Stop alle fonti fossili, la svolta della Bei. Ma solo su nuovi progetti (e dal 2022)

La Banca Europea per gli Investimenti smetterà di finanziare in campo energetico progetti basati sui combustibili fossili, gas incluso, dal 2022: lo ha annunciato giovedì sera l’istituto pubblico che finanzia le iniziative in linea con gli obiettivi politici dell’Ue. Il nuovo standard di performance per le emissioni, inoltre, prevederà un limite di 250 grammi di anidride carbonica per kilowattora, meno della metà dello standard attuale (550 grammi). Si tratta di un segnale forte: già nel 2013 la Bei era stata la prima istituzione finanziaria internazionale a fermare i finanziamenti all’energia prodotta con carbone e lignite. Ora, tocca al gas.

La decisione è comunque il frutto di un lungo percorso di trattative e compromessi. La prima bozza dei nuovi criteri era stata discussa il 10 settembre: la Bei aveva una strategia molto ambiziosa che escludeva tutti i finanziamenti ai combustibili fossili già dal 2020. Il voto era però stato rimandato per due volte. A ottobre erano stati ipotizzati nuovi criteri, ma ancora erano considerati troppo stringenti. A opporsi, due gruppi: da un lato Germania, Italia e Commissione Ue con i loro interessi industriali e dall’altro i Paesi del gruppo di Visegrád. Il compromesso è arrivato col 2022, vissuto come una mezza vittoria perché riguarderà solo i nuovi progetti, non quelli già approvati. “Sono felice che la Bei abbia approvato una nuova politica dell’energia nel segno del green new deal. L’Italia ha votato a favore perché all’allarme per il cambiamento climatico devono seguire scelte coerenti”, ha detto ieri il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri.

“Sembra un ottima notizia – è stato il commento della European Climate Foundation riferendosi al cambio di passo italiano – dato che gli esperti sostengono che l’espansione di nuove infrastrutture del gas deve cessare e le emissioni di gas devono diminuire se si vogliono raggiungere gli obiettivi di de carbonizzazione. L’Italia ha dimostrato di aver capito l’importanza di mettere fine a tutti i finanziamenti di progetti con combustibili fossili. Inoltre, ha dimostrato di voler fare di più sul clima, e questo è un ottimo segnale dato che sarà co-host della COP26 l’anno prossimo”. La nuova policy sul credito all’energia della Bei sarà attiva a partire dalla fine del 2021, ma il gruppo, secondo quanto comunicato ieri, “allineerà tutte le attività di finanziamento con gli obiettivi dell’accordo di Parigi a partire dalla fine del 2020”.

“Gli operai non fermeranno gli impianti”

Lucia Morselli, da poche settimane ai vertici di Am Investco Italia, la società “affittuaria” dell’ex Ilva, certifica di essere una sorta di curatore fallimentare dell’investimento franco-indiano in Italia: “ArcelorMittal ha deciso di andarsene. Il recesso è in corso”. Lo ha detto in modo chiaro ieri ai sindacati, incontrati al ministero dello Sviluppo economico per ribadire che l’azienda vuole recedere dal contratto e restituire gli impianti ai commissari il 4 dicembre, confermando pure il cronoprogramma di spegnimento entro il 15 gennaio anticipato giovedì.

Non sorprende che il riassunto dell’incontro sia laconico: “È andato malissimo”. Al termine, però, viene anche fuori che l’azzardo di ArcelorMittal potrebbe creare tensioni forti all’interno delle fabbriche dell’ex siderurgico statale: “Le organizzazioni sindacali e i lavoratori non sono disponibili ad essere complici della di chiusura di Taranto e si opporranno alle procedure di spegnimento. Diffidiamo l’azienda da qualsiasi azione di spegnimento. Gli impianti devono essere messi in sicurezza e continuare a produrre attraverso l’approvvigionamento dei minerali e delle materie prime”, dice Francesca Re David della Fiom-Cgil. Ancora più netto Rocco Palombella della Uilm: “Ci sarà un’insubordinazione dei lavoratori verso la proprietà, nessuno potrà obbligarli a celebrare il loro funerale”.

I problemi sono molteplici. ArcelorMittal sta creando le condizioni per lasciar spegnere gli impianti: “Ha interrotto lo sbarco delle materie prime, sta portando le bramme prodotte in stabilimento, gli ordini sono dirottati su altri siti”, ha spiegato Marco Bentivogli della Fim-Cisl. Si rischia di arrivare al 4 dicembre, quando la multinazionale intende lasciare i siti ex Ilva con una situazione ormai compromessa. Se questo avvenisse Taranto sarebbe chiusa per almeno sei mesi: per arrivare allo spegnimento, alla cosiddetta “colatura della salamandra” (cioè della ghisa che resta sul fondo del forno) – spiega il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza a Taranto, Vincenzo Vestita (Fiom) – “bisogna forare il ‘crogiolo’, cioè la parte terminale del forno, e quindi, una volta finita la procedura, bisogna ricostruirlo se si vuole riattivare l’impianto. In base all’esperienza avuta in azienda, per rifare un crogiuolo ci vogliono almeno sei mesi”, dopodiché “per la ripartenza ci vogliono altre 3-4 settimane”, sempre che durante lo spegnimento “non sia stato danneggiato il materiale refrattario all’interno del forno”.

I sindacati, però, chiedono anche che il governo reintroduca subito lo scudo penale per chi gestisce Ilva, visto che Morselli su questo ha battuto nel suo intervento: “Il governo ha preso in giro i più grandi produttori al mondo di acciaio e i Mittal ne hanno preso atto. Il governo ha preso in giro i salvatori della Patria”, s’è allargata la manager. “Oggi – ha spiegato al Mise – lavorare nell’area a caldo è un crimine, fino a poco fa non lo era. Non è una cosa di poco conto. Lo scudo era una parte essenziale del contratto”.

Il governo reagisce: “Ne risponderete, commessi dei reati”

Il 6 novembre scorso, due giorni dopo l’annuncio della fuga da Taranto, Giuseppe Conte diede “48 ore di tempo” ad Arcelor Mittal per proporre un’alternativa. Sono passati dieci giorni e solo le ultime 48 ore hanno fatto davvero capire al governo che la multinazionale non tornerà sui suoi passi e che servirà un guerra legale per evitare che spenga l’Ilva.

Nell’incontro di ieri al ministero dello Sviluppo, davanti ai sindacati e al ministro Stefano Patuanelli, l’ad del colosso franco-indiano, Lucia Morselli ha spiegato che non ci sarà nessun ripensamento. In una lettera inviata alle istituzioni, il gruppo ha annunciato il programma di spegnimento dell’area a caldo, che inizierà dall’altoforno 2 a metà dicembre e terminerà a metà gennaio. E questo perché dal 4 dicembre è intenzionato a restituire l’impianto ai commissari governativi. Un ricatto nel ricatto: se il governo vuole evitare la fine dell’Ilva deve riprendersela subito altrimenti chiuderà il cuore del ciclo integrato dell’acciaio.

La reazione da Palazzo Chigi stavolta è furente. “Arcelor Mittal si sta assumendo una grandissima responsabilità, in quanto tale decisione prefigura una chiara violazione degli impegni contrattuali e un grave danno all’economia nazionale – spiega in una nota il premier Conte –. Di questo ne risponderà in sede giudiziaria sia per ciò che riguarda il risarcimento danni, sia per ciò che riguarda il procedimento d’urgenza”. Con lui in coro diversi ministri, da Luigi Di Maio (“avranno una reazione adeguata”) a Francesco Boccia del Pd (“non si azzardino a spegnere gli altiforni”). Lo scontro è totale, anche perché Mittal – ha rivelato ieri Patuanelli – non permette ai tecnici dei commissari di ispezionare il siderurgico. Il sospetto è che si voglia nascondere la reale situazione in cui si trova il complesso tarantino. Gli impianti viaggiano a ritmi ridottissimi verso la fermata, le materie prime non vengono più scaricate e i parchi deposito con i minerali per gli altiforni vengono svuotati. Solo le merci in magazzino erano stimate in 500 milioni. Per ricomporlo serviranno mesi e ingenti risorse, così come per riaccendere gli altiforni.

Sono gli elementi che prefigurano le “condotte che possono avere rilevanza penale” menzionate nel ricorso d’urgenza (ex art. 700 del codice di procedura civile) depositato ieri dai commissari al Tribunale di Milano contro il recesso dal contratto chiesto da Mittal. Secondo gli uomini del governo è stato indebitamente esercitato perché “non esistono le condizioni giuridiche per la retrocessione dei rami d’azienda”. La mossa serve a costringere Mittal – che è solo affittuario degli impianti (di cui sarebbe divenuto proprietario solo nel 2021) – a gestire il siderurgico senza danneggiarlo fino alla pronuncia di merito del processo civile, cioè almeno fino a maggio 2020. Nel documento vengono bollate come “inaccettabili” le modalità affrettate di restituzione degli impianti in quanto rischiano di causare “danni irreparabili al ciclo produttivo, distruggendo l’azienda”. Nel ricorso, i commissari contestano anche la linea del colosso, ribadita ieri dalla Morselli, sul fatto che l’eliminazione dello scudo penale sia sufficiente a consentire il recesso dagli impegni presi col governo: sostengono che non c’è alcuna garanzia della continuità dello “scudo” all’interno del contratto. Ieri i sindacati Fiom, Uilm e Fim hanno però chiesto all’esecutivo di ripristinare l’immunità penale per togliere al colosso l’alibi. “L’azienda ci ha di nuovo motivato le sue azioni con la questione dello scudo – ha spiegato Patuanelli – e questo ci lascia piuttosto perplessi visto che dal 12 settembre dichiara 5 mila esuberi per un problema strutturale dell’impianto, che non potrà mai più produrre più di 4 milioni di tonnellate di acciaio. Si mettesse d’accordo con se stessa”.

L’udienza per il ricorso cautelare potrebbe essere fissata dal giudice entro 10-15 giorni. Il governo, insomma, si prepara alla battaglia legale con ogni mezzo, ipotizzando richieste danni miliardarie e comportamenti che prefigurano ipotesi di reato, sui quali si attendono nuove segnalazioni. La guerra al colosso in fuga da Taranto, seppure in ritardo, è iniziata.

Sulle “cose strane” all’Ilva indagano i pm di Milano

Il gruppo industriale franco-indiano ArcelorMittal intende rescindere il contratto d’affitto per la gestione dello stabilimento dell’ex Ilva di Taranto. Il dato è noto. Sul punto si è incardinata una causa civile che verrà dibattuta a breve davanti al Tribunale civile di Milano. Da ieri, però, nella partita è entrata anche la Procura del capoluogo lombardo. Il procuratore Francesco Greco, infatti, ha spiegato che è stato aperto un fascicolo penale. L’indagine è iscritta a modello 45, ovvero senza ipotesi di reato né indagati. In sostanza si tratta di una prima attività istruttoria a livello esplorativo. L’obiettivo preliminare, viene spiegato da fonti giudiziarie, è quello di ripercorrere gli accadimenti a partire dal 4 novembre scorso quando ArcelorMittal fa arrivare sul tavolo dei commissari del governo l’atto di citazione per la rescissione del contratto, motivata, tra le altre cose, “con il venir meno dello scudo penale”. Da qui si incardinano una serie di ipotesi lavorative che arrivano fino ai giorni scorsi e si legano all’annunciata volontà del colosso franco-indiano di avviare lo spegnimento totale degli altiforni entro la metà di gennaio.

Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha accolto con favore la mossa: “Ben venga – ha scritto su Facebook – anche l’iniziativa della Procura di Milano che ha deciso di intervenire in giudizio e di accendere un faro anche sui possibili risvolti penali della vicenda”.

Il fascicolo milanese è stato aperto solo ieri. Le indagini sono state affidate al Nucleo di Polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza di Milano per gli accertamenti preliminari. Da quanto si è appreso, il ventaglio delle ipotesi in mano ai pm Stefano Civardi e Mauro Clerici, coordinati dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, è molto ampio. Anche se alcune piste vengono ritenute di primarie importanza. Sul tavolo della Procura c’è, ad esempio, la gestione dei contratti da parte di Arcelor. A questo si legano possibili rilevanti condotte penali che abbiano portato al depauperamento del ramo d’azienda. In sostanza bisogna capire da cosa derivino le perdite annunciata da Arcelor. Alcune condotte, dunque, vengono considerate opache dalla magistratura milanese. Un scenario già ipotizzato dal ministro degli Affari regionali, Francesco Boccia, il quale in un’intervista a Repubblica dell’11 novembre scorso ha parlato di “cose poco chiare”, collegate proprio alle “perdite”. Spiega Boccia: “Bisogna capire se sono vere quelle perdite. Capire da chi sono state comprate materie prime con prezzi fuori mercato. Se per esempio fossero state comprate da altre aziende del gruppo Arcelor…”. Un ragionamento che sembra unirsi alla volontà, espressa ieri dalla Procura, di analizzare il comparto contrattuale che fa riferimento ad Arcelor.

La magistratura, però, sceglie anche di giocare sul tavolo civile. Spiega Francesco Greco in un comunicato di ieri. “La Procura di Milano, ravvisando un preminente interesse pubblico relativo alla difesa dei livelli occupazionali, alle necessità economico-produttive del Paese, agli obblighi del processo di risanamento ambientale, ha deciso di esercitare il diritto-dovere di intervento”, previsto dal codice di procedura civile “nella causa di rescissione del contratto di affitto d’azienda promosso dalla società ArcelorMittal Italia contro l’amministrazione straordinaria dell’Ilva”. L’articolo 70 del codice civile prevede, infatti, che la Procura possa costituirsi nel processo civile se il fatto è di rilevanza pubblica. Così avverrà. La procura depositerà un atto formale e scritto per spiegare la propria posizione e concludere o con alcune domande da porre al giudice o semplicemente prendendo la parte dei commissari di governi. Commissari che sempre ieri hanno depositato il ricorso cautelare e d’urgenza, ex articolo 700, contro la causa promossa da ArcelorMittal.

L’azienda attraverso la citazione chiede, dunque, di dichiarare l’efficacia del diritto di recesso e in subordine di accertare e dichiarare che il contratto di affitto può essere risolto per “impossibilità sopravvenuta” o ancora in ipotesi ulteriormente subordinata la risoluzione perché è venuto meno “un presupposto essenziale”. Nel ricorso, depositato ieri a Milano, i commissari ribadiscono che “il preteso recesso è stato indebitamente esercitato e che, conseguentemente, non sussistono le condizioni giuridiche per la retrocessione dei rami di azienda oggetto del contratto di affitto”. Il procedimento sarà trattato dal presidente della sezione A specializzata in materia di imprese, Claudio Marangoni, che lunedì, dopo aver letto gli atti, fisserà la prima data del processo che potrebbe così iniziare tra una decina di giorni.

“I risparmi di Quota 100 dovrebbero andare ai giovani”

Presidente Tridico, dai conti dell’Inps risultano ulteriori risparmi su Quota 100?

Il numero di domande pervenute a inizio novembre è di circa 200 mila, quasi 100 mila in meno rispetto a quello previsto per il 2019. Ciò consente un risparmio, già accantonato per il 2019, di oltre 1 miliardo sui 3,9 previsti che ora, più realisticamente, può essere stimato in 1,5 miliardi. Nel 2020, col medesimo tasso di adesione, il risparmio potrebbe essere più importante, circa 2,5 miliardi di minore uscita su quasi 8 previsti in relazione tecnica.

Quei risparmi possono andare alla legge di Bilancio?

Ci sono dei vincoli dettati da documenti finanziari già presentati e chiusi. Ma alla fine, una buona parte del risparmio stimato per Quota 100 potrebbe essere già consolidato in vista del bilancio 2020. Si tratta di una scelta politica.

Fosse per lei come li utilizzerebbe?

Al presidente dell’Inps compete al massimo l’onere di una proposta, le decisioni sono politiche. Ciò detto, mi aspetterei che i risparmi di Quota 100 restino allocati nel settore pensionistico. I campi non mancano: riprendere le perequazioni piene, ferme dal 2000; ma soprattutto iniziare a pensare a un fondo di garanzia per giovani con carriere di lavoro instabili e precarie.

Quota 100 deve rimanere oppure occorre una revisione generale del sistema pensionistico?

Quota 100 è una misura sperimentale. Abolirla, dopo solo 8 mesi, sarebbe inopportuno con rischi di esodati e frustrazioni di legittime aspettative. Allo scadere naturale della misura si può pensare a una revisione complessiva del sistema, che abbia l’ambizione di essere strutturale. Abbiamo due anni di tempo per riflettere e per condividere proposte con le parti sociali. A mio parere bisognerà mettere a frutto soprattutto i lavori della commissione sui lavori gravosi. E a strumenti come la proposta del Fondo integrativo pensionistico pubblico condivisa con il ministro Catalfo.

A cosa servirebbe questo Fondo?

Il ministero del Lavoro sta pensando, attraverso un processo più partecipato anche con le parti sociali, a una legge delega all’interno della quale ci sia il Fondo che sostenga in modo anticiclico le pensioni del futuro, soprattutto quelle dei giovani con carriere instabili. L’idea è permettere a chi ha redditi bassi o instabili oggi di avere anche una pensione integrativa domani, e di canalizzare le risorse del fondo nell’economia del Paese e non all’estero.

Passando al Reddito di cittadinanza, come risponde a chi dice che è stato un provvedimento assistenziale?

A ottobre abbiamo raggiunto il milione di domande accolte. Il Reddito di cittadinanza è sia uno strumento di contrasto della povertà sia uno strumento di inclusione sociale e politica attiva del lavoro. Era un passaggio necessario per ridare dignità alle persone. Ci tengo a sottolineare che si tratta di una misura strutturale di grande impatto, che quindi richiede il giusto tempo per avviarsi, ma a mio parere più di 1 milione di domande accolte, oltre 2,5 milioni di persone coinvolte, è già un risultato straordinario. Se consideriamo il numero di poveri raggiunti rispetto alla platea prevista dalla misura, dopo solo sei mesi siamo già a un tasso di espansione del- l’80%. Ricordo che il grado di espansione di misure simili in Europa è intorno al 50%. Lo stesso ReI aveva un grado di espansione molto più basso, intorno al 50% e per il 70% andava al Sud.

Ma serve per creare lavoro? Al momento non sembra.

Il lavoro si crea con gli investimenti, pubblici e privati. Il Reddito di cittadinanza è un’indispensabile rete di sicurezza per la parte più debole della popolazione, è un imperativo morale, oltre che giuridico, di sostegno, di sicurezza sociale nel senso più autentico dell’espressione. Poi tutto è perfettibile. Probabilmente si può lavorare ancora sul rendere più efficienti le politiche attive per il lavoro, il reinserimento e la formazione. Da oggi, con effetti retroattivi, è attivo sul sito Inps la procedura per l’incentivo alle aziende che assumono beneficiari del RdC, con uno sgravio contributivo pari a 18 mesi.

Che tipo di povertà emerge dai dati sul Reddito?

I nuclei percettori sono concentrati al sud e isole (60% del totale delle prestazioni erogate), il che mi pare ovvio considerate le statistiche sulla povertà, ma il dato che può apparire sorprendente è il 24% del Nord, soprattutto nelle grandi città metropolitane, maggiore anche del dato del Centro (16%).

Non c’è un problema di dimensioni dell’Inps? Da ente di previdenza ormai è l’organismo che provvede a tutto.

L’Inps rappresenta il Welfare degli italiani. I governi che si sono succeduti hanno razionalizzato e semplificato diversi strumenti assistenziali e previdenziali, riconducendoli in un unico ente, più efficiente. Lo considero un bene. Ciò non toglie tuttavia che il bilancio possa e debba essere contabilmente trasparente dal punto di vista della divisione tra assistenza e previdenza, in modo da catturare ciò che è previdenza e ciò che è assistenza. Ad esempio, dire che l’Inps ha la spesa pensionistica più alta della Ue è sbagliato perché all’interno di quel 15% c’è sia assistenza (finanziata dalla fiscalità generale) che previdenza, finanziata dai contributi.

L’ex presidente, Tito Boeri, ha sollevato di nuovo il problema delle pensioni ai sindacalisti. È d’accordo con lui? Interverrete?

L’Istituto ha ribadito un concetto importante: la contribuzione aggiuntiva dei sindacalisti in distacco è valorizzata come richiede la legge solo se è fissa e continuativa. Ciò mi sembra giusto, pone fine a privilegi e allo stesso tempo non scoraggia il lavoro dei sindacati. Altre interpretazioni, propugnate dall’ex presidente Boeri, sono impossibili e i governi che si sono succeduti li hanno considerati non conformi alla normativa attuale.

Il notaio delle madamine (e di Forza Italia) ora è renziano

Maurizio Crozza sarà felice: è ritornato in campo il notaio Andrea Ganelli, oggetto, ai tempi delle manifestazioni per il Tav, di una delle sue felici imitazioni. Dopo avere tenuto a battesimo il comitato delle “madamine Sì-Tav”, il professionista, 48 anni, un’esperienza in Forza Italia (ovviamente), erede del prestigioso studio torinese del notaio Antonio Maria Marocco, ha deciso di indirizzare le sue ambizioni politiche su Matteo Renzi e Italia Viva. Tanto da organizzare un aperitivo di finanziamento dei renziani, in occasione della Lepoldina subalpina, all’hotel Principi di Piemonte, con un gruppo di professionisti, imprenditori, banchieri. Le idee di Ganelli e del sor Matteo sono simili. Entrambi sono tutto fuorché di sinistra. Se “in giro c’è ancora qualche replicante convinto che Renzi sia di sinistra”, ricordava Daniela Ranieri sul Fatto “andrebbe avvisato”. Figuriamoci il Ganelli! Uno che vuole detronizzare a tutti i costi la sindaca Chiara Appendino e che già nell’autunno 2017 chiamava a raccolta “professionisti, imprenditori, commercianti, i cosiddetti ceti produttivi”, che “devono tornare a occuparsi della cosa pubblica”. L’idea sua, oltre a quella di candidarsi a sindaco di Torino, s’incarna in una formazione della borghesia, erede di FI, che rimetta al centro interessi privati (nelle aziende, nelle banche, nella finanza), valorizzando rendita & capitale. Una sorta di rappresentanza del portafoglio, che sarà, dice il notaio, “prima che partitica, sociale ed economica, trasversale”, e “in grado di tessere la tela di una nuova generazione di borghesia illuminata”. Ganelli e soci, però, appaiono tutt’altro che illuminati. Sono gli stessi padroncini del vapore di ieri. Su Facebook, un commento sul notaio ne focalizza l’ethos: “La solita stanca, supponente litania. Il sistema Torino era fatto di connivenze a relazioni private”. Dici Ganelli, o Renzi, pertanto, per dire il mondo dei “lor signori” di ieri.

Il dispetto di Renzi alla tre giorni dem

Soltanto i colori del set sembrano “scioccanti”: sfondo giallo su cui campeggia una nuvoletta viola e la scritta “Shock!”, con tanto di punto esclamativo, simile a certi fumetti di un tempo. Matteo Renzi, ieri pomeriggio al Teatro Ragazzi di Torino davanti a circa 300 persone, con la sua grafica da supermercato annunciava le “proposte di Italia Viva per rilanciare l’economia”: un piano “shock” appunto da “120 miliardi” che sarà presentato già pronto e dettagliato il 15 gennaio a Conte. Curiosamente la kermesse renziana coincide con l’avvio della tre giorni programmatica del Pd, messa in piedi a Bologna dalla “Costituente delle idee” guidata da Gianni Cuperlo.

A Torino, davanti a Renzi, ci sono tutti i volti noti del suo partitino. C’è pure l’ex sottosegretario Cosimo Ferri che va salutare l’ex senatore Dc Ignazio Marcello Gallo, 95 anni (avvocato da 70), accompagnato da Matteo Brigandì, ex della Lega Nord e del Csm. I flash dei fotografi sono tutti per Maria Elena Boschi: “Non è una contromanovra, ma il nostro contributo per rilanciare il Paese”. Lo ripete più volte anche Renzi: “È il nostro piano shock per i prossimi anni”, perché “Italia Viva è nata per fare proposte e non per alimentare tensioni”.

Vuole parlare di progetti infrastrutturali, e a Torino questo vuol dire Tav, ma Renzi sogna l’alta velocità pure al Sud, porti e aeroporti, un piano per le periferie e anche contro il dissesto idrogeologico, tre miliardi per gli asili, due per gli ospedali e due pure per i beni culturali: “La vera sfida è sbloccare le infrastrutture. Sono soldi che ci sono già. Vanno solo rimossi da pastoie burocratiche”. Il modello è quello iper-verticistico dell’Expo di Milano col commissario Beppe Sala e i controlli dell’Anac di Raffaele Cantone: “L’obiettivo è fare viaggiare l’Italia veloce come Milano” (o come “un’ambulanza che viaggia nella corsia riservata”). Dice che presenterà il piano “casa per casa, quartiere per quartiere, associazione di categoria per associazione di categoria, sindacati, forze politiche” e poi vorrebbe che Conte facesse un decreto che fosse votato pure dall’opposizione.

Un quadro idilliaco assai lontano dalla realtà. Il solitamente mite Gianni Cuperlo, da Bologna, la mette giù dura con le uscite a favore di telecamera di Renzi e simili: “Agli alleati dico che il nostro attaccamento al Paese è profondo, ma esiste un limite entro il quale non si può essere avversari nella stessa casa L’ultimo ‘campione’ ci ha lasciato al 18% e ora ci spiega che vuole annientarci”. Via Twitter gli risponde Luciano Nobili: “È evidente che i campioni sono loro: Matteo Renzi ci ha portato al 40%, il fuoco amico della ‘Ditta’ al 18”.

Di Maio, “via dai Palazzi” per riprendersi i 5Stelle

La segreteria politica e il congresso mai e poi mai: “Chi vuole stare in un partito esca, il M5S non lo è e non lo diventerà mai”. E porte chiuse anche a un terzo mandato per i parlamentari: “Non ne abbiamo mai parlato. Anzi, mi rendo sempre più conto che la regola dei due mandati funziona, perché permette un ricambio”. Luigi Di Maio è il capo di un Movimento con l’aria stanca e tanti mal di pancia, ma non cambia rotta, riparte dalla sua riorganizzazione, dalla sua risposta a big e soldati semplici che gli chiedono di cedere potere. “Il M5S ha bisogno di maggiore collegialità, io non posso più decidere da solo e a dicembre nascerà il primo team di facilitatori” rilancia da Accordi & Disaccordi.

È stufo di molte cose, e in una diretta Facebook, appena atterrato da Washington, annuncia: “Voglio uscire da questi palazzi, non sopporto più il politichese”. E le persone a lui vicine traducono: nelle prossime settimane Di Maio sarà molto di più sui territori, come farà in questo fine settimana in Campania. Ci andrà spesso nella sua terra, perché lì vuole presentare una lista per le Regionali in primavera, più o meno come intende fare in Puglia e in Veneto. “Ma Luigi andrà un po’ dappertutto” assicurano. Per esempio il prossimo fine settimana sarà in Sicilia. Perché è convinto di doversi riprendere il Movimento anche così, con un tour da M5S vecchio stile: discutendo con gli attivisti e ascoltando gli umori della gente che spesso non capisce più cosa siano, questi Cinque Stelle. E magari pensa di poter gareggiare anche così con il Salvini che dove si vota mette la tenda.

Ma il Di Maio che si sofferma “sull’uscire dai Palazzi” si rivolge di fatto anche ai suoi. “Invece di criticare sempre fuori microfono qualcuno dovrebbe cominciare a metterci la faccia, a girare per i territori come fa Luigi” ringhia un dimaiano. Esporsi, anche altrove. Così anche un altro messaggio lanciato ieri dal ministro degli Esteri – “andrò più spesso in tv” – può essere letto come un riferimento a certi maggiorenti che da un po’ di tempo evitano le televisioni. Scelta notata dal capo politico. Quello che a certi malpancisti indica la porta: “Se continuiamo con quel linguaggio sugli organi direttivi e gli organi decisionali ci trasformiamo in un partito. Chi vuole trasformare il M5S in un partito vada in uno di quelli già esistenti o che stanno nascendo. Oggi ad esempio è il giorno di Calenda”. Però sul tappeto i problemi ci sono, è innegabile. Durante Accordi & Disaccordi gli ricordano dei gruppi parlamentari che spesso vanno in un’altra direzione e il ministro si difende così: “Non ho mai avuto il potere di imporre ai gruppi qualcosa. I capigruppo sono elettivi e sarebbe anche ora di eleggerlo alla Camera: ma io sono sempre in linea con le decisioni del gruppo”. Per lui la collegialità arriverà con la riorganizzazione.

Altro non vuole concedere. Ufficialmente neppure a Matteo Salvini. “La definizione di Cazzaro verde in questo momento storico è utile” sorride citando il titolo del libro di Andrea Scanzi. E chissà a chi si riferisce quando tiene a precisare: “Non ho mai venduto una bibita al San Paolo, ci tengo a dirlo, facevo lo steward nella tribuna autorità. Le bibite c’è chi le vende e chi abusa di quelle alcoliche…”. Era un po’ di tempo fa, e Di Maio dovrebbe governare il Paese. “Non sovraccarichiamo il voto in Emilia Romagna” prova a sostenere, mentre fa melina sulla lista a 5Stelle: “Dobbiamo decidere, ma non è uno scandalo dire che è meglio presentarsi dove siamo pronti. Però nessuno dei nostri vuole un’alleanza con il Pd”. Il partito con cui governa, per forza.

Bologna. Cosa insegna ai giallorosa quella piazza?

 

Gianfranco Pasquino
Basta che non sia solo una conta, quei giovani facciano campagna

La contrapposizione tra “sardine” e Salvini va benissimo, purché non si esaurisca in una conta dei presenti, le manifestazioni devono avere un contenuto politico. Ho assistito all’evento leghista e c’è stato un dibattito politico di qualche interesse, mi sembra che invece le “sardine” volessero soltanto contarsi. Mi piacerebbe che quelle persone avessero voglia anche di mettersi in gioco per la campagna elettorale. Di certo il Pd e i 5 Stelle hanno molto da imparare, perché è bastata una parola d’ordine precisa – in questo caso l’anti-salvinismo – a portare in piazza le persone. I 5 Stelle in passato hanno avuto queste pulsioni, ma sembrano averle perdute, il Pd non può fare la solita stanca campagna elettorale. Non basta solo coinvolgere i giovani, bisogna lasciar loro un po’ di briglie sciolte, senza troppe censure. E soprattutto si deve evitare che resti soltanto una mobilitazione bolognese: se ci si rivolge ai giovani lo si faccia anche in tutto il resto dell’Emilia, capendo quali sono i problemi in ciascuna città e cercando di dare risposte.

 

Elisabetta Gualmini 
Il Pd si ricordi l’importanza di saper stare in mezzo alla gente

Quella di piazza Maggiore è stata una marea umana incontenibile e pacifica, segno del fatto che in Emilia Romagna ci sono valori profondi e radicati che resistono, oltre che una marcata differenza tra destra e sinistra. I partiti, Pd compreso, hanno solo da imparare: il risveglio di migliaia di persone è avvenuto dal basso e con estrema semplicità, evidenziando un paradosso rispetto alla difficoltà con cui i partiti fanno uscire di casa le persone. Lo stesso Salvini ha dovuto portare a Bologna tutte le truppe cammellate, tra pullman, consiglieri, deputati e governatori. Il messaggio che non si può ignorare è l’importanza di parlare con le persone, di starci in mezzo: il Pd deve approfittare del fatto che Bonaccini lo abbia sempre fatto. Occhio però a mettere cappelli finti sulle piazze come avvenuto in passato, ad esempio coi “Friday for Future”. C’è poi da dire che molte “sardine” neanche voteranno: Bologna è da sempre città aperta e universitaria, in piazza c’erano di sicuro tanti non residenti. L’Emilia Romagna è contendibile già da un pezzo.

 

Piero Ignazi
La sinistra non disperda questa energia, diventi più fantasiosa

La cosa più interessante di due sere fa, è stato l’interscambio tra modernità e tradizione. Da una parte la Lega, con un incontro standard, con i soliti pullman di persone e tutti gli esponenti del partito. Dall’altra una piazza, prevalentemente di sinistra, che si è organizzata attraverso il passaparola e l’idea di quattro ragazzi, in maniera anche molto ironica e giocosa. Quello che deve imparare la sinistra per non disperdere queste energie è proprio cercare di essere un po’ più creativa, avere un po’ di fantasia anche in politica, promuovere iniziative di questo genere. La piazza delle sardine non va affatto sottovalutata: Bologna non è tutta l’Emilia Romagna, ma ha un potentissimo significato simbolico per la sinistra. E in questa Regione, a differenza di altri territori, è meno marcato lo scarto tra il capoluogo e le città di periferia, terreno su cui di solito è bravo a inserirsi Salvini.

 

Francesco Baccini
Le “sardine” non mollino il colpo e continuino fuori da Bologna

Conosco bene Modena e l’Emilia perché lì ci ho vissuto a lungo: ci ho registrato cinque album e da lì vengono i miei musicisti. Dunque sono legato a questa terra e per me è stata una piacevole sorpresa vedere la “piazza delle sardine”. Le cose che partono dal basso sono sempre interessanti e la manifestazione ha un significato chiaro, perché l’Italia è ormai spaccata in due tra chi è pro e chi contro Salvini e finora, grazie alla forza della pubblicità, sembrava esistesse solo la parte a favore del leghista. “Gli italiani vogliono…”, “la gente vuole”… No, un momento, non tutti. E la sinistra che conosco io dovrebbe cogliere il messaggio. Il problema è: dov’è finita la sinistra? Per parlare a questi giovani ci vorrebbe qualcuno di carismatico, che non significa “televisivo”. Berlinguer e Pertini non erano personaggi televisivi, eppure erano carismatici. Questo manca a sinistra. Ma anche i ragazzi non devono mollare il colpo, continuare su questa strada anche fuori da Bologna e cercare la cosa più importante, ovvero il collegamento tra basso e alto, tra la piazza e la politica.

 

Stefano Bonaga
È la potenza della cittadinanza, non li si tratti da bacino di voti

Giovedì sera ho visto in piazza quel che teorizzo da decenni, ovvero una necessità da parte della politica di sviluppare la potenza della cittadinanza, le sue energie inespresse. Quei ragazzi hanno detto “la politica ha bisogno di noi”, ma non come consenso elettorale, ma in quanto risorse. Ci sono parti della società che ogni giorno si occupano di anziani, disabili, migranti, senza neanche avere cittadinanza nel mondo della politica, e penso per esempio al volontariato. I 5 Stelle erano nati proprio sul coinvolgimento attivo dei cittadini, ma non ce l’hanno fatta: da quando si sono parlamentarizzati hanno un po’ abbandonato il territorio sociale, quella rete di meet up che era la loro forza. Come mai in Emilia gli standard macroeconomici sono ottimi eppure il rischio è che vinca la Lega? La gente ha bisogno di sentirsi importante. Il Pd negli anni è stato percepito solo come un fornitore di (ottimi) servizi, ma le persone si sono abituate e allora restano affascinate da chi, magari dicendo “prima gli italiani”, li fa sentire al centro.

 

Liliana Cavani
Ci speravo in una piazza così, la politica si sforzi di parlarci

Onestamente ci speravo in una piazza di giovani così. Io sono di vicino Modena e so che in tutta l’Emilia Romagna c’è una tradizione di forte democrazia che non si può intaccare, non si può mettere in discussione facilmente. Una tradizione del genere prevede sempre il dibattito, non ama i protagonismi della persona soprattutto quando eccessivi. E le piazze servono a questo, servono a capire qualcosa dei temi, a ragionare. Io dunque ci contavo, proprio per la storia di queste terre. Ora sta alla politica e ai partiti entrare in contatto nel modo giusto con queste persone. L’Emilia Romagna è una zona che prospera di piccole, medie e grandi industrie, dall’azienda del motore al farmaceutico, gente che si dà da fare e che si è rimessa subito in piedi dopo il terremoto. Per parlare a queste persone bisogna essere concreti, dare riferimenti precisi, fare proposte pratiche sul lavoro, su come migliorare la Regione. Di quelli che sanno solo vendere le cose ne sono già passati, ma gli emiliani non hanno comprato molto.

Il rimpianto dei 5 Stelle: “Beppe, te lo ricordi?”

Hanno visto tutto e sono rimasti impressionati, molto. Al punto che giovedì sera diversi parlamentari e veterani vari hanno subito scritto e inviato foto della folla al fondatore, Beppe Grillo. “Guarda che bello Beppe” hanno celebrato, innanzitutto nostalgici. Perché nelle migliaia di persone stipate a piazza Maggiore hanno rivisto le scene di qualche anno fa, quando quella piazza a Bologna la riempivano loro, i Cinque Stelle, e soprattutto lui, Grillo. Ancora prima che il Movimento prendesse forma, nel V-Day del 2007, o nel 2010, per lanciare la candidatura del neonato M5S alle Regionali proprio lì, nell’Emilia Romagna dove alle urne del 26 gennaio i grillini probabilmente neanche si presenteranno per schivare una figuraccia.

Lo issarono su un canotto trasportato dalla folla, il comico che voleva irrompere nei Palazzi e tirare giù tutto e tutti. Meno di due lustri dopo nei Palazzi a governare ci sono i Cinque Stelle, compresi quelli che tra giovedì e ieri hanno disseminato sui social foto della piazza, corredandole con commenti di stupore, soddisfazione e nostalgia, e vai capire cosa prevale. Per esempio su Facebook si è palesata Paola Taverna, entusiasta: “Chi fa l’occhiolino o va a braccetto con i fascisti e i razzisti questa sera a Bologna ha perso, e di brutto”. Il giorno dopo, mentre cerca di tornare a casa in una Roma che affoga di pioggia, al Fatto dice: “Mi è piaciuta perché era una piazza senza bandiere, un sano modo di fare politica che forse il Movimento deve ritrovare. Quella manifestazione dice qualcosa anche noi, e dobbiamo ascoltarla”. Ecco, ascoltare. Anche se il capo politico Luigi Di Maio lo ha subito messo in chiaro ieri, nell’intervista ad Accordi & Disaccordi: “Quelle persone in piazza Maggiore vanno lasciate libere, nessuno metta il cappello sulla manifestazione”. Però ci sarà un motivo, se i grillini si sono messi in fila a commentare.

Michela Montevecchi, senatrice bolognese al secondo mandato, giovedì ha scritto quasi di felicità: “Se avessi potuto sarei stata stretta con gioia in mezzo a quelle sardine, l’ironia e la conoscenza pacifica sono le armi per contrastare questo clamore dall’inquietante odore di Ventennio”. Però il M5S forse neanche farà una sua lista, e allora voi come lo contrasterete? Montevecchi riflette: “Vedremo, va ancora deciso. Di certo quella piazza mi ha ricordato quella del 2013 per le Politiche, quando stavamo tutti con l’ombrello. Ma la gente di giovedì ci ha detto che va fermata una certa deriva, e che loro ci sono, c’è una comunità che esiste”.

Lunedì mattina voi eletti emiliani incontrerete Di Maio per discutere se fare una lista: parlerete anche della folla di giovedì? “È un fatto che dobbiamo analizzare, magari dovremmo interrogarci su come tornare a riempirle noi quelle piazze… Di certo è uno stimolo, per tutta la maggioranza”. Uno stimolo, e magari un pro-memoria. Lo pensa anche un altro bolognese a 5Stelle come Max Bugani, membro dell’associazione Rousseau, ora capo staff della sindaca di Roma Virginia Raggi. Giovedì sera la piazza l’ha vista da vicino, e la commenta così: “Era meravigliosa perché spontanea e senza bandiere di partito. Quelle persone hanno dato un segnale culturale prima che politico”. Però prima piazza Maggiore l’affollavano i grillini… “Lì c’erano tanti che avevano votato per noi e che ci hanno dato un’occasione. Ma quella piazza è già più avanti dei partiti”. Sul resto, a cominciare dal tema della lista, Bugani non entra.

Però i 5Stelle devono decidere, in fretta. Con Di Maio che è sempre più orientato a non correre in Emilia Romagna. Così gli suggeriscono anche molti big, convinti che sia meglio evitare un brutto risultato (ai piani alti temono di non andare oltre il 5%) e lasciare spazio al Pd, per una silenziosa desistenza contro Salvini. E magari non solo ai dem. Perché in diversi nel Movimento guardano con curiosità alla lista civica “rossa” presentata pochi giorni fa dall’ex eurodeputata del Pd e poi dei civatiani di Possibile, Elly Schlein. E c’è chi vorrebbe proprio costruirne un’altra di lista civica, senza il simbolo del Movimento. Difficile, spiegano dai vertici. Però qualcosa si è (ri)mosso, nei 5Stelle dove un’altra veterana come Roberta Lombardi lo rilancia su Facebook: “Bologna non abbocca, caro capitone”. E sotto nella foto ci sono sempre loro, quei 15 mila che i 5Stelle lodano e rimpiangono.