“Pd e renziani adesso dicano cosa vogliono. Il tempo sta scadendo”

Dentro Palazzo Madama il senatore Danilo Toninelli mostra carte ed elenca dati. Soprattutto, l’ex ministro delle Infrastrutture indica priorità per il governo: “La revoca delle concessioni ad Autostrade va fatta, e su questo noi 5Stelle non molliamo di un centimetro. Ma bisogna anche urgentemente nominare i commissari a varie opere stradali e ferroviarie ed emanare i bandi per l’Ansfisa, l’agenzia per la sicurezza di ferrovie e strade. Servono centinaia di ingegneri, altrimenti chi fa i controlli?”.

Ponti e viadotti crollano, eppure per un anno e mezzo si è parlato solo di Tav. E nessuno ha fermato quell’opera.

Nelle linee programmatiche che illustrai da ministro al Parlamento nel luglio 2018, quindi prima del ponte Morandi, dissi che la priorità era un piano di ammodernamento e manutenzione delle opere esistenti. Leggendo le carte avevo riscontrato come non si facesse più da tempo manutenzione: si impiegavano tutti i soldi per singole opere, per fare gli interessi di singoli colossi.

Con il governo gialloverde le cose non sono mutate, no?

Ho cominciato subito a fare sopralluoghi su varie autostrade, tanto che mi accusarono di allarmismo. Quando andai a visionare la A24, la Roma-L’Aquila, un ingegnere del Mit con 30 anni di servizio mi disse che un controllo approfondito non era mai stato fatto.

Con la Lega avete sprecato un anno e mezzo a rimbalzarvi la palla della Torino-Lione, facendone un tema enorme.

Non decido io gli argomenti di cui si occupa la stampa. Di certo il Tav non è mai stata una priorità per me. Ho sempre detto che sarebbe stato meglio adoperare quei miliardi per la manutenzione, perché avrebbero favorito la sicurezza e anche l’occupazione, con tanti cantieri sul territorio.

Quanti soldi servono per un piano di manutenzione?

Il Codice della strada prevede che la manutenzione delle infrastrutture sia un obbligo dei concessionari. Stanno crollando i ponti delle autostrade, quindi evidentemente le società che le gestiscono non hanno fatto i dovuti investimenti e lo Stato non le controllava a dovere. Noi abbiamo ribaltato questo sistema.

Come?

Innanzitutto nella linea: da ministro, ho detto subito a tutti i funzionari e dirigenti che la manutenzione e i controlli erano la priorità. Soprattutto, abbiamo creato l’Asfisa, un’agenzia di controllo. L’iter per la sua creazione è stato completato lo scorso 11 novembre. Prima non controllava mai nessuno, e si lavorava solo sulle carte fornite sui concessionari.

Non esistono solo le opere in concessione. Servono soldi e soprattutto bisogna sbloccare i lavori. Metà dei cantieri non sono partiti, e mancano centinaia di commissari: tutto fermo, anche con voi al governo. Perché?

Noi abbiamo varato tre decreti in 15 mesi per sbloccare tutto. Abbiamo nominato diversi commissari, tra cui quello alle strade in Sicilia. Stavamo per nominarne altre decine a opere stradali e ferroviarie fondamentali, ma Salvini ha fatto cadere il governo.

Il M5S governa ancora…

Manca solo il decreto attuativo, e va fatto con urgenza. Dopodiché nel 2019 l’Anas ha investito il 182 per cento in più in cantieri.

Cambiamo!, la lista fondata dal governatore della Liguria Giovanni Toti, accusa: la Regione ha chiesto più volte al Mit la situazione dei viadotti liguri, ma non ha mai ricevuto risposta.

Io ricordo a Toti che dal 2014 è commissario straordinario al dissesto idrogeologico in Liguria: mi chiedo cosa abbia fatto in questi cinque anni. Piuttosto lui dovrebbe riflettere sull’asservimento della politica ai privati. Al gruppo Gavio, che ha in concessione la Torino-Savona di cui è crollato un viadotto pochi giorni fa, ha affidato senza gara i lavori nel porto di Genova fino al 2030.

Voi però dovevate revocare la concessione ad Autostrade dopo il dramma del ponte Morandi. Invece nulla: speravate che Atlantia entrasse in Alitalia, inutilmente.

Non è così, abbiamo sempre tenuto distinti i due dossier. E abbiamo sempre avuto la convinzione che Atlantia non volesse davvero mettere i soldi nella compagnia aerea. Ma Salvini non voleva la revoca, che va fatta con una legge: ci mancavano i numeri.

E ora pensate che la votino Pd e renziani?

Io e tutto il Movimento non molliamo. La revoca va fatta, punto e basta. Quanto emerso dalle inchieste è sconvolgente. E poi è tutto pronto: serve un decreto inter-ministeriale di Mit e ministero dell’Economia, e un decreto per convertirlo in legge.

Manca la volontà degli altri partiti.

Avranno pensato che con Atlantia in Alitalia non c’erano le condizioni. Ora questa scusante non c’è più. Ci dicano cosa pensano adesso.

“Non potevamo non chiudere, manca il cemento”

“Un intervento che non poteva più essere procrastinato e non una decisione presa sull’onda delle emozioni per il viadotto crollato domenica in A6. Perché i ponti Fado e Pecetti, sulla A26, rischiavano seriamente di mettere a repentaglio la sicurezza degli utenti”.

Il giorno dopo la chiusura parziale del tratto autostradale è il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi a chiarire quanto successo 24 ore prima: “Abbiamo fatto queste valutazioni dopo che i nostri consulenti ci hanno portato i risultati delle loro ispezioni. È stato rilevato un grave stato di degrado che consisteva in una mancanza di cemento per cui si doveva intervenire subito. Per fare un esempio era come se in un balcone la soletta sottostante fosse completamente sgretolata e la parte sana solo quella piastrellata”. In pratica quei due viadotti, insieme a altri 13 nel tratto ligure, hanno visto schizzare la loro valutazione sullo stato di salute da voti inferiori a 50 (che prevedono interventi entro cinque anni) a 70, il massimo nella scala del manuale Aspi, che invece portano a limitazioni alla circolazione e chiusure parziali o totali delle carreggiate.

Una rete malata le cui crepe e reali condizioni erano state finora tenute nascoste con report ammorbiditi e false dichiarazioni di ispezioni. Proprio per far luce su questo, la Guardia di Finanza è andata nella sede della Spea di Genova per acquisire i documenti e i report. Il Fado e il Pecetti (voti passati da 40 a 70 da giugno a settembre), infatti, non sono gli unici sorvegliati speciali della procura che, parallelamente all’inchiesta sul Morandi crollato il 14 agosto 2018 causando la morte di 43 persone, indaga sui falsi report.

Si tratta di una indagine che vede coinvolte una ventina di persone tra dirigenti e tecnici di Aspi e Spea (la società che si occupava dei monitoraggi per Autostrade), per le quali la Procura ha chiesto e ottenuto arresti domiciliari e interdizioni. Sotto la lente dei magistrati sono finiti il viadotto Vegnina (A26, passato da 50 a 60), viadotto Coppetta (A7 da 50 a 70), Ponticello ad Archi (A10 da 50 a 70), sottovia Schiantapetto (A10 da 50 a 60), viadotto Biscione (A26 da 50 a 60), ponte Scrivia (A7 da 50 a 70), ponte statale del Monferrato (A26 da 50 a 60). E, ancora: Rocce Nere (A26, rimasto a 50), il Bormida (A26 adesso a 70), lo Stura 5 (A26 voto 50). Infine, ci sono il Gargassa (A26), il Busalla (A7), il Coppetta (A7, voto 70), il Veilino, il Bisagno e il Sori (tutti in A12). Proprio sul Sori nelle scorse settimane la Procura insieme agli uomini del primo gruppo della Guardia di Finanza avevano fatto una ispezione con tanto di rocciatori. A prima vista erano emersi ammaloramenti e infiltrazioni di acqua. Nei prossimi giorni verranno depositati i risultati e non è escluso che anche per questo viadotto si possa procedere come per la A26. “Non ci sostituiamo a nessuno – ha detto Cozzi –, il nostro compito è casomai di sollecitare gli interventi di competenza di altri. È in atto un piano di controllo che mi auguro venga seguito anche dal Mit. Bisognerà vedere, con le indagini, se quella degli omessi controlli era una filosofia generale oppure se si sia trattato di episodi singoli. Quello che è successo prima non deve più succedere. L’impressione che abbiamo avuto, nei mesi scorsi, è quella di una sottovalutazione dello stato delle infrastrutture”.

Anche la Procura di Asti, intanto, ha aperto un fascicolo sulla voragine che domenica sera si è aperta nell’asfalto dell’autostrada A21 Torino-Piacenza, all’altezza del Comune di Villafranca d’Asti. Si tratta del modello 45, di atti relativi, cioè senza indagati né ipotesi di reato.

Dopo Alitalia, Aspi sotto tiro. Conte: “La revoca è vicina”

Ora che Atlantia, la holding controllata dalla famiglia Benetton, s’è sfilata dal salvataggio di Alitalia si può tornare a bombardare Autostrade per l’Italia, a sua volta controllata da Atlantia, senza timore alcuno: torna di moda, dopo 15 mesi e mezzo di immobilismo, la revoca della concessione per la società che gestiva il ponte Morandi, venuto giù il 14 agosto 2018 uccidendo 43 persone. “La procedura non si è mai interrotta”, ha sostenuto ieri Giuseppe Conte, che nella sua prima vita da premier il 17 agosto inviò ad Aspi “la lettera di contestazione che avvia la procedura di caducazione della concessione”. Poi, forse, mancò la fortuna se non la voglia. Oggi, però, scopriamo dallo stesso Conte che “dal momento in cui è stato contestato ad Autostrade l’inadempimento la procedura è andata avanti. Adesso, lo possiamo anticipare, siamo pressoché in dirittura di arrivo. Non intendiamo fare sconti”. Tanto più che i Benetton si sono sfilati dalla cordata Alitalia, in cui li avevano invitati tanto il Conte 1 che il 2.

Come che sia, il tema è tornato d’attualità. Luigi Di Maio sa che “un anno è tanto tempo”, ma il ritardo non è colpa sua: “La Lega ha difeso i Benetton, ma a breve daremo il segnale che tutti si aspettano, incluso un monitoraggio di tutte le concessioni e dei contratti in essere”. Pensa debba andare così – ma il coro è unanime in casa M5S – pure il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli: “Il dossier autostrade non è di mia competenza ma è evidente che il sistema delle concessioni autostradali ha bisogno, a prescindere da Aspi, di una revisione totale”.

Il dossier è di Paola De Micheli del Pd, visto che i grillini hanno lasciato le Infrastrutture, che non ha ancora parlato. Ma pure i dem hanno perso i freni inibitori. Prendiamo Franco Vazio, avvocato ligure del Pd, già renzianissimo: “Quali controlli e manutenzioni sono stati eseguiti prima e dopo il crollo del ponte Morandi? Qual è la reale capacità della società concessionaria di gestire la rete senza mettere a rischio la vita degli italiani?”. A quelli di Atlantia forse conveniva buttare qualche soldo negli aerei: il loro azzardo è che la loro vicenda duri più del governo coi grillini dentro.

5Stelle spaccati sulle regole. In Calabria spiraglio “civico”

Con il Pd nelle Regionali non si può andare, “lo prevede lo Statuto” sostiene Luigi Di Maio. Solo che “non è vero”, ribatte Roberta Lombardi, veterana che le norme a 5Stelle le conosce, visto che è uno dei tre membri del comitato di Garanzia. E il conflitto permanente nel Movimento diventa anche una sfida in punta di regole, quelle che esistono e quelle che ancora non ci sono.

Come le norme per cambiare il regolamento del gruppo del M5S a Palazzo Madama, perché la gran parte dei senatori vorrebbe che l’assemblea diventasse deliberante sulla rotta politica, cioè autonoma, innanzitutto dal capo. Potenzialmente, un ordigno. E infatti ieri pomeriggio il capogruppo Gianluca Perilli e Paola Taverna hanno sminato una riunione apposita (ma poco partecipata), ricordando ai senatori che le “nuove regole prima di essere votate vanno fatte prima vedere a Di Maio”.

Ma anche dentro il Senato rimbalza la contesa sulle Regionali. Perché agli eletti emiliano-romagnoli riuniti a Bologna lunedì scorso Di Maio lo aveva detto così: “Da statuto non possiamo sostenere il candidato di un partito, ne ho parlato anche con Beppe”. Tradotto: ho la copertura di Grillo. Però di buon mattino Lombardi smonta la tesi parlando a Circo Massimo: “Secondo le nostre regole, da statuto non possiamo iscrivere al M5S esponenti di altre forze politiche o di associazioni che abbiano finalità diverse da quelle del Movimento. I regolamenti delle candidature invece vengono portati avanti dal capo politico elezione per elezione, e possono cambiare da una regione all’altra”. Tanto più che emerge un retroscena. Ossia, solo pochi giorni fa Di Maio stava lavorando per le Regionali in Emilia Romagna e in Calabria a una norma che gli consentisse, in qualità di capo politico, di far votare agli iscritti sulla piattaforma web Rousseau un candidato presidente anche non iscritto al Movimento. Ergo, potenzialmente anche del Pd. Perché nemmeno lui aveva le idee chiare. Ma ora ha deciso. Così di mattina ad Agorà insiste: “Siamo aperti alle liste civiche, ma le regionali non devono diventare un referendum sul governo”. Mani libere, insomma. “E smentisco qualsiasi accordo con il Pd in Calabria” aggiunge il ministro. Però dalla regione dove il M5S è allo stato liquido, con la deputata Dalila Nesci che insiste a volersi candidare e gli eletti divisi in mille fazioni, filtra altro. Ossia che un’intesa con i dem su un candidato civico è possibile. Raccontano che nelle scorse ore un paio di deputati calabresi abbiano chiesto al Pd un’alleanza su un nome condiviso, “ma a patto che non presentiate il simbolo”. I dem hanno detto no. Ma si tratta.

L’imprenditore Filippo Callipo rimane un’opzione. E circolano anche altri nomi, come l’ex capo della Protezione civile calabrese Carlo Tansi. Però la confusione predomina. E il presidente dell’Antimafia Nicola Morra in Senato scandisce: “Ormai in Calabria siamo fuori tempo massimo”.

Su prescrizione e Cesaro il Pd due volte nel panico

La capigruppo di domani alla Camera si annuncia rovente. Il Pd svelerà le carte: secondo le anticipazioni della vigilia non appoggerà la richiesta di Forza Italia di portare in aula il disegno di legge (firmato da Enrico Costa) che punta a bloccare l’entrata in vigore da gennaio delle nuove norme sulla prescrizione. Ma la tensione con gli alleati di governo del M5S è a livelli da allerta rossa.

Il Guardasigilli grillino Alfonso Bonafede non cede, convinto che gli effetti delle nuove norme si avranno non prima del 2024 e che quindi c’è tutto il tempo, intanto, per velocizzare il processo penale: infondato dunque l’allarme dem sulla necessità di garantire. Il capogruppo del Pd Andrea Marcucci invece chiede “tempi certi e brevi per la durata dei processi”. E alza i toni: “Di Maio si tolga dalla testa l’idea che sia il M5S a dettare l’agenda dei provvedimenti del governo”.

Il capo dei Cinque Stelle, invece, di far slittare la riforma della prescrizione non vuole nemmeno sentirne parlare. E il premier Giuseppe Conte è con lui. Convinto, come Bonafede, che alla fine si troverà un accordo politico di maggioranza, ma pure che quella norma sia giusta: “È il segnale che in Italia le verifiche giudiziarie si completano con assoluzione o condanna, altrimenti sfoceremmo nella denegata giustizia”. Ieri però il Pd ha alzato le barricate e i toni. C’è chi accarezza l’idea che alla fine si riuscirà a inserire lo slittamento della prescrizione nel decreto Milleproroghe; c’è chi chiede di arrivare al redde rationem con i 5 Stelle, minacciando di staccare la spina al governo che travolgerebbe pure la riforma sul taglio dei parlamentari, “un altro rospo che abbiamo dovuto ingoiare perché l’alleanza giallorosso potesse partire”. E infine c’è chi vorrebbe votare subito alla Camera il ddl di Forza Italia. Che infatti insiste. “Abbiamo il diritto come opposizione di veder discusso a dicembre almeno un nostro provvedimento. Poi siccome la maggioranza ha più numeri di noi, lo può modificare” dice Costa, il deputato azzurro che tenta il Pd.

L’asse tra dem e Forza Italia, del resto, sarebbe lo stesso che si è saldato ieri in Senato, dove il Pd ha appoggiato la proposta di rinviare ancora la decisione su Luigi Cesaro. Il forzista, noto ai più come Giggino ‘a purpetta, è accusato dai magistrati di corruzione elettorale: 20 mesi evidentemente non sono bastati per decidere se autorizzare il Tribunale di Napoli a usare le intercettazioni. Che essendo avvenute in un lasso di tempo molto ristretto e per di più su utenze diverse da quelle del parlamentare forzista, non possono che essere casuali, almeno a detta dei 5 Stelle. E invece ora la Giunta pretende di leggerle una per una e quindi aspetterà che la Procura fornisca anche la password del cd che ne contiene le trascrizioni. Ci vorrà ancora tempo. E Cesaro ieri ha brindato a champagne.

Impar condicio. Il leghista invade tg e talk

Centouno (101!) minuti di Matteo Salvini in Rai in quattro mesi, da luglio a ottobre: anche se ha perso il governo e la poltrona al Viminale, il leghista è per distacco l’uomo politico che riceve più spazio e attenzioni sul piccolo schermo. Sul Fatto di lunedì abbiamo pubblicato i dati dell’Agcom che confermano il suo (iniquo) dominio televisivo (non solo nel servizio pubblico). Oggi chiediamo a sei giornalisti della tv quale siano le ragioni della “impar condicio” che regala al capo della Lega questa esposizione.

 

Da noi non viene mai, ma altrove certi giornalisti si sentono “zii”…

Io forse conduco la più impopolare delle trasmissioni tv, visto che quest’anno non abbiamo avuto né Salvini né gli altri leader. Il leader della Lega si porta dietro la considerazione di uno che fa ascolti. In realtà mi sembra una illusione e anzi, credo che da questo punto di vista Salvini, come i suoi colleghi, soffra di grande usura dovuta al suo protagonismo, dunque non sono questi ospiti a far crescere lo share. C’è poi una quota di giornalisti talmente appassionata a Salvini da diventarne talvolta zii della figlia (il riferimento è a una battuta in studio di Massimo Giletti, ndr), in un momento in cui le tv private puntano molto sull’informazione politica e Mediaset mi sembra tornata “in ballo”. Purtroppo mi sembra improbabile che qualcuno, tantomeno l’Agcom, possa intervenire sullo squilibrio delle presenze dei leader, neanche in Rai. Torniamo sempre lì: aspettiamo una riforma del servizio pubblico per togliere di mezzo i partiti e invece l’unica riforma che si è vista in questi anni è quella renziana, che ha aumentato i poteri del governo.
Lucia Annunziata

 

Chi sa stare tra la gente sa stare anche in tv: è bravo e “fa share”

Salvini ha tutto l’interesse ad andare in tv perché è efficace e come sempre hanno fatto i leader politici tiene molto al consenso del pubblico. Ma per chi fa questo mestiere è un vantaggio averlo in trasmissione perché è un personaggio molto divisivo: o lo ama o lo si detesta. In televisione c’è un meccanismo strano per cui spesso però lo spettatore sta a guardare anche un politico che detesta, nel suo essere irritante è comunque motivo di interesse.

Lui ha dalla sua il fatto che sa stare tra la gente e di solito chi sa stare tra la gente sa stare anche in televisione. Un altro così, per esempio, è Pier Luigi Bersani, con cui abbiamo fatto ascolti altissimi l’altro giorno. Detto questo, credo che nel decidere gli ospiti sia giusto avere sempre equilibrio. Noi su questo siamo rigorosi, andiamo proprio con il bilancino perché vogliamo avere sempre almeno due parti contrapposte. Altrimenti non è un dibattito, è uno sbattimento di palle.
Paolo Del Debbio

 

Invitarlo spesso non è un reato, ma bisogna fargli domande vere

Piazzapulita non contribuisce al minutaggio di Salvini in tv, visto che ormai da anni non viene più ospite da noi. Di certo il leader leghista in tv funziona e in parte viene invitato dai colleghi perché si pensa – probabilmente a ragione – che qualche punticino di share in più lo porti.

Spesso c’è però anche una forma di pigrizia nelle redazioni, perché vedo trasmissioni che lo invitano tutte le settimane e gli fanno la solita intervista. Io non penso che sia uno scandalo chiamarlo così spesso, il problema da porsi semmai è sul come lo si invita e sul contesto in cui viene ospitato. A me piacerebbe metterlo di fronte a reportage e inchieste sul suo operato da ministro, piacerebbe cercare di metterlo a nudo in un ambiente giornalisticamente sfidante. Il punto è che va bene invitare spesso Salvini, ma che sia per fargli delle domande vere, senza che invece gli siano stesi tappeti rossi e lo si metta a sedere sulla solita poltrona di velluto.
Corrado Formigli

 

Non solo riempie i palinsesti: ne inquina pure il linguaggio

Ci sono due ragioni per cui Salvini è diventato l’ospite più conteso dai talk show. La prima è che fa ascolti: i conduttori si sono convinti, credo in parte a ragione, che conquistarne la presenza quotidiana a discapito dei colleghi significhi garantirsi qualche spettatore in più. E dunque è una gara a riempirgli l’agenda, tanto che in certo periodi sembra poter esercitare il dono dell’ubiquità. Ma poi c’è una sudditanza psicologica di molte trasmissioni, che accettano supinamente che l’agenda degli argomenti da trattare in tv sia quella imposta dalla presenza di Salvini e dalle sue convenienze, tanto che Salvini è il dominus anche in absentia, perché anche quando non c’è si parla di lui. Non solo: il leghista ha plasmato il gergo di alcune trasmissioni, si è reso protagonista di un inquinamento culturale. E non c’è dubbio che questa continua presenza in tv abbia avuto un ruolo anche nella sua ascesa politica. Basti pensare alle trasmissioni Mediaset affidate ai conduttori “sovranisti”, che dalle scorse elezioni lo hanno trattato come vincitore nonostante fosse arrivato terzo.
Gad Lerner

 

È proprio come Renzi: va solo dove gli fanno interviste sdraiate

Una delle poche qualità innegabili di Salvini era quella di andare in tivù senza paura, a prescindere dagli ospiti. Ora è il contrario: è diventato come Renzi anche in questo. Il Cazzaro Verde vive in tivù, perché non avendo quasi mai lavorato in vita sua è bravissimo a parlar tanto e far poco. Con gli anni però si è fatto pavido. Pavido e in tutta onestà mediamente inguardabile: la sua imitazione di Jimmy Cinquepance è straziante, la trovata masochistica del dolcevita evidenzia la collezione di tripli menti e il look alla Corrado Guzzanti che imita Bertinotti fa abbastanza pietà.

Salvini sta sempre in tivù perché è potente, perché ancora (ma sempre meno) droga gli ascolti e perché ama parlare da solo (per questo vive da Porro). Se va da Floris o Gruber le prende come una zampogna, quindi lo vedremo sempre più spesso da Giletti o Giordano (magari a mangiar sardine). Ah: ovviamente, come Renzi, per un po’ non accetterà (più) il confronto con firme sgradite come molti volti del Fatto. Compreso chi vi scrive.
Andrea Scanzi

 

È il politico che funziona di più, è ovvio che io lo voglia in studio

In tv certi soggetti sono seguiti anche da chi non li ama. E con Salvini è così, ha una potenza comunicativa evidente. Lui e Renzi sono gli animali televisivi più forti, perché riescono a eludere le domande pericolose e hanno la capacità di sorridere, di usare l’ironia. Salvini poi ci mette quella “linguistica pancistica” per cui gli spettatori si immedesimano in lui. Quando scelgo gli ospiti rispondo solo al mio senso di responsabilità e, ovviamente, al criterio degli ascolti.

Posso assicurare che Cairo non mi ha mai imposto nulla e con questa libertà faccio il mio lavoro: se un politico funziona di più, ho più voglia di portarlo in studio anche per il tipo di interviste che facciamo, che hanno delle digressioni simpatiche e richiedono una certa disponibilità dell’intervistato. Dopodiché le critiche ci stanno. Mi hanno messo in croce per aver salutato la figlia di Salvini, ma era una semplice battuta: non credo che sarebbe successa la stessa cosa se avessi salutato la figlia della Meloni o di Zingaretti.
Massimo Giletti

Direttori di rete: l’ex FI Giorgino in quota 5S e Orfeo per il Pd

Domani giornata cruciale per Rai, con la nuova infornata di nomine dovuta alla necessità di fare le 9 direzioni di genere previste dal piano industriale (che così potrà partire) e da quella di sostituire Carlo Freccero a Raidue. Tra Viale Mazzini e Saxa Rubra è tutto un rincorrersi di voci, anche fantozziane (“pare abbia segnato pure Zoff di testa su calcio d’angolo”), ma con qualche punto fermo. Con le solite facce e qualche new entry. Il Pd, in virtù dell’approdo in maggioranza, reclama posti. Mentre alla Lega tocca difendersi. E in mezzo ci stanno i 5 Stelle. Molto spinto dai dem è l’ex dg Mario Orfeo, per il quale potrebbero spalancarsi le porte del Tg3 o di Rai Sport, testata che Salvini sarebbe disposto a sacrificare in cambio della tenuta su Tgr (Casarin) e Tg2 (Sangiuliano). Il Carroccio sta provando anche a portare Marcello Ciannamea a Raidue, ma lì alla fine andrà Ludovico Di Meo (quota FdI). Poi ci sono i 5 Stelle. I loro nomi sono Franco Di Mare, Alberto Matano e, a sorpresa, Francesco Giorgino (ex berlusconiano).

Il volto del Tg1 è molto apprezzato da Giuseppe Conte (sono entrambi pugliesi) e pure dall’esperto di comunicazione M5S Augusto Rubei, di cui Giorgino è stato professore alla Luiss. Insomma, nelle nomine Rai con Giorgino spunta pure la quota Conte. Di Mare potrebbe andare a Raitre, ma su di lui ci sarebbe un veto da destra. Mentre Matano difficilmente lascerà La vita in diretta. Per il resto, Stefano Coletta prenderà il posto di Teresa De Santis a Raiuno, mentre ancora non è chiaro se si muoveranno Antonio Di Bella, per andare agli approfondimenti news, e Giuseppina Paterniti, per prendere il posto di Di Bella. Nel borsino scende Maria Pia Ammirati e sale Silvia Calandrelli, ora direttrice di Rai Cultura. Ma qualcuno dice pure che Salini potrebbe rimandare tutto e procedere solo alla sostituzione di Freccero.

Il canone nella bolletta è già costato alla Rai 105 milioni

Nonostante dal 2016 il canone Rai si paghi all’interno della bolletta della luce per una decisione del governo Renzi – quindi evadere è difficile – quello che la tv pubblica incassa dall’imposta sugli apparecchi televisivi è inferiore a prima, quando si pagava con apposito bollettino.

Sembra incredibile, ma è così.

Ieri l’ad Rai Fabrizio Salini, davanti alla commissione di Vigilanza, ha fornito qualche numero. Nel 2013 l’introito ammontava a 1 miliardo e 655 milioni. Nel 2018, col canone in bolletta, la cifra è scesa a 1 miliardo e 637 milioni. Ben 18 milioni in meno. Com’è possibile? Uno dei motivi è che la metà dell’extra-gettito, ovvero i soldi recuperati all’evasione (che prima si aggirava intorno al 30%), non va alla Rai ma se lo prende lo Stato per altre finalità. Così, se nel 2018 l’extra-gettito è stato di 210 milioni, 105 milioni sono stati stornati verso Palazzo Chigi. Ma il canone è gravato anche da altri tagli.

Sul prelievo, infatti, lo Stato ha messo un’imposta del 5% (una tassa sulla tassa), che ammonta ad altri 85 milioni. Poi ci sono le imposte governative e l’Iva: altri 150 milioni. E il fondo per il pluralismo che aiuta le piccole emittenti: altri 100 milioni. Così negli ultimi anni le trattenute dello Stato sono passate da 132 a 345 milioni di euro. Poi si consideri il calo dell’imposta, da 113 a 90 euro. Di quei 90, però, a Viale Mazzini dopo tutti questi storni ne entrano solo 74,80 euro.

Da qui il grido d’allarme lanciato ieri dall’ad. “L’incertezza sulle risorse è un grave problema per l’azienda, perché i progetti, a partire dal piano industriale, si fanno prospettando determinati introiti. Così non possiamo crescere ma solo sopravvivere e giocare in difesa rispetto ai concorrenti”, ha detto Salini. E il riferimento è alla manovra di bilancio 2019, con la conferma da parte del governo di continuare a prendere metà dell’extra-gettito. Insomma, sul canone in dibattito è caldo, anche perché proprio nei giorni scorsi sono arrivate proposte di abolizione totale o parziale da parte del M5S e Italia Viva. “Visto che mancano le risorse, allora non sarebbe il caso di diminuire gli appalti esterni?”, ha chiesto la pentastellata Maria Laura Paxia, autrice della proposta per l’abolizione. “L’inversione di tendenza è già in atto, ora si utilizzano molto di più le risorse interne. Ma su certe cose, come le fiction, non saremmo in grado: dobbiamo per forza appaltare fuori”, la risposta di Salini. Michele Anzaldi, invece, sta raccogliendo firme su Change.org per una riduzione graduale, anche se ieri l’ha derubricata a “provocazione”.

Altro tema dibattuto è il pluralismo. Anche perché siamo alla vigilia (domani) di nomine importanti. E il sottotesto della convocazione di Salini a due giorni da un Cda fatidico per i nuovi equilibri di Viale Mazzini sembra proprio una sorta di campanello d’allarme suonato dalla politica. “La sua convocazione a due giorni dalle nomine è un atto assai volgare da parte di questa commissione”, ha ammesso Alberto Airola (M5S).

Se l’argomento dell’iperpresenza di Matteo Salvini non è stato sollevato (101 minuti di presenze televisive da luglio a ottobre), il centrodestra ha chiesto conto di domenica scorsa. “C’era Bonafede a Domenica in, Calenda dalla Annunziata, Roberto Speranza a Quelli che il calcio, e infine Fabio Fazio ha fatto pure la standing ovation a Carola Rackete… Una domenica tutta schiacciata sull’attuale maggioranza”, ha fatto notare Maurizio Gasparri. “Possibile che non c’è nessuno che controlli gli equilibri degli ospiti nelle singole giornate?”, si chiedono ancora da Forza Italia.

Una novità in arrivo sarà invece la normativa sugli agenti dei divi che partirà a gennaio. Salini non è voluto scendere in particolari, ma, a quanto si apprende, verrà posto un limite al numero dei personaggi per ogni agente nelle varie trasmissioni della tv pubblica. Quella che qualcuno ha ribattezzato, un po’ grossolanamente, la norma anti-Caschetto.

Matteo: “È un massacro mediatico, sono le stesse toghe che arrestarono i miei”

Chi, tra i fedelissimi di Renzi, usava le carte di credito e i bancomat della Fondazione Open, cercate ieri dalla Guardia di Finanza nella mega- operazione di perquisizione? Quali sono le consulenze di personaggi legati al Movimento 5 Stelle, con società pubbliche italiane, europee o cinesi, come insinua Italia Viva? Chi dei fedelissimi renziani rimasti nel Pd (nella corrente Base Riformista), potrebbe aver usato i soldi della cassaforte gestita da Alberto Bianchi? Le domande rimbalzano in Parlamento.

È l’ennesima giornata convulsa per la maggioranza di governo, infatti, quella che si apre con le perquisizioni della Finanza. E più che risposte certe, ci sono dubbi e sospetti. A sera, arriva un violentissimo post Fb di Matteo Renzi. Che se la prende con la magistratura: “La decisione delle perquisizioni è stata presa dai pubblici ministeri di Firenze, Creazzo e Turco, titolari anche di altre inchieste: sono loro, ad esempio, ad aver firmato l’arresto per i miei genitori, provvedimento che è stato annullato dopo qualche giorno dai magistrati del Tribunale del Riesame”. Passaggio particolarmente pretestuoso, visto che in realtà nessun pm firma ordini d’arresto. I genitori di Renzi, come tutti gli altri, li arrestò il giudice (su richiesta della Procura). E quell’inchiesta è sì stata chiusa (mentre si aspetta di capire se i due saranno rinviati a giudizio), ma soprattutto il Riesame non ha mai detto che le accuse erano campate in aria, tanto è vero che la misura cautelare è stata semplicemente sostituita. Il leader di Iv sulla questione Open insiste: “Dovremmo allargare la commissione di inchiesta anche a quelle società collegate a movimenti politici che ricevono collaborazioni e consulenze da società pubbliche. Italiane, certo. Ma non solo italiane”. È la risposta a Luigi Di Maio che aveva colto la palla al balzo: “È evidente che c’è un problema serio per quanto riguarda i fondi e i finanziamenti che ricevono i partiti che finalmente abbiamo disciplinato con la nuova legge anti-corruzione. Lo abbiamo chiesto in più occasioni: serve subito una commissione d’inchiesta sui fondi ai partiti. Lo chiederemo nel contratto di governo che vogliamo far partire a gennaio. Questo governo durerà tre anni, se le forze politiche di governo saranno compatte”.

La reazione di Iv non si fa attendere, con una nota al vetriolo, firmata da Luciano Nobili, che è tutta un’insinuazione: “Vogliamo sapere tutto di tutto, comprese le collaborazioni o consulenze con società pubbliche italiane, europee o cinesi, ad esempio”. Il riferimento è evidentemente alla Casaleggio Associati e alla piattaforma Rousseau. “Di contratto di governo, noi non parliamo. M5S ha il filo diretto con il Pd”, è la linea politica dei renziani (tanto per aumentare il livello di conflittualità). Però, “noi una Commissione sul tema la stiamo chiedendo da prima che nascesse questo governo”. A Montecitorio, la domanda che rimbalza di capannello e capannello è “ma chi usava i bancomat di Open?”. Qualche indizio: “Ad avere le carte potevano essere i componenti del Cda della Fondazione. Ovvero Boschi e Lotti, e per un certo periodo anche Carrai. Che poi li abbiano anche usati non è affatto detto”, racconta un ex fedelissimo.

Nel botta e risposta che va avanti per tutto il giorno, è singolare la posizione del Pd, espressa dal tesoriere, Luigi Zanda: “Mi sembra che in Italia ci siano troppe commissioni d’inchiesta e credo che in via ordinaria il Parlamento debba lasciar lavorare la magistratura”. Gli unici contrari a una Commissione (che presumibilmente difficilmente si farà) sono i dem. Perché? Tanto per cominciare, il Pd zingarettiano è fermamente pronto a rimettere nell’agenda politica il tema del finanziamento alla politica. Compreso quello pubblico ai partiti. C’è poi proprio una questione degli ultimi giorni: nel nuovo Statuto il Pd ha dato il via a una Fondazione culturale (che sarà diretta da Gianni Cuperlo). Ma che non è ancora stata registrata, proprio perché non sono chiare le forme di “autofinanziamento” (per dirla con lo stesso Cuperlo) con cui potrà sostentarsi. E intanto qualche soldo pubblico andrà a cercarselo Oltralpe. Con l’adesione alla Feps (Fondazione per gli Studi Progressisti Europei, che riunisce le associazioni socialiste in giro per il Vecchio continente) potrà infatti usufruire dei fondi europei.

“La realtà è che tra le norme preesistenti e quelle inserite nella Spazzacorrotti, pure volendo, è difficilissimo fare le cose per bene”, commenta un dirigente del Pd. La paura avanza. E l’indagine di ieri è l’ennesimo ostacolo nel percorso del governo giallorosso.

Le Camere setacciano la giungla delle sigle, ma con armi spuntate

I“rinforzi” per quanto esigui, alla fine, sono arrivati: in tutto quattro persone messe a disposizione dalle amministrazioni di Camera e Senato. Ma all’ultimo piano di palazzo San Macuto, il sottotetto con vista Sant’Ignazio da Loyola, la Commissione di garanzia sulla trasparenza sui partiti lavora ventre a terra. Perché entro febbraio si punta ad avere il prospetto di tutte le fondazioni ricollegabili a partiti e movimenti politici tenute a dare conto entro il 2020 dei finanziamenti ricevuti: uno studio di Openpolis indica in quasi 54 mila i controlli che dovrebbero essere fatti per accertare se nelle fondazioni i partiti hanno indicato loro uomini di fiducia, facendo così scattare obblighi di trasparenza imposti dalla legge.

In realtà, la Commissione se la caverà con molto meno perché il decreto Crescita ha stabilito che per far scattare i controlli il nesso tra fondazioni e partiti o movimenti politici deve essere proprio lampante. Ma se anche i soggetti da valutare fossero in tutto 6 mila, come da stime dello scorso anno, sarà comunque un lavoraccio. Anche perché i cinque componenti dell’organismo di vigilanza, già ora non si girano esattamente i pollici. Il controllo di regolarità sui partiti richiede un impegno immane ai cinque magistrati impegnati nella Commissione di garanzia. Che sta ancora inseguendo i tesorieri delle singole forze politiche sui rendiconti per l’anno 2017. Come nel caso della Lega che da ottobre scorso ancora non ha fornito tutti i 70 chiarimenti richiesti. E non sono bastati due inviti a sanare per costringere il Carroccio a “esibire i verbali relativi ai finanziamenti alla Editoriale Nord e a Media Padania”. La lista di chi è finito sotto la lente di ingrandimento è lunga. E il presidente della Commissione di garanzia Luciano Calamaro non farà in tempo a raccogliere i frutti del suo lavoro perché si è dimesso: dal 1° dicembre prenderà il suo posto Amedeo Federici, un altro magistrato contabile che nel 2016 su indicazione del presidente del Consiglio Matteo Renzi era stato promosso presidente di sezione della Procura regionale della Toscana.

Anche lui avrà il suo bel da fare a Roma. Solo per quel che riguarda il controllo dei rendiconti 2017, in 16 sono stati chiamati a rispondere ai procedimenti di accertamento. Che sono ancora in itinere, come per la Lega. Ma pure il Pd ha dato filo da torcere, come risulta dai documenti acquisiti dal Fatto dopo un’istanza di accesso agli atti della Commissione. Il primo sollecito al Nazareno, risale a ottobre 2018, ma la risposta dell’allora tesoriere Bonifazi non ha fugato tutte le perplessità. Per quel che riguarda le strutture regionali del partito, nel caso del Lazio, scrive la Commissione, “risulta errato il calcolo del patrimonio netto”. Per le Marche “non risulta allegata la documentazione relativa alla fideiussione esposta nei conti pari a euro 800 mila euro”. Lo stesso per la Toscana: “Non risulta allegata alcuna documentazione relativa alla fideiussione a favore di terzi pari a euro 2.250.000”.

E poi c’è il rendiconto della struttura nazionale dove i dubbi hanno riguardato la voce “contribuzioni da persone giuridiche” e pure quella “svalutazioni di partecipazioni iscritta per un importo da 1.015.577”. E ancora: Perché tra i conti 2017 risultava iscritto alla voce “Garanzie a/da terzi, l’importo di euro 1.400.000 per impegno rilasciato dal Partito a favore della società Democratica srl (Eyu, ndr)”. E quindi la Commissione di garanzia per la trasparenza ha riscritto al Pd, ma questa volta non più al tesoriere che fu di Renzi. Ma a quello di Nicola Zingaretti che risponde al nome di Luigi Zanda e che ad agosto ha provato a soddisfare le richieste di chiarimento. E che dice della garanzia prestata dal partito in favore di Eyu? Che è venuta meno a decorrere da gennaio 2018. Ma soprattutto che era stata decisa non dall’assemblea dem. Ma dal suo (ex) tesoriere.