B. si fa l’ufficio reclute in casa: minimo 50. Sgarbi navigator

Ora che è in campo, anche se non ufficialmente, Silvio Berlusconi vuole giocarsela fino alla fine. Deve trovare una cinquantina di voti entro una settimana, così dice il pallottoliere considerando una quota fisiologica di franchi tiratori, che gli servirebbero per arrivare a 505 ed essere eletto presidente della Repubblica al quarto scrutinio.

Se capirà di non avere i numeri, alla vigilia della quarta chiama, Berlusconi potrebbe fare un passo indietro e intestarsi un altro nome. Quello che, sotto sotto, sperano sia Matteo Salvini sia Giorgia Meloni che in queste ore si sono sentiti e hanno concordato sul fatto che “serva anche un piano b”. Un nome alternativo, dunque, da offrire al centrosinistra nelle prossime ore.

Al momento però ad Arcore, dove Berlusconi è tornato per il weekend prima di volare a Strasburgo lunedì per la commemorazione di David Sassoli, l’eventualità di un ritiro non viene presa in considerazione. L’obiettivo è cercare i voti uno a uno. Così, da una parte lunedì partirà il coordinamento dei capigruppo che si riuniranno a Montecitorio per aggiornarsi costantemente sul pallottoliere (“sarà un monitoraggio” spiegano da Lega e FdI), dall’altra da martedì Berlusconi, con l’aiuto di Vittorio Sgarbi (il cui lavoro non è apprezzato nel cerchio magico), incontrerà a Villa Grande alcuni parlamentari che spera di convincere. A tutti propone una candidatura. Tra questi ci sono tre ex 5Stelle tra cui Nicola Acunzo, Bianca Laura Granato e, si dice, Lello Ciampolillo. Altri sono stati contattati, ma non hanno accettato. “Mi hanno chiesto un incontro ma ho declinato – dice l’ex 5S Alessio Villarosa – ma nel M5S Berlusconi può trovare 40 voti”. Anche l’ex deputato 5S Michele Sodano fa sapere di essere stato contattato ma di aver rifiutato un incontro e di non voler votare il leader di FI. Lo stesso la senatrice Rosa Silvana Abate. Considerata nel pallottoliere di Arcore una delle 13 in “forse”. Anche i renziani Francesco Bonifazi, Luciano Nobili e Cosimo Ferri sono stati contattati ma senza successo. I numeri, dunque, ancora latitano. Tra i report che girano ad Arcore si parla di 493 voti attuali ma in pochi ci credono davvero. A ogni modo, Salvini e Meloni hanno dato una condizione a Berlusconi: la prova del voto avverrà solo se ha in tasca almeno 510 voti. Altrimenti dovrà fare un passo indietro. Ma questo potrebbe avvenire solo alla vigilia del quarto scrutinio. Non prima.

Qui si inserisce la strategia di Salvini e Meloni. Il primo ieri ha fatto sapere che serve un presidente che “riformi il Csm” e poi ha replicato a Enrico Letta che nella direzione del Pd ha fatto capire di puntare su Mario Draghi o su un bis di Mattarella. “Dal Pd non accettiamo veti – ha detto Salvini – a sinistra tirano per la giacchetta Mattarella che si è detto indisponibile, ma anche Draghi che deve affrontare l’emergenza sanitaria ed economica: pensare a un altro ruolo diverso dal presidenza del Consiglio è una mancanza di rispetto”. Se per adesso la Lega resta compatta su Berlusconi, Salvini proverà a farlo desistere nel caso non ci fossero i numeri. E per questo sta preparando una rosa di nomi – Casellati, Frattini, Moratti e Pera – da sottoporre al centrosinistra dal quinto scrutinio (“abbiamo una settimana per lavorare con gli altri partiti” dice) e a Matteo Renzi che ha detto di poter votare “un candidato di centrodestra, ma non Berlusconi”. Luca Zaia è scettico sul leader di FI: “All’ultimo miglio arriveranno i candidati veri”. Anche Meloni assicura il sostegno leale a Berlusconi, ma ai fedelissimi pone una condizione: che il prossimo presidente debba dare l’incarico a chi vince le elezioni con un sistema maggioritario evitando “inciuci con il proporzionale”. “Chiunque sia il presidente, dovrà far governare chi arriva primo” spiega Ignazio La Russa. A partire dal premier Mario Draghi.

All’estero ricordano condanne e scandali

Molti all’estero vedrebbero l’elezione di Silvio Berlusconi al Quirinale con stupore.

Chi non segue molto da vicino le faccende italiane lo associa soprattutto al Bunga Bunga. Chi le segue un po’ di più, sa che Berlusconi è un magnate dei media condannato in via definitiva per frode fiscale e che è attualmente sotto processo perché accusato di aver corrotto alcuni testimoni in un filone del processo Ruby.

Per questi motivi, a molti sembrerebbe una scelta curiosa eleggere proprio lui come Capo dello Stato, soprattutto dopo che molti media stranieri hanno applaudito l’Italia per la scelta di Mario Draghi come presidente del Consiglio. Sarebbe un po’ disorientante (anche se, a noi giornalisti, Berlusconi al Quirinale darebbe di sicuro tanto da scrivere).

Ci sono poi anche altre considerazioni problematiche riguardo all’elezione di Berlusconi, come la sua età e le sue condizioni di salute. A parte i ripetuti problemi fisici manifestati in questi anni, ci sono state occasioni in cui l’ex presidente del Consiglio è sembrato anche piuttosto confuso.

Capisco il comprensibile desiderio del centrodestra di avere un presidente “loro”, dopo tanti anni di presidenti che provenivano dall’altro schieramento, e non c’è dubbio che Berlusconi sia stato il protagonista politico italiano principale degli ultimi decenni. Ma mi sembra improbabile che venga davvero eletto, perché credo non convenga molto né al segretario della Lega Matteo Salvini né alla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni. Avere Berlusconi alla presidenza della Repubblica e uno di loro due a Palazzo Chigi forse non sarebbe un accoppiamento molto rassicurante per Bruxelles e per i mercati finanziari.

Per questo penso che gli alleati di Berlusconi preferirebbero vedere come Capo dello Stato una figura meno controversa, qualcuno che possa meglio “garantire” per loro se uno dei due riuscisse a farsi nominare premier dopo le prossime elezioni politiche.

Detto ciò, non è impossibile che alla fine Berlusconi ce la faccia. Per cercare di evitarlo, il centrosinistra e il Movimento 5 Stelle dovrebbero mettersi d’accordo su un nome alternativo che credono sarebbe accettabile anche al centrodestra – meglio se fosse una donna – e provare poi a raggiungere un consenso tutti insieme prima del 24 gennaio, data dell’inizio delle votazioni.

 

Siamo all’assurdo. Vorrei che a sfidarlo fosse Rosy Bindi

La storia ritorna. Come in un grande teatro dell’assurdo, Silvio Berlusconi candidato al Quirinale. Nessuna ossessione, sia chiaro. Solo, ricordo un nostro ambasciatore confidarmi che quando andava in un luogo pubblico con la moglie evitava di parlare in italiano per non sentirsi la battuta ironica alle spalle: Italia bunga bunga. Mi basta questo.

Davvero ci si vuole suicidare? Concorrono certo la modestia rantolante della politica, lo sbandamento da pandemia e quella antropologia del Paese fustigata dal Leopardi nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani. Che fare, allora?

Io una proposta l’avrei. Occorre convergere su un candidato serio, affidabile, mai finito negli scandali, e che quindi – per riprendere il monito di Sergio Mattarella – dia garanzia di restituire al Paese il Quirinale così come lo riceverà? Allora dico Rosy Bindi.

Perché conosce bene la politica, il Paese e ha il senso delle istituzioni. Viene dal sistema dei partiti ma non ne è mai stata prigioniera o ricattata. Né improvvisata, né avventuriera, studia, ascolta e ha il merito di imparare velocemente. Lo ha dimostrato in tutti gli incarichi ricevuti, dal ministero della Sanità (come si chiamava allora) alla presidenza della commissione parlamentare Antimafia, conquistando sempre stima e consensi anche al di là della propria area politica.

Un’altra cattolica dopo Mattarella? Se è questo il metro, ma non credo possa esserlo, prima di Mattarella ci sono stati due laici. Ciliegina: Bindi fu oggetto degli scherni di Berlusconi e ne uscì da gran signora.

Conosco l’obiezione: è divisiva. Ecco qui i luoghi comuni che si fanno mantra perché tolgono dall’imbarazzo di doversi pronunciare. Divisiva de che?, direbbero a Roma.

Rosy Bindi ha chiuso la sua presidenza della commissione parlamentare Antimafia con una relazione forte, rigorosa, e in cui non ha fatto sconti a nessuno, votata all’unanimità. Con un pezzo di opposizione mancante, certo. Ma con l’altro pezzo presente. E da quando chi unisce tutto il proprio schieramento e pure un pezzo di opposizione sarebbe divisivo?

In più è una donna. E non è un particolare marginale. Lo cito per ultimo perché non ragiono per quote rosa, ma per capacità. Se teniamo al principio che anche una donna possa essere eletta alla Presidenza della Repubblica, ecco, allora quella donna bisogna sceglierla per capacità. O il principio subirà una disfatta. E anche questo non è marginale.

Silvio è un pericolo, ma è sbagliato anche consegnarsi a Draghi

Per Partito democratico e Cinque Stelle l’esplicita candidatura di Silvio Berlusconi rappresenta un pericolo doppio: quello evidente della sua elezione (il cui rischio non va minimizzato), e quello che deriva dal desiderio di evitarla a ogni costo. In altre parole: il rischio di cadere dalla padella di B. nella brace di D. Perché se ci si chiede se per il Quirinale è peggio Berlusconi o peggio Mario Draghi, l’unica risposta possibile è quella celebre di Herzen: “Sono peggio tutti e due”.

Sul perché l’avvento di Berlusconi sarebbe un’apocalisse costituzionale non c’è bisogno di argomentare molto: dai rapporti con la mafia all’appartenenza alla loggia eversiva e golpista della P2, dalla condanna per frode fiscale alla corruzione come strumento politico e all’occupazione privata dello Stato, dall’odio per la magistratura (anzi, per la giustizia) a un maschilismo predatorio e osceno.

Tuttavia, D. non sarebbe un male minore: sarebbe un male diverso, ma altrettanto letale.

Innanzitutto, per come è stata costruita l’ascesa al Colle: come ha spiegato il costituzionalista Francesco Pallante (in un articolo dal titolo eloquente: “Perché Draghi non può andare al Quirinale”), “anche solo l’ipotesi di un Draghi al comando diretto del Quirinale e indiretto di Palazzo Chigi equivarrebbe allo scardinamento della Costituzione vigente”.

E poi per le poche idee politiche che di D. si conoscano: per esempio quelle espresse nella celebre lettera che firmò (da governatore della Banca d’Italia, insieme al presidente della Bce Trichet) nell’estate 2011, in cui si ingiungeva all’Italia di smantellare ciò che rimaneva ancora in piedi del progetto politico della Costituzione attraverso privatizzazioni selvagge di beni e servizi pubblici; dominio dell’impresa sui lavoratori attraverso la parcellizzazione dei contratti (non più nazionali) e la precarizzazione; licenziamento più facile e sterilizzazione di ogni politica sociale attraverso l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione.

Era il binario su cui sarebbe stata istradata la politica dei dieci anni successivi: quelli che hanno consegnato alla pandemia un’Italia mostruosamente diseguale, ingiusta, povera. E in questo anno da presidente del Consiglio, Mario Draghi ha dimostrato (dalla riforma fiscale, all’aver posposto le vite al Pil nel governo della pandemia) di essere sempre fermo a quelle idee.

Se B. rappresenta l’anti-Costituzione fatta persona, D. rappresenta l’anti-Costituzione fatta ideologia: è vitale costruire in fretta una alternativa vera.

L’iceberg è vicino e la sinistra sul Titanic non ha alternative

La tentazione è grande, nei dirigenti Pd-M5S-LeU, di dire a sé stessi che trovandosi sulla tolda del Titanic qualsiasi candidato alternativo è meglio dell’ex Cavaliere pluri-indagato che rischia di andare al Colle, presiedere il Consiglio Superiore della Magistratura, e gironzolare nel Massimo Palazzo ripetendo quanto dice da settimane: “Dopo tutto quello che ho subìto in questo Paese, il minimo è che io diventi presidente!” (Il centrodestra assicura che Berlusconi ha “l’autorevolezza e l’esperienza che il Paese merita”, non sospettando che la frase possa significare il peggio: un Paese putrido non merita altro che il putrido).

Insomma il Pd è così suonato e i 5 Stelle così divisi che son pronti a candidare chiunque, anche Topolino, per “far fronte”. Anche figure dell’ancien régime craxiano come Giuliano Amato. Tutti ottuagenari insomma, questo è un Paese per vecchi. Un nome sensato – e ce ne sono, anche fuori dai partiti, anche di bandiera– non sanno proprio farlo a pochi giorni dal voto.

Il fatto è che il centrosinistra sta tutto frastornato sulla tolda del Titanic, balbetta che “la candidatura Berlusconi è irricevibile” e neppure per un attimo lo sfiora il dubbio che la catastrofe non sia l’iceberg ma il bastimento super-zavorrato, malfatto, su cui viaggiano. Il guaio è che la sinistra è così intontita e muta perché non esiste più. Perché ha aderito all’accozzaglia dell’unità nazionale osannando ogni gesto di Draghi, mostrando di credere incondizionatamente alla formula sempre più torbida, più equivoca, dei Migliori.

Enrico Letta per esempio auspica “una personalità istituzionale super partes” e un “patto di legislatura che consenta al Paese di completare la legislatura nel tempo naturale”. Ma patto con chi? Con le destre che hanno appena indicato un candidato di parte, frantumando la già molto ammaccata chimera della “maggioranza Ursula” (Pd, LeU, M5S, centro, Forza Italia)?

Berlusconi diventerà il king maker di Draghi se alla quarta chiama non avrà i numeri, confermando che i progressisti sono ormai capaci solo di scodinzolare nelle retrovie, avendo smarrito il verbo.

La grande illusione è che dopo le Presidenziali tutto resti come prima – stessa maggioranza dei Migliori, stesse politiche forti coi deboli e deboli coi forti, stessi autoinganni –pur di evitare il voto anticipato. È sperabile che la disillusione arrivi presto. L’iceberg è vicinissimo.

Che fare contro b.

Lui ufficialmente non ha ancora “sciolto la riserva”, anche se i suoi fedelissimi – sparsi per giornali, televisioni e Parlamento – da settimane fanno campagna elettorale ventre a terra per suo conto. Da due giorni anche la coalizione di centrodestra si è dichiarata: il candidato al Colle è Silvio Berlusconi, il Caimano condannato per frode fiscale.

L’ex Cavaliere fiuterà l’aria fino alla quarta chiama – fissata per il 27 gennaio – cercando di raccogliere più voti possibili. Nel frattempo, mentre i giornali di tutto il mondo raccontano increduli la testarda corsa verso il Colle di B., il centrosinistra e il Movimento 5 Stelle lavorano a un’alternativa, pur sapendo che il centrodestra parte col vantaggio dei numeri in Parlamento.

Cosa fare, però, di fronte a una coalizione che si dichiara pronta a sostenere un pregiudicato? Può bastare mandare a vuoto le prime tre votazioni e sperare che Berlusconi si “schianti” da solo, magari con l’aiuto dei franchi tiratori leghisti e meloniani? O forse converrebbe mettere già sul tavolo un nome da contrapporre a Silvio?

Sulla “discesa in campo” quirinalizia di Berlusconi e sulle contromosse dei giallorosa abbiamo raccolto il parere di quattro importanti firme.

Chi è Silvio Berlusconi

 

 

 

Falsa testimonianza sulla P2. “Il Berlusconi ha dichiarato il falso… con dichiarazioni menzognere e compiutamente realizzato gli estremi obiettivi e subiettivi del delitto di falsa testimonianza” (sentenza definitiva di amnistia per falsa testimonianza sulla sua iscrizione alla loggia P2. Corte d’Appello di Venezia, 23 ottobre 1990).

 

Finanziamenti illeciti per 21 miliardi a Craxi. “Le operazioni societarie e finanziarie prodromiche ai finanziamenti estero su estero da conto intestato alla All Iberian al conto Northern Holding (di Bettino Craxi in Svizzera, ndr) furono realizzate in Italia dai vertici del gruppo Fininvest spa, con il rilevante concorso di Silvio Berlusconi quale proprietario e presidente” (sentenza definitiva di prescrizione per Berlusconi sui finanziamenti illeciti a Craxi nel 1990-’91, dopo la condanna in primo grado. Corte di Cassazione, 22 novembre 2000).

 

Corruzione del giudice per Mondadori. “Privato corruttore” (sulle tangenti pagate dagli avvocati Fininvest Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora al giudice Vittorio Metta, poi condannato con loro per la compravendita della sentenza che annullò il lodo Mondadori e consegnò a Berlusconi il primo gruppo editoriale italiano. Sentenza di prescrizione per Berlusconi della Corte d’Appello di Milano, confermata dalla Corte di Cassazione il 16 novembre 2001).

 

Corruzione giudiziaria del testimone David Mills. “Il fulcro della reticenza di David Mills, in ciascuna delle sue deposizioni (nei processi Guardia di Finanza e All Iberian, ndr) si incentra nel fatto che egli aveva ricondotto solo genericamente a Fininvest, e non alla persona di Silvio Berlusconi, la proprietà delle società offshore, in tal modo favorendolo in quanto imputato in quei procedimenti… Si era reso necessario distanziare la persona di Silvio Berlusconi da tali società, al fine di eludere il fisco e la normativa anticoncentrazione, consentendo anche, in tal modo, il mantenimento della proprietà di ingenti profitti illecitamente conseguiti all’estero e la destinazione di una parte degli stessi a Marina e Pier Silvio Berlusconi” (sentenza di prescrizione, dopo due condanne per corruzione giudiziaria, a carico dell’avvocato David Mills, pagato da Fininvest 600mila dollari per testimoniare il falso su Berlusconi, anche lui in seguito prescritto. Corte di Cassazione, 25 febbraio 2010).

 

Frode fiscale sui diritti tv Mediaset. “Berlusconi fu l’ideatore e il beneficiario del meccanismo del giro dei diritti che a distanza di anni continuava a produrre effetti (illeciti) di riduzione fiscale per le aziende a lui facenti capo in vario modo… Il sistema organizzato da Silvio Berlusconi ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere, conti correnti intestati ad altre società che erano a loro volta intestate a fiduciarie di Berlusconi… sistema che consentiva la disponibilità del denaro separato da Fininvest e occulto” (sentenza definitiva di condanna a 4 anni per le frodi fiscali da 368 milioni di dollari sui diritti Mediaset, di cui 7,3 milioni di euro sopravvissuti alla prescrizione. Corte di Cassazione, 1° agosto 2013).

 

Prostituzione di Ruby&C. “È acquisita la prova certa che, presso la residenza di Arcore di Silvio Berlusconi e nell’arco temporale… 14 febbraio-2 maggio 2010, vi fu esercizio di attività prostitutiva che coinvolse anche Karima El Mahroug” (sentenza definitiva di assoluzione, dopo la condanna in primo grado per concussione e prostituzione minorile. Corte di Cassazione, 10 marzo 2015).

 

Compravendita di senatori. “Nel giugno 2006 deve ritenersi avvenuta tra il Berlusconi e l’ex senatore Sergio De Gregorio una pattuizione, propiziata anche dall’intervento del Lavitola, nella quale, a fronte della promessa e della successiva erogazione di euro 3.000.000, era stata dedotta l’attività parlamentare del De Gregorio… (per) realizzare l’aspirazione del Berlusconi a far cadere il governo Prodi… Un vulnus all’immagine del parlamentare… idonea a inficiarne la correttezza e la dignità, a fronte dell’indebita retribuzione” (sentenza definitiva di prescrizione per Berlusconi, condannato in primo grado e prescritto in appello per aver corrotto il senatore Idv Sergio De Gregorio. Corte di Cassazione, 2 luglio 2018).

 

Patto mafioso e finanziamenti a Cosa Nostra. “Tra il 16 e il 29 maggio 1974 veniva concluso l’accordo di reciproco interesse tra Cosa Nostra, rappresentata dai boss mafiosi Stefano Bontate e Mimmo Teresi, e l’imprenditore Silvio Berlusconi, realizzato grazie alla mediazione di Dell’Utri… Prevedeva la corresponsione, da parte di Berlusconi, di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione a lui accordata da parte di Cosa Nostra palermitana… Berlusconi aveva iniziato a corrispondere, a partire dal 1974, agli esponenti di Cosa Nostra palermitana, per il tramite di Dell’Utri, cospicue somme di denaro… Oggettiva prosecuzione sino al 1992 dei pagamenti effettuati da Berlusconi… a Gaetano Cinà, diretto emissario del capo del sodalizio mafioso, Salvatore Riina… Dell’Utri, assicurando un costante canale di collegamento tra i partecipi del patto di protezione stipulato nel 1974, protrattosi da allora senza interruzioni, e garantendo la continuità dei pagamenti di Berlusconi in favore degli esponenti dell’associazione mafiosa… ha consapevolmente e volontariamente fornito un contributo causale determinante… alla conservazione del sodalizio mafioso e alla realizzazione, almeno parziale, del suo programma criminoso… del suo rafforzamento e della sua espansione” (sentenza di condanna definitiva per Marcello Dell’Utri a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Corte di Cassazione, 9 maggio 2014).

Ma non era lui il buono?

In attesa che B., il prossimo Capodanno, ci racconti a reti unificate la barzelletta della mela, dobbiamo accontentarci di quelle di Enrico Letta. “Sorpreso” e “deluso” per la candidatura al Quirinale del padrone di suo zio, spiega di non poterlo votare perché “è un leader di partito”, dunque “divisivo”, e invita Salvini e Meloni a levarlo di mezzo. Lui è fatto così: se, puta caso, assiste a una rapina in banca, chiama il 113 per denunciare alcuni divisivi in fuga. Del resto, se chiedete in giro un commento su B. al Colle, tutti vi risponderanno che sarebbero fieri di farsi rappresentare nel mondo da un vecchio puttaniere pregiudicato, che per vent’anni ha finanziato la mafia e frodato lo Stato per poi denunciarlo a Strasburgo perché tortura gli innocenti, ma purtroppo è un leader di partito, quindi è divisivo, dunque pazienza: meglio Vallanzasca, che non ha partiti quindi è unitivo. Ma ciò che più ci affascina è l’idea che debbano essere Salvini e la Meloni (o il suo impiegato Gianni Letta, il famoso capo della Resistenza interna) a liberarci del loro alleato ed ex premier per non “deludere” il Pd e i suoi derivati. Tipo Repubblica, che dopo 10 anni riesuma l’antiberlusconismo e tuona contro i “vassalli” Matteo e Giorgia. Come se toccasse a loro combatterlo. E come se non fosse stato Letta jr. nel 2013 a governare con lui.

A questo punto noi, gente semplice, rischiamo la labirintite. A furia di leggere i giornaloni e di ascoltare i pidini, avevamo capito che nel centrodestra il buono fosse B., noto “argine” moderato, liberale ed europeista contro i due cattivi sovranisti, populisti, fascisti, razzisti. Ce l’avevano spiegato De Benedetti, Scalfari, Folli, Franco, Veronesi (Sandro) e giù giù tutti gli altri, ben felici che B. desse una mano a lor signori nei governi Monti, Letta, Renzi. Un anno fa erano tutti intenti a riabilitarlo, nella speranza che salvasse l’Italia dal putribondo Conte, ma pure dagli orridi Salvini e Meloni, con la “maggioranza Ursula”: quella che nel 2019 aveva eletto la Von der Leyen alla guida della commissione Ue (M5S, Pd-Iv, LeU e FI). Poi agli Ursuli si aggiunse pure la Lega e nacque il governo Draghi, senza che nessuno – neppure Grillo – notasse nel Caimano-Psiconano la minima magagna. Ora, d’improvviso, gliele rinfacciano tutte. L’altra sera, nella telefiera del tartufo, c’era persino chi sprizzava sdegno per l’ex Cirielli sulla prescrizione, dopo aver massacrato per tre anni Bonafede che l’aveva rasa al suolo. Che ha fatto di male B. in così poco tempo? Semplice: Frankenstein s’è imbizzarrito ed è sfuggito al controllo di quanti si illudevano di usarlo, mentre è sempre stato lui a usare loro. Già nel 2011 diceva a Lavitola: “Me ne vado da questo paese di merda”. Lui l’aveva capito, gli altri no.

Dal Times al Post, la storia dei giornali che “hanno tenuto la luce accesa”

Jill Abramson fa luce sullo stato del giornalismo a partire da quattro casi chiave: il New York Times, di cui è stata la prima e unica direttrice esecutiva, il Washington Post, le due stelle del web Buzzfeed e Vice.com. La marcia inarrestabile di Buzzfeed e di Vice, la scommessa sui contenuti virali, emotivamente coinvolgenti e quindi “condivisibili”, ha gettato un’ombra sui destini delle due corazzate giornalistiche di cui si racconta il passaggio dai giorni gloriosi delle inchieste storiche (Pentagon papers, Wategate) all’erosione costante dei ricavi, la perdita di smalto, le redazioni falcidiate. Il processo messo a fuoco da Abramson è quello della notizia che si mescola al marketing, in cui la necessità di fare “click” per ottenere pubblicità colonizza l’editoria ma, alla fine, beneficia soprattutto le piattaforme monstre, Facebook e Google. Per il Times e il Post il passaggio al digitale è molto sofferto, le vecchie redazioni restano ostili fino al trauma della vendita del quotidiano che scoprì il Watergate da parte della famiglia Graham al patròn di Amazon, Jeff Bezos che rilancia il quotidiano, e scommette su una strategie digitale.

Ma sarà un altro trauma, la vittoria di Trump nel 2016 a permettere il vero rilancio dei due quotidiani che grazie al digitale vedono i loro abbonamenti finalmente tornare sopra il milione (il Times, annunciando l’acquisizione del sito sportivo The Athletic, punta ai 10 milioni nel 2025). La polarizzazione politica ha fatto bene al giornalismo che ha tenuto “ la luce accesa” anche se resta il nodo del rapporto con il marketing, le strategie digitali, quel confine tra le redazioni e gli uffici commerciali che sia al Times che al Post è stato eroso un po’ alla volta. Una storia molto densa e ricca di dettaglia che sa comunque di giornalismo d’altri tempi; in Italia la stessa storia dovrebbe fare i conti con le copie gonfiate da un direttore del Sole 24 Ore o dai furti all’Istituto previdenziale da parte del gruppo l’Espresso.

Mercanti di verità Jill Abramson Pagine: 904 – Prezzo: 24 – Editore: Sellerio

 

“Io, principessa tolstoiana finita nei libri di Cechov”

“A me piace battermi. Tutte le energie mi vengono in soccorso, anche quelle che non ho” confessa Ginevra Bompiani nel suo memoir La penultima illusione, in libreria per Feltrinelli. A dimostrarlo – in una biografia traboccante di eventi e di incontri fatali – i suoi viaggi di volontaria ong in Palestina o in Bosnia, la sua militanza femminista, la sua candidatura alle elezioni europee con La Sinistra, la sua crociata contro il baronismo universitario.

Un temperamento passionale che ha radici lontane, in quell’infanzia dorata tra collegi svizzeri e tate poliglotte che ha sempre cercato di barattare con monellerie impudiche. Forgiata da una guerra “che mi aveva dato tutto sommato più felicità che dolore”, Ginevra Bompiani trascina la sua adolescenza tra la Milano del liceo Parini e le estati nella villa di Lerici. Un agio che forse le dona un distacco aristocratico, di maniera, se è vero che Moravia la inchioda qualche lustro più tardi a una sentenza impietosa: “La naturalezza, non sai neanche dove sta di casa”.

Il padre Valentino, fondatore nel 1929 dell’omonima casa editrice, marchia a fuoco il suo destino intellettuale. La “figlia del capo” comincia il suo apprendistato con la correzione delle voci del Dizionario degli autori e in seguito si ritrova a ideare “Il Pesanervi”, collana di narrativa fantastica che negli anni 60 sdogana un genere “considerato di destra”. Sempre per la sigla di famiglia traduce Rigodon, l’ultimo romanzo di Céline. Ma è “l’ondata di amici scrittori” a scandire gli anni più formativi. Frequenta la mitica comune di via Sirtori, appartamento milanese dove si ritrovano tra gli altri Umberto Eco e Fleur Jaeggy, futura compagna di Roberto Calasso. Eco lo vede aggirarsi tutti i giorni negli uffici della casa editrice, legato a suo padre al punto che l’autore del Nome della rosa chiama Bompiani “zio Val”. In quegli uffici di via Senato Antonioni gira la scena del party letterario del film La notte e Ginevra, esile ragazza bionda, si intravvede di sguincio.

La sua irrequietezza la porta in giro per l’Europa a sperimentare “una vita sgangherata.” A Parigi, laureanda alla Sorbona, divide i suoi giorni con Fleur Jaeggy: “Quando non avevamo soldi, mangiavamo a casa una scatola di piselli”. A una festa romana conosce Giorgio Agamben. Con il filosofo condivide non solo una relazione sentimentale lunga vent’anni ma un sodalizio intellettuale. Tra gli aneddoti degni di nota quando Bompiani si ritrova a passarsi la marmellata a colazione in un alberghetto in Provenza nientemeno che con Martin Heidegger, il filosofo di Essere e tempo. Grazie all’attrice Adriana Asti, moglie del cugino Fabio Mauri, entra in contatto con Pasolini, Moravia, Volponi, Morante. Tante le sere trascorse a ballare in una balera sul Tevere. Ginevra Bompiani con una seconda laurea si trasferisce a Siena e qui insegna letteratura inglese per vent’anni (“C’è una meravigliosa molestia negli scrittori inglesi, una ritrosia, che forse toccava il mio cuore milanese”). Nella città toscana, nel settembre 1985, è davanti alla sala di terapia intensiva dove muore a seguito di un ictus Italo Calvino, amico che dieci anni prima le ha fatto l’onore di firmare l’introduzione al suo primo libro, Le specie del sonno.

La bibliografia di Bompiani contempla saggi, romanzi, curatele, traduzioni. Tra le autrici amate: Virginia Woolf, Emily Dickinson, Jane Austen, Marguerite Yourcenar. Ma è alle soglie della terza età, nel 2002, che “questa principessa tolstoiana finita in un racconto di Cechov” segna, sulle orme del padre, il punto più alto della sua parabola. Insieme a Roberta Einaudi, nipote di Giulio, fonda la casa editrice nottetempo (“perché la notte è il momento in cui si leggono i libri migliori”). In breve il catalogo annovera autori di fama (tra cui l’amica Luciana Castellina e lo stesso Agamben) ma è con la scoperta di Milena Agus che la “sua” creatura editoriale, ceduta nel 2016, conquista le finali dei premi più importanti e si impone nelle classifiche. A 82 anni Bompiani si gode ora una maternità surrogata badando, in qualità di adulta affidataria, a una ragazza somala, perché un rimpianto si affaccia in queste mille vite vissute: “Il vuoto più grande è non aver mai avuto figli”.