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Il bello dei pesci in piazza è che non sono un partito

Egregio direttore, felice, anzi felicissimo, di vedere migliaia di sardine in piazza nelle città della mia regione. Domenica erano a Rimini e io, da riminese, ero con loro a dimostrare la mia solidarietà contro il “cazzaro verde”. Però, a questo punto, la domanda che mi faccio e faccio a voi è: tutta questa gente per chi dovrebbe votare, visto che a breve ci saranno le Regionali?

Leonardo Angeli

Il bello delle Sardine è che non vogliono fondare un altro partito né dare indicazioni di voto. Solo testimoniare la loro presenza e i loro valori. Si rivolgono ai cittadini maturi che ragionano con la propria testa.
m.trav.

 

La buona sanità del Policlinico di Palermo

Scrivo per esprimere la mia più profonda gratitudine per l’assistenza ricevuta in questo periodo difficile della mia vita. Spesso si sente parlare di casi di malasanità, io oggi scrivo per l’esatto opposto: per dare onore al merito a un’eccellenza palermitana che è giusto esaltare, il Policlinico “Paolo Giaccone” di Palermo, in cui ho ricevuto un’assistenza eccellente. Vorrei ringraziare il dott. Giovanni Zabbia, la sua équipe e l’intero reparto di Chirurgia plastica e ricostruttiva. Sono veri angeli!

Valeria, una paziente grata

 

Italiani, scusateci per il deputato Costa

Travaglio ha definito il deputato di Forza Italia Enrico Costa un albese, ma in realtà è monregalese. Dovrebbe scusarsi!

Siamo noi cuneesi che non potremo mai scusarci abbastanza di averlo inviato a Roma…

Simone Demaria

 

Certi uomini non accettano la libertà delle donne

Fatti come quello di Partinico, dove un imprenditore ha ucciso la propria amante incinta, mi fanno vergognare di appartenere al genere maschile. I troppi casi di mancato riscontro a denunce di minacce e le troppo miti condanne fanno sì che la piaga della violenza contro le donne non riesca ad essere sradicata. E ciò nella stessa misura in cui (certi) maschi non riescono a smettere di considerarle loro “proprietà” e non gli perdonano la “colpa” di avere una volontà propria, e di volerla “addirittura” esercitare. Personalmente non posso che chiedere scusa al genere femminile per tutto il male che gli abbiamo cagionato.

Mauro Chiostri

 

DIRITTO DI REPLICA

Nell’edizione del 23 novembre u.s. del vostro quotidiano è stato pubblicato un articolo a firma di Lorenzo Vendemiale dal titolo: “I soldi per lo sport salvano solo le Federazioni”, nel quale si riporta erroneamente che, tra le Federazione sportive nazionali in deficit, è inclusa anche la Federazione Italiana Sport Rotellistici. Infatti, come si evince dal nostro ultimo stato patrimoniale al 31.12.2018, consultabile in chiaro nella sezione “Bilanci” del nostro sito internet (http://www.fisr.it/la-federazione/bilanci.html), abbiamo un saldo patrimoniale netto in attivo pari a Euro 226.446,10, ottenuto attraverso una politica di accurata gestione economica che ci ha consentito di anticipare di due anni il piano di rientro, che scadeva inizialmente nel 2020. A titolo di conoscenza si rende noto, inoltre, che del contributo straordinario 2019 di 734.000 euro circa spettante alla FISR, 170.000 euro sono stati impiegati nel corrente anno per attività aggiuntive, mentre il restante importo sarà impegnato per attività sociali e promozionali da svolgersi nel 2020.

Ufficio stampa Fisr

 

Nell’articolo pubblicato in data 23 novembre 2019 intitolato “I soldi per lo sport salvano solo le Federazioni” a firma di Lorenzo Vendemmiale, si scrive che la FIH – Federazione Italiana Hockey, da me presieduta, è in deficit come altre Federazioni Sportive Nazionali (vengono citate FIR, FISE, FIBS, FCI, FIG, FISR); non entro nel merito delle altre FSN ma la FIH, come noto, al termine di un importante percorso di risanamento economico-finanziario e di un’intensa agenda di lavoro, rispettata in pieno, sotto la mia gestione è riuscita a risanare i debiti già dallo scorso anno e a riportare in equilibrio il bilancio federale per il corrente anno 2019, onorando gli impegni tecnico-sportivi. Su richiesta la FIH può fornire il verbale del Collegio dei Revisori dei Conti e la relativa comunicazione Coni.

Sergio Mignardi, Presidente FIH

Il dato sulle Federazioni in piano di rientro è desunto dal consuntivo Coni 2018, l’ultimo disponibile. In seguito la Fisr – Sport rotellistici, come la Fci – Ciclismo, ha approvato il suo bilancio in cui l’utile conseguito ha permesso di chiudere anticipatamente il piano, circostanza che sarà registrata nel prossimo bilancio Coni. La Fih – Hockey ha invece riportato il patrimonio in attivo, ma non ha ancora completato la ricostituzione del fondo minimo. Siamo lieti inoltre di apprendere dalla Fisr che il contributo straordinario oggetto dell’articolo sarà destinato ad attività aggiuntive, e ci piacerebbe anche conoscere quali. Il punto, in fondo, era proprio questo: la trasparenza sull’utilizzo dei finanziamenti pubblici allo sport.

L.Vend.

Rousseau. La piattaforma ha dei difetti, ma è utile a tutti rileggere il filosofo

Caro Cannavò, mi spiace ma, da elettore dei 5 Stelle, non concordo con quanto scritto nel suo articolo di venerdì scorso. Di tutto hanno bisogno i 5 Stelle fuorché di difese d’ufficio. Anzi, da giornalisti autorevoli come lei andrebbero aiutati a mettere meglio a fuoco i propri errori. E l’uso che si sta facendo di una piattaforma che non possiede l’ampiezza che ci si auspicava, demandandovi decisioni politiche cruciali, è del tutto controproducente. In questo caso, ventimila persone (il 20 per cento degli iscritti, che tra l’altro decidono di sconfessare i propri vertici) possono essere considerate democrazia diretta? Oltretutto, se il capo politico ogni volta ribadisce di sentirsi in dovere di rispondere delle proprie decisioni solo agli iscritti di Rousseau, allora, siamo a un recidivo e tafazziano autolesionismo, che alimenta lo scontento e l’emorragia di voti. In quanto all’accanimento che a ogni consultazione si riversa sul Movimento, tra fuoco nemico e pure amico, vorrei aggiungere che trova ragione nel fatto di scontentare pressoché tutti: non nella sostanza del principio, ma per la forma con cui viene usato uno strumento (al quale non si è nemmeno posto un quorum) potenzialmente rivoluzionario.

Giovanni Marini

 

Caro Marini, utile lettera la sua, sia perché permette di precisare che non facciamo difese di ufficio, ma soprattutto di precisare il punto che ci interessa. Quella della piattaforma Rousseau non è democrazia diretta? Sono d’accordo. Nel libro “Da Rousseau alla piattaforma Rousseau” appena uscito in libreria con Paper First, invitiamo tutti a rileggersi Rousseau e la sua concezione della “compresenza fisica di un popolo” come sostanza della democrazia diretta. Finché non ci sarà una concezione aggiornata della partecipazione e dell’aggregazione del soggetto politico (il popolo, per alcuni potrebbe essere “la classe”, etc.) la semplice consultazione online rischia di portare a… Bonaparte. Nel senso di avallare il plebiscito. E per questo convocare elezioni da un giorno all’altro, senza spiegare, senza dare la possibilità di discutere è un esercizio che andrebbe superato. Allo stesso tempo non ci convince l’accanimento e la derisione della piattaforma, per quanto la sua forma sia discutibile. Un tentativo di consultazione e partecipazione è stato teorizzato e praticato: chi può dire di aver fatto di meglio negli altri partiti? È vero anche che l’ispirazione della democrazia diretta dovrebbe trovare una integrazione con la democrazia rappresentativa. Questo sarebbe un effettivo avanzamento. Non solo per il M5S, ma per tutti. Grazie.

Salvatore Cannavò

Per “Bella ciao”. La Chiesa è casa sua

Non so quale idea Gramellini abbia del Vangelo. Io l’ho sempre letto come una promessa di resurrezione da ogni oppressione: a partire da quella della morte. Esso contiene il più antico canto rivoluzionario – il Magnificat di Maria –, dove il Signore viene esaltato per aver “abbattuto i potenti dai troni” e per aver “esaltato gli umili”, per aver “rimandato i ricchi a mani vuote” e aver “saziato gli affamati”. È un programma ancora sovversivo: quando Giovanni Paolo II visitò l’Argentina del regime militare, quei versetti furono censurati dall’esecuzione collettiva del Magnificat. La Madonna, oggi violentata dalla retorica dei nuovi fascisti, era allora stata censurata in nome del dio mercato. Anche Bella ciao è un canto degli oppressi, che dalle mondine passa ai partigiani e oggi è un canto globale: dalla fiction della Casa de Papel alla dura realtà di Kobane, dove la si canta in curdo. In chiesa, Bella ciao è a casa sua: anche se il ricco, il cardinale o il Corriere della Sera aggrottano le ciglia. Anzi, a maggior ragione.

L’Antitrust contro Poste: “Raccomandate fantasma”

Poste finisce sotto la lente dell’Antitrust. Il Garante per la concorrenza ha avviato un’istruttoria sulla società per presunte pratiche commerciali scorrette nell’invio delle raccomandate. Secondo l’Autorità, Poste prometterebbe “ingannevolmente” agli utenti servizi che in realtà non verrebbero garantiti, inducendoli a scegliere lo strumento della raccomandata promuovendo caratteristiche che non vengono però rispettate.

Una delle ‘colpe’ ricadrebbe sui postini. L’avviso di giacenza del plico raccomandato verrebbe infatti spesso depositato nella cassetta postale del destinatario dell’invio “senza previo accertamento della presenza o meno del medesimo al proprio domicilio”, in pratica senza nemmeno suonare al citofono o alla porta. In questo modo il destinatario che voglia entrare in possesso del plico viene costretto “a esperire procedure alternative previste da Poste, con uno slittamento dei tempi di consegna e un dispendio di tempo ed energie che non sarebbe necessario qualora il tentativo di consegna venisse realmente effettuato”.

Secondo l’Antitrust, Poste, inoltre, avrebbe veicolato “messaggi ingannevoli riguardo al servizio di ritiro digitale, vale a dire la versione evoluta della consegna fisica, delle raccomandate, con riferimento alle relative condizioni economiche e di utilizzo”.

L’Unione dei consumatori ha giudicato il procedimento un’ottima notizia, bollando quello delle raccomandate come un servizio “decisamente troppo caro e poco efficiente”. Il Codacons chiede invece che, in caso di accertamento delle irregolarità, Poste risarcisca gli utenti interessati, altrimenti si dice pronta a procedimenti legali.

Più membri per la Privacy: ora La Russa sogna

Ignazio La Russa è pronto a smettere con la politica: “La prima volta fu a un comizio di mio padre, ero un bambino”. Il senatore di Fratelli d’Italia s’è candidato per un posto all’Autorità per la Privacy, anzi l’hanno candidato e però l’ipotesi non gli spiace: “Ho assecondato una decisione dei miei familiari”.

La Russa s’è infilato in un’apertura autunnale del bando, già chiuso la scorsa estate da Camera e Senato, poiché il collegio della Privacy – che ha un mandato settennale – è decaduto il 19 giugno e si trascina con le proroghe, il solito metodo per nascondere l’incapacità della politica a rinnovare una struttura che si definisce indipendente. Com’è accaduto per l’Autorità per le comunicazioni, in sigla Agcom, scaduta a metà luglio. Il bando di Camera e Senato è una elegante presa in giro perché la scelta dei componenti della Privacy spetta ai partiti di maggioranza e opposizione che si dividono le poltrone con assoluta discrezione. Nel 2012 toccò al dermatologo Antonello Soro, che da capogruppo dem alla Camera fu catapultato al vertice della protezione dei dati personali, stavolta può toccare all’avvocato La Russa? La Privacy è composta da quattro commissari, votati da senatori e deputati, due ciascuno per aula. Lo stesso avviene per l’Agcom, ma il Garante della Privacy è indicato all’interno dei quattro commissari. Vuol dire che se non c’è un accordo totale tra la politica, in perfetto equilibrio, alla Privacy comanda il più anziano.

E dal comizio del padre missino è trascorso molto tempo, La Russa sta per compiere 73 anni: “Se lo faccio, è le possibilità sono ferme al 10 per cento – fa il modesto l’ex ministro – è per fare il capo”. Il governo giallorosé ha paura di ratificare un’altra proroga e scavalcare le vacanze natalizie, soprattutto perché al Quirinale sono più che stufi, allora la maggioranza prepara un emendamento alla legge di Bilancio per aggiungere una quinta poltrona alla Privacy e lasciare la nomina del presidente all’esecutivo come per l’Agcom. Con una piccola norma e una efficiente produzione di lavoro ben retribuito, ne va dato atto, i giallorosé semplificano – altra piaga d’Italia – la spartizione che coinvolge Italia Viva di Renzi, Cinque Stelle di Di Maio e Pd di Zingaretti e scongiurano lo schema La Russa. Alla distribuzione delle seggiole, dunque, si potrà contare su otto posti tra Privacy e Agcom affidati al Parlamento più due capi delegati al governo. Così i Cinque Stelle possono nutrire l’ambizione mai nascosta di vedere alla guida della Privacy un tecnico di gradimento, mentre Zingaretti dovrà battagliare con Renzi e quel che resta di Forza Italia – ma in questa situazione resta tanto – per l’Agcom, sempre cara a Berlusconi, cioè a Mediaset. Alle minoranze si possono concedere due poltrone alla Privacy, una per Fratelli d’Italia e una per la Lega di Salvini, mentre per l’Agcom centrodestra compatto a sostegno di Forza Italia. Entro domani sarà diramato il calendario di dicembre di Camera e Senato, ci sarà un tentativo per provare le nomine prima di Natale, più che altro un segnale per rasserenare il Colle. Se va male, si possono portare i commissari da 5 a 10 e poi a 15. È un attimo.

Conte si prende Invitalia. E D’Alema torna in pista

Dopo mesi di scontro, un doppio vertice lunedì sera al Tesoro e a Palazzo Chigi sblocca il risiko delle nomine nella galassia di Cassa Depositi e Prestiti. E a cascata anche le altre. Un segnale in vista della vera partita, quella delle grandi partecipate di Stato (Eni, Enel, Poste etc.) che terrà il governo in vita almeno fino a primavera. Alla fine lo scontro si chiude senza grandi sconfitti, ma con qualche vincitore sì. E pure qualche malumore. L’impasse si è risolta con il ricorso a una certosina divisione, stile Prima Repubblica, a cui solo i 5Stelle non hanno pagato dazio.

Tra i vincitori c’è sicuramente Giuseppe Conte. Il premier incassa la conferma dell’eterno Domenico Arcuri, da 12 anni alla guida di Invitalia, la controllata del Tesoro che gestisce gli incentivi allo sviluppo (ora coinvolta nel dossier Ilva). Conte ha imbracciato uno scontro coi 5Stelle, specie con Luigi Di Maio, contrario alla scelta di confermare un manager considerato in quota Pd e passato da mille stagioni, e a cui il movimento ha contestato la gestione di Invitalia nelle crisi industriali di questi anni. Sarà nominato nel Consiglio dei ministri la prossima settimana.

Alla presidenza andrà Andrea Viero, indicato dal ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli, triestino come lui, ma “suggerito”, per così dire, dal Pd. Viero, alto dirigente di Fincantieri, è vicino ai dem emiliani, specie a Graziano Delrio, suo antico mentore, che da ministro delle Infrastrutture lo nominò nel 2015 commissario delle Ferrovie Sud Est. Da direttore generale della multiutility Iren finì nel mirino dei 5Stelle e dello stesso Grillo nelle battaglie per bloccare l’inceneritore di Parma. “In pratica il Pd si prende tutta Invitalia”, si sfoga un dirigente dei 5Stelle.

Nella galassia Cdp l’incastro è più complesso. Sicuramente vince Massimo D’Alema, tornato a suggerire manager e poltrone grazie all’arrivo a via XX Settembre di Roberto Gualtieri, membro storico di quella congerie di nomi nota come “corrente dalemiana”. A lui è ascrivibile il neo presidente di Sace, la controllata di Cdp che assicura le commesse estere: l’avvocato Rodolfo Errore.

Su Sace si è consumato uno scontro feroce tra l’ad della Cassa, Fabrizio Palermo – indicato dai 5S, ma oggi in cerca di collocamento – e la tecnostruttura del Tesoro. Per mesi ha tentato di silurare i vertici scontrandosi con l’allora ministro Giovanni Tria. Stessa scena col nuovo governo. Palermo, anche lui sponsor di Viero a Invitalia, oggi incassa almeno la nomina in Sace di Pierfrancesco Latini, Chief risk officer di Cdp, e di Enrico Resmini, manager di Vodafone, alla guida del Fondo italiano innovazione. Il Tesoro, invece, “prende” pure Fintecna, alla cui guida ha imposto l’ex dirigente Antonino Turicchi.

I 5Stelle si sono presentati divisi alla partita. Col governo giallorosa le nomine sono state tolte al casaleggiano Stefano Buffagni, grande sponsor di Palermo, e affidate al sottosegretario alla presidenza Riccardo Fraccaro. In quota M5S sono andati gli ad di Simest, controllata di Cdp per gli investimenti esteri, di Cdp Immobiliare e del Fondo italiano di investimento. Per tutte è tre si è ricorso a manager estranei alle filiere romane. A Simest arriva Mauro Alfonso, banchiere di Cerved Rating Agency, con un passato nell’agenzia Usa Fitch. Alla presidenza è stato indicato Pasquale Salzano, vicino a Di Maio e già ambasciatore in Qatar. Emanuele Boni, avvocato laureato a Oxford con una lunga esperienza nel Real Estate (guida il gruppo lussemburghese Riva) va in Cdp Immobiliare. Mentre nel Fondo italiano di investimento arriva Antonio Pace, professore a contratto alla Bocconi e manager di Morgan Stanley. Nella spartizione, Renzi invece incassa la nomina del fedelissimo Federico Lovadina in Sia, controllata che si occupa dei sistemi di pagamento. Ma punta già a sostituire l’ad dell’Anas, Massimo Simonini con Ennio Cascetta, pasdaran del Tav che Delrio nominò nel 2015 a capo della struttura di missione del Mit.

Chi non ce la fa, per ora, è Franco Bassanini. L’eterno boiardo doveva essere cooptato nel cda della Cassa, ma l’ostilità di 5Stelle, e delle Fondazioni, ha bloccato la partita.

L’assessora ai presidi: “Fate tutti il presepe a Natale”

Lunedì ha inviato una lettera ai dirigenti scolastici del Piemonte per chieder loro di allestire presepi e mettere in scena “recite o canti legati al tema della Natività”. È l’iniziativa di Elena Chiorino, assessore regionale all’istruzione della giunta di Alberto Cirio, in linea con la proposta della Lega a trazione salviniana di appendere nell’aula del consiglio regionale il crocifisso. “La ricorrenza natalizia e le tradizioni come il presepe, l’albero di Natale e le recite scolastiche ispirate al tema della Natività sono parte fondante della nostra identità culturale e delle nostre tradizioni che la Regione Piemonte intende tutelare e mantenere vive”, ha scritto Chiorino. Per prevenire le possibili critiche, l’assessore di Fratelli d’Italia afferma come sia “evidente che la conoscenza delle nostre tradizioni sia un supporto alla piena integrazione per chi proviene da altre realtà”. Non la vedono così le opposizioni, per le quali si tratta di propaganda. “La destra viola l’autonomia scolastica e copre il suo vuoto brandendo il Cristo come una Barbie per ogni stagione”, sostiene Marco Grimaldi, capogruppo di Liberi, uguali e verdi (Luv) ricordando la diminuzione di fondi regionali per il diritto allo studio: “Molte famiglie sono rimaste escluse dal voucher, serve una legge che garantisca il diritto alla mensa scolastica e mancano risorse per trasporti e libri di testo”. Sulla stessa linea Francesca Frediani, capogruppo M5S: “Buoni scuola non finanziati dalla Regione, fondi mancanti per le per attività integrative e scuole a pezzi per la recente ondata di maltempo. Queste sono le priorità delle famiglie piemontesi”, ricorda. Boccia la proposta anche il viceministro all’Istruzione Anna Ascani: “Direi che delle scuole bisogna preoccuparsi innanzitutto che stiano su”, ha detto ricordando di essere stata venerdì nella vicina Rivoli, dove il 22 novembre 2008 uno studente diciassettenne, Vito Scafidi, è morto per il crollo del controsoffitto al liceo Darwin. “Anche in Piemonte abbiamo alcuni problemi di edilizia scolastica”. “Spero che i dirigenti scolastici straccino la circolare, e che continuino a svolgere il proprio lavoro nel rispetto della pluralità e della laicità della scuola, così come sancito dalla Costituzione”, dichiara Igor Boni, presidente dei Radicali Italiani.

Per don Fredo Olivero, prete che da decenni a Torino lavora per l’integrazione degli stranieri, la proposta dei presepi a scuola è sbagliata: “L’integrazione si fa ascoltando tutti – premette –. Se vogliamo usare i simboli religiosi facciamolo, ma questo vuol dire discriminare. Io sono per non strumentalizzare la religione. Questa linea divide e non integra. Facciamo conoscere il presepe e ascoltiamo cosa hanno da dire gli altri studenti perché le contrapposizioni religiose non servono, serve dialogare. Quando si è maggioranza e si schiaccia gli altri allora è un’imposizione”.

Uffizi, lo strano caso della Venere (falsa?) del Giambologna

Mentre ancora riverbera l’eco degli strali che il Louvre e gli Uffizi si sono spediti riguardo ai prestiti per l’anno di Leonardo da Vinci, ecco che le gallerie fiorentine assurge al ruolo di protagonista di una nuova querelle internazionale, legata stavolta alla propria mostra “Plasmato dal fuoco. La scultura in bronzo nella Firenze degli ultimi Medici”. Tra le opere esposte, infatti, figura una capziosa e mai esposta fino ad oggi Venere al bagno attribuita al Giambologna (1529-1608), artista fiammingo eletto artista di corte da Francesco I de’ Medici.

Il proprietario della statua è il mercante d’arte Alexander Rudigier (amico di Eike D. Schimdt, direttore degli Uffizi), che per anni ha tentato di dimostrarne, senza riuscirci, l’appartenenza al Giambologna. Gli esperti sostengono sia solo una copia bronzea e di un secolo posteriore di una in marmo (questa, davvero, del Giambologna) esposta al Getty Museum di Los Angeles.

Nonostante la questione non fosse stata sciolta e le ragioni di Rudigier assai scarse, a settembre l’opera viene annoverata nel catalogo della mostra fiorentina come “squisita” Venere detentrice di “una sensualità straordinaria” e attribuita al Giambologna da Schmidt stesso.

Il mondo dell’arte si è sollevato. Tanto per l’attribuzione di imperio – e su cui gli Uffizi hanno dichiarato al New York Times (che ha il merito di aver sollevato la questione) che Schmidt credeva che la disputa accademica fosse risolta – ma soprattutto per il conflitto di interessi che si viene a creare. Lo spiega bene Dorothea Diemer, storica dell’arte e uno dei principali detrattori dell’attribuzione: “Cercano di dare credibilità alla loro opinione esponendo la scultura. In più, è un’opera in vendita, quindi l’attribuzione fa la differenza. Ed è questione di tanti soldi.” Se fosse del Giambologna, infatti, varrebbe decine di milioni di dollari ed è ovvio che l’opinione del direttore di uno dei musei più importanti al mondo faccia un’enorme differenza in termini di denaro, che mai come in questo caso sembra “vile” come vuole la lezione di Sciascia.

E sembra essere in un giallo del maestro siciliano se pensiamo che già nel 2013, Rudigier aveva già cercato di vendere la Venere al bagno “spacciandola” come un’originale al principe del Liechtenstein. Concorda con Diemer anche Gregory Stevens, della Seton Hall University: “Quella visibilità ha il potenziale di aumentare il valore, ma non è compito dei musei”.

Da par loro, gli Uffizi dichiarano che “Il bronzo è stato incluso nella mostra esclusivamente per motivi accademici” e che nulla ha a che fare il rapporto di amicizia che lega il direttore Schimdt con Rudigier. La questione sollevata è principalmente etica. “In effetti, è un caso imbarazzante” commenta lo storico dell’arte Tommaso Montanari, che precisa: “Nel periodo in cui è stata organizzata la mostra, gli Uffizi non avevano un Consiglio scientifico in carica”.

La statua reca un’iscrizione latina: “ME FECIT GERHARDT MEYER HOLMIAE” (Realizzata da Gerhardt Meyer in Stoccolma), e un anno che può essere o un “1597” oppure un “1697”, il cui “6” non è stato chiuso bene in fusione.

Per Rudigier è il 1597 e Gerhardt Meyer non è il noto fondatore di bronzo più attivo in Svezia alla fine del 1600, ma un precedente Meyer che avrebbe lavorato in una delle tre fucine del Giambologna, di cui tuttavia non si trova nessun’altra opera (tra l’altro, l’opera non veniva mai firmata da chi la gettava in bronzo). E ai test di termoluminescenza che ha fatto eseguire Rudigier e che comproverebbero la sua teoria – anche se per per Jean-Marie Welter, metallurgista del rame, non sono molto attendibili poiché i risultati dipendono da moltissimi parametri – chi si oppone specifica che tanto lo stile ruvido dei capelli della Venere, come pure il braccio inferiore che oscura il volto sono atipici nello stile dell’artista.

I giudici con Salvini: “Le navi delle Ong vadano a casa loro”

Una Ong, per dare un porto sicuro ai migranti recuperati in mezzo al mare, dovrebbe raggiungere il suo Stato di appartenenza. Se la nave batte bandiera tedesca vada in Germania, se è olandese in Olanda, e così via. E poco importa se l’imbarcazione si trova a miglia e miglia di distanza, per esempio davanti alle coste libiche. Insomma, “lo Stato di primo contatto” che dovrebbe fornire il Pos (porto di sbarco sicuro) a causa della attuale normativa poco chiara, “non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio”. Se Italia, Libia o Malta non rispondono, bisogna arrivare molto più lontano. In teoria. Perché è chiaro che spesso gli Stati europei di appartenenza delle Ong sono troppo lontani e quindi l’operazione diventa impossibile. È un empasse aggravato dal vuoto normativo ma che ha consentito al Tribunale dei Ministri di Roma di stabilire che l’Italia non ha alcun obbligo di “indicazione del Pos”. E così – in merito alla vicenda della Alan Kurdi – Matteo Salvini e il capo di Gabinetto del Viminale, Matteo Piantedosi, sono stati archiviati.

Non è la prima volta che i giudici si ritrovano ad analizzare la posizione del capo della Lega (quando era ministro) per vicende che riguardano la chiusura dei porti. È successo nei casi di altre Ong alle quali è stato vietato lo sbarco e sono arrivate le archiviazioni.

Ma è particolarmente interessante leggere le motivazioni del collegio ministeriale di Roma che ha archiviato la vicenda dell’Alan Kurdi, la nave della Ong Sea Eye, che – battente bandiera tedesca – ad aprile scorso ha recuperato in zona Sar libica 62 persone. Una volta salvati i migranti, l’imbarcazione si è diretta verso l’Italia (che non ha preso il coordinamento dell’operazione), trovandosi poi di fronte il divieto di sbarco imposto dal Viminale. La Alan Kurdi ha chiesto così per quattro volte alla Mrcc Roma (il Comando generale del corpo delle capitaneria di porto, che ha proposto soccorso ai migranti malati in barca) un porto sicuro, mai concesso. E alla fine la Ong è sbarcata a Malta.

La vicenda è finita in un esposto arrivato alla Procura di Agrigento, che dopo aver iscritto Salvini e Piantedosi per abuso d’ufficio, rifiuto di atti d’ufficio e omissione di soccorso, invia gli atti a Roma. Qui i pm chiedono l’archiviazione dei due indagati e mandano il fascicolo, per la decisione finale, al Tribunale dei ministri. Che ha condiviso l’impostazione dei magistrati seppur con motivazioni diverse.

Infatti secondo la Procura di Roma non è il Viminale, ma la capitaneria di porto a essere responsabile “sia della fase di ricerca che di quella di soccorso in mare” e poi “del trasferimento in un luogo sicuro delle persone salvate”. Nel caso della Alan Kurdi, quindi, doveva essere Mrcc Roma a individuare il Pos. Non vi sono quindi responsabilità di Piantedosi e Salvini.

C’è poi la questione dell’abuso d’ufficio, altro reato inizialmente contestato. Ed è qui che i magistrati bacchettano l’ex ministro. Definiscono infatti il dispositivo della direttiva del 4 aprile con cui il Viminale chiudeva i porti alla Ong tedesca “distonico rispetto alla disposizione normativa posta a presupposto del provvedimento amministrativo”, come pure “in contrasto con più di una disposizione di legge”. Tuttavia il reato di abuso d’ufficio non si configura perché manca il dolo intenzionale: “Il fine primario del ministero dell’Interno… nell’emettere il provvedimento è stato quello di perseguire il pubblico interesse senza intenzione di arrecare danno alle persone recuperate nel corso del salvataggio”.

Anche per il Tribunale dei ministri Salvini e Piantedosi vanno archiviati.

Per il collegio ministeriale però non spetta alla Capitaneria indicare il Pos, bensì al Viminale.

C’è poi la questione di quale Stato debba coordinare le operazioni di salvataggio. “Seguendo il dettato della convenzione – scrivono i giudici – lo ‘Stato di primo contatto’ non può che identificarsi in quello della nave che ha provveduto al salvataggio”. Nel caso della Alan Kurdi, la Germania. Tuttavia il raggiungimento del porto sicuro “resterà priva di idonea regolamentazione, essendo evidente che rimettere l’indicazione di un Pos ad uno Stato molto distante dal luogo Sar non consente una tutela efficace delle persone che, dopo aver rischiato la vita in mare, avrebbe diritto di raggiungere un luogo sicuro nel più breve tempo possibile”.

Il problema è il vuoto normativo. “Le evidenti lacune della normativa esaminata nella concreta individuazione del luogo di sbarco e nell’attribuzione della competenza al coordinamento dei soccorsi in caso di inerzia dello Stato Sar competente – continuano i giudici – fanno sì che le garanzie previste dalle convenzioni internazionali richiedano, per essere efficaci, una concreta e fattiva cooperazione tra gli Stati interessati che fino a oggi, è di fatto scritta sulla carta”. E così non può essere in capo all’Italia, e quindi di Salvini e Piantedosi, l’obbligo di indicare un porto sicuro.

“Nord-Ovest in declino industriale, come il Sud”

“C’è poco da stupirsi, questi ripetuti disastri dimostrano solo la crescente emarginazione del Nord-Ovest. Un fenomeno tutt’altro che recente: il declino di Piemonte e Liguria è iniziato 30 anni fa, quando il vecchio triangolo industriale Milano-Torino-Genova è stato soppiantato dall’ascesa della più innovativa economia del Nord-Est”. Giuseppe Berta, storico dell’industria e docente alla Bocconi, non ha dubbi: “Ponti e viadotti che cedono, torrenti lasciati a se stessi e città inondate sono la conseguenza del deterioramento delle dotazioni infrastrutturali”.

Professore, non si può dire che piove sul bagnato?

Proprio no. Se da svariati anni, piogge eccezionalmente intense provocano allagamenti, frane e milioni di euro di danni, questo significa che non si è mai fatto granché per evitare di fermare l’emergenza. Si continua a vivere di allarmi in un territorio fragile e ormai in declino.

Si spieghi meglio.

L’asse infrastrutturale più antico d’Italia non è più rappresentato dalla supremazia di Genova con i suoi cantieri navali o dalla potenza manifatturiera di Torino con la Fiat impresa-Stato, diventati tali grazie all’intervento pubblico. Dagli anni 90 a dettare l’agenda è “l’altro” Nord che si sviluppa fra Parma, Bologna, Milano, Padova e Trento. Il campanello d’allarme che scatta ogni volta che nel Nord-Ovest c’è un’emergenza è la dimostrazione del suo indebolimento infrastrutturale. È un sistema che ha subito una deindustrializzazione tra perdita di imprese e occupati.

Di chi è la colpa?

Non c’è più un ambiente propizio all’iniziativa imprenditoriale. Sono spariti i grandi poli industriali – un nome su tutti: Fiat – a vantaggio delle piccole società che hanno creato il solido tessuto economico del Nord-Est. Dove non c’è impresa, non ci sono investimenti né pubblici né privati. E questo dipende anche dalla mancanza di una classe politica in grado di accendere un faro e convogliare nuove risorse. Nessuno può negare la capacità mediatica che ha dimostrato il governatore del Veneto Zaia durante l’emergenza di Venezia. Mentre non sono pervenuti né il sindaco di Genova Bucci né il governatore piemontese Cirio.

Perché?

È il segnale della perdita di consistenza, un progressivo allontanamento della crescita economica. Un fenomeno che appare evidente, in questi giorni, persino nella riduzione dell’Alta velocità da Torino, verso Venezia e l’Adriatico, tagliando la città piemontese dall’asse col Nord-Est.

Il Piemonte assomiglierà sempre più a una Regione del Sud?

Ancora no: il divario reddituale è ampio, ma il quadro non è ottimistico. Così si rischia di far staccare il tessuto economico piemontese dal resto del Nord.

Come si inverte la rotta?

Basta spingere sulla leva della crescita che equivale a dire: investire i soldi. I fondi pubblici sono insufficienti, vanno quindi stimolati gli investimenti privati. Serve un nuovo ciclo imprenditoriale, convincere che il vecchio triangolo industriale sia ancora in grado di produrre. E questo può avvenire solo puntando sulle nuove generazioni, che non vanno lasciate andar via dall’Italia.