Nel 1489 Venezia è nel pieno di grandi avvenimenti: Caterina Cornaro, regina di Cipro, è appena stata costretta a cedere l’isola alla Repubblica, benché non ne avesse nessuna intenzione.
E Venezia le riserva accoglienze trionfali e ipocrite, con onoranze degne di una testa coronata, prima di spedirla a trascorrere il resto della vita nel feudo di Asolo, che le è stato regalato in cambio del regno di Cipro. Del tutto inosservato passa, in confronto, un avvenimento che per noi invece ha un’importanza epocale: nel novembre di quell’anno Lucantonio pubblica il suo primo libro. Ha trentadue anni, che all’epoca non sono pochi: non è più un ragazzino, ha già una posizione nel mestiere che s’è scelto, e forse non sa ancora che con questa novità il suo destino sta per cambiare radicalmente. Decidere di produrre un libro in proprio anziché trafficare solo in libri già stampati significa, per ora, soltanto allargare l’azienda e sperimentare una nuova opportunità di profitto. L’opera scelta per l’esperimento metteva al riparo dalle sorprese. Si tratta dell’Imitazione di Cristo, attribuita all’epoca a Jean Gerson, cancelliere dell’Università di Parigi, mentre oggi si tende a ritenere più verosimile l’attribuzione al monaco tedesco Thomas à Kempis, o Thomas von Kempen. Lucantonio voleva andare sul sicuro: l’Imitazione di Cristo è stata definita “un successo editoriale di livello europeo”, e pare che sia il libro più stampato dopo la Bibbia. Anche se l’opera fu composta all’inizio del Quattrocento, poco prima, cioè, dell’invenzione di Gutenberg, sono arrivati fino a noi qualcosa come 800 manoscritti anteriori alla fine del secolo, un ordine di grandezza da autentico best-seller, e i primi stampatori non se lo fecero sfuggire. La popolarità del testo generò la richiesta di traduzioni in volgare, ed è questo il campo in cui Lucantonio decide di inserirsi, fiutando l’affare. La prima traduzione in volgare italiano, di cui non si conosce l’autore, era stata stampata proprio a Venezia da Giovanni Rossi nel marzo 1489, il tedesco Scinzenzeler l’aveva ripresa a Milano a luglio, e ora, a novembre, Lucantonio si accoda (…).
Lucantonio non è uno stampatore e non stampa in proprio: si affida a un tipografo, Matteo di Codecà, immigrato da Parma (Venezia era davvero una metropoli mondiale che attirava i forestieri come una calamita). L’opera risulta “Impressa a Venetia per Matheo di Codeca da Parma ad instantia de Mestro Luca Antonio fiorentino”, il 26 novembre 1489. Notiamo due o tre cose (…). Lo stampatore lo chiama maestro, il che indica una posizione rispettabile in un mestiere. (…) All’epoca non esisteva nella città lagunare una corporazione dei cartolai, e tanto meno una corporazione dei librai e stampatori, che nascerà solo nel 1548; è dunque probabile che Lucantonio fosse immatricolato nell’Arte dei merciai, che anche qui come a Firenze trafficavano in un vastissimo assortimento di merci, fra cui la carta e i libri. Un’ultima osservazione: “ad instantia” significa che Lucantonio è andato dal tipografo e gli ha proposto di stampare un’opera che lui, Lucantonio, intendeva commercializzare. Non sappiamo quali condizioni economiche abbiano concordato; quello che è certo è che il ruolo dell’editore e quello dello stampatore sono, in questo caso, nettamente separati. (…)
Ingenuamente potremmo credere che l’investimento maggiore fosse quello del tipografo, che doveva provvedere al torchio, ai caratteri di stampa e alla manodopera, rispetto all’editore, che per la maggior parte delle opere non doveva pagare diritti d’autore, e in definitiva si limitava a fornire la carta e a commercializzare il prodotto finito. Niente di più sbagliato: le spese di stampa di una sola opera, pagate dall’editore al tipografo, superavano di parecchie volte l’intero valore dell’attrezzatura; e la carta rappresentava un costo colossale, almeno pari all’importo incassato dal tipografo. Far pubblicare un libro, insomma, era un investimento importante, ed è quasi certo che Lucantonio dovette trovare dei finanziatori disposti a entrare in società con lui. Non sappiamo quanti esemplari dell’Imitazione di Cristo abbia tirato il Codecà per conto del nostro, ma all’epoca le tirature erano di almeno cinquecento, se non mille esemplari; oggi ne esistono in tutto il mondo 19 esemplari superstiti. Se fosse andata male, può darsi che il giovane fiorentino avrebbe lasciato perdere; invece, evidentemente, andò bene. (…)
L’azienda di quelli che ormai nel mondo del libro cominciavano a essere conosciuti come “i Giunti” aveva sede nelle due città più importanti d’Italia. Con la morte di Lorenzo il Magnifico Firenze era entrata in una fase di debolezza politica, e la sua popolazione non aveva mai ritrovato i livelli medievali, fermandosi a circa 50.000 abitanti; ma era all’avanguardia della cultura umanistica, e grazie all’intraprendenza dei suoi banchieri era ancora uno dei grandi centri finanziari d’Europa. Venezia, con i suoi 100.000 abitanti, era una delle più grandi città del mondo cristiano, e benché i segnali di crisi si facessero sentire anche lì, univa all’intraprendenza mercantile l’orgoglio di una grande potenza navale, alla testa di un vasto impero marittimo; inoltre era la capitale europea dell’industria del libro. (…) C’era solo un’altra città, in Italia, che per motivi del tutto diversi poteva mettersi sullo stesso piano di Firenze e Venezia, ed era Roma: popolata più o meno quanto Firenze, con un tessuto economico meno vivace, ma sede della più grande, ricca e colta organizzazione internazionale dell’epoca, la Chiesa cattolica. E proprio a Roma, in quei primi anni del Cinquecento, i Giunti decisero di aprire una sede. Il 2 dicembre 1504 l’umanista Scipione Forteguerri, detto Carteromaco, scrive da Roma ad Aldo Manuzio: “da poi sono in Roma vi ho scritto tre volte, l’ultima fu risposta a una vostra hebbi qui da uno libraro fratello del Zonta”. In altre parole Aldo aveva scritto all’amico, appena trasferitosi da Venezia a Roma, indirizzando la lettera presso la bottega di un libraio conosciuto da entrambi, e questo libraio era un fratello di Lucantonio. Salvo che Carteromaco si sbagliava, e quasi certamente il libraio in questione non era un fratello di Lucantonio, ma un nipote, Iacopo, figlio di Biagio e fratello di Giuntino, (…) la lettera del Carteromaco ad Aldo testimonia un fitto intreccio di rapporti nel piccolo mondo dell’editoria.
La nuova generazione dei Giunti era ormai pienamente affacciata al mondo degli affari. E del resto nel 1509 Lucantonio aveva cinquantadue anni, e suo fratello Filippo uno o due in più. (…) E la nuova generazione si affacciava alla vita in un’Italia molto più instabile e ansiosa di quella che i genitori avevano conosciuto da giovani. (…) Venezia poté allargare i suoi domini italiani a spese delle conquiste del Valentino, e illudersi, nonostante le difficoltà economiche, d’essere divenuta la potenza egemone in Italia. Ma come succede a Risiko, tutti finirono per allearsi contro il giocatore che stava vincendo. (…) Il 10 dicembre 1508 le maggiori potenze europee, il re di Francia Luigi XII, l’imperatore Massimiliano e il rey católico Fernando d’Aragona, si unirono al papa nella Lega di Cambrai, coll’intento deliberato di distruggere la potenza veneziana e spartirne i possedimenti fra i membri della lega. (…) Nell’aprile 1509 l’esercito francese stanziato nel ducato di Milano passò l’Adda al comando del suo re e invase la terra di San Marco. Il 14 maggio 1509, con immensa sorpresa di tutti, l’esercito veneziano fu sbaragliato nella battaglia di Agnadello; i superstiti ripiegarono in rotta fino a Mestre, lasciando l’intera Terraferma in mano al nemico. (…) (…) L’attività tipografica risentì della crisi come tutti gli altri settori dell’economia: il numero delle edizioni stampate a Venezia, che negli ultimi anni si era aggirato intorno ai centocinquanta titoli, nel 1509 precipita sotto i cento, e vi rimane per quattro anni. Ma non per Lucantonio. (…) Lucantonio, visto che a Venezia le cose si mettevano male, aveva pensato bene di tornarsene nella città natale.