È curioso che la nuova Commissione europea, guidata da un ex ministro per gli Affari sociali (Ursula von der Leyen), sia stata inaugurata senza che la parola “sociale” apparisse nel titolo di nessuno dei commissari (Nicolas Schmit è stato designato al Lavoro e Diritti sociali, ma Diritti sociali è stato aggiunto in un secondo momento, ndt). E tanto più in una Commissione dove la famiglia progressista ha la quota più alta di commissari degli ultimi due decenni. L’assenza è ancora più strana se si pensa all’attivismo della società civile, oltre che degli attori sindacali, per trasformare il Pilastro europeo dei diritti sociali (Epsr) in una realtà concreta, in regolamenti, direttive e fondi di cui possano beneficiare i cittadini europei.
È ormai una preoccupazione condivisa che il futuro dell’Ue non possa prescindere da un rafforzamento della propria dimensione sociale. La domanda è con quali strumenti e in che modo, l’Unione può fornire sostegno ai suoi stati membri e alle regioni per soddisfare standard sociali comuni e raggiungere obiettivi concordati. Gli sforzi per rispondere a questa domanda hanno portato al concetto di Unione sociale europea (Use), che è stato coniato e promosso da scienziati sociali come Frank Vandenbroucke, Maurizio Ferrera e Anton Hemerijck. A loro avviso, l’Use non consiste nella creazione di un welfare europeo, ma nella convergenza di sistemi di welfare nazionali differenti verso standard e obiettivi sociali comuni. Ma quali passi concreti servono?
La proposta menzionata più frequentemente è quella di creare un’assicurazione europea contro la disoccupazione (proposta dall’ex ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan). Uno schema europeo di assicurazione contro la disoccupazione, o uno schema di riassicurazione dei sistemi di protezione sociale nazionali, è stato promosso per la prima volta come strumento di stabilizzazione automatico per l’Unione economica e monetaria. Costituirebbe un collegamento diretto tra la riduzione degli squilibri macroeconomici, da un lato, e il sostegno diretto a coloro che sono colpiti durante una crisi, i disoccupati, dall’altro. Aiuterebbe a sostenere la domanda aggregata in caso di choc asimmetrici e fornirebbe una rete di sicurezza ai sistemi di welfare nazionali. Se ben progettato, quindi, potrebbe anche funzionare bene ed essere politicamente più fattibile. Un meccanismo di trasferimento equo, basato su regole chiare e prevedibili sarebbe accettabile non solo per quei Paesi (cosiddetti debitori), che hanno maggiormente sofferto durante la crisi, ma anche per i “Paesi in eccedenza”, cioè quelli creditori, dal momento che costituirebbe una stabilizzazione dell’Unione economica e monetaria.
Una seconda proposta è quella di stabilire una strategia Ue per la convergenza verso l’alto dei livelli minimi salariali. Sebbene non sia materia europea, negli ultimi anni è cresciuta la consapevolezza che un coordinamento europeo dei salari sia quanto più necessario per evitare una corsa verso il basso degli standard di lavoro, che andrebbe, prima di tutto, a danno dei lavoratori. La centralità della questione salariale e la necessità di una risposta europea è certificata anche dalla decisione da parte di alcuni sindacati europei di lanciare una campagna dal titolo ‘Alleanza salariale europea’. Una delle proposte avanzate è quella di introdurre un livello salariale minimo garantito in ciascun Paese, la cui soglia viene fissata, in concertazione con le parti sociali, al di sopra della soglia di povertà e con l’obiettivo di garantire una retribuzione dignitosa. Un salario minimo garantito a livello nazionale contribuirebbe a sostenere la domanda interna migliorando la situazione dei lavoratori distaccati e aiutando a combattere il dumping sociale. In questo quadro e strettamente collegata all’idea di creare una garanzia europea per i salari minimi, c’è la proposta di creare schemi nazionali di reddito minimo, fissati con standard comuni europei, per combattere la povertà, fornendo al contempo incentivi all’attivazione e al reinserimento lavorativo, laddove i beneficiari possono ritornare nel mondo del lavoro.
Una terza proposta consiste nel ripensare il modello di impresa. È importante che l’Unione si faccia promotrice di una nuova economia sociale di mercato, dove le imprese devono tenere conto dell’impatto sociale e ambientale dei loro sistemi di produzione, del benessere dei dipendenti e della loro partecipazione alle decisioni aziendali. L’Ue dovrebbe farsi promotrice di modelli di impresa cooperativa e forme di partecipazione finanziaria dei dipendenti. La legislazione europea e i relativi strumenti potrebbero essere particolarmente utili nel promuovere la comproprietà dei dipendenti delle società che operano in più di una giurisdizione nazionale. L’Ue potrebbe promuovere l’applicazione di indicatori che valutano l’impatto sociale e ambientale delle imprese. La cooperazione e l’apprendimento delle conoscenze tra le imprese sociali nei vari paesi potrebbero essere rafforzati, anche con il sostegno dei fondi dell’Ue. Una “socializzazione” del nuovo programma di investimento dell’Ue (“InvestEU”) è un’ulteriore opportunità da non trascurare. Come risulta dall’ultima ricerca condotta da Maurizio Ferrera, il sostegno dei cittadini europei per una maggiore solidarietà a livello europeo e per un budget più ampio volto a promuovere gli investimenti economici e sociali è forte praticamente ovunque in Europa. Anche nei cosiddetti paesi creditori, come la Germania, i cittadini intervistati si sono dimostrati favorevoli. È importante sfruttare questo consenso silenzioso per rilanciare una nuova agenda sociale europea.
Negli ultimi anni, a seguito della crisi, l’Ue si è mossa verso un’Unione bancaria, un’Unione dei mercati dei capitali, un’Unione dell’energia e un’Unione della sicurezza. È ora di una seria discussione su un’Unione sociale europea. Si tratta di un’impellenza sempre più urgente, dettata soprattutto dalla necessità di evitare un ulteriore ampliamento del divario tra dimensione economica e sociale dell’integrazione europea. Non solo, un’agenda sociale dell’Ue del 21° secolo deve affrontare ulteriori nuove sfide come l’impatto della digitalizzazione e della robotizzazione sul lavoro, soprattutto gli effetti del cambiamento tecnologico sulle condizioni di lavoro e la disparità di reddito. Qualcuno potrebbe dire che non è il momento, vista la crescente ascesa delle forze euroscettiche. Al contrario, io credo che, con le giuste argomentazioni, una nuova agenda a favore di un’Unione sociale possa essere costruita. Ripristinerebbe la fiducia dei cittadini nella capacità dell’Ue e dei suoi stati membri.