Il fish-mob ora va in tour: “Suoniamo la sveglia”

Con il solo tam tam dei social, quattro sconosciuti trentenni sono riusciti a battere la costosa macchina della propaganda leghista, scippando letteralmente lo show – e le prime pagine – a Matteo Salvini. Possibile?

A Bologna sì. Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori e Giulia Trappoloni ancora non ci credono. Lanciata come una sfida civica e artistica su Facebook, sono riusciti a raccogliere (almeno) 13 mila persone in piazza Maggiore per dimostrare di essere più dei leghisti al PalaDozza. Tutti muniti di una sardina, disegnata o ritagliata, stretti stretti proprio come i pesci in scatola. “Non siamo noi i protagonisti, abbiamo intercettato un sentire che si è potuto esprimere”, spiegano.

Un “sentire” nuovo che rifiuta qualsiasi paragone: “I girotondi? Mai partecipato”. Soprattutto con il già visto: “Bella Ciao è un coro meraviglioso, ma è partito spontaneamente al termine del flash-mob, la nostra scelta è stata quella di iniziare con alcuni versi, e poi la musica, di Come è profondo il mare, una canzone scritta da un cantautore di Bologna non a caso e dedicata a noi che Bologna oggi l’abitiamo, è questa la cifra artistica della serata”.

Non “Bella Ciao”. “Ci riporta a una dinamica antica, come se Bologna contro Salvini avesse solo da offrire l’antifascismo e gli scontri, la piazza pacifica e silenziosa dell’altra sera dimostra che ci sono molte persone che rifiutano di mettere al centro la logica dello scontro, verbale o fisico, e scelgono l’arte e la non violenza. Non volevamo arrivare a quel dopo-elezioni in cui tutti si chiedono ‘come sia stato possibile’. Ecco mancano tre mesi, noi suoniamo la sveglia”.

Decine i politici locali che hanno partecipato e molti di più quelli che hanno condiviso foto dell’evento ringraziando i ragazzi. Di più, la convention bolognese del Partito democratico l’ha addirittura messa come ultima immagine del video di apertura dei lavori.

In città c’è già chi “teme” che i quattro organizzatori possano essere cooptati in una lista per le Regionali: “Non è ancora successo, ma non siamo stupidi, sappiamo che potrebbe accadere. Noi mettiamo al centro la società civile che era in piazza, la forza politica che saprà intercettare quel sentire sicuramente ci avrà tutti dalla sua parte”.

Intanto le sardine si allargano. Dopo il successo bolognese, il fish mob contro la Lega – e la sua candidata a governatrice Lucia Borgonzoni – trasloca a Modena lunedì prossimo.

Organizzato da due universitari che raccomandano di non portare bandiere di partito e associazioni, il ritrovo è in piazza Mazzini davanti alla sinagoga. Una scelta in onore della senatrice sopravvissuta ai campi di sterminio Liliana Segre: “Anche la Lega modenese in consiglio comunale ha scelto di non renderle omaggio, è tempo di reagire a questo modo di fare politica che alimenta la cattiveria delle persone. Attaccarlo sarebbe troppo facile, facciamogli sapere che l’Emilia-Romagna è un’altra cosa”.

Eppure, in questa stessa terra, cinque anni fa, il leghista Alan Fabbri, ai tempi sfidante del dem Stefano Bonaccini, prese 374.736 voti, quasi il 30% degli elettori (pochi) che votarono.

L’Istituto Cattaneo già da tempo sostiene che debba essere rivista la definizione di “roccaforte rossa”. In un’analisi del 2016 gli studiosi evidenziarono come gli elettori emiliano-romagnoli “si dimostrano sempre più mobili, disposti a cambiare schieramento e a punire gli amministratori in carica.

Una tendenza che, inevitabilmente, colpisce soprattutto il partito che elettoralmente, in regione, l’ha sempre fatta da padrone, ovvero il principale partito di centrosinistra in tutte le sue trasformazioni o configurazioni”. O come diceva Pietro Nenni “piazze piene, urne vuote”.

Il Pd si aggrappa alla piazza piena: “Quelli siamo noi”

Greta, Giulio Regeni, le donne curde, ma anche la foresta amazzonica, le manifestazioni in Cile, la caduta del Muro di Berlino, Liliana Segre (che si prende anche l’ovazione in piedi): sugli schermi di Palazzo Re Enzo, a Bologna, proprio dietro a piazza Maggiore, scorrono frammenti di un immaginario che si richiama alla sinistra che fu e – chi lo sa – a un Pd che magari sarà. I Dem si riuniscono per una tre giorni che vuole essere costituente (o meglio, ricostituente). “Tutta un’altra storia” è il titolo ambizioso della kermesse organizzata da Gianni Cuperlo. “Gli anni 20 del 2000”, il sottotitolo, che ammicca al “futuro” ma ricorda gli anni 20 del 900, quelli del fascismo.

Nonostante l’eterogeneità degli ospiti chiamati a raccolta (ieri si sono succeduti sul palco Iaia Forte e Carlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, Berenard Dika, un tempo fiore all’occhiello del renzismo e Enrico Giovannini), la sceneggiatura che dà un senso alla giornata arriva da fuori. Da quelle sardine che giovedì sera hanno riempito proprio piazza Maggiore. Manifestazione che ringalluzzisce un partito in cerca di una direzione. E dunque, eccolo lì, un dirigente dopo l’altro sul palco, a omaggiare la piazza, a ringraziarla, a cercare di appropriarsene. “C’erano anche tutti i nostri dirigenti giovedì sera. Noi abbiamo contribuito a organizzarla quella piazza”, dice Francesca Puglisi, bolognese, sottosegretario al Lavoro. E il segretario Nicola Zingaretti arrivando: “Vogliamo metterci al servizio della domanda di futuro della piazza”. Ancora oltre si spinge la ministra Paola De Micheli, secondo la quale “quella è la piazza che noi stiamo provando, con tutti i nostri limiti e il nostro orgoglio, a rappresentare”.

Una domanda, però, serpeggia pure nella platea: la protesta contro Matteo Salvini, la voglia di arginare l’avanzata della Lega, si trasformerà in voti a Stefano Bonaccini? Nelle Regionali del 2014 si toccò il record di astensione (votarono solo il 37% degli aventi diritto): il potere rosso in Emilia-Romagna per molta sinistra era e resta da combattere. “Non ci abbiamo messo il cappello appositamente giovedì sera”, racconta una storica dirigente del Pd. Perché, nonostante la voglia di appropriarsi di quella protesta, la contiguità è tutta da dimostrare. Di certo, ci prova il candidato (e governatore uscente): ieri all’incontro del Pd non si presenta. Preferisce tenere un profilo locale (anche se stasera farà una cena di finanziamento con il segretario) e nel frattempo tesse le sue tele: ad appoggiarlo ci saranno tutte le civiche possibili. Punta su quella organizzata da Elly Schlein per parlare alle “sardine”. Ma poi nelle sue liste entreranno un po’ tutti, dai renziani agli uomini di Carlo Calenda. E i 5 Stelle? A Bologna, il dibattito se è meglio che appoggino il governatore, che non si presentino proprio o facciano una civica, è aperto, mentre si aspettano le loro decisioni.

A ben guardare l’unica strategia che appare chiara resta quella di Dario Franceschini. “Sapevamo che era difficile, è difficile, ma non possiamo fermarci alle prime difficoltà, ai primi sgambetti degli alleati”. Ostenta qualche perplessità, ma interviene tra i primi per ribadire la bontà della scelta del Pd di andare al governo, per ricordare che dall’altra parte ci sono il “sovranismo” e il “populismo”, per evocare pure lo spettro del fascismo, citando Mussolini. Le camicie nere da evitare e la convinzione di stare dalla parte giusta tengono banco al Palazzo Re Enzo. E così, ancora una volta, chiarisce: “Dobbiamo aiutare l’evoluzione del M5S e provare ad allargare il campo europeista”. Il capo delegazione dem spera in una sorta di “contizzazione” del Movimento. Obiettivo numero uno: trovare il modo di continuare a governare. Il Pd, in questa fase, non è al top dei suoi interessi. E infatti si limita allo slogan di mitterrandiana memoria: “Una forza tranquilla”. Il segretario Zingaretti, sul palco, parla non più di cinque minuti. Il governo resta un incastro, rispetto al quale è difficile trovare una exit-strategy. Tra oggi e domani dovrebbe dare il via a un congresso, che ancora non è chiaro quando e come sarà. Tra i dubbi, la crisi di governo strisciante è congelata. E a chiudere la giornata sul palco sale Roberto Gualtieri: “Abbiamo trovato come eredità un Paese che stava andando a sbattere, a un passo dall’essere fuori dall’euro, che rischiava di incamminarsi su una deriva pericolosa”, Applausi. Poche, consolanti, certezze.

Le sardine e i tonni

Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa: sono i quattro amici trentenni che a Bologna hanno guastato la festa a Salvini col flash mob delle “Sardine”, organizzato in una settimana su Facebook senza spendere un euro: 12-13mila persone in piazza Maggiore, “sardine” perché stanno insieme, strette strette, anche se “non abboccano” al Cazzaro Verde. Il quale, col suo poderoso apparato mediatico e finanziario (strano: la Lega ha i conti sequestrati), ha affittato il Paladozza con 5mila seguaci cammellati perché “noi siamo l’Italia del popolo e delle piazze e gli altri quella del palazzo”. Bene: gli altri erano il doppio dei suoi e “l’Italia del palazzo”, per una sera, era la sua. La prova di forza s’è tramutata in prova di debolezza, anche se le piazze non sono le urne e Bologna non è l’Emilia né la Romagna. Ma il segnale c’è stato, forte e utile per una politica che vive ormai solo di emozioni e di attimi.

Quattro cittadini, invece di imprecare al destino cinico e baro che di questo passo ci regalerà Salvini alla Regione Emilia Romagna (travestito da Lucia Borgonzoni) e poi Palazzo Chigi (in carne e ossa), si sono rimboccati le maniche. E hanno fatto il miracolo. Con due armi infallibili. La prima è la distanza dai partiti: mentre Zinga e Bonaccini tentavano di appropriarsi della piazza piena, lì sfilava lo striscione “Lega e Pd due facce della stessa medaglia”. La seconda è l’ironia, di cui il Cazzaro, gonfio d’aria come la rana della fiaba, è totalmente sprovvisto. Come pure i suoi avversari, che continuano a prenderlo terribilmente sul serio. Invece, per sgonfiare i palloni gonfiati, basta uno spillo. L’avevano già capito in primavera i giovani e meno giovani del Sud che accoglievano con striscioni spiritosi sui balconi delle case il tour da spiaggia dell’allora ministro dell’Interno. È lo stesso spirito spontaneo, apartitico e scanzonato ma non per questo meno “politico”, dei Girotondi del 2002. E poi dei V-Day di Grillo e Casaleggio nel 2007-2008, il primo proprio in piazza Maggiore. Grillo ci tornò nel 2010 gettandosi sulla folla col canotto arancione, mentre presentava i candidati 5Stelle alle loro prime Regionali. Pare passato un secolo: infatti il M5S, lì e non solo lì, non presenterà la lista. Un gesto che sarebbe giusto se fosse il frutto di una scelta di desistenza e resistenza, non di marasma e paura. Ma, liste o non liste, il problema dei 5 Stelle e del Pd è tornare a parlare a quella piazza senza metterci il cappello. E chissà che la soluzione non sia quella di confessare di non avere una soluzione in tasca per tutto, come ha fatto onestamente Conte a Taranto. Parlare meno, ascoltare di più.

Anselmo, l’arte e la tensione verso l’infinito

Il nesso tra l’energia e l’universo. L’instabile e forse possibile equilibrio tra uomo e natura. Un pensiero tanto remoto e centrale che rende questo evento, la mostra personale a Roma di Giovanni Anselmo (Borgofranco d’Ivrea, 1934), cruciale e intenso protagonista dell’Arte Povera tanto unico quanto attuale, nella direzione anche dei temi ambientali, cui lui si dedica sin dal lontano 1965.

Esattamente all’alba del 16 agosto di quell’anno, sulla cima del vulcano di Stromboli, quando si accorge che la sua ombra si dissolve, proiettata nell’alto dello spazio, tra fuoco, acqua, terra e aria. Da allora tutta la sua opera è costituita da materiali in alternanza tra leggerezza e solidità, da circoscritte e illuminanti fotografie, proiezioni e pesanti pietre in tensione: opere come quesiti fondanti dell’esistenza cui solo l’energia e l’equilibrio tentano di dare soluzione. Curiosamente, o proprio per quelle coincidenze che paiono appartenere anche al carattere di Anselmo, non troviamo la mostra in uno dei numerosi, talvolta sterili, contenitori museali, bensì all’interno di Palazzo Carpegna, sede della prestigiosa Accademia di San Luca, luogo prezioso in cui l’artista ha creato un suo percorso, scegliendo i punti, i muri e gli spazi per 27 opere tra le più significative di tutta la sua produzione. Ed è così che la sua complessità si dipana in un itinerario che lascia senza fiato. A partire da quella immensa foto, del 1971, Entrare nell’opera, che dà il titolo all’intera mostra, nella quale lo stesso artista corre immerso in un grigio scenario naturale, diventando un punto nell’immensità terrestre. Dopo l’intensità delle opere all’interno, Anselmo estende i 20 blocchi di pietra di Dove le stelle si avvicinano di una spanna in più (2001-2019) riempiendo il cortile, avvolgendo la fontana seicentesca, arrivando a lambire la Fontana di Trevi. Avvicinandosi a Bernini, si confronta anche con Borromini, autore della magnifica scala circolare del Palazzo, che accoglie le 20 piccole fotografie in bianco e nero di Interferenza nella gravitazione universale scattate nel 1969, “volendo seguire il sole”. Una languida camminata di cento metri, qui visibile scendendo e salendo, che si trasforma nella manifestazione di un’energia intercettata da una precisa volontà umana. Sotto la scala l’opera più impalpabile e più nota: Particolare del ’72. Un dispositivo luminoso, proiettato, che si aggiorna, diventando sempre nuovo, leggibile su corpi e pareti: una convalida della visione della realtà fisica in cui viviamo, spostandoci all’infinito. Una mostra densa e immensa, un dono da parte di un artista profondo e internazionale: da non perdere, nell’eterno perdersi capitolino.

 

Giovanni Anselmo – Entrare nell’opera

Fino al 31.1 – Palazzo Carpegna, Roma

Babbo Natale, lo spazzino di desideri da riciclare

Babbo Natale, si sa, è un lavoratore stagionale e giustamente si gode i suoi mesi di ferie standosene in panciolle con l’eterna promessa di una dieta che non arriva mai. Ma cosa succede quando il progresso irrompe nella sua vita? Il Super Direttore delle Poste Internazionali decide che per consegnare i doni ai bambini – solo quelli “concreti”, le letterine che richiedono la pace nel mondo vengono frettolosamente cestinate – bastano i droni: quell’anziano signore vestito di rosso, seppur con le sue renne volanti, non sarà mai in grado di competere con la velocità dei robot. Quindi, Babbo Natale è licenziato e, come un comune mortale, gli serve un lavoro. Ma che altro può fare? Il cameriere no, serve bella presenza. Al call center figuriamoci: “Non posso imporre un desiderio”. E quindi? Il netturbino addetto alla raccolta differenziata, assieme alla collega Befana (quella che ha sempre le scarpe rotte). E chissà se dal loro sodalizio non possano nascere nuovi desideri. Il secondo lavoro di Babbo Natale è una bella favola di Michele D’Ignazio, con le notevoli illustrazioni di Sergio Olivotti, che offre ai bambini uno sguardo leggero e ironico su temi di attualità come il lavoro e l’ambientalismo. Senza alcun giudizio morale sul progresso disumanizzante, quando si chiude l’ultima pagina persino all’adulto viene però la nostalgia delle letterine di Natale piene di desideri. Perché no, anche irrealizzabili.

 

Il secondo lavoro di Babbo Natale

Michele D’Ignazio

Pagine: 88

Prezzo: 15

Editore: Rizzoli

Il caso Giangioff: ora i nuovi autori di graphic novel partono da Instagram

C’è una nuova generazione di fumettisti ventenni che si sta imponendo con sorprendente rapidità, anche perché i social network consentono di costruire una specie di alleanza tra gli ultimi arrivati che aumenta l’impatto: da Zuzu a Fumettibrutti e, ora, Giangioff. Usano nomi d’arte da post-adolescenti (forse imitando quelli del giro precedente, i Gipi e gli Zerocalcare) e soprattutto usano Instagram. Gianluca Giovanni, Giangioff, 22 anni, si è fatto conoscere così e ora arriva in libreria con un graphic novel che, infatti, parla di un artista da social che cerca successo ed equilibrio anche nel mondo reale. Il futuro nei denti è il primo titolo di una nuova etichetta dell’editore Shockdom: Fumetti di cane, libri ad alto impatto disegnati in modo non convenzionale, che privilegiano l’urgenza della comunicazione sul cesello del dettaglio.

Come opera prima, non è niente male, anche se tutto sembra un po’ già visto: un po’ del primo Gipi, un po’ del minimalismo di Noah von Scrier, un struttura narrativa semplice, senza asperità, fino a un colpo di scena finale imprevedibile, ma necessario per dare un senso a una traiettoria troppo lineare. Un adolescente pieno di problemi come tutti gli adolescenti trova una ragazza e scopre che può cantare e suonare anche davanti a un pubblico, nonostante una famiglia incasinata e varie paranoie. Nei suoi disegni su Instagram Giangioff alterna guizzi di genio, banalità da Baci Perugina (perfette però per i social) e altre tavole più lavorate, surreali, che ricordano certi deliri di Andrea Pazienza. Nel suo primo graphic novel, Giangioff ha scelto di stare sul minimo comune denominatore dei suoi diversi registri. Col tempo troverà una sua voce più netta e specifica, i mezzi per riuscirci li ha tutti.

 

Il futuro nei denti

Giangioff

Pagine: 112

Prezzo: 10

Editore: Fumetti di cane – Shockdom

 

Ciò che è reale non è ciò che è vero: Caronte è un sicario dalle mille maschere

Ci sono trame che scorrono come fiumi sotterranei e invisibili sotto le nostre vite quotidiane, nell’eterna rincorsa tra la banalità e la sorpresa (giusto per citare Borges). Trame che poi irrompono nella realtà una volta disvelate da un trauma apocalittico dei nostri tempi, tipo un attentato dei terroristi islamici. E così il complottismo da entità metafisica si trasfigura in corpi di uomini e donne misteriosi, dalle mille vite. Chi sono? Persone che in apparenza svolgono lavori normali ma che nascondono abissi di segreti indicibili. Ecco, questo è il crinale dal fascino criminale su cui si muove Il signore delle maschere, titolo del thriller di Patrick Fogli, premio Scerbanenco l’anno scorso per A chi appartiene la notte.

Il signore delle maschere si chiama Caronte e nessuno lo conosce. Va da una parte all’altra del pianeta e la scena iniziale lo vede in Vaticano, travestito da prete per uccidere il papa, provocandogli un attacco cardiaco nel sonno. Il mandante è un cardinale che poi sarà eletto nuovo pontefice nel Conclave. Per imitare il Caronte traghettatore che chiede un obolo alle anime, l’uomo lascia una moneta accanto alle vittime per firmare le sue “opere”. Fogli costruisce una trama complessa dove pagina dopo pagina il lettore insegue Caronte fra una trattativa con il cartello dei narcos messicani e una donazione per beneficenza. Sempre con la maschera giusta. In parallelo, visto che parliamo di fiumi invisibili, c’è Laura che poi è Arianna e che fa parte di un’organizzazione segreta che cambia la vita alle persone. Il romanzo è una convergenza ad alto ritmo tre i tormenti di Laura e i piani di Caronte. Per distinguere ciò che è vero da ciò che è reale.

 

Il signore delle maschere

Patrick Fogli

Pagine: 345

Prezzo: 19

Editore: Mondadori

Carofiglio, come narrare l’uomo dietro a un giallo

L’avvocato Guerrieri è tornato, e in assoluto già questa è una buona notizia per chi ama il personaggio creato da Gianrico Carofiglio; se poi vogliamo inserirla nell’attuale contesto socio-culturale, la notizia stessa acquista un valore aggiunto pari al sole quando è annunciata pioggia.

Guerrieri è uomo di riflessione, quasi indolente all’azione tout court, tipica degli avvocati-investigatori-letterari atti alla perenne ricerca del clamore per tener viva la narrazione, quando gli scrittori testosteronici cercano a ogni costo l’ohhhh di chi legge per calibrare la loro bravura.

Carofiglio no.

Nei suoi protagonisti non ci sono rapporti sessuali estremi e ripetuti, storie d’amore salvifiche per sedurre le lettrici donne (la stragrande maggioranza); non si trova nessun perenne desiderio di fuga o di autodistruzione o l’assenza di sapone (il “lurido” per alcuni fa figo).

Lo scrittore barese costruisce i romanzi con calma e attenzione matematiche, equazioni di logica dove non sono ammesse variabili ipotetiche o poco plausibili, forzature mascherate da licenze poetiche, o stratagemmi imbarazzanti; e indirettamente lo svela in poche righe iniziali, e per bocca del suo avvocato:

“Il disappunto personale è uno dei tanti dettagli. E i dettagli non sono importanti.

Non è vero, i dettagli sono importanti. Ma questo non lo dissi”.

La misura del tempo è esattamente così, dettagliato, sia nella vicenda che nell’iter processuale senza lasciare da parte la possibilità di avvertire l’odore dei suoi personaggi, valutarne lo spessore psicologico e l’evoluzione personale, soppesarne il peso delle scelte, azione-conseguenza, con un’andatura costante simile allo sviluppo dei romanzi di George Simenon.

Inoltre Carofiglio sta unendo la sua capacità di letterato alla narrazione televisiva: quando l’avvocato Guerrieri parla e soprattutto riflette, ogni tanto si ha la sensazione di ascoltare lo stesso scrittore durante una delle sue ospitate televisive, magari dalla Gruber: i tempi sono simili, i modi anche, la non banalità, la preparazione rispetto agli argomenti trattati, l’analisi e la capacità di proiettarsi oltre il sipario della vita, di amplificare quelle righe verso un orizzonte altro, dalla società alla politica, magari a Matteo Salvini e ai suoi simili: “Ecco. Teste inattendibile. Le avevo suggerito io di usare la parola ‘inattendibile’ per riferirsi a sé stessa. Dare a sé stessi un’etichetta che corrisponda alle opinioni negative o alle paure che suscitiamo negli altri, aiuta – può aiutare – a disinnescare le implicazioni sfavorevoli”.

E ancora il piacere delle citazioni, e l’autoironia rispetto alle citazioni stesse.

“Sei la signora della coerenza. È per questo che sei la mia fidanzata, ma anche la mia non-fidanzata. Scott Fitzgerald diceva che la capacità di pensare contemporaneamente due cose contraddittorie è il principale indizio di intelligenza”.

“Ti ho mai detto che le tue citazioni sono un po’ fastidiose?”

“Mi sembra di sì”.

Alla fine la soluzione al giallo c’è, il quadro diventa chiaro, e lo stupore è di chiudere l’ultima pagina senza la reale necessità di dover capire il dove, il come e il quando, ma solo per il piacere di aver ammirato un quadro in ogni suo dettaglio.

 

La misura del tempo

Gianrico Carofiglio

Pagine: 281

Prezzo: 18

Editore Einaudi

L’intrigo è sempre regale e “The Crown” scandalosa: nel 2020 arriva pure Lady D

È l’autunno dei reali. Il 1° novembre è arrivata su Sky Atlantic Caterina La Grande, con Helen Mirren nei panni della sovrana russa del Settecento. Lo stesso giorno Netflix ha lanciato Il re, il film su Enrico V ispirato alla tragedia di Shakespeare. E ora, sempre su Netflix, torna la serie royal più seguita: The Crown (da domenica).

La terza stagione segna una svolta importante: le puntate diventano “verticali”, ma soprattutto il cast è completamente rinnovato per seguire l’invecchiamento dei protagonisti. Al posto di Clare Foy, la regina Elisabetta II da giovane, adesso c’è Olivia Colman, premio Oscar per La Favorita.

La serie inizia nel 1964, l’anno in cui i Laburisti vincono le elezioni e Harold Wilson entra a Buckingham Palace, e arriva fino al 1977. È un periodo complicato per il Regno Unito, che deve fare i conti con il deficit e gli scioperi, il terrorismo dell’Ira e il ridimensionamento del suo ruolo sullo scacchiere mondiale. Elisabetta è ovviamente protagonista di queste vicende e la promessa di The Crown rimane la stessa delle stagioni precedenti: seguimi e ti consentirò di spiare lei e le altre teste coronate dal buco della serratura (che poi si tratti dei reali di ieri, e non di quelli di oggi, è solo un dettaglio). Come ha spiegato lo showrunner Peter Morgan, la serie è basata su fatti e personaggi reali ma non ha pretese di verità storica.

Ecco allora che il viaggio all’estero di Elisabetta con Lord Porchester assume i contorni della fuga d’amore (i giornali inglesi hanno già gridato allo scandalo). La principessa Margaret, interpretata da Helena Bonham Carter, prosegue lungo la sua strada di perdizione, mentre si affacciano sulla scena i figli della regina. Carlo e Anna sono al centro di un singolare quadrilatero amoroso che comprende anche Camilla Shand e il suo futuro marito Andrew Parker Bowles, che a sua volta ha una relazione con la principessina. Ce n’è abbastanza per scatenare il gossip e invitare al binge watching, soprattutto pensando che nella quarta stagione, già in lavorazione e attesa per l’autunno 2020, farà il suo ingresso Lady Diana.

 

Altro che “Delusio”: è poesia (tedesca)

Uno spettacolo senza parole da lasciare senza parole: vien da credere che la poesia l’abbiano inventata i tedeschi, almeno quelli di Familie Flöz, in tour in Italia con uno dei loro classici, Teatro Delusio, già acclamato e blasonato.

La compagnia, nata nel 1994 a Essen, replica ormai in tutto il mondo (almeno in 43 Paesi e oltre 2.500 date): riduttivo sarebbe ascrivere la sua poetica al “teatro di figura” perché gli interpreti danno sfoggio anche di grandi doti attoriali, musicali e illusionistiche. Ad esempio, i performer di Teatro Delusio – Andres Angulo, Johannes Stubenvoll e Thomas van Ouwerkerk – animano in tre 29 personaggi, grazie alle maschere strepitose di Hajo Schüler, ma sono pure ottimi burattinai e musicisti, in grado di dar vita ai fantocci e far risuonare le scope come contrabbassi.

Diretta da Michael Vogel, la pièce ha per protagonisti tre tecnici di scena: Bob, macho e rissoso; Bernd, uno spilungone sensibilone, che soffre di vertigini e ha per amico un gatto (o un topo, o un castoro, a seconda della sensibilità di chi guarda); Ivan, il capo macchinista, che in camerino cucina spaghetti, colleziona amuleti e ascolta le radiocronache calcistiche. C’è vita fuoriscena: il palco, infatti, è il backstage, il dietro le quinte, mentre oltre la parete di fondo, nascosta alla vista del pubblico, vanno in scena le recite, i balletti, i concerti, le comiche…

Quello che si vede è il prima, o il dopo, o il durante, la grande magia, perché la grande magia è sempre occultata laggiù in fondo, chissà dove. Tra finte porte, bauli, botole e cavi elettrici, si agita un microcosmo febbricitante e buffo: un ensemble di improbabili orchestrali – su tutti, l’irresistibile violinista centenario –; un direttore scapigliato; un regista dinoccolato e snob con sciarpa al seguito; imparruccati cantanti d’opera; parrucchiere e signore delle pulizie; un coreografo-vampiro che palpeggia le ballerine; moschettieri; sparatorie; morti e feriti; amori e dolori. La delusio vien per tutti: a uno muore il gatto (o il topo, o il castoro); un altro s’innamora di una ballerina, non corrisposto; a un terzo fregano l’amante e a un quarto i figli in culla; l’ultimo, infine, non ottiene neanche una particina in commedia.

Rarefatto, poetico, magnetico, Teatro Delusio non manca di pensosità: con andamento circolare, confonde i piani tra finzione e realtà, fronte e retro, scena e fuoriscena, deflagrando in un finale geniale. Tra il pubblico c’è chi ride, è vero, ma a casa ci si porta soprattutto una malinconia impalpabile, una pioggerellina emotiva, eppur struggente: Familie Flöz ha appena dimostrato che il meglio è sempre altrove, la grande magia non si vede, gli applausi e le rose sono lontani, riservati ad altri sconosciuti, mentre chi è in platea ha vissuto solo in un sogno, in una menzogna, accompagnato da una donna-fantasma che gioca con l’elettricità e fa accendere o spegnere la recita a suo piacimento. O forse la grande magia non si vede perché accade e basta.

 

Roma, Sala Umberto, fino a domenica; poi in tournée fino a febbraio 2020 a Livorno, Modena, Genova, Solomeo (Pg), Certaldo (Fi)

Teatro Delusio

Familie Flöz

Sala Umberto (Roma)