Le Tre sorelle d’Oman: disperate come tutte

Corpi celesti di Jokha Alharthi, 43 anni, docente di Letteratura araba all’Università Sultan Qaboos di Muscate, edito da Bompiani per la traduzione di Giacomo Longhi, è la prima opera in arabo ad aver conquistato, nel 2019, il Man Booker internazionale per la narrativa ed è anche il primo scritto da una donna dell’Oman a esser tradotto in inglese.

Poetico, evocativo, polifonico, abbraccia quattro generazioni di donne e relativi nuclei natii e derivati, dagli ultimi decenni del XIX secolo ai primi respiri del nuovo millennio. Dallo schiavismo, abolito in Oman solo nel 1970 ai social media, dalle case di fango ai grattacieli, dai matrimoni combinati alle convivenze. Ambientato nel villaggio fittizio di al-Awafi, non lontano dalla capitale, ruota intorno alle varie declinazioni dell’amore e alla trasformazione di questo sultanato degli Emirati ricco di contraddizioni, dove antichi rituali e tradizioni e moderne ambizioni e prospettive convivono, non sempre armoniosamente.

È in particolare la storia di tre sorelle, fotografate soprattutto nelle loro dimensione domestica, alle prese col patriarcato e il mito del matrimonio e delle due metà di platonica memoria (da sfatare perché portatori di epiche infelicità), a conquistare. Mayya, infatuata di uno studente rientrato da Londra, è costretta a sposare Abdallah, figlio di un ricco mercante. Per ribellione chiama la primogenita, con sconcerto collettivo, London. Impenetrabile e sfuggente resterà con lui tutta la vita ma tenderà a rit(i)rarsi in una maternità isolata, lunghi e amari silenzi, sonno come protezione. Asma’, maritata a Khalid, artista narcisista convinto che la donna ideale debba “orbitare intorno a lui”, disegnerà il suo nuovo universo quando diverrà “la sua stessa costellazione, indipendente e intera, una sfera a sé stante”. Quella sfera conterrà i suoi quattordici figli e le andrà bene così. Khawla, dopo lunga attesa, sposa Nasir, amore d’infanzia. Peccato che lui preferisca stare in Canada (non solo) e torni ogni due anni per metterla incinta. Agli occhi di Khawla “quella vita di patimenti incarnava alla perfezione il grande ideale di un amore incondizionato, senza riserve, che niente può distruggere. Nemmeno la crudeltà della persona amata”. Il divorzio la salverà, l’apertura di un salone di bellezza la riscatterà.

Sulle prime pare che Alharthi scelga Abdallah, che parla in prima persona, come patriarca privilegiato in una costellazione di corpi celesti femminili che si rivolgono invece al lettore in terza. In verità, lo si evince seguendone le riflessioni tra passato e presente mentre è su un volo verso Francoforte, è un’anima fragile, disperatamente insicuro della propria mascolinità, dei sentimenti che l’adorata Mayya nutre per lui (quando le chiede “mi ami?” lei risponde con una risata fragorosa) e angosciato dalla figura del tirannico padre da cui, unico figlio, non si è mai sentito apprezzato. Non esiste un modo giusto di amare o sentire, pare suggerire Alharthi, né di esser donna e neanche uomo. È invece certo che, al pari delle orbite tratteggiate dai corpi celesti, ogni vita debba trovare il proprio equilibrio attraverso oscillazioni, tentativi e relativi fallimenti, dolore, rivoluzioni interiori.

 

Corpi celesti Jokha Alharthi Pagine: 264 – Prezzo: 18 – Editore: Bompiani

Ragazza scompare tra Roma e Capalbio: antropologia noir con nostalgia “rossa”

Nella sua vineria, nei dintorni di Campo de’ Fiori, Marco Paraldi ha scritto su una lavagna le dieci cose che più detesta. Ci sono anche gli invidiosi, nella top ten. Francamente, però, come si fa a non invidiare un tipo come lui? Ché Paraldi non è solo un oste cinquantenne e fascinoso che si sveglia a mezzogiorno e pasteggia sovente con caraffe di gin tonic. È stato un giornalista di sinistra e di successo: prima le guerre, quelle vere, indi la guerriglia politica in Transatlantico, sino a che non ha preso a schiaffi un ministro (che soddisfazione!) e l’ha finita lì. La vineria “Mezzolitro” come somma via d’uscita. Appunto. E uno stuolo di femmine che ancora gli vanno dietro, compresa la bellissima semifidanzata aristocratica. Grandiosa la risposta con cui liquida un potenziale e promettente partouze a tre con un’amica e un’altra donna: “Nessuna si offenda. Ma stasera ho sonno”.

Già protagonista di La paura ti trova (2016), Paraldi ritorna nel nuovo noir stroboscopico di Fabrizio Roncone, firma del Corriere della Sera nonché profondo conoscitore del genere. Con il vasto talento della sua scrittura, Roncone immerge infatti il lettore in una selva sincopata di colori e sfumature che tratteggiano, scorticano e accarezzano la coscienza dei personaggi e l’anima degli ambienti dove vivono e si muovono. Siamo tra Roma e Capalbio e ci sono i rapinatori di periferia, gli strozzini “zingari” (i Casamonica), i politici ammalati di sesso e di soldi, i ricconi sniffatori, i poveri onesti e sfruttati. Paraldi deve ritrovare una ragazza scomparsa, Noemi, spogliarellista ed escort. L’autore si conferma un sapiente antropologo (categoria giustamente evocata da Antonio D’Orrico sul Corsera) che aggiorna in maniera disincantata e dolce allo stesso tempo il noir di matrice sociale, senza alcuna pretesa ideologica. Anzi sì. Alla fine un po’ sovviene la nostalgia per la parola comunista.

 

Non farmi male Fabrizio Roncone Pagine: 248 – Prezzo: 16 – Editore: Marsilio

“Re Enrico IV è uno scioperato e ‘Come vi piace’ boschereccio”: Calvino legge il Bardo

Fresco di laurea in Letteratura inglese, Italo Calvino (1923-1985), dopo mesi nella redazione culturale torinese dell’Unità, rientra nel 1949 all’ovile Einaudi, con cui due anni prima ha pubblicato il romanzo d’esordio Il sentiero dei nidi di ragno.

“Giornalista di cataloghi e soffietti”, in pratica addetto stampa della casa editrice, Calvino assume anche la direzione del “cantiere shakespeariano”, una nuova collana di traduzioni fresche e agili del Bardo – firmate da Cesare Vico Lodovici –, pubblicata nella Piccola biblioteca scientifico-letteraria degli Struzzi e rivolta “sia al piacere di lettura del pubblico più largo, sia agli attori e ai registi (tra questi vi fu Giorgio Strehler, ndr), perché il nostro teatro abbia finalmente un buon vero Shakespeare”. Così spiega lo scrittore nella prefazione al Romeo e Giulietta, primo libro della serie.

Le sue introduzioni puntute e lievi – riedite da Einaudi in mille copie numerate – rimangono però solo dodici per i sopraggiunti impegni letterari del loro estensore, che a metà degli anni 50 si prepara a sfornare le Fiabe italiane e Il barone rampante.

Ecco qualche appunto affilato del rampante Italo: Come vi piace? È “boschereccio” e Re Enrico IV uno “scioperato”. E ancora, Giulio Cesare ha un “alone di negromanzia medioevale”; Macbeth è un “finimondo”; Otello parla dell’“incomprensione disperata tra marito e moglie”, altro che povera Desdemona…

Questa dozzina di scritti icastici, colti ma mai banali né snob, vanta già – nel giovane Calvino – la “leggerezza della pensosità” delle Lezioni americane, in cui l’autore ormai maturo torna ancora a Shakespeare – e a chi sennò? – per eleggere Mercuzio eroe della lievità con quel suo “passo danzante, la fantasia sognante… È un uomo moderno, scettico e ironico: un Don Chisciotte che sa benissimo cosa sono i sogni e che cos’è la realtà, e li vive entrambi a occhi chiusi”. Che bel bigino d’autore.

 

Aggiungi un posto a tavola: c’è De Pisis

“Chi vuol vivere e star sano/ dalle donne stia lontano/ ma si rechi qui a Burano/ a mangiare da Romano”. Così scriveva nel 1948 Achille Campanile sul libro degli ospiti della trattoria “Tre stelle” di Romano Barbaro (1903-1964), oste cordiale che Ernest Hemingway definì “a patron of the arts”: le sue pareti grondavano di dipinti lasciati dagli anni 30 ai 70 da una fitta schiera di artisti habitués del locale, e ora in parte esposti in una piccola mostra presso la Fondazione Querini Stampalia di Venezia (fino al 6 marzo).

In realtà, fatti salvi un Gino Rossi e un paio di De Pisis, queste tele, per lo più vedute lagunari di stampo post-impressionista, non sempre colpiscono per originalità: la “scuola di Burano”, tesa alla fuga verso spazi vergini e alla simbiosi con la natura, pare spesso volutamente attardata rispetto alle avanguardie che proprio da Venezia partirono, complici gli stimoli della Biennale. Emblematico il settembre del 1946: il 4 la prima edizione del “Premio Burano” di pittura vede il trionfo del più “tradizionale” Carlo Dalla Zorza, e un giovane Emilio Vedova per protesta getta (o finge di gettare) in canale il proprio Paesaggio pomeridiano a Burano; e il 30, presso un altro ristorante veneziano, “All’Angelo”, prende vita il Fronte Nuovo delle Arti, vera secessione del nuovo espressionismo.

La paciosa Burano è un po’ un mondo a parte, quasi “inventato” dal vero eroe di questa mostra, il pittore e scenografo milanese Mario Vellani Marchi, membro del circolo di via Bagutta e capace di esportare nell’isola (dove trascorse da sfollato gli anni 1943-45) non solo l’idea di un Premio ma anche l’usanza meneghina delle “Liste”, locandine a tempera o a matita per un festeggiato illustre – splendide quelle per un corpulento De Pisis con la pipa e per Arturo Martini, trafitto da una freccia che lo inchioda a un suo nudo femminile a quattro zampe. Insieme al noto giornalista del Corriere Orio Vergani, che ebbe a definire Burano “una specie di Montmartre veneziana”, fu proprio Vellani Marchi a promuovere l’isola e la trattoria “Tre Stelle” come centro non solo gastronomico (il vulcanico Benno Geiger celebrò in versi il “petrarchico” risotto di gò, e poetò “le sepe, i caragoi, le masanette,/ i canestrei, l’audaci anguille”) ma anche culturale. Fondamentale in quest’ottica la cura dei “Diurnali”, massicci libri degli ospiti (siamo oggi a 26 volumi) sui quali negli ultimi 90 anni si è depositato di tutto: partiture di Petrassi, donne nude di Felice Carena, gufi di Carlo Levi, eroi in posa di Guttuso, i pettini di Capogrossi, gli skylines di Mark Rothko, i voli di rondini di Hugo Pratt, omini schizzati da Peter Gabriel e labirintiche linee di Miró, coccodrilli di Qiu Zhije e firme equine di Sylvester Stallone, financo caricature di Forattini.

Il fascino della mostra sta proprio in questi archivi di visitatori illustri (artisti a parte, da Romano hanno mangiato Enrico Fermi e Luigi Einaudi, Helenio Herrera e McEnroe, Comisso e Moravia, d’Alema e Nibali…), che lasciano però un senso di vuoto: lontani gli anni in cui la città era percorsa da disfide artistiche indigene, oggi tutto è uno sfondo per selfie, e da Burano a Chioggia perfino il pesce è messo a repentaglio dagli scassi del Mose e dalla sempre minor convenienza di andare per “moeche” – non a caso la laboriosa pesca di questi granchi (serviti fritti al “Tre stelle”) è la metafora del mondo di ieri nell’ultimo, amaro film di Andrea Segre, Welcome Venice.

 

Le tre stelle di Romano Fond. Querini Stampalia (Ve), fino al 6.03

“La mercante di Brera”, come rendere chic i tesori in soffitta

Lei ha scritto a suo modo un capitolo importante del nuovo romanzo sull’appeal milanese da esportazione. Quando aprì il suo negozio a Brera, negli anni Ottanta non ovunque da bere, quel quartiere era appannato. Ora di boutique lì ne possiede cinque, più una a Londra. Roberta Tagliavini è stata l’antesignana del modernariato nella nostra penisola. Il suo “Robertaebasta” è diventato un brand internazionale. Adesso è la protagonista de La mercante di Brera, un docu-reality ideato da Alice Lizza appena passato la domenica sera su Nove. O meglio, ne è la mattatrice carismatica. Ottant’anni, ma non sentirli; look spavaldo, sguardo magnetico, approccio gagliardo e impetuoso, è spalleggiata nella sua avventura televisiva e di tutti i giorni dal figlio Mattia e dall’interior designer Tommy. Stella polare per stuoli di addetti ai lavori, la osserviamo nelle sue contrattazioni istintive e sanguigne. È il boss delle trattative, e disdegna le cerimonie. Loro sparano una cifra, lei controbatte la sua, e alla fine la spunta. Ma a guidarla è una passione autentica e queste battaglie hanno qualcosa di rituale e giocondo. Segue profondo restauro per ricondurre l’acquisto a splendore, e il pregiato manufatto miracolato viene rimesso in vendita. A prezzo di commercio. A visitare Roberta sono collezionisti, “vip” un po’ bohémien, common people, svuotatori legali professionisti di loft della upper class e amiche e compagni di viaggio della Milano Benissimo. Nulla le sfugge, tutto conosce e l’ha imparato dal basso, ecletticamente, con l’esperienza. Intercetta migliaia di pezzi rari o rarissimi, regalandoci così un corso accelerato di storia dell’art déco italiano. E sembra suggerirci tra le righe: se fate marcire qualche tesoro liberty in soffitta, passate da queste parti, oh empi inconsapevoli, e vi servo io. Lei dalle umili origini che aveva cominciato a Bologna oltre mezzo secolo fa, col porta-a-porta. Altro che webinar. Tra gli ultimi “colpi”, ha staccato un assegno per un lampadario stilnovo disegnato nel dopoguerra da Melchiorre Bega per il salone di prima classe della stazione centrale di Milano. Occupa mezzo negozio, ma Roberta è felice come una pasqua. E basta.

Una bella boccata d’Ozon: la fine vita incontra la poesia

François Ozon è regista assai prolifico, capace di una ventina di film in due decenni. L’abbondanza non ha mai inficiato l’eleganza del suo lavoro, ma talvolta ha intaccato la sostanza, lasciando in bella posa il mestiere a scapito di complessione poetica e solidità drammaturgica. Ne è sempre uscito con dignità, in virtù di una raffinatezza formale che procede da una finezza di spirito: ultrasensibili o spinosi che siano i temi, dalla pedofilia dei preti (Grazie a Dio, 2019) all’eutanasia, il nostro ha sempre preferito alla fanfara il quartetto d’archi, allo schieramento ideologico il disvelamento umano.

Curioso ed equanime, Ozon non giudica, osserva, con sommo scorno di quanti al dubbio preferiscano le certezze, al tarlo le bandiere. Sulla fragilità, persino, l’aporia di vivere è tornato più volte, basti pensare al penultimo Estate 85, che omoeroticamente deflagrava il problema nella giovinezza dei corpi e nella gioventù dei palpiti, ma la fine della vita, che invero poco ha a che fare con l’epilogo della vitalità, trova manifestazione più completa e diretta in È andato tutto bene (Tout s’est bien passé), dal romanzo omonimo (Einaudi) di Emmanuèle Bernheim. Sulla questione, che sarebbe fuorviante assimilare all’eutanasia, il cinema, da Mare dentro di Alejandro Amenábar a Million Dollar Baby di Clint Eastwood e Bella addormentata di Marco Bellocchio, s’è largamente espresso, eppure il parigino classe 1967 non s’apparenta, nemmeno s’accompagna, preferendo alla tesi l’ipotesi, se non l’antitesi.

Passando dal dolore al sorriso senza grippare, dalla suggestione alla riflessione senza ricattare, mette la macchina da presa davanti a un ottantacinquenne (André Dussollier) non più autosufficiente che chiede alle figlie (Sophie Marceau e Géraldine Pailhas) di morire, e aspetta. Il viaggio ha una destinazione, ma le tappe non vengono denominate né determinate: attesa e aspettative non sono sinonimi, è la mite e irredimibile forza del film, ed è in questa apertura, di credito e spirito insieme, che lo spettatore si sente diventare qualcosa di più, un partecipante al dramma e al suo scioglimento.

C’è chi va o, almeno, vuole andarsene e chi resta e vorrebbe far restare, il regista e sceneggiatore non dirime, e se indugia non indulge: l’umanità trova lo stress test, senza accanimento ideologico né terapia consolatoria. È la misura aurea, anche se rischia di essere sottovalutata, di Ozon, che trova un Dussollier ai suoi massimi e una Marceau brava e bella da mozzare il fiato.

È andato tutto bene, titolo peraltro splendido, è da ieri nelle nostre povere sale con Academy Two, nel frattempo l’inarrestabile François è già andato altrove. Libera interpretazione del capolavoro di Rainer Werner Fassbinder Le lacrime amare di Petra von Kant, il suo Peter von Kant, con Denis Menochet, Isabelle Adjani e Hanna Schygulla, il prossimo 10 febbraio aprirà in Concorso il 72° Festival di Berlino.

 

Il Sanremo di Amadeus III: si balla (tutti) sull’Omicron

Sanremo balla sull’Omicron. Rinnegata la rivoluzione rock, il mood del Festival sarà prevalentemente danzereccio: un vento leggero ma sostenuto soffia dentro canzoni pensate quando il peggio della pandemia sembrava alle spalle. Alla Rai sperano di vedere l’Ariston gremito dal primo febbraio. Una seconda blindatura del teatro getterebbe il Paese in un tilt irrecuperabile, in special modo in periodo di Quirinarie. Si accendano le danze, ma non tra le poltrone vuote: l’effetto sarebbe dadaista.

E che nessun big sia costretto alla quarantena: basta con i video delle prove! Chi si becca la variante sia sostituito con un cartonato.

Il toto-vincitori. Dopo il primo ascolto dei 25 brani (si torna ad affondare nelle notti bianche), il combinato disposto di 1) qualità del pezzo 2) consistenza del pacchetto elettorale potrebbe consegnare il 72º Sanremo a uno tra questi nomi: Elisa (O forse sei tu, voto 8) e Fabrizio Moro (Sei tu, 8). Due ballate di suprema bellezza che, stante la curiosa prossimità dei titoli, verranno legate nelle gag twitteriane. Elegante pure l’andamento lento di Mahmood & Blanco (Brividi, 7+). Ma occhio agli idoli young: Rkomi (Insuperabile, 7), dal tiro pararock e paraculo, Aka 7Even (Perfetta così, 6+) un compitino furbetto, Sangiovanni (Farfalle, 6), movimentata e sbarazzina. Per loro valanghe di televoti teen. Sui quali può contare anche Irama (Ovunque sarai, 6), più magniloquente rispetto all’anno scorso, quando fu freezato dal Covid con un pezzo spaziale. Magari la sorte lo risarcisce.

Cose belline. Per Amadeus è la “scommessa del festival”. E Giovanni Truppi (Tuo padre, mio padre, Lucia, 7) ha l’estro per finire in fondo alla classifica, con quel suo pizzico di sale di un De André più sghembo. Il già vincitore dei giovani Yuman (Ora e qui, 7) mostra una versatilità soul esportabile; Matteo Romano è il “prossimo Ultimo”, ma in Virale (6 1/2) prende le distanze dal modello. A 18 anni c’è tempo per sognare il Circo Massimo. Ed ecco Tananai, altro giovane, scuola Fedez. Non di Osaka bensì di Cologno. In Sesso occasionale smentisce il titolo. 6+.

Oldies but goldies? Quando i cantanti cantavano. Massimo Ranieri è sontuoso in Lettera di là dal mare (7 1/2), un valzer che evoca naufragi notturni, ma roba da Titanic, non da Giglio. Gianni Morandi si è fatto costruire da Jovanotti (Apri tutte le porte, 6+) una fanfaretta beat e R&B: dentro ci trovi i Blues Brothers, il geghegeghegé e la vernice per i capelli. Mentre lo scioglimento dei ghiacciai ha riportato alla luce il fossile Voglio Amarti (5). La Zanicchi è biologicamente all’altezza, ma il brano sembra un falso d’epoca. Iva azzarda l’allarmante verso “Voglio amarti per sentirmi ancora viva in te”: per corroborare l’anticaglia pure un assolo di chitarra che neanche Jimmy Page.

La terra di mezzo. Nessuno potrà toppare una nota. Se Emma affronta senza strafare (nè Berteggiare) Ogni volta è così (6 1/2) il pezzo è destinato a crescere (dirige l’orchestra Francesca Michielin). Compito tosto anche per Noemi nella pericolosa power ballad Ti amo non lo so dire (6+): un mare di parole, ditta Faini-Mahmood, salti di ottava scivolosi. Michele Bravi avanza cauto nell’Inverno dei Fiori (5 1/2): ma più che trasognato appare sempre tremebondo.

L’autoplagio. Ogni anno si va a caccia della canzone copiata. Qui siamo all’autodenuncia. Con notevole visage comme un cul, Achille Lauro ripropone pari-pari la sua Rolls Royce. Verso cult di Domenica (5): “Esco dal bagno con 3 figli e moglie”. Misteri della minzione.

Taca banda. Il commando dei tarantolati dance vede: La Rappresentante di lista con il pigliaperifondelli Ciao Ciao (6 1/2) e la frase black bloc “questa è l’ora della fine, romperemo tutte le vetrine”; la romana Ditonellapiaga e la matura Rettore sparano l’elettro-sexy Chimica (6 1/2); premono sull’acceleratore trap Highsnob & Hu (la zia vi chiederà ‘chi so’ questi’) in Abbi cura di te (6 1/2), citando il bondage e Oloferne; il dj (frustrato dal covid) Dargen D’Amico tira giù lo slogan Dove si balla (6+), parodia inconscia del silvestriano Salirò.

Plata o plomo. L’esotismo pop è roba da Narcos: il reggaeton di Giusy Ferreri in Miele (4), insulso come l’accentare opposto dei pronomi me e te, oltraggio impunito alla fonetica. La spagnola Ana Mena (Duecentomila ore, 4 1/2) sciorina una lezione spiccia dal rimario tirato giù dal complice Rocco Hunt. Musica inconsistente.

La controriforma. E il rock, abbiamo chiesto ad Amadeus? La valanga Maneskin è stata un deterrente per proporre nuove band a Sanremo? Risposta: “Ci sono Le Vibrazioni” (Tantissimo, 6). Che qualche mese di carriera lo hanno vissuto, in vent’anni.

Ospiti. “Quando saranno sicuri al 100 % lì annuncerò al Tg1”, ha ribadito Ama. Con percentuali inferiori, inutile sintonizzarsi per avere conferme su Fiorello.

Quei due fratelli inventori di libri

Nel 1489 Venezia è nel pieno di grandi avvenimenti: Caterina Cornaro, regina di Cipro, è appena stata costretta a cedere l’isola alla Repubblica, benché non ne avesse nessuna intenzione.

E Venezia le riserva accoglienze trionfali e ipocrite, con onoranze degne di una testa coronata, prima di spedirla a trascorrere il resto della vita nel feudo di Asolo, che le è stato regalato in cambio del regno di Cipro. Del tutto inosservato passa, in confronto, un avvenimento che per noi invece ha un’importanza epocale: nel novembre di quell’anno Lucantonio pubblica il suo primo libro. Ha trentadue anni, che all’epoca non sono pochi: non è più un ragazzino, ha già una posizione nel mestiere che s’è scelto, e forse non sa ancora che con questa novità il suo destino sta per cambiare radicalmente. Decidere di produrre un libro in proprio anziché trafficare solo in libri già stampati significa, per ora, soltanto allargare l’azienda e sperimentare una nuova opportunità di profitto. L’opera scelta per l’esperimento metteva al riparo dalle sorprese. Si tratta dell’Imitazione di Cristo, attribuita all’epoca a Jean Gerson, cancelliere dell’Università di Parigi, mentre oggi si tende a ritenere più verosimile l’attribuzione al monaco tedesco Thomas à Kempis, o Thomas von Kempen. Lucantonio voleva andare sul sicuro: l’Imitazione di Cristo è stata definita “un successo editoriale di livello europeo”, e pare che sia il libro più stampato dopo la Bibbia. Anche se l’opera fu composta all’inizio del Quattrocento, poco prima, cioè, dell’invenzione di Gutenberg, sono arrivati fino a noi qualcosa come 800 manoscritti anteriori alla fine del secolo, un ordine di grandezza da autentico best-seller, e i primi stampatori non se lo fecero sfuggire. La popolarità del testo generò la richiesta di traduzioni in volgare, ed è questo il campo in cui Lucantonio decide di inserirsi, fiutando l’affare. La prima traduzione in volgare italiano, di cui non si conosce l’autore, era stata stampata proprio a Venezia da Giovanni Rossi nel marzo 1489, il tedesco Scinzenzeler l’aveva ripresa a Milano a luglio, e ora, a novembre, Lucantonio si accoda (…).

Lucantonio non è uno stampatore e non stampa in proprio: si affida a un tipografo, Matteo di Codecà, immigrato da Parma (Venezia era davvero una metropoli mondiale che attirava i forestieri come una calamita). L’opera risulta “Impressa a Venetia per Matheo di Codeca da Parma ad instantia de Mestro Luca Antonio fiorentino”, il 26 novembre 1489. Notiamo due o tre cose (…). Lo stampatore lo chiama maestro, il che indica una posizione rispettabile in un mestiere. (…) All’epoca non esisteva nella città lagunare una corporazione dei cartolai, e tanto meno una corporazione dei librai e stampatori, che nascerà solo nel 1548; è dunque probabile che Lucantonio fosse immatricolato nell’Arte dei merciai, che anche qui come a Firenze trafficavano in un vastissimo assortimento di merci, fra cui la carta e i libri. Un’ultima osservazione: “ad instantia” significa che Lucantonio è andato dal tipografo e gli ha proposto di stampare un’opera che lui, Lucantonio, intendeva commercializzare. Non sappiamo quali condizioni economiche abbiano concordato; quello che è certo è che il ruolo dell’editore e quello dello stampatore sono, in questo caso, nettamente separati. (…)

Ingenuamente potremmo credere che l’investimento maggiore fosse quello del tipografo, che doveva provvedere al torchio, ai caratteri di stampa e alla manodopera, rispetto all’editore, che per la maggior parte delle opere non doveva pagare diritti d’autore, e in definitiva si limitava a fornire la carta e a commercializzare il prodotto finito. Niente di più sbagliato: le spese di stampa di una sola opera, pagate dall’editore al tipografo, superavano di parecchie volte l’intero valore dell’attrezzatura; e la carta rappresentava un costo colossale, almeno pari all’importo incassato dal tipografo. Far pubblicare un libro, insomma, era un investimento importante, ed è quasi certo che Lucantonio dovette trovare dei finanziatori disposti a entrare in società con lui. Non sappiamo quanti esemplari dell’Imitazione di Cristo abbia tirato il Codecà per conto del nostro, ma all’epoca le tirature erano di almeno cinquecento, se non mille esemplari; oggi ne esistono in tutto il mondo 19 esemplari superstiti. Se fosse andata male, può darsi che il giovane fiorentino avrebbe lasciato perdere; invece, evidentemente, andò bene. (…)

L’azienda di quelli che ormai nel mondo del libro cominciavano a essere conosciuti come “i Giunti” aveva sede nelle due città più importanti d’Italia. Con la morte di Lorenzo il Magnifico Firenze era entrata in una fase di debolezza politica, e la sua popolazione non aveva mai ritrovato i livelli medievali, fermandosi a circa 50.000 abitanti; ma era all’avanguardia della cultura umanistica, e grazie all’intraprendenza dei suoi banchieri era ancora uno dei grandi centri finanziari d’Europa. Venezia, con i suoi 100.000 abitanti, era una delle più grandi città del mondo cristiano, e benché i segnali di crisi si facessero sentire anche lì, univa all’intraprendenza mercantile l’orgoglio di una grande potenza navale, alla testa di un vasto impero marittimo; inoltre era la capitale europea dell’industria del libro. (…) C’era solo un’altra città, in Italia, che per motivi del tutto diversi poteva mettersi sullo stesso piano di Firenze e Venezia, ed era Roma: popolata più o meno quanto Firenze, con un tessuto economico meno vivace, ma sede della più grande, ricca e colta organizzazione internazionale dell’epoca, la Chiesa cattolica. E proprio a Roma, in quei primi anni del Cinquecento, i Giunti decisero di aprire una sede. Il 2 dicembre 1504 l’umanista Scipione Forteguerri, detto Carteromaco, scrive da Roma ad Aldo Manuzio: “da poi sono in Roma vi ho scritto tre volte, l’ultima fu risposta a una vostra hebbi qui da uno libraro fratello del Zonta”. In altre parole Aldo aveva scritto all’amico, appena trasferitosi da Venezia a Roma, indirizzando la lettera presso la bottega di un libraio conosciuto da entrambi, e questo libraio era un fratello di Lucantonio. Salvo che Carteromaco si sbagliava, e quasi certamente il libraio in questione non era un fratello di Lucantonio, ma un nipote, Iacopo, figlio di Biagio e fratello di Giuntino, (…) la lettera del Carteromaco ad Aldo testimonia un fitto intreccio di rapporti nel piccolo mondo dell’editoria.

La nuova generazione dei Giunti era ormai pienamente affacciata al mondo degli affari. E del resto nel 1509 Lucantonio aveva cinquantadue anni, e suo fratello Filippo uno o due in più. (…) E la nuova generazione si affacciava alla vita in un’Italia molto più instabile e ansiosa di quella che i genitori avevano conosciuto da giovani. (…) Venezia poté allargare i suoi domini italiani a spese delle conquiste del Valentino, e illudersi, nonostante le difficoltà economiche, d’essere divenuta la potenza egemone in Italia. Ma come succede a Risiko, tutti finirono per allearsi contro il giocatore che stava vincendo. (…) Il 10 dicembre 1508 le maggiori potenze europee, il re di Francia Luigi XII, l’imperatore Massimiliano e il rey católico Fernando d’Aragona, si unirono al papa nella Lega di Cambrai, coll’intento deliberato di distruggere la potenza veneziana e spartirne i possedimenti fra i membri della lega. (…) Nell’aprile 1509 l’esercito francese stanziato nel ducato di Milano passò l’Adda al comando del suo re e invase la terra di San Marco. Il 14 maggio 1509, con immensa sorpresa di tutti, l’esercito veneziano fu sbaragliato nella battaglia di Agnadello; i superstiti ripiegarono in rotta fino a Mestre, lasciando l’intera Terraferma in mano al nemico. (…) (…) L’attività tipografica risentì della crisi come tutti gli altri settori dell’economia: il numero delle edizioni stampate a Venezia, che negli ultimi anni si era aggirato intorno ai centocinquanta titoli, nel 1509 precipita sotto i cento, e vi rimane per quattro anni. Ma non per Lucantonio. (…) Lucantonio, visto che a Venezia le cose si mettevano male, aveva pensato bene di tornarsene nella città natale.

 

Roma, in vendita il Teatro Eliseo. Costo: 24 milioni

Lo storico Teatro Eliseo è in vendita. L’annuncio è comparso sul sito dell’agenzia immobiliare di pregio Engel&Volkers, al prezzo di 24 milioni di euro: spendendo questa cifra, si legge nell’annuncio, si avrà un complesso grande oltre 5mila metri quadrati situato nel pieno centro di Roma. La struttura, il cui palco è stato calcato da alcuni fra i più grandi attori italiani (Anna Magnani, Eduardo De Filippo e Vittorio Gassman tra gli altri), era stata affidata nel 2015 all’artista ed ex esponente di An Luca Barbareschi, che la acquistò tre anni più tardi.

L’annuncio ha suscitato polemiche. Stefania Brai, responsabile culturale di Rifondazione comunista, ha invitato le istituzioni ad acquistare la struttura, “trasformandola in teatro pubblico a tutti gli effetti”. “Non capisco la tensione che si è levata intorno alla vendita – ha commentato Barbareschi –. Innanzitutto la vendita prescinde dalla sua gestione. L’Eliseo resta e resterà un teatro storico con una programmazione dedicata agli artisti e ai progetti più prestigiosi del panorama culturale italiano”.

Dalla Bolivia alla svolta in Cile: dove “sovranità” è democrazia

“Essere giovani e non essere rivoluzionari è una contraddizione biologica” disse Salvador Allende. Il 35enne Gabriel Boric, neo-presidente del Cile, giovane lo è senz’altro. Chissà se sarà rivoluzionario dato che in politica non mancano i giovani stagionati dalle perversioni del potere. Boric dalla sua non ha soltanto l’età. Ha un consenso popolare che sarebbe imperdonabile sperperare, ha solide radici ideologiche e la tempra di chi è nato a Punta Arenas, sullo Stretto di Magellano sferzato dai gelidi venti patagonici. Il punto è che essere realmente rivoluzionari, in un continente in parte ancora succube delle decisioni prese dal Dipartimento di Stato Usa, non è facile. E non basta un pugno chiuso o un minuto di raccoglimento davanti a quella statua di Allende che si trova davanti all’ufficio dove l’ex-presidente si sparò con il fucile che gli regalò Fidel Castro per non cadere vivo nelle mani dei golpisti. Per essere rivoluzionario oggi in America Latina non serve la retorica, serve il coraggio, in primis quello necessario per lottare per la sovranità.

Sebbene in Italia vengano considerati “sovranisti” politici pavidi e asserviti alle grandi lobbies industriali, in America Latina la “soberania”, la sovranità, è un concetto spiccatamente di sinistra. Non a caso molti leader che hanno tentato di costruire politiche sovrane si sono guadagnati l’inimicizia, e a volte la condanna a morte, da parte di gruppi di potere liberisti.

A Chimorè, nel Tropico di Cochabamba, c’è uno dei mercati di coca più grandi di tutta la Bolivia. Ogni giorno ne arrivano a quintali. Le foglie di coca (che nulla hanno a che vedere con la cocaina) vengono pesate, registrate, imballate e poi spedite a tutti i mercati andini, a cominciare da quelli di La Paz. La maggior parte dei boliviani, soprattutto sugli altipiani, masticano foglie di coca. La coca aiuta ad affrontare il freddo e il mal di testa causato dall’altitudine. Sebbene una parte della produzione di coca finisca nel narcotraffico – e c’è chi accetta tutto ciò perché la vendita di droga è un modo per far entrare valuta pregiata nel Paese – molti contadini sopravvivono grazie alla produzione di coca. Prima era proibito piantarla. Poi, nel 2008, Evo Morales, all’epoca presidente dello Stato Plurinazionale della Bolivia, cacciò dal Paese l’ambasciatore Usa e la Dea, la Drug Enforcement Administration, l’agenzia federale anti-droga americana. Morales, già leader del sindacato dei cocaleros, una volta diventato Presidente, denunciò le ingerenze di Washington sulla politica economica boliviana, realizzate da quelle agenzie americane (Dea e Usaid in primis) le quali, a parer suo, con la scusa di sostenere il Paese nella lotta al narcotraffico e alla povertà, realizzavano attività di cospirazione. Quel che è certo è che, nonostante errori e forzature da parte di Morales, Washington ha provato in ogni modo a realizzare un cambio di governo in Bolivia soprattutto da quando La Paz ha nazionalizzato il settore petrolifero e quello del litio, l’oro bianco, il carburante del prossimo secolo.

Gli Stati Uniti hanno tollerato (e spesso promosso) ogni genere di colpi di Stato. Hanno sostenuto dittatori, avallato violazioni di diritti umani, hanno chiuso un occhio di fronte al terrorismo di Stato (o di Stadio per ricordare el Estadio Nacional trasformato in campo di concentramento dai golpisti dopo la caduta di Allende), ai desaparecidos, alla sistematica eliminazione degli avversari politici. La sola cosa che non hanno mai tollerato sono state le nazionalizzazioni. Nel 1954 Allen Dulles, direttore della Cia nonché azionista della United Fruit Company (l’attuale Chiquita), organizzò il colpo di Stato che depose Jacobo Arbenz, il presidente del Guatemala democraticamente eletto. Arbenz aveva osato espropriare alla United Fuit Company i terreni incolti per distribuirli a migliaia di campesinos che morivano di fame.

Cinque anni dopo, a Playa Giron, sulle coste meridionali di Cuba, sbarcarono 1500 esuli cubani armati e addestrati dalla Cia. L’invasione della Baia dei Porci fallì miseramente così come il tentativo di rovesciare il governo Castro, reo di aver nazionalizzato le banche dei Rockfeller, le raffinerie delle compagnie Usa e la West Indies Sugar, l’impresa – tra l’altro proprietà di George Herbert Walker Jr, zio di Bush padre – che controllava gran parte della produzione di zucchero dell’isola.

Anche il governo Allende venne attaccato per la stessa ragione. L’11 luglio 1971, ad appena otto mesi dal suo insediamento e due anni prima del golpe di Pinochet – anch’esso avallato dalla Cia – il Congresso cileno aveva approvato la nazionalizzazione del rame, la principale risorsa del Paese. Nei mesi successivi, Allende implementò il programma di nazionalizzazioni. Vennero nazionalizzate le banche, le compagnie di assicurazione. Poi i trasporti, l’industria siderurgica, le telecomunicazioni. Ogni progresso del programma coincideva con un nuovo chiodo conficcato sulla bara di Allende e l’11 settembre 1973 la cassa venne chiusa definitivamente con dentro le speranze dei cileni che da lì in avanti avrebbero conosciuto una delle dittature più sanguinarie del continente, ovviamente, benedetta da Washington.

Per non parlare del Venezuela. Se Chávez non avesse nazionalizzato l’industria petrolifera – in particolare i giacimenti della Faja petrolífera del Orinoco – e se Maduro non avesse proseguito sulla stessa strada, nessuno avrebbe imposto sanzioni a Caracas, nessuno avrebbe riconosciuto un presidente-fake come Guaidó e il Venezuela verrebbe descritto come un Paese sicuro e accogliente. Tra l’altro per aver comprato un po’ di petrolio da Chávez, oltretutto a un prezzo vantaggioso, si è giocato il posto Manuel Zelaya, presidente dell’Honduras deposto, nel 2009, da un colpo di Stato avallato dalla Clinton. “Le grandi imprese petrolifere americane si sono sentite aggredite dalla mia scelta. Per questo la Cia e il Comando Sud hanno pianificato il colpo di Stato”. Sono parole che Zelaya mi disse personalmente quando ci incontrammo, nel 2019, a Tegucigalpa. Nessun presidente Usa, nessun segretario di Stato, nessun direttore della Cia ha mai pagato per tali azioni. In compenso la Clinton, responsabile della guerra in Libia e delle sue conseguenze e, in parte, della fine della presidenza Zelaya, si permette di accusare Assange augurandosi che paghi per tutto ciò che ha fatto: ovvero raccontare verità.

Nel primo articolo della Costituzione repubblicana vi è la parola “sovranità”, ma il maistream sembra considerarla turpiloquio. Eppure la sovranità è intimamente legata al concetto stesso di democrazia. Un Popolo è sovrano se, attraverso il voto, ha licenza di incidere. Quel che hanno appena fatto i cileni eleggendo Boric, un presidente con idee ben precise. Vedremo se sarà in grado di trasformarle in azioni concrete. Vedremo se sarà capace di rafforzare quello Stato sociale via via smantellato da presidenti liberisti e arrendevoli di fronte ai diktat del Fmi. Vedremo cosa sarà disposto a perdere, se la tranquillità personale ed economica sua e della sua famiglia o la faccia e i voti. Quei voti arrivati in massa dagli studenti cileni, gli stessi che sostengono l’istruzione pubblica. “Se il rame fosse cileno l’educazione sarebbe gratuita”. È uno degli slogan dei movimenti universitari del Cile. Quegli stessi movimenti che lottano affinché il litio custodito nel Salar di Atacama, resti in mano pubblica. Ebbene sì, a questo mondo c’è chi non si fida più delle “mani invisibili” e del libero mercato. Sia perché il mercato non è libero e sia perché le mani che si sono arricchite sono sempre più visibili.