguria, Valentina, studentessa di 19 anni, è morta per un aneurisma cerebrale nel dicembre 2005 all’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure. Due medici dell’ospedale di Savona furono condannati in primo grado rispettivamente a 1 anno e a 8 mesi per omicidio colposo per non aver eseguito degli esami specifici che avrebbero potuto salvare la vita della ragazza. In Appello, i giudici di Genova, il 25 marzo 2014, hanno dichiarato prescritto il reato.

Nel 2010, al Fatebenefratelli di Roma, per setticemia post intervento muore Dragana Zivanovic, ricercatrice, 40 anni. Durante l’operazione, un sondino difettoso aveva messo in circolo liquidi infetti. Un fatto sottovalutato che ha provocato la morte della donna. Nel 2018 viene condannato a 8 mesi l’endoscopista che aveva usato il sondino difettoso, Ottavio Bassi. Solo nel 2016 invece, si arriva a celebrare l’udienza preliminare per il procedimento parallelo a carico di 5 medici imputati per non aver diagnosticato l’infezione. Il primo grado comincia a febbraio 2017 e un anno fa il reato è stato prescritto. Imputati salvi.

È inchiodato su una sedia a rotelle Giuseppe Locaso, 46 anni, di Marconia di Pisticci, in Basilicata. La pena a vita, per la vittima, è dovuta a una diagnosi sbagliata, nel 2004, all’ospedale “Madonna delle Grazie” di Matera. Reato prescritto in primo grado, dopo 8 anni, per i medici imputati di lesioni gravissime colpose. Giuseppe Locaso aveva un ematoma diagnosticato troppo tardi all’ospedale materano e così il paziente ha subito la lesione del midollo spinale che lo costringe a vivere sulla carrozzella.

Doveva essere un intervento di routine e si è trasformato in tragedia a vita per la paziente. Nessuna conseguenza per il responsabile. A Bari, in una clinica privata, a fine 2007, una donna di 63 anni è rimasta paraplegica dopo un’operazione per un’ernia del disco. Il neurochirurgo imputato per lesioni colpose gravissime è stato salvato dalla prescrizione in Appello, nel 2015.

Ma in questo Paese, dove la prescrizione scorre dalla consumazione del reato e non dalla sua scoperta, può finire in nulla anche un processo per un reato mostruoso come quello di stupro nei confronti di una bambina. Certo, è un esempio estremo, ma è accaduto perché pur essendo i tempi di prescrizione, in astratto, lunghi (17 anni e 6 mesi per violenza sessuale su minore di 10 anni, 15 anni su minore sopra i 10 anni) quando i fatti sono sul tavolo di un magistrato sono di solito passati molti anni. Infatti, a fine ottobre 2017, la Corte d’appello di Venezia ha dichiarato la prescrizione del reato di violenza sessuale commesso da un uomo che aveva abusato di sua figlia oltre vent’anni fa, quando aveva appena 8 anni.

Molti anni dopo, la vittima ha trovato il coraggio di denunciare anche grazie all’aiuto della madre, dei fratelli e del fidanzato. Il padre stupratore, in primo grado, era stato condannato dal tribunale di Treviso a 10 anni. Due anni fa, la prescrizione lo salva anche perché nel frattempo la Cassazione a Sezioni Unite aveva annullato l’allungamento del termine di prescrizione previsto nel caso delle cosiddette “aggravanti a effetto speciale”, riconosciute in casi del genere. Ma è ovvio che se ci fosse stato il blocco della prescrizione almeno in primo grado, il padre stupratore sarebbe andato in carcere.

Meno manette agli evasori e prescrizione verso l’intesa

Il Pd, da ieri, è più ottimista di raggiungere un accordo sulla prescrizione con gli alleati di governo del Movimento 5 stelle. Anche se la cautela è d’obbligo e si tratta con la pistola sul tavolo. Ma lasciano ben sperare le aperture pentastellate sulla modifica alle norme sulle cosiddette manette agli evasori contenute nel decreto Fiscale. Che per i dem possono e devono essere riviste, limitando le pene più severe ai soli reati fraudolenti. Se ne è parlato in tarda mattinata nel corso di un vertice di maggioranza al Tesoro con il ministro dell’Economia Gualtieri e alla fine erano tutti d’accordo sul rivedere le norme sulla confisca allargata limitandola solo alle condotte che non siano esenti dal dolo specifico. E pure a limare le pene, rispetto a quanto previsto originariamente, per alcune fattispecie sanzionate dal decreto Fiscale ora all’esame del Parlamento. E così la giornata si è fatta carica di speranze di essere vicini al punto di caduta per un possibile accordo anche in materia di prescrizione.

“Le nuove norme potranno tranquillamente entrare in vigore da gennaio come previsto. Ma a patto che, nel frattempo, nel ddl Bonafede sul processo penale vengano inseriti alcuni paletti”, spiega Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in Commissione Giustizia alla Camera. Quali paletti è presto detto: che si tenga distinta la questione della prescrizione del reato (cioè la prescrizione sostanziale) e quella processuale. O, in alternativa che, come in altri Paesi come la Germania, che siano previsti sconti di pena nel caso in cui i tempi della giustizia siano stati troppo lunghi. Ma si batte prevalentemente sulla prima ipotesi. “Che – spiega ancora Bazoli – consentirebbe di far convivere il blocco della decorrenza dei termini della prescrizione sostanziale su cui spingono i 5 Stelle, con la nostra esigenza che vengano specificati i termini passati inutilmente i quali il processo si estingue”.

Ma bisogna tornare a parlarsi per mettere nero su bianco una normativa che tenga insieme le esigenze di tutti. Perché, per esempio, di decadenza processuale i 5Stelle non vogliono sentir parlare e non da ora. Già quando l’alleato di governo era la Lega, alle profferte di questa natura formulate da Giulia Bongiorno per conto di Matteo Salvini, si disse chiaramente di no.

Ma tutto sommato, alla possibilità che alla fine, con un accordo politico, si possano appianare le questioni di natura più squisitamente giuridica, si guarda con ottimismo dal Nazareno. “Il tema non è la prescrizione, ma il processo e la necessità di garantire un equilibrio dei tempi”, scandisce il vicesegretario dem, Andrea Orlando. Che ieri mattina incontrando alla Camera il professor Guido Alpa – il “maestro” dell’attuale presidente del Consiglio, che era lì per un convegno nella Sala della Regina – è stato folgorato dai suoi ragionamenti sull’esigenza di abbinare lo stop alla prescrizione a un processo che abbia tempi ragionevoli. “Che poi – sottolinea Orlando – è quello che ha detto anche il presidente Conte quando si dice convinto che alla fine si riuscirà a trovare un compromesso accettabile”.

Anche per i 5 Stelle che sono parsi più possibilisti rispetto al muro contro muro degli ultimi giorni con i dem: il Guardasigilli Alfonso Bonafede ieri ha teso la mano. “Sono convinto che troveremo una soluzione, nell’interesse dei cittadini, investendo sulla riforma del processo penale”, ha detto, pur ribadendo un no secco a qualunque tipo di rinvio dello stop della decorrenza dei termini a partire dalla sentenza di primo grado da gennaio, perché “è una conquista di civiltà”.

L’impressione, insomma, è che nessuno voglia far saltare il tavolo. Oggi alla riunione dei capigruppo a Montecitorio, il Pd non appoggerà la richiesta di Forza Italia di calendarizzare con la massima urgenza in aula il disegno di legge di Enrico Costa, che cancella con un tratto di penna le norme che entreranno in vigore in gennaio. Un ramoscello d’ulivo a cui, si spera, possa seguire un segnale dal ministro della Giustizia in tempi molto contenuti. Ossia prima che il ddl forzista venga incardinato in commissione e poi trattato in aula: una finestra temporale di un paio di settimane o tre che al Pd servirà per capire se i 5 Stelle puntano sul serio all’accordo oppure no. Se salta tutto, come spera Forza Italia, la soluzione per i dem potrà essere una sola. “Votare il mio disegno di legge che, cancellando le norme volute da Bonafede, fa rivivere automaticamente quelle in materia di prescrizione volute dall’allora Guardasigilli dem Orlando. A quel punto – spiega Costa – con quale faccia il Pd dirà che la sua stessa legge non va più bene?”.

Gli ex renziani arrossiscono: “Sembra B.? No comment”

Fuori diluvia, Montecitorio torna a riempirsi alla spicciolata nel primo pomeriggio. Su uno dei divani del Transatlantico siede Renata Polverini, ex governatrice della destra sociale (Regione Lazio, quella di “Batman” Fiorito). Oggi è deputata semplice, in uscita da Forza Italia per aggregarsi a Italia Viva, il partito di Matteo Renzi.

Sono le ore dell’inchiesta di Firenze sulla Fondazione Open e delle parole incendiarie dell’ex premier contro la magistratura. Ma pure della rivolta guidata dal centrosinistra contro la legge sulla prescrizione. Polverini se la ride di gusto: “Lo dicevate voi che Renzi era l’erede di Berlusconi, no? Be’, ecco. Le sue parole sono assolutamente berlusconiane”. È chiaro che a lei non dispiacciono. “Le dirò di più: questo fronte parlamentare che vuole fermare la legge sulla prescrizione mi sembra molto ampio. Mica c’è solo Italia Viva, c’è pure il Partito democratico…”.

In mezzo ai drappelli di onorevoli al pascolo lungo il corridoio, tra l’aula della Camera e la buvette, i più imbarazzati sono proprio loro: quelli del Pd. E tra quelli del Pd, soprattutto gli ex renziani. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini è uomo ironico e gentile. Pertanto alla domanda su Renzi e il presunto accanimento giudiziario si sottrae con una risata. Alza le mani e scappa via: “Cosa le devo dire? Niente… Niente… Sto andando a parlare con l’Anpi…” e va.

Dev’essere un riflesso condizionato: quando sente parlare di Renzi, anche Piero De Luca, figlio del più famoso Vincenzo (presidente della Campania), alza le mani di scatto. E pure lui si allontana ridendo: “Non le dico niente”. Poi tocca a Emanuele Fiano. Indovinate? Alza le lunghe braccia e le mani da rugbista: “Non commento mai le indagini della magistratura, figurarsi quando sono ancora allo stato embrionale”.

Gennaro Migliore – ex vendoliano, oggi con Renzi e Boschi in Iv – non parla col Fatto (“Siamo in causa”). Stefano Ceccanti – ex renziano rimasto nei dem – non è in causa col Fatto ma non parla nemmeno lui. Anzi, si sottrae ai commenti sul sistema Leopolda e il teorema giudiziario, ma è agguerrito sulle questioni di merito: “Il problema è il finanziamento dei partiti”. Quello pubblico – gli ricordiamo – lo avete cancellato voi. “Vero, ma ora bisogna decidere, non si può essere contemporaneamente contro i soldi pubblici e i soldi privati”. Ceccanti, soprattutto, è un ultrà della lotta contro la legge grillina sulla prescrizione: “Dica a Travaglio che se volete i dibattimenti che non finiscono mai dovete cambiare l’articolo 111 della Costituzione sulla ragionevole durata del processo. Altro che deriva berlusconiana, è una questione co-sti-tu-zio-na-le”. Riferiremo.

Alessia Morani è forse la più renziana tra quelle che sono rimaste nel Pd. La sua connessione sentimentale con il “riformismo” di Italia Viva non si può dire completamente interrotta. Di Renzi quindi non parla, si rifiuta. Invece sulla prescrizione è fedele alla linea del Pd: “Per far entrare in vigore le norme di Bonafede bisogna prima riformare il processo penale”. Quelle norme, però, saranno in vigore il primo gennaio: si tratta di intervenire su una legge già approvata. Come lo spiegate all’opinione pubblica? “Abbiamo già riformato la prescrizione nella passata legislatura. Non sarà difficile far capire alla gente che i processi che non finiscono mai non sono ammissibili”.

Alessia Rotta tra ampi sorrisi e frasi di cortesia, rifiuta pure lei di commentare le vicende del suo ex segretario. Ma nega la deriva berlusconiana: “Sulla prescrizione i Cinque Stelle devono capire che ora c’è una coalizione nuova e bisogna venirsi incontro”.

L’unico nipote di quella che fu la grande famiglia renziana a concedersi una riflessione critica è Andrea Romano. Non proprio un attacco violento, ma almeno un compassionevole rimprovero: “Io, per cultura personale, quelle frasi sulla magistratura le avrei proprio evitate”.

Ombre e sospetti sulle primarie ’13 e ’17. E il Pd diventò la Dc

I sospetti circolavano già da anni, tra big, colonnelli e gregari di quella che veniva chiamata un tempo la Ditta – fino alla scissione del Diciassette di Articolo 1 – e sconfitta da Matteo Renzi alle primarie del 2013 (sfidante Cuperlo) e del 2017 (sfidante Orlando). E cioè: che parte dei 6,7 milioni di euro movimentati dalla Fondazione Open, la cassaforte della corrente renziana del Pd, possano essere stati dirottati per pagare pacchetti di voti e di tessere in molti circoli italiani, soprattutto in provincia.

Fu così, allora, che il Pd si democristianizzò del tutto con la degenerazione delle primarie, lo strumento usato da Renzi per impadronirsi del partito.

Dice lo storico lo storico Miguel Gotor, già senatore bersaniano: “Quello che leggiamo oggi ci dice che il renzismo è stato agli antipodi della questione morale di Berlinguer, laddove si doveva distinguere tra premier e segretario del partito, contro l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. E le primarie sono state un campo aperto con ogni sorta di scorribande, che servivano a destrutturare il Pd e a trasformarlo in un comitato elettorale”.

Insomma una deriva dorotea alla Antonio Gava buonanima, il boss dc padrone assoluto delle tessere ai tempi del Caf, il patto di potere tra Craxi, Andreotti e Forlani.

Solo che, con le primarie, il meccanismo ha subìto un’evoluzione, che ha trovato impreparati i big dalla vecchia mentalità comunista, non abituata storicamente alla lotta tra clan e correnti per gestire soldi e spartirsi i finanziamenti. Non a caso, la pietra miliare di questo processo di democristianizzazione del Pd, dal punto di vista storico, viene fatta risalire alla lista dello scandalo di Luigi Lusi, l’ex tesoriere della Margherita. Una lista in cui si elencavano i soldi versati ai vari esponenti delle correnti dc della Margherita. E compariva pure Renzi. Le primarie hanno fatto il resto. Uno strumento che la cultura di matrice togliattiana non ha saputo maneggiare. Per dirla alla Tortorella, padre nobile del Pci, “siamo diventati vittime delle nostre macchinazioni”.

Fino al punto di rottura, incarnato dal bambino Renzi che si mangiò i comunisti nel 2013, trionfando con il 67,5 per cento alle primarie contro Gianni Cuperlo, fermatosi al 18,2. Quell’anno, secondo le carte giudiziarie, i soldi della Open superarono il picco del milione. Un milione e 27mila euro, per la precisione. Stessa storia alla competizione del 2017, contro Orlando. Il renzismo era stato sconfitto al referendum, aveva perso Palazzo Chigi eppure mosse un milione e 300mila euro. Come vennero impiegati?

Anche perché il tetto di spesa ufficiale alle primarie era di 200mila euro. Eppure le cronache di allora, anche senza abbandonarsi a dietrologie, raccontano proprio molti casi di “boom delle tessere” a ridosso delle primarie. A Reggio Calabria, negli ultimi mesi del 2013 (si votò a dicembre) gli iscritti aumentarono del 315%, a Matera del 304, a Campobasso del 293. A Bari, nel solo quartiere San Paolo pochi mesi prima del Congresso si passò da 19 tessere a 334, prima che il partito locale bloccasse tutte le nuove iscrizioni intuendo la cattiva piega della situazione.

Ma pure nel 2017 le cose sono andate in maniera simile. A Battipaglia (Salerno) molte delle 250 nuove tessere fatte poco prima delle primarie – che tra l’altro erano aperte anche ai non iscritti – si rivelarono fasulle e assegnate a nomi e cognomi che smentirono di aver mai aderito al Pd. E a proposito di Salerno, è proprio lì che Renzi ha goduto a lungo di percentuali da plebiscito: il 73% nel 2013, addirittura un surreale 90% nel 2017. Merito soprattutto della vicinanza con Vincenzo De Luca, ora governatore dem della Campania ma storico sindaco della città, capace di muovere come pochi il consenso all’interno del partito salernitano. Ad Agropoli, stessa provincia, nota per il sindaco Franco Alfieri invitato da De Luca a raccogliere voti offrendo fritture di pesce, Renzi vanta il record personale: 2.300 voti su 2.500 nel 2017, ovvero il 93%. A Diamante (Cosenza), dove è sindaco il renziano Ernesto Magorno, l’ex premier è arrivato all’87%. Neanche fosse il collegio di Pontassieve.

Renzi come Craxi: attacco ai magistrati in Parlamento

Un post su Facebook, poi una e-news straordinaria, poi un punto stampa (dopo la visita all’azienda Flo, che produce stoviglie in plastica e bicchieri, a Fontanellato, in provincia di Parma), poi di nuovo un post Fb. Come sempre, nei momenti di pressione estrema, Matteo Renzi passa la giornata a parlare. Pubblicamente, privatamente. “La carta di credito della Fondazione? Non ce l’avevamo né io, né Maria Elena, né Luca”, dice agli amici. Nel frattempo, il capogruppo di Iv in Senato, Davide Faraone, chiede di calendarizzare urgentemente un dibattito in Senato sulle regole del finanziamento alla politica, specificando che interverrà l’ex premier. Una richiesta che, pure nelle parole usate, rimanda al discorso di Bettino Craxi, nell’aula di Montecitorio, il 3 luglio 1992, quando l’allora segretario del Psi intervenne per dire che “buona parte del finanziamento alla politica è illegale”.

Alza i toni Renzi (“Un tempo i magistrati della Procura di Firenze cercavano il mostro di Scandicci, non vorrei che avessero adesso fatto confusione con il senatore di Scandicci”), e prova a delineare una strategia difensiva. Punto cardine: “Due magistrati di Firenze, Creazzo e Turco, decidono di fare questa retata contro persone non indagate. Perché? Perché secondo loro Open non è una Fondazione, ma un partito. Chi decide oggi che cosa è un partito? La politica o la magistratura? Chiameremo in causa tutti i livelli istituzionali per sapere se i partiti sono quelli previsti dall’articolo 49 della Costituzione o quelli decisi da due magistrati fiorentini”. Fino alla legge “spazzacorrotti”, le associazioni, a differenza dei partiti e dei movimenti politici non avevano obbligo di pubblicazione dei propri bilanci né di pubblicità dei propri finanziatori. E su questo, insiste Renzi per contestare il reato di finanziamento illecito. Velata minaccia a Creazzo, poi, quando – ricordando che era il giudice che Palamara sosteneva per la corsa a Roma – fa riferimento allo scandalo sul Csm che coinvolse Lotti e l’ex membro del Csm. E ancora, per rispondere all’indagine dell’Espresso secondo cui avrebbe comprato la sua villa con un prestito da 700 mila euro di un finanziatore di Open (“Falso, sono soldi prestati da una conoscente e restituiti”), annuncia querela e tira fuori quelli che sarebbero i suoi guadagni degli ultimi due anni: rispettivamente 800mila e un milione di euro. L’Anm definisce “gravissimi” gli attacchi alla magistratura.

Nel frattempo, per difenderlo Pier Ferdinando Casini tira in ballo Andreotti: “Diceva che ‘a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso ci si indovina’. Io di solito penso bene ma, francamente, il dispiegamento di forze, il clamore mediatico e le coincidenze temporali mi portano a ritenere quantomeno strana l’iniziativa dei magistrati sulla Fondazione Open”. E Renato Schifani cita direttamente Berlusconi “che fu costretto a dimettersi nel ’94 a causa di un’indagine poi conclusasi con un’archiviazione”. Per adesso, comunque, il dibattito in Senato non è calendarizzato e non è detto che lo sarà a breve: ci vuole il via della capigruppo (con quali voti? Per ora, Renzi pare il solo a chiederlo) e poi siamo in piena sessione di bilancio.

L’ex premier è pronto a usare ogni tipo di tribuna. Perché poi c’è un dato da non sottovalutare: “Inutile dire che il primo effetto di questa vicenda sarà l’azzeramento di tutti i contributi di aziende a Iv”, dice Renzi. Che da quando fa politica ha sempre avuto una “cassaforte” personale (come appunto era Open). Per la sua nuova avventura politica, i finanziamenti sono doppiamente importanti. E allora, ancora una volta, Renzi si vede messo all’angolo, vede le sue possibilità politiche ridursi. Fuori dall’ombrello protettore del Pd, i rischi crescono.

Versati 300 mila euro dai vertici di Menarini

Le perquisizioni della Guardia di Finanza disposte nell’ambito dell’inchiesta fiorentina su Alberto Bianchi e altri sono proseguite anche ieri.

Le fiamme gialle da due giorni bussano alla porta dei finanziatori dell’allora cassaforte del renzismo, la Fondazione Open. Nessuno dei donatori è indagato e ai finanzieri hanno consegnato tutta la documentazione contabile per dimostrare che i versamenti erano in chiaro e regolarmente registrati.

Le perquisizioni sono state disposte dai pm Luca Turco e Antonino Nastasi nell’ambito dell’inchiesta su Alberto Bianchi – ex presidente della Open – accusato di finanziamento illecito e traffico di influenze: al centro dell’inchiesta c’è un incarico per un contenzioso con Autostrade affidato nel 2016 al suo studio legale dalla Toto Costruzioni Generali.

Indagato ma solo per finanziamento illecito e per altre vicende anche Marco Carrai, l’imprenditore fiorentino, già membro del Cda della stessa Open. La Procura è quindi convinta che la Fondazione abbia agito come “articolazione di partito politico”. E così due giorni fa sono state perquisite le abitazioni private di Lucia e Alberto Giovanni Aleotti, figli del patron della Menarini. Durante la perquisizione le fiamme gialle sono entrate anche negli uffici dei due membri della famiglia presso la sede della multinazionale del farmaco.

La Menarini infatti non ha mai finanziato la Fondazione Open, ma le donazioni sono state fatte da persone fisiche: ossia da Lucia, Alberto Giovanni e altri due membri della famiglia Aleotti. Era l’inizio del 2018 e sono stati versati, dalle singole persone 75 mila euro a testa. Per un totale di 300 mila. Ai finanzieri gli Aleotti hanno consegnato quindi copia dei documenti contabili per dimostrare la liceità della donazione. Perquisito due giorni fa anche l’armatore Vincenzo Onorato, presidente della Moby, compagnia di navigazione italiana.

In passato ha finanziato la Open per 50 mila euro a titolo personale e con altri 100 mila con la sua Moby. Si è conquistato poi nel 2016 anche un intervento sul palco della Leopolda al grido di: “Il più grande gruppo del mondo, la Moby, nel settore dei traghetti e un gruppo fatto da tutti italiani”. Al Mattino, dopo che si era diffusa la notizia della perquisizione, ha spiegato: “Credo e crederò sempre negli ideali sociali di Renzi ed ho sostenuto la sua fondazione con un contributo pubblico perché chiaro, visibile e trasparente. Sono anni che lotto per l’occupazione dei marittimi italiani”.

E ancora: tra i perquisiti di qualche giorno fa c’è anche la Aurelia Srl di Tortona, holding della famiglia Gavio. E poi la British America Tobacco (Bat) che in passato ha versato alle casse della Open 100 mila euro.

Non è finita. Le fiamme gialle inoltre si sono presentate dalla Getra di Napoli, azienda di trasformatori elettrici presieduta da Marco Zigon. Il gruppo nel 2016 ha finanziato, in chiaro e registrandoli a bilancio, 150 mila euro. Documenti sono stati acquisiti anche nella sede romana del gruppo Garofalo Healt Care, società del settore della sanità. Alcune aziende del gruppo nel 2014 hanno finanziato la Open per circa 20 mila euro in totale. “Importi modestissimi regolarmente dichiarati come previsto dalla legge” ha spiegato l’avvocato Alessandro Diddi.

Nessuno dei soggetti perquisiti, del resto, risulta indagato.

Adesso gli investigatori stanno analizzando la ingente mole di documenti acquisiti. L’indagine è all’inizio: solo all’esito si scoprirà se il sospetto dei pm – ossia che il denaro arrivava nelle casse di Open per poi essere usato per sostenere iniziative politiche senza rispettare, però, la legge sul finanziamento ai partiti – sia fondato o meno.