Disoccupati, salari, imprese solidali. Idee per l’Unione sociale europea

È curioso che la nuova Commissione europea, guidata da un ex ministro per gli Affari sociali (Ursula von der Leyen), sia stata inaugurata senza che la parola “sociale” apparisse nel titolo di nessuno dei commissari (Nicolas Schmit è stato designato al Lavoro e Diritti sociali, ma Diritti sociali è stato aggiunto in un secondo momento, ndt). E tanto più in una Commissione dove la famiglia progressista ha la quota più alta di commissari degli ultimi due decenni. L’assenza è ancora più strana se si pensa all’attivismo della società civile, oltre che degli attori sindacali, per trasformare il Pilastro europeo dei diritti sociali (Epsr) in una realtà concreta, in regolamenti, direttive e fondi di cui possano beneficiare i cittadini europei.

È ormai una preoccupazione condivisa che il futuro dell’Ue non possa prescindere da un rafforzamento della propria dimensione sociale. La domanda è con quali strumenti e in che modo, l’Unione può fornire sostegno ai suoi stati membri e alle regioni per soddisfare standard sociali comuni e raggiungere obiettivi concordati. Gli sforzi per rispondere a questa domanda hanno portato al concetto di Unione sociale europea (Use), che è stato coniato e promosso da scienziati sociali come Frank Vandenbroucke, Maurizio Ferrera e Anton Hemerijck. A loro avviso, l’Use non consiste nella creazione di un welfare europeo, ma nella convergenza di sistemi di welfare nazionali differenti verso standard e obiettivi sociali comuni. Ma quali passi concreti servono?

La proposta menzionata più frequentemente è quella di creare un’assicurazione europea contro la disoccupazione (proposta dall’ex ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan). Uno schema europeo di assicurazione contro la disoccupazione, o uno schema di riassicurazione dei sistemi di protezione sociale nazionali, è stato promosso per la prima volta come strumento di stabilizzazione automatico per l’Unione economica e monetaria. Costituirebbe un collegamento diretto tra la riduzione degli squilibri macroeconomici, da un lato, e il sostegno diretto a coloro che sono colpiti durante una crisi, i disoccupati, dall’altro. Aiuterebbe a sostenere la domanda aggregata in caso di choc asimmetrici e fornirebbe una rete di sicurezza ai sistemi di welfare nazionali. Se ben progettato, quindi, potrebbe anche funzionare bene ed essere politicamente più fattibile. Un meccanismo di trasferimento equo, basato su regole chiare e prevedibili sarebbe accettabile non solo per quei Paesi (cosiddetti debitori), che hanno maggiormente sofferto durante la crisi, ma anche per i “Paesi in eccedenza”, cioè quelli creditori, dal momento che costituirebbe una stabilizzazione dell’Unione economica e monetaria.

Una seconda proposta è quella di stabilire una strategia Ue per la convergenza verso l’alto dei livelli minimi salariali. Sebbene non sia materia europea, negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza che un coordinamento europeo dei salari sia quanto più necessario per evitare una corsa verso il basso degli standard di lavoro, che andrebbe, prima di tutto, a danno dei lavoratori. La centralità della questione salariale e la necessità di una risposta europea è certificata anche dalla decisione da parte di alcuni sindacati europei di lanciare una campagna dal titolo ‘Alleanza salariale europea’. Una delle proposte avanzate è quella di introdurre un livello salariale minimo garantito in ciascun Paese, la cui soglia viene fissata, in concertazione con le parti sociali, al di sopra della soglia di povertà e con l’obiettivo di garantire una retribuzione dignitosa. Un salario minimo garantito a livello nazionale contribuirebbe a sostenere la domanda interna migliorando la situazione dei lavoratori distaccati e aiutando a combattere il dumping sociale. In questo quadro e strettamente collegata all’idea di creare una garanzia europea per i salari minimi, c’è la proposta di creare schemi nazionali di reddito minimo, fissati con standard comuni europei, per combattere la povertà, fornendo al contempo incentivi all’attivazione e al reinserimento lavorativo, laddove i beneficiari possono ritornare nel mondo del lavoro.

Una terza proposta consiste nel ripensare il modello di impresa. È importante che l’Unione si faccia promotrice di una nuova economia sociale di mercato, dove le imprese devono tenere conto dell’impatto sociale e ambientale dei loro sistemi di produzione, del benessere dei dipendenti e della loro partecipazione alle decisioni aziendali. L’Ue dovrebbe farsi promotrice di modelli di impresa cooperativa e forme di partecipazione finanziaria dei dipendenti. La legislazione europea e i relativi strumenti potrebbero essere particolarmente utili nel promuovere la comproprietà dei dipendenti delle società che operano in più di una giurisdizione nazionale. L’Ue potrebbe promuovere l’applicazione di indicatori che valutano l’impatto sociale e ambientale delle imprese. La cooperazione e l’apprendimento delle conoscenze tra le imprese sociali nei vari paesi potrebbero essere rafforzati, anche con il sostegno dei fondi dell’Ue. Una “socializzazione” del nuovo programma di investimento dell’Ue (“InvestEU”) è un’ulteriore opportunità da non trascurare. Come risulta dall’ultima ricerca condotta da Maurizio Ferrera, il sostegno dei cittadini europei per una maggiore solidarietà a livello europeo e per un budget più ampio volto a promuovere gli investimenti economici e sociali è forte praticamente ovunque in Europa. Anche nei cosiddetti paesi creditori, come la Germania, i cittadini intervistati si sono dimostrati favorevoli. È importante sfruttare questo consenso silenzioso per rilanciare una nuova agenda sociale europea.

Negli ultimi anni, a seguito della crisi, l’Ue si è mossa verso un’Unione bancaria, un’Unione dei mercati dei capitali, un’Unione dell’energia e un’Unione della sicurezza. È ora di una seria discussione su un’Unione sociale europea. Si tratta di un’impellenza sempre più urgente, dettata soprattutto dalla necessità di evitare un ulteriore ampliamento del divario tra dimensione economica e sociale dell’integrazione europea. Non solo, un’agenda sociale dell’Ue del 21° secolo deve affrontare ulteriori nuove sfide come l’impatto della digitalizzazione e della robotizzazione sul lavoro, soprattutto gli effetti del cambiamento tecnologico sulle condizioni di lavoro e la disparità di reddito. Qualcuno potrebbe dire che non è il momento, vista la crescente ascesa delle forze euroscettiche. Al contrario, io credo che, con le giuste argomentazioni, una nuova agenda a favore di un’Unione sociale possa essere costruita. Ripristinerebbe la fiducia dei cittadini nella capacità dell’Ue e dei suoi stati membri.

Amazon, corrieri in sciopero oggi e domani: “Lavoro e ritmi estenuanti”

Anche quest’anno il pianeta di Amazon sarà interessato da uno sciopero molto vicino al Black Friday. Oggi e domani, a poche ore dalla giornata dei grandi sconti pre-natalizi, tradizione importata dagli Stati Uniti, si fermeranno gli autisti che consegnano i prodotti nelle case dei clienti. In particolare, quelli che partono dai due centri di smistamento del Piemonte, Brandizzo (Torino) e Marene (Cuneo): quattrocento persone che formalmente non lavorano direttamente in Amazon, ma sono dipendenti delle aziende che operano in appalto per il colosso dell’e-commerce. Lamentano ritmi di lavoro “estenuanti”, che li costringono ogni giorno a fare fino a 130 fermate per portare a destinazione fino a 200 pacchi.

Per rispettare la tabella di marcia, dice Gerardo Migliaccio della UilTrasporti, “spesso devono infrangere il codice della strada, superare il limite di velocità, parcheggiare in divieto e litigare con altri automobilisti”. L’obiettivo della protesta è ottenere nuove assunzioni per poter ridurre l’ampiezza delle zone di pertinenza di ogni guidatore e quindi alleggerire lo stress dovuto alla mole di merce. L’impressione è che l’attuale livello di produttività si sia raggiunto perché all’inizio questi lavoratori erano precari e più disposti a grandi sforzi per ottenere il contratto stabile. Ora però vogliono alzare la testa e chiedere rinforzi, anche alla luce della crescita del commercio online.

“I carichi di lavoro – aggiunge Migliaccio – dipendono dall’algoritmo di Amazon. E noi proprio ad Amazon abbiamo detto che ci sono queste criticità, ma le nostre segnalazioni sono state ignorate”.

L’azienda di Jeff Bezos ha risposto ricordando che chiede a ogni fornitore di firmare un codice di condotta e che il numero dei pacchi da consegnare “si basa sulla densità dell’area, sulle ore di lavoro, sulla distanza che devono percorrere”.

Un Monte di perdite statali: crediti dubbi e incognite legali

Mentre Roma tratta con Bruxelles per uscire da Mps, i conti e la governance del Monte mostrano i problemi del passato e frenano le prospettive della banca di Siena. Sul fronte reddituale, nella trimestrale di Mps al 30 settembre il rapporto costi/ricavi sale al 71,8% dal 56,4% dello stesso periodo del 2016. Nonostante l’organico sia sceso di 3.490 unità a poco più di 22.100 lavoratori e siano state chiuse oltre 500 filiali, oggi diminuiti a 1.529, i ricavi sono calati più dei costi. Quanto allo stato patrimoniale, a fine settembre Mps aveva un’esposizione netta su crediti deteriorati di 6,9 miliardi con un tasso di copertura del 52,6%. I crediti deteriorati lordi sono dunque 13,1 miliardi circa. Se fossero venduti a prezzi di mercato Mps ricaverebbe circa 2,6 miliardi. A fronte di coperture per 6,2 miliardi, la minusvalenza implicita è di 4,2 miliardi circa.

Ma il rischio sui crediti non è l’unico. Il petitum totale – cioè la somma che Mps dovrebbe sborsare se soccombesse a tutte le cause contro di lei – è di 4,7 miliardi, a oggi coperti da un fondo rischi di appena 500 milioni. Solo i risarcimenti chiesti da soci ed ex soci per i titoli del Monte acquistati nel 2008-2011 (gestione Mussari/Vigni) e nel 2012-2015 (gestione Profumo/Viola) valgono due miliardi. Insomma, Mps presenta potenziali perdite su crediti per 4,2 miliardi e rischi legali per altri 4,2 mentre in Borsa ne capitalizza meno di 1,7.

A queste condizioni nessuno pare interessato a comprarsi il 68,247% del Monte in mano allo Stato che, ai corsi attuali, perde oltre 4,5 miliardi sui 5,39 della ricapitalizzazione prudenziale con la quale nel 2017 salvò Mps. Ecco perché, dovendo concordare con Bruxelles entro fine anno la sua exit strategy da Mps da realizzare entro fine 2021, il governo cerca di separare la parte buona della banca dai suoi crediti deteriorati. Così potrebbe vendere la prima ai privati e tenersi la bad bank. Mesi fa il governo ha presentato alla direzione Concorrenza della Commissione Ue il suo piano: scindere i crediti deteriorati di Mps girandoli ad Amco, la ex Sga al 100% del Tesoro, a un prezzo però più vicino al 47% dei conti di Mps che a prezzi di mercato. Dopo la scissione, gli azionisti di minoranza di Mps sarebbero “compensati” con azioni di Amco, ma c’è chi crede che la mossa li penalizzerebbe perché il recupero dei crediti da parte dell’ex Sga è lungo e incerto. La scissione eviterebbe a Mps di contabilizzare la perdita su crediti, cosa che invece avverrebbe con la cessione. Ma Bruxelles non è convinta: in sostanza il Tesoro azionista di Mps cederebbe a se stesso, attraverso Amco, i crediti dubbi del Monte. Il tutto pare non solo un gioco di prestigio ma soprattutto un aiuto di Stato.

Altre critiche si focalizzano sulla governance del Monte. Giuseppe Bivona di Bluebell Partners nei giorni scorsi ha mandato una lettera di fuoco al cda e ai sindaci di Mps, al presidente del Consiglio Conte e alle commissioni Finanze di Camera e Senato. Bivona scrive: “A oggi il presidente del Monte Bariatti, il vicepresidente Turicchi, l’ad Morelli, il presidente del comitato remunerazione Kostoris, il presidente del collegio sindacale Cenderelli e il sindaco Salvadori, che è a processo, non possono essere ritenuti sufficientemente estranei o distanti” dalle vicende dei derivati Alexandria e Santorini stipulati con DB e Nomura “in quanto in carica (Bariatti, Turicchi, Kostoris, Cappello, Cenderelli, Salvadori) in almeno uno dei periodi interessati agli illeciti contestati a DB e Nomura o in carica come responsabile finanziario, vicedirettore generale e preposto ai documenti contabili (Morelli) quando nel 2009 fu eseguita l’operazione con Nomura. Persino la società di revisione E&Y oggi è la stessa che ha accertato la ‘conformità’ dei bilanci 2011-2015” sui quali è in corso il processo a Profumo, Viola e Salvadori. “La continuità” della governance di Mps è “il vero vulnus”, conclude Bivona.

L’insostenibile modello di Netflix rischia di essere spento dai rivali

Quando un servizio di streaming arriva a dare ordini a Martin Scorsese e alla distribuzione cinematografica americana, è chiaro che il mondo si è rovesciato: Netflix ha prodotto il nuovo film di Scorsese, The Irishman, e ha anche deciso quanto può stare al cinema. Il minimo indispensabile a dare visibilità al progetto, soltanto 26 giorni e soltanto in un numero ristretto di sale. Poi, chi vuole vederlo, lo trova su Netflix. Una simile prova di forza, più ancora dei premi alla mostra di Venezia e degli Oscar, sembra indicare un’ascesa inarrestabile. E invece, proprio nei giorni dello scontro con i cinema sul film di Scorsese, Netflix potrebbe aver imboccato la strada del declino. Perché per la prima volta si trova davanti un concorrente serio, uno che probabilmente non può battere: Disney, con il suo servizio Disney+, lanciato negli Stati Uniti il 12 novembre e che in Italia arriverà a fine marzo.

Se Netflix ha fatto il salto di qualità nel 2013 con la sua prima grande produzione originale, House of Cards (100 milioni di dollari per due stagioni), Disney+ entra nel settore con un’offerta a cui è difficile fare argine: i Simpson, la nuova serie dall’universo di Star Wars, The Mandalorian, i cartoon classici Disney e poi a breve i nuovi progetti tratti dai fumetti Marvel, che prima andavano su Netflix. Disney, ormai quasi monopolista dell’intrattenimento, può anche offrire lo sport, con i canali ESPN. Il tutto a un prezzo di lancio appena inferiore a quello di Netflix, 6,99 euro al mese per il pacchetto base invece che i 7,99 euro di Netflix (che ora negli Usa sono diventati 13, dopo l’ultimo aumento).

Disney ha già annunciato di aver raggiunto 10 milioni di abbonamenti al momento del lancio. Poi c’è Apple, con il suo servizio di streaming a 5 dollari al mese e investimenti colossali, già 6 miliardi di dollari annunciati e progetti ambiziosi come lo show con Jennifer Aniston. Il capo azienda di Netflix, Reed Hastings, ha detto che “il nostro più grande concorrente è la fastidiosa necessità umana di chiudere gli occhi e dormire per un terzo della giornata”. Ma di concorrenti Netflix ne comincia ad avere parecchi anche quando i suoi utenti riescono a tenere gli occhi aperti. Secondo una stima del New York Times, sono 271 i servizi di streaming di ogni genere tra cui gli utenti americani possono scegliere. E stiamo parlando di un segmento specifico della popolazione, dai millennial in su. I più giovani difficilmente concepiscono l’idea di guardare un’intera puntata di una serie, quasi un’ora, su una piattaforma dall’offerta limitata. Molto meglio i video su Youtube (che infatti spinge molto la sua versione Premium senza pubblicità) o su TikTok, il nuovo social network cinese che propone video di pochi secondi.

I vertici di Netflix sanno che ogni successo dei loro nuovi concorrenti verrà visto dai mercati come un potenziale segno di crisi per la società. E nel presentare i risultati finanziari di fine settembre, hanno sottolineato che la torta è abbastanza grande da sfamare tutti: Netflix stima di occupare “meno del 10 per cento del tempo passato davanti a uno schermo negli Stati Uniti, il nostro mercato più maturo, e molto meno del tempo che viene speso guardando schermi mobili”. Quindi anche con una maggiore offerta in streaming, a rimetterci saranno soprattutto le televisioni tradizionali e altri strumenti di intrattenimento, Disney+ o Apple non toglieranno quote a Netflix perché, assicura la stessa Netflix, “anche se i nuovi concorrenti hanno alcuni grandi titoli, soprattutto di catalogo, nessuno ha la varietà e la qualità di nuovi programmi che noi produciamo nel mondo”. Piccolo dettaglio: trovare nuovi clienti con un catalogo ricco di produzioni già ammortizzate è molto meno rischioso che investire miliardi per realizzare contenuti originali, come fa Netflix.

Per noi utentisembra un ottimo affare: la concorrenza aumenta l’offerta e riduce il prezzo, con un mercato di contenuti in streaming sempre più ampio, anche le produzioni di nicchia possono sperare di trovare un pubblico e dunque finanziamenti. Tutti contenti. O forse no, perché la scommessa di questi servizi di streaming è di arrivare a un pubblico abbastanza grande da giustificare gli enormi investimenti in contenuti.

Netflix spende 15 miliardi all’anno per produrre film e serie. Oggi dichiara di avere circa 158 milioni di abbonati (gli utenti reali sono di più, grazie alla condivisione degli account) e secondo gli analisti ha un mercato potenziale di 700 milioni. Peccato che gli utenti abbiano smesso di crescere al ritmo previsto: la frenata si è vista con i conti di fine giugno, quando Netflix ha perso 126.000 utenti negli Stati Uniti. Non accadeva dal 2011.

E ancora non c’era Disney+ a fare concorrenza. Anche il prezzo delle azioni ha smesso di crescere, oggi l’intera azienda vale 136 miliardi di dollari, parecchio ma meno che nel marzo scorso, quando ha raggiunto il picco.

Netflix è quotata in Borsa da più tempo di Google e Facebook, ma ha impiegato molto tempo per emergere come una delle aziende simbolo dell’economia dei dati. Tra il 2003 e il 2009 ha aumentato la sua capitalizzazione di Borsa del 33,4 per cento all’anno, poi tra il 2010 e il 2017 ben del 50 per cento all’anno. Ma una corsa che sembrava inarrestabile pare essersi arrestata, perché la frenata nell’aumento degli abbonati indica che questa volta, forse, Netflix non riesce a stare al passo dei concorrenti. Che siano il sonno o gli altri servizi di streaming.

Tra il 2002 e il 2007 aveva un avversario molto diverso da quelli attuali: l’ormai dimenticata catena di videonoleggio Blockbuster. Netflix spediva i dvd via posta a condizioni migliori e, intanto, raccoglieva dati sulle preferenze degli utenti. Poi ha lanciato il servizio di streaming, ha indetto una competizione tra gli statistici di tutto il mondo ed è riuscita a costruire un modello sempre più preciso di quelle che in gergo si chiamano “probabilità condizionate”: sapere che chi ha amato The Spy con Sacha Baron Cohen quasi certamente gradirà anche la serie Mindhunter è utile per migliorare la selezione da sottoporre all’utente, ma è cruciale per decidere cosa produrre. Ed è proprio sui contenuti originali che Netflix ha costruito il suo successo recente.

Netflix ha abbandonato la procedura standard del settore: si produce un episodio pilota di una serie, si testa, poi, se piace, si prosegue con tutto il resto, in un continuo tentativo di limitare le perdite, inevitabili quando si investono milioni per una serie che non incontra i gusti del pubblico. Grazie alle probabilità condizionate, Netflix sa cosa piacerà ai suoi spettatori, così investe subito centinaia di milioni e carica l’intera stagione, non soltanto un episodio di prova.

Più abbonati ci sono, più ricavi entrano, ma anche più dati si raccolgono, con il risultato di rendere le previsioni ancora più accurate ed evitare di sprecare risorse. Ma questo è un modello di business che presuppone di arrivare, prima o poi, a una situazione di monopolio in cui i consumatori sono legati a Netflix al punto che l’azienda può permettersi di aumentare i prezzi e fare finalmente i profitti che gli investitori si aspettano (a differenza di Uber e di altre start up rivoluzionarie ma in perdita, Netflix comunque fa utili: 665 milioni nell’ultimo trimestre, sotto le attese degli analisti).

Nella sua corsa verso il monopolio dello in streaming, Netflix si scontra con un altro problema insormontabile: tutti i suoi concorrenti offrono il servizio di contenuti video come parte collaterale di un loro business molto più ampio. Amazon ha lanciato Prime Video come appendice del suo servizio di spedizioni accelerato, può andare bene o andare male ma il destino dell’azienda di Jeff Bezos non dipende certo da quello. Lo stesso vale per Disney o Apple. Netflix invece non ha alternative: vende una cosa soltanto, i contenuti in streaming, e ora sarà sempre più difficile sostenere che sono di una qualità superiore rispetto a quelli della concorrenza. Anche la tecnologia che permette di adattare l’offerta alle preferenze dell’utente è replicabile (e replicata) da tutti i suoi concorrenti.

“Quelli che entrano in un settore con il portafoglio aperto, di solito escono con il portafoglio vuoto. Per sfuggire a questo destino, Netflix dovrebbe dimostrare una certa disciplina nel controllare i costi, ma finché non vedrò questa disciplina continuerò a essere soltanto un abbonato e non un investitore”, ha scritto sul suo blog il professore di Finanza alla New York University Aswath Damodaran.

Non abbiamo protezioni contro la Cina

Nella costante ricerca di nemici esterni a cui attribuire le nostre sventure, in Italia si nota una sorprendente assenza: la Cina. Troppo impegnati a denunciare complotti tedeschi o sostituzioni etniche organizzate da Soros, i nostri politici sembrano non essersi accorti che Pechino e il Partito comunista cinese stanno diventando una minaccia per l’Occidente più seria della Russia ai tempi della Guerra fredda. Mentre i Cinque Stelle esultano per l’esportazione di arance in Cina, negli Stati Uniti si diffonde la consapevolezza della rapida corrosione della democrazia a opera dei cinesi.

I limiti alla libertà di espressione sono sempre piu evidenti: temi come Hong Kong o il credito sociale (il controllo digitale della società da parte delle autorità) sono tabù ovunque, per non parlare di Tibet e dei campi di concentramento in Xinjiang. Ma l’allarme sta salendo di livello. Nei giorni scorsi un rapporto del Senato ha presentato gli effetti del “Piano mille talenti” lanciato dalla Cina nel 2008, per trasformare il Paese da potenza manifatturiera a economia digitale: in dieci anni Pechino ha reclutato non mille, ma 7 mila scienziati e ricercatori da tutto il mondo, in particolare dall’America. Molti di questi hanno volutamente nascosto i loro legami con le autorità cinesi e i loro impegni a trasferire conoscenza e tecnologia a Pechino, mentre continuavano a lavorare per programmi finanziati dal governo americano. Le istituzioni americane che erogano 150 miliardi annui per la ricerca non hanno procedure in grado di prevenire le interferenze straniere. In pratica gli Stati Uniti stanno sostenendo il progetto egemonico di Pechino. In America questa consapevolezza comincia a suscitare un certo allarme. Possibile che in Italia, un Paese dove i cinesi sono al centro della scena tecnologica, industriale e perfino sportiva, siamo così indifferenti?

Guerraall’Inps: la dg in conflitto di interessi e le prossime nomine

C’è una storia che agita da giorni il palazzone di via Ciro il Grande, a Roma, in cui ha sede il più grande ente previdenziale d’Europa. Parliamo dell’Inps, ovviamente, che s’appresta – o forse s’apprestava – a un grosso giro di nomine di vertice secondo la riorganizzazione interna voluta dal presidente Pasquale Tridico: la procedura, curiosamente, è stata avviata il 21 novembre, lo stesso giorno in cui il quotidiano La Verità ha rivelato una storia imbarazzante (a dir poco) su un conflitto di interessi della direttrice generale Gabriella Di Michele, cioè di chi alla fine dovrà proporre a Tridico quali dirigenti mettere su quali poltrone.

Riassumendo: la dirigente Inps, quand’era a capo della sede regionale del Lazio (2008-2014), affidò alla ditta romana Mizar Appalti Srl lavori per circa 800 mila euro; nel 2012 la stessa azienda ristrutturò la bella casa romana della Di Michele, abitazione peraltro rimessa a nuovo in parte con un mutuo Inps a tasso agevolato la cui autorizzazione porta la firma della stessa dirigente; la dichiarazione di inizio lavori, che consentì la finalizzazione del mutuo, fu firmata dal capo dell’ufficio tecnico edilizio dell’Inps Lazio, cioè un sottoposto della Di Michele e l’uomo che firmava gli incarichi a Mizar. Ora su questa triangolazione vogliono vederci chiaro Corte dei Conti, ministero del Lavoro (che vigila su Inps) e organi interni dell’Istituto: anche la direzione Audit e il Collegio dei sindaci hanno chiesto “le carte” e una relazione sull’accaduto.

In questa vicenda, però, i fatti non sono in discussione, semmai la loro interpretazione: il conflitto di interessi in sé è evidente e, come è capitato spesso, riguarda una casa. Qualche anno fa Gabriella Di Michele – assurta ai vertici dell’Inps nella complessa stagione dell’onnipotente Antonio Mastrapasqua e ivi rimasta ottimamente coi suoi successori – acquista uno spazioso attico con tre camere e terrazza nel quartiere di Monteverde per 860 mila euro. Buon per lei, si dirà. Il problema arriva con la costosa ristrutturazione affidata alla Mizar. Scrive La Verità: “A presentare la Cila, la Comunicazione di inizio lavori asseverata, è stato, il 22 maggio 2012, l’architetto Achille Elia. Non un professionista qualsiasi. All’epoca Di Michele era il direttore regionale Inps del Lazio e Elia era il coordinatore tecnico regionale edilizio della stessa regione”.

La Corte dei Conti, peraltro, ora vuole sapere se l’architetto Elia fu autorizzato, come d’obbligo, a svolgere la “libera professione” in quel caso, se lo fu da chi e se fu pagato. La versione della Di Michele è che l’architetto le avrebbe fatto un favore, perché la ditta s’era dimenticata di firmare la “Cila” e senza quella dichiarazione non avrebbe potuto accendere il mutuo, che era legato alla ristrutturazione.

Quel mutuo è un’altra storia, ancorché nota dal 2016, imbarazzante e ora illuminata di nuova luce. Risulta infatti autorizzato a marzo 2012 dalla stessa beneficiaria, Gabriella Di Michele. L’interessata sostenne che, nella pila di carte che le portarono da siglare quel giorno, non s’avvide della cosa e lo firmò a sua insaputa (diciamo), ma poi – resasi conto dell’errore – fece firmare la sua vice, Loretta Angelini. Evidentemente per un’altra disattenzione, un mese dopo portò dal notaio il documento con la sua firma. Tre anni fa il procedimento disciplinare si chiuse con l’ammenda più lieve: 200 euro. Di Michele, però, fece causa e alla fine, anche per il parere positivo dell’ex presidente Tito Boeri, si arrivò alla cancellazione della multa.

La carriera della dirigente nata a L’Aquila sessant’anni fa, in Inps dal 1985, nel frattempo era decollata: dal 2014 direttore centrale delle Entrate, dal 2017 addirittura direttore generale su indicazione di Boeri. Un anno fa nella sede centrale Inps l’ha raggiunta l’architetto Elia, assurto alla carica di coordinatore generale tecnico edilizio: Di Michele ritenne opportuno astenersi dalla nomina per la loro amicizia.

L’accoppiata Di Michele-Elia, ricostituitasi nella sede centrale, è quella che compare anche nei lavori affidati dall’Inps Lazio – col cottimo fiduciario, cioè senza gara – a Mizar Appalti Srl: l’architetto, in particolare, da Responsabile unico del procedimento (Rup). Quei lavori, come detto, fruttarono alla ditta romana circa 800 mila euro in pochi anni: non poco se si considera che l’intero fatturato di Mizar, nel 2012, era di 600 mila euro (l’ultimo bilancio sfiora i 900 mila). È su questa triangolazione che vogliono chiarimenti magistrati contabili, ministero del Lavoro e, da ultimo, la direzione centrale Audit e il Collegio dei sindaci Inps.

L’affaire della casa di Monteverde, come detto, è una zeppa nella riorganizzazione voluta da Tridico. Non una cosa di poco conto, visto che si tratta di quale volto dare ai vertici di un ente che gestisce centinaia di miliardi l’anno: la fibrillazione ai piani alti è massima, anche perché il presidente in quota M5S, in questi mesi, è parso appoggiarsi sui dirigenti ex Inpdap, cari anche a Di Michele, creando un certo timore negli altri.

Lunedì Tridico ha ricevuto una lettera del sindacato Usb: “Le accuse rivolte all’attuale dg e al coordinatore generale del tecnico edilizio sono di assoluta gravità (…) In tale contesto procedere all’assegnazione degli incarichi dirigenziali di livello generale, come se nulla fosse accaduto, è quantomeno inopportuno”. Ad oggi nessuna risposta.

Dubbi: è peggio la riforma o l’esistenza del Mes?

Da qualche giorno c’è dibattito sulla riforma del Meccanismo europeo di stabilità, il vecchio fondo salva-Stati già tristemente noto in Grecia, Spagna, etc. Il dibattito, benedetto, ci conferma però in una vecchia impressione: ormai il massimo che viene concesso è giocare in difesa, evitare qualche danno quando si può, attenuarlo laddove possibile, soffrirne negli altri casi. Un po’ poco per chi avesse ancora in programma la modifica dello stato di cose presente. Torniamo al nostro Mes. Le modifiche di cui si discute sono sicuramente peggiorative, specie per l’Italia che ne è il vero destinario: come hanno detto autorevoli commentatori delle più svariate tendenze, è un’implicita cortina di ferro finanziaria stesa attorno ai Paesi che dovessero trovarsi in difficoltà, cui verrà lasciata la scelta tra il suicidio (default dentro l’euro) e il suicidio (uscita con fuga dei capitali). Questa pessima riforma, però, è possibile perché il Mes è una pessima creatura fin dalla nascita: finora ha fornito “aiuti” (aka prestiti) che hanno salvato in larga parte i bilanci di banche private in cambio di pessime riforme per la collettività (cfr. Troika). Politicamente irresponsabile e legibus solutus, l’organo burocratico Mes – nato ideologicamente sulla spiaggia in cui Merkel e Sarkozy uccisero Atene – è anche una dichiarazione: in questa unione non c’è solidarietà alcuna. Se un Paese è in difficoltà sui mercati dovrebbe intervenire la Banca centrale e poi la politica si occuperà di come mettere le cose a posto: qualcuno sa come si chiama il Mes negli Usa?

Non temete, le riforme stanno per tornare

Cari lettori-elettori, non sentivate anche voi un insopportabile vuoto da qualche tempo a questa parte? Una nostalgia canaglia a cui non è possibile resistere? Alzi la mano chi non sentiva il bisogno di una nuova, sensazionale stagione di riforme! Non ne sentivamo parlare da quanto? Forse dieci minuti, massimo un paio d’ore. Ma tranquilli: sebbene privo dell’autorizzazione di Salvini, il vicesegretario della Lega, Giancarlo Giorgetti, ha lanciato una nuova stagione costituente. “In questo momento parlerei con gli altri partiti, dicendo: ‘Scusate, sediamoci a un tavolo per cambiare il gioco e per dare un governo decente a questo Paese’. Quando avremo riscritto queste regole, preso atto che di fronte abbiamo chi dice ‘siamo qua perché dobbiamo eleggere il presidente della Repubblica’, facciamo una legge elettorale per accontentare tutti, così chiunque vincerà dovrà mettersi d’accordo in 4-5 minuti”. E passa la paura. Questa cosa l’ha detta a Milano durante un incontro cui presenziava anche il sindaco della capitale morale, Beppe Sala, che si è subito mostrato entusiasta: “Sono d’accordo, anch’io oggi vedrei la necessità di una Costituente a cui partecipino persone che sanno di cosa parlano”.

Niente, non c’è niente che eccita i politici come la prospettiva di metter mano alle regole del gioco (magari per truccarle un po’). Ovviamente, ma non avevamo dubbi, a Renzi la proposta è piaciuta, anzi piaciutissima (si vede che lo sberlone del referendum 2016 non gli è bastato). E il Pd? Diceva (un mesetto fa) Zingaretti al suo popolo: “Dobbiamo essere noi a costruire un’alternativa, una proposta migliore della destra con un’idea possibile di sviluppo del Paese. Dobbiamo essere una forza nazionale unita, unitaria, plurale” e fin qui va benissimo. Ma poi: “Una forza a vocazione maggioritaria, che parla al Paese, ma non isolata. Di qui l’importanza dei sindaci. Lotteremo per non gettare la spugna e mantenere anche nella nuova legge elettorale lo spirito maggioritario”.

E di nuovo, quattro giorni fa, “noi abbiamo esposto ai tavoli di maggioranza ipotesi che dovrebbero evitare una legge puramente proporzionale, ma che aiutino la semplificazione e a formare coalizioni di governo chiare e stabili, con un impianto maggioritario. Per questo, mentre il Pd continua a essere impegnato con tutta la sua forza nell’azione di governo per l’approvazione della legge di Bilancio e a risolvere le principali questioni che affliggono il Paese, a partire dalla crisi dell’Ilva e Alitalia, non va fatta cadere la proposta di Giorgetti di un tavolo di confronto su questi temi, da attivare nei tempi più rapidi”.

Ma che siamo matti a farla cadere? Zingaretti pensa che stiamo tornando verso il bipolarismo (sinistra progressista versus destra sovranista) e dunque ci vuole la legge elettorale giusta, quella che la sera delle elezioni sai chi ha vinto: “Il travaglio, che rispettiamo, e le difficoltà del Movimento 5 Stelle hanno origine nella accelerazione di questo scenario e accentuano una crisi di sistema che va rapidamente affrontata con gli strumenti della democrazia. Anche con una nuova legge elettorale”. Il punto è che le leggi elettorali andrebbero pensate per garantire (oltre che la governabilità tanto amata da chi vuole governare) anche la rappresentanza. E dato che è appena stata votata la riduzione di un terzo dei parlamentari, gli effetti di un sistema maggioritario su un Parlamento tanto dimagrito sarebbero tutti a discapito degli elettori e dei principi di libertà e uguaglianza del voto. Che sono proprio “gli strumenti” della democrazia tanto cari a Zingaretti.

La perenne campagna di Salvini, obiettivo: fidelizzare il cliente

Le probabilità che un italiano si imbatta in Matteo Salvini quando accende la tivù sono altissime, le cifre dell’Agcom parlano chiaro, a meno che non guardiate solo le lezioni di fisica alle quattro del mattino, prima o poi lo beccate. Ora che si veste come un regista della Nouvelle Vague farete un po’ fatica a riconoscerlo, ma solo per pochi secondi. Non sono un feticista delle classifiche, però, a memoria di spettatore, non ricordo una così clamorosa preminenza in tivù dell’opposizione rispetto al governo. Tra Salvini, che è un one-man-band, la sora Meloni in trance agonistica, e Silvio Buonanima che sulle reti Mediaset fa sempre il pieno a dispetto del disastro ambulante di Forza Italia, le percentuali sono schiaccianti.

Di Maio e Zingaretti, che sarebbero i leader dei principali partiti di governo, risultano (mese di ottobre) presenti in tivù rispettivamente un terzo e un quinto del tempo di Salvini, ed entrambi meno di Matteo Renzi, che ha una presenza spropositata sia al suo spessore nei sondaggi, sia a ciò che ha da dire al mondo.

Questo serve anche per dire che sì, la Rete, i tweet, i post, i video, i gattini, le ruspe, i cotechini, va bene, ma poi è la cara vecchia tivù che fa i grandi numeri, che ti porta a casa di un pubblico spesso anziano e poco scolarizzato, terreno arabile per la propaganda. La questione delle regole, il sogno antico del “fuori i partiti dalla Rai” sta diventando come “la pace nel mondo”, bello, sì, ma è una cosa che si dice quasi per convenzione, mica che uno ci crede davvero, dai!

Denunciata giustamente la prevalenza del Salvini in tivù, resta un quesito che riguarda tutti i leader: in tivù per dire cosa? Quella di Salvini è ormai una campagna di mantenimento, all’ufficio marketing la chiamerebbero “fidelizzazione del cliente”. Ora che ha fatto il pieno nei sondaggi, vende la versione light, non più ruspante, nel senso di ruspa, non più smutandato per “essere come noi” (Ma come noi chi? Si copra! ndr), un po’ ripulito nei toni e nelle argomentazioni. Il solito esercizio mimetico che dovrebbe esser noto ormai a chiunque abbia più di sei anni.

Diverso il caso di donna Meloni, che puntando tutto sulla faccenda identitaria (siamo italiani, cristiani, biondicci, un po’ fasci, che male c’è?) basta che alzi un po’ la voce. Il suo programma in fondo è essere quello che è, non una gran fatica.

In generale, insomma, il leader in tivù sta diventando un format piuttosto prevedibile. Finiti i tempi in cui il capo compariva solo in casi clamorosi, per dichiarazioni forti, per dare la linea. Ora ognuno gioca un suo ruolo già scritto. Di Maio in perenne arrossata difesa, Zingaretti guardingo, Renzi guascone incorreggibile, più altre comparse e personaggi minori che si dividono i pochi metri di palcoscenico rimasti (e a volte sarebbe meglio di no). E poi?

E poi non si dice niente. Le posizioni, i caratteri, le parole, gli argomenti, sono cristallizzati come le zanzare del Mesozoico imprigionate nell’ambra, tutto è generico, tutto è volatile, come se la preoccupazione di essere in tivù fosse prioritaria rispetto a cosa poi dire in tivù, cosa comunicare, quale senso dare alla propria presenza.

Anche per questo Salvini tiene fieramente la posizione: lui è l’unico strumento della sua banda, suona solo lui, per il suo fronte parla solo lui, esiste solo lui. Sia quando balbetta imbarazzato di fronte a una domanda scomoda (una rarità), sia quando fa il ganassa sovranista (cosa che volentierissimo gli si lascia fare), dà anche fisicamente l’idea dell’uomo solo al comando, il contagioso fascino del pensiero elementare, il supremo “ghe pensi mi” che ben si conosce e che ha fatto tanti danni. Non c’è solo lo strapotere di Salvini in tivù, c’è il suo modo, diciamo così sovranista, di usarla. O meglio (o peggio) di lasciargliela usare.

Meglio sardine che mai, però attenti

Il 2019 è stato un anno straordinario in termini di mobilitazione di massa, sia nazionale che transnazionale. Numericamente parlando – e i numeri hanno la loro importanza, eccome – nessun anno può eguagliare il 2019: né il 1968, né il 1848, né alcun altro anno della storia mondiale recente.

Molte di queste mobilitazioni sono state di natura sovranista e razzista; altre, come i gilets jaunes, possono vantare una varietà di motivazioni e ispirazione.

Ma la maggioranza di coloro che sono scesi nelle strade e in piazza nel 2019 si è dichiarata democratica e progressista. Ha anche abbracciato, in misura differente, la consapevolezza che la salvezza del Pianeta in termini ecologici necessita di un cambiamento drammatico nelle nostre abitudini di consumo e nell’economia capitalistica nel suo insieme.

Diversamente dal 1968, il 2019 non ha avuto una guerra del Vietnam in relazione alla quale organizzarsi. Hong Kong, con i suoi milioni di cittadini in marcia nelle strade per mesi di fila nel nome dell’asserzione di diritti umani, politici e territoriali, è fra queste mobilitazioni la lotta democratica più straordinaria; ma è un caso troppo particolare per fare da epicentro per una protesta globale.

In tutti questi eventi, l’Italia non ha ricoperto alcun posto degno di nota. Un tempo, nei primi anni 70, studenti con gli occhi pieni di meraviglia (me compreso) venivano dal Nord d’Europa in pellegrinaggio nella terra di Gramsci e Berlinguer, nonché nella “Bologna rossa” di Renato Zangheri.

Ora la situazione è invertita. Persino i sonnolenti britannici si sono svegliati, mentre l’Italia restava imperterrita nel suo torpore. Sia il movimento pro Remain, sia Extinction Rebellion hanno dato vita a manifestazioni di dimensioni inaudite per la politica britannica. Al contrario, gli italiani sono apparsi incapaci di una qualsiasi azione di ampia portata. Proprio alla chiusura dell’anno 2019, l’Italia si muove e nel profondo del mare si distinguono banchi interi di piccoli pesci italiani. È imperativo capirne il motivo.

Tra i molti, metterei l’accento sul totale fallimento della classe politica in tutte le sue denominazioni, e difatti dello Stato stesso, nel rispondere alle esigenze dei suoi cittadini, in particolar modo quelli dei giovani. La condizione precaria delle scuole e università italiane ne è testimone drammatico.

Il caso italiano è sbocciato tardi, ma racchiude tutti i problemi drammaticamente irrisolti della politica democratica. Quando nel 2002 il movimento dei “Girotondi” cercò di collaborare con i partiti di sinistra, muovendo al contempo critiche nei loro confronti, venne accolto dall’entusiasmo di migliaia di cittadini, ma anche con profondo sospetto da parte di chi sosteneva una visione esclusivamente partitica della politica. L’inizio delle Sardine è stato allegro e di buon auspicio. Nei loro dieci punti pubblicati il 21 novembre, mostrano una nuova attenzione alle passioni e a come queste possano essere distolte dalla cultura dell’odio e della discriminazione, diffusa da Salvini: “La testa viene prima della pancia, o meglio le emozioni vanno allineate al pensiero critico”. E ancora: “Siamo vulnerabili e accettiamo la commozione nello spettro delle emozioni possibili, nonché necessarie. Siamo empatici”. Su questo tema, i miei lettori potrebbero trovare interessante il piccolo volume pubblicato da Einaudi, Passioni e politica (2016) di Paul Ginsborg e Sergio Labate.

In particolar modo, le Sardine devono essere consapevoli che le insidie per il loro movimento saranno tanto interne quanto esterne. Le passioni negative – rivalità, narcisismo, gelosia, rabbia – trovano terreno fertile nelle serre delle assemblee della società civile. Queste ultime sono spesso preda di figure carismatiche o di fazioni ansiose di preservare il loro potere. Uno dei compiti più difficili per movimenti sociali come questo è di mantenere il proprio impeto e in questo potrebbe essere importante garantire l’individuazione di obiettivi chiari e definiti già in fase iniziale. Il compito è immane, ma contro ogni aspettativa ci troviamo a vivere in tempi eccezionali. Benvenute alle Sardine!