Damien Chazelle si dà al jazz (in attesa di “Babylon”)

A tre anni dal successo planetario di La La Land Damien Chazelle dirigerà ancora Emma Stone – affiancata per l’occasione da Brad Pitt – in Babylon, il suo quinto lungometraggio ambientato nella Golden Age di Hollywood, gli anni 20, durante la transizione dal muto al sonoro. La storia vedrà in scena personaggi reali come la cantante jazz Clara Bow (Stone), sex symbol degli anni ruggenti che per prima salì in vetta al box office, e altri di fantasia come l’attore John Gilbert (Pitt), che non riesce a sfondare nel cinema sonoro. Il 34enne regista premio Oscar dirigerà il suo kolossal l’anno prossimo per la Paramount, ma intanto ribadisce il suo amore per la musica dirigendo per Netflix la serie tv The Eddy. È ambientata in Francia e ha come protagonista André Holland (Moonlight) nel ruolo di un ex pianista di jazz proprietario di un club di Parigi che vive senza ambizioni nel ricordo di una grandezza lontana e conduce una travagliata relazione con una cantante.

Il romanzo noir di Giorgio Faletti Appunti di un venditore di donne diventa un film grazie al regista Fabio Resinaro (Mine, Dolceroma), alla Eliseo Cinema di Luca Barbareschi e a Rai Cinema che ne stanno realizzando a Milano una trasposizione intitolata Il venditore di donne interpretata da Miriam Dalmazio, Mario Sgueglia, Libero Di Rienzo, Paolo Rossi, Michele Placido, Francesco Montanari e Antonio Gerardi. Ambientata nel 1978 nella “Milano da bere” ha come protagonista Bravo (Mario Squeglia), un sedicente imprenditore molto abile nella gestione di un giro di prostituzione che vive tra locali di lusso, discoteche e bische in compagnia dell’amico Daytona (Paolo Rossi). La sua vita sarà però sconvolta dall’arrivo di Carla (Miriam Dalmazio) che risveglierà in lui sensazioni da tempo dimenticate. Una notte molto movimentata all’esterno di una bisca cambierà tutto.

Elsa e Anna hanno imparato a stare al mondo

Nel 2013 l’originale Frozen, a fronte di un budget di sola produzione di 150 milioni, incassò un miliardo e 274 milioni di dollari in tutto il mondo, e come non dargli seguito? Eccolo sei anni più tardi, Il segreto di Arendelle, ancora per la regia a quattr’occhi di Jennifer Lee, che nel frattempo è succeduta a John Lasseter a capo dell’animazione Disney, e Chris Buck.

Le sorelle Elsa (voce di Serena Autieri) e Anna (Serena Rossi) sono cresciute, ma la prima sente un misterioso richiamo che la induce – mobilità ed eroismo coincidono, secondo il semiologo Jurij M. Lotman – a travalicare i confini di Arendelle e darsi un perché tra foreste incantate e mari oscuri.

Precettati anche il montanaro Kristoff, il pupazzo Olaf e la renna Sven, questo che per Buck è assimilabile al “secondo atto di un musical di Broadway” matura insieme alla Regina Elsa, travasa su schermo i riti di passaggio, le perversioni polimorfe e, appunto, la dimensione eroica delle fiabe e della mitologia e fa dannatamente sul serio. Almeno, più di quanto sarebbe lecito aspettarsi da una macchina produttiva così immane, da un prodotto audiovisivo per cui il risultato in sala è solo uno dei fattori da considerare, e nondimeno senza inficiare la propria appetibilità primaria: soddisfare i piccini – test superato – e i loro accompagnatori – idem.

Certo, ci sono creature come la salamandra infuocata e pure il cavallo d’acqua create ad hoc per il merchandising e, certo, ci sono snodi troppo svelti e digressioni farraginose, ma che un’animazione Disney affibbi al nonno delle protagoniste, per di più due orfanelle, la responsabilità morale e materiale di un genocidio è qualcosa di inedito, se non di inaudito. E che dire del terrorismo, stemperato nemmeno troppo dal prefisso eco-, cui si risolve l’indomita Anna distruggendo una diga? Sì, Greta Thunberg potrebbe solo scioglierle le trecce.

Mentre Frozen 2 perfeziona girl power, women’s empowerment e autodeterminazione femminile – tolleranza, ambientalismo e solidarietà a far da correlati – con la pervicacia del pamphlet e l’assertività del saggio, la Casa di Topolino si risolve a illustrarlo con un gusto – e un coraggio – che le mancava da tempo: “la discesa agli inferi” di Elsa, le sequenze notturne al mare, i giganti dormienti avvincono per il tratto adulto, la pretesa artistica, il retaggio orientale. Jennifer Lee aveva in camera il poster di Cenerentola, i suoi figli quello del miyazakiano Totoro, che bambini e ragazzini oggi optino per Frozen non è una bestemmia, anzi: piccole donne, Elsa e Anna, crescono, e gli spettatori con loro, tra una sorellanza da lodare e una familiarità, ehm, criminale.

Sui titoli di coda Giuliano Sangiorgi canta Nell’ignoto: invero, poteva fare da sottotitolo a Frozen 2, giacché Disney una volta tanto c’ha preso gusto e s’è presa il rischio di andare a vedere. Che c’è oltre le Colonne d’Ercole delle solite animazioni? Dal 27 novembre in sala.

 

La massaia non è ancora morta

“Da bambina la massaia era polverosa e sonnolenta. La madre s’era dimenticata di educarla e ora gliene serbava rancore”. Aspra critica sociale, limiti alle libertà della donna, rapporto tra madre e figlia: c’è tutto in questo incipit di Nascita e morte della massaia, il libro maledetto e crudele di Paola Masino. Uscito a puntate sulla rivista di Mondadori Tempo illustrato, tra il 1941 e il 1942, e poi in volume per la prima volta qualche anno dopo per Bompiani, il romanzo, che dovrebbe raccontare la trasformazione (fallita) di una bambina in moglie e in donna di casa, ma che in realtà parla di molto altro, è ripubblicato oggi da Feltrinelli nella collana Narratori.

Paola Masino nasce a Pisa nel 1908, l’anno del terremoto di Messina, madre aristocratica e padre funzionario, si trasferisce Roma con la famiglia pochi anni dopo. È adolescente quando con il padre raggiunge Pirandello nel foyer del Teatro Argentina per sottoporgli un suo scritto. Comincia così uno dei legami fondamentali della sua vita che le aprirà le porte dell’intellighenzia dell’epoca. Non è neppure maggiorenne quando si innamora di Massimo Bontempelli e la loro relazione, lo scrittore è sposato e ha 30 anni più di lei, dà scandalo ed è osteggiata, invano, dalla famiglia. Tra il 1931 e il 1938 scrive molto fra racconti e romanzi e nel 1933 con Periferia, arriva seconda al Premio Viareggio. La sua scrittura, e soprattutto il suo sguardo feroce sulla maternità e sulla famiglia, non piace al regime fascista che comincia blandamente a tenerla sotto controllo. Masino inizia a scrivere la Massaia nel 1938. In quell’anno è a Venezia dove il suo compagno Bontempelli si trova in confino politico per ordine del regime fascista, dopo essere stato espulso dal partito. “Quando abitavo a Venezia ero capace di nascondere una briciola sotto a un mobile – racconta la scrittrice in un’intervista – e chiedere alla domestica di riportarmela. Era diventata una ben strana malattia. Allora Bontempelli mi disse ‘Fanne un libro’ e io gli risposi ‘Guarda che se lo scrivo io la massaia non la faccio più, è come psicoanalizzarmi’”. Inizia come una cura il travaglio che la porterà a scrivere il romanzo più importante della sua vita, un romanzo che è insieme testamento letterario della sua autrice e testimone per almeno quattro generazioni di donne.

Ma Nascita e morte della massaia non ha una storia facile. Intanto, non piace molto al regime fascista che in questa storia di donna inadatta – nel senso che a nulla si adatta: non alla casa, non alla coppia, non alla famiglia – ci affonda le mani tagliando e rivedendo quasi 100 pagine, fra censure politiche e morali. Via tutti i richiami all’Italia, al fascismo, via le citazioni dell’Antico Testamento, via le immagini feroci sulla maternità e i passaggi in cui la virilità degli uomini viene messa in dubbio. La versione così martoriata, però, non uscirà mai perché le copie vengono distrutte da un bombardamento, ma traccia della censura resta anche nelle edizioni successive. Bompiani infatti, racconta: “Paola tentò di riportarla alla prima lezione: lo ha fatto ma non del tutto, forse perché nella sua subcoscienza letteraria ha avvertito che qualche assurdo in più si intonava ‘saporitamente’ con le altre assurdità di questo ritratto di donna”. E “qualche assurdo” è dire poco.

Masino mette giù una figura femminile come non se ne erano viste prima, e come non se ne vedranno per almeno altri 40 anni dopo di lei. E non a caso quando il libro è ancora solo un’idea, Masino scrive così alla madre: “Se Dio m’assiste la mia Vita di Massaia darà anche un colpettino nella schiena alle care consuetudini familiari, alla schiavitù della donna, al luogo comune di buona padrona di casa”, lasciando intendere il senso della sua scrittura.

E infatti dentro la Massaia ci sono tutte le questioni del femminismo del secolo scorso e di questo: dalla libertà di rifiutare l’idea di maternità come completamento della donna, al rapporto fra identità privata e pubblica. L’unica cosa che manca è il lato rassicurante che l’idea di massaia dovrebbe portare con sé. Di rassicurante in Nascita e morte non c’è nulla, ma del resto l’intero libro origina da un’ossessione, quella della sua autrice. Le lettere che Paola Masino manda alla famiglia durante la stesura sono un’alternanza di preoccupazioni. Quelle per il romanzo che non riesce a venire fuori, ogni scusa è buona per mollare la scrittura in un crescendo di sensi di colpa, e quelle per la casa che non è mai abbastanza pulita e ordinata.

Eppure senza la malattia della casa non ci sarebbe neppure il libro: “Massimo continua a dire che se scrivo il romanzo della Massaia questo abbattimento mi passa” racconta in una lettera alla madre. Alla fine Masino il romanzo lo scrive e lo consegna nel 1941, ma di guarigione nessuna traccia, tanto che al giornalista che 40 anni dopo la vuole intervistare Paola risponde così: “Venga alle 6 e mezza troverà una casa lurida. La massaia è morta”. A noi però rimane un libro incredibile, moderno nella lingua, nella costruzione e nei tormenti che racconta e anticipa. L’ultimo libro di Paola Masino che dopo non ne scriverà più, perché come dice lei stessa in una delle ultime interviste: “non capivo più il mondo, non sapevo più a chi parlare. A un certo punto della mia vita io sono morta, per vivere ci vuole un punto di accomodamento: io non l’ho trovato”.

Trump: “Una indagine che non esiste”

Visto dalla Casa Bianca: “Gente normale avrebbe già chiuso il caso”, twitta il presidente Donald Trump. Visto dalla Camera, sul Campidoglio: “Se non è una condotta da impeachment questa, che cosa lo è?”, s’interroga retoricamente il presidente della Commissione Intelligence Adam Schiff. La prima giornata d’udienze pubbliche nell’inchiesta per l’impeachment di Trump lascia l’America sospesa tra la delusione – “Tutto qui?” – e l’attesa: i due primi testi, Bill Taylor e George Kent, entrambi diplomatici, hanno sostanzialmente confermato cose già dette a porte chiuse; ma, adesso, si guarda già alla ‘teste star’, Marie Yovanovitch, l’ambasciatrice a Kiev rimossa perché non accettava il quid pro quo tra Usa e Ucraina, lo sblocco degli aiuti militari in cambio dell’apertura di un’indagine per corruzione sui Biden, Joe, il padre, ex vice di Barack Obama, aspirante alla nomination democratica per Usa 2020, e Hunter, il figlio, nel board della società energetica ucraina Burisma. Trump minimizza, come spesso fa, e bara: sostiene di non avere visto nemmeno un minuto dell’udienza; dice di non ricordare le circostanze per lui imbarazzanti evocate; e delegittima i testimoni, due funzionari che insieme fanno 70 anni di carriera e di esperienza: “Se ne sono rimasti lì immobili, lo sguardo assente, e in silenzio, incapaci di rispondere”.

Un esercizio già tentato dai repubblicani in Commissione, descrivendo Taylor e Kent come “burocrati politicizzati”. Pelosi, dal canto suo, enfatizza: “È stato un grande giorno per la verità … È stato dimostrato che c’è stato un abuso di potere da parte del presidente. Peggio che Nixon”. Fosse proprio vero, l’inchiesta sarebbe già finita. Archiviata con un voto la disputa tra democratici e repubblicani sulla convocazione della talpa, l’agente della Cia che ha innescato il caso con la sua denuncia – non dovrà testimoniare e il suo anonimato sarà preservato – resta in sospeso la pubblicazione del contenuto della prima telefonata tra Trump e Zelensky, avvenuta il giorno stesso dell’elezione del presidente ucraino, il 21 aprile. I media tentano un punto della situazione, prima che la sfilata dei testimoni vada avanti – si prevede – almeno una decina di giorni: ci sono punti interrogativi, cui dovrà dare una risposta la magistratura, specie sulle deposizioni di John Bolton, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale, e Mick Mulvaney, l’attuale capo dello staff della Casa Bianca; e sarà pure chiamato a deporre il collaboratore di Taylor che avrebbe ascoltato – s’è saputo mercoledì – un colloquio di Trump col rappresentante degli Usa presso l’Ue Gordon Sondland. Al termine, Sondland gli avrebbe detto che “l’indagine sui Biden era quel che più importava al presidente” sul sul fronte Ucraina. L’impeachment non è l’unica grana giudiziaria di Trump, anche se è certo potenzialmente la più esplosiva. Il suo legale, Jay Sekulow, ha annunciato che porterà alla Corte Suprema il contenzioso sui documenti finanziari e fiscali del magnate e showman, dopo una Corte d’appello federale ha confermato i verdetti già emessi a due riprese da tribunali federali. La Camera gli chiede la documentazione di otto anni, i giudici dicono che deve consegnarli, ma lui, che non ha mai reso pubblica la sua dichiarazione fiscale, si rifiuta di farlo e punta sulla condiscendenza della Corte Suprema a maggioranza conservatrice.

L’ultima carta del Papa: padre gesuita ministro dell’Economia

Il gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio ha nominato il gesuita spagnolo Juan Antonio Guerrero Alves (in foto) prefetto della segreteria per l’Economia, il ministero lasciato vacante dal cardinale George Pell, condannato in Australia per abusi sessuali su minori. Padre Juan Antonio, legato al superiore generale della Compagnia di Gesù, Arturo Sosa, non riceve il grado di vescovo. Questa notizia ha un doppio significato. Il primo: Francesco ha sbagliato più volte la selezione della “classe dirigente” del suo pontificato, stavolta attinge da un serbatoio di sicura lealtà. E questo avviene durante una feroce tensione tra le strutture della Sante Sede che gestiscono denaro e mattoni, come l’Istituto per le Opere religiose (Ior), la Segreteria di Stato, l’amministrazione per il patrimonio apostolico (Apsa). Per sottrarre il pontificato agli scandali – come l’acquisto del palazzo a Londra – che allontano ancora di più i fedeli già in fuga soprattutto in Europa, Francesco si rivolge al gruppo che gli è più vicino per spirito e pensiero: i gesuiti. È l’ultimo tentativo.

Il secondo: il Papa riavvia la Segreteria per l’Economia nel momento in cui si appresta a varare la riforma della Curia, che fu presentata, cinque anni fa, proprio con la Segreteria per l’Economia. Padre Juan Antonio rappresenta un segnale alla Curia di Roma: Francesco è pronto a promulgare il testo che il consiglio dei cardinali ha preparato per la riunione di dicembre. Il testo che riorganizza il governo della Chiesa dopo il pastor bonus di Giovanni Paolo II e servirà a portare la Chiesa fuori dal controllo (e dalle lotte) della Curia di Roma, di quei cardinali e vescovi che pensano di comandare il mondo cattolico dalle comode stanze del Vaticano. Padre Juan Antonio è la Chiesa di Francesco.

Caso Romano, i testimoni: “Ci vogliono ammazzare”

Uno dei presunti rapitori di Silvia Romano è scomparso, si è volatilizzato e violando le consegne che lo obbligavano a ottemperare agli ordini del tribunale, cioè a presentarsi alla polizia ogni tre giorni. Ibrahim Adhan Omar venerdì scorso ha firmato l’ultima volta il registro delle presenze e poi si è dato alla fuga. Era stato arrestato il 10 dicembre dell’anno scorso, venti giorni dopo il rapimento di Silvia, in un covo terrorista armato di mitra, munizioni e granate, a Bangali, una cittadina nei pressi di Garissa (vicino al confine con la Somalia), famosa perché il 2 aprile 2015, i fondamentalisti nel campus dell’Università trucidarono 148 studenti e ne ferirono 79.

Quindi il processo è stato rimandato al 20 novembre, giorno dell’anniversario del rapimento. Ieri mattina l’udienza contro i presunti rapitori di Silvia Romano è cominciata, con 4 ore e mezza di ritardo, a Chakama, il povero villaggio dove Silvia è stata portata via, a un centinaio di chilometri da Malindi. Si è tenuta lì, in mezzo al nulla, perché, secondo la ragione ufficiale, i testimoni non avrebbero avuto i soldi per raggiungere la sede del tribunale, Malindi appunto.

Alla sbarra i tre accusati, Moses Luari Chende, un keniota giriama, l’etnia che abita sulla costa, Abdulla Gababa Wari, anche lui keniota, ma della tribù orma (quella accusata di aver organizzato il sequestro) di origine somala, e poi Ibrahim Adhan Omar, il più pericoloso: ritenuto la mente del sequestro. Ma quest’ultimo non si è presentato. La giudice Julie Oseko ha chiesto al legale di Ibrahim cosa pensasse dell’assenza del suo cliente. L’avvocato Samsung Gekanana ha allargato le braccia. “Avevamo appuntamento qui stamattina e l’ho aspettato invano anch’io”, si è sfogato con il Fatto Quotidiano subito dopo la chiusura dell’udienza. Aggiungendo poi con il cellulare in mano: “Guardi qua. Sto provando a chiamarlo, ma il suo telefono è spento”. Ibrahim Adhan Omar, come ha denunciato il Fatto, è uscito dal carcere perché la cauzione è stata pagata il 28 giugno scorso da Juma Suleiman, padre di un presunto terrorista arrestato in marzo. Il parere della procuratrice, Alice Mathangani, e del capo della polizia, Peter Muthiti, era stato negativo perché temevano la fuga. Invece la Corte aveva deciso ugualmente di concedergli il beneficio della cauzione. Il risultato è che Ibrahim è scappato portandosi dietro i segreti di un rapimento piuttosto anomalo.

Scopo dell’udienza doveva essere quello di ascoltare i testimoni che hanno assistito al sequestro. Nessuno di loro è stato ascoltato nel merito. Piuttosto, tre di loro hanno chiesto la parola alla giudice Oseko ed esternato il loro timore di essere uccisi: “Chakama è un piccolo centro e ci conosciamo tutti. Per favore – hanno implorato – concludete questo processo in fretta. Abbiamo paura che qualcuno voglia ucciderci per tapparci la bocca”. Affermazioni gravi che hanno sottolineato il clima di terrore che si respira a Chakama. Ieri, per la prima volta, ha partecipato tra il pubblico dell’udienza una funzionaria dell’ambasciata italiana.

Avrebbe potuto assistere all’udienza anche la viceministra degli Esteri Emanuela Del Re, a Nairobi per partecipare al summit delle Nazioni Unite su “Popolazione e Sviluppo”. Ma si è fermata nella Capitale keniota dove ha incontrato la ministra degli Esteri Monica Juma. “La riunione – secondo un comunicato – ha consentito di fare il punto sulla collaborazione tra i due Paesi per una positiva soluzione della vicenda di Silvia Romano: la ministra Juma ha ribadito il forte impegno del Kenya in tal senso”. Nessuna risposta alle domande che la famiglia e l’opinione pubblica si fanno: dov’è Silvia? Chi l’ha rapita? E soprattutto: è ancora viva? Non rivelare nessun dettaglio dell’accaduto e limitarsi a frasi di circostanza, come quelle del comunicato della Farnesina, mina il prestigio delle nostre istituzioni.

Gioventù bruciata: Anas K., studente-bonzo che accusa il Sistema

“Oggi commetterò l’irreparabile. Quest’anno mi hanno tolto la borsa di studio. Ma, pure quando ce l’avevo, 450 euro al mese vi sembrano sufficienti per vivere?”. Anas K., 22 anni, studente in Scienze politiche all’Università di Lione, ha scritto queste parole su Facebook, poi si è cosparso di benzina e si è dato fuoco davanti alla sede del Crous, il centro regionale per il diritto allo studio. È successo venerdì scorso e da allora il giovane è diventato il simbolo della lotta contro la povertà in Francia; “la precarietà uccide” è lo slogan degli studenti arrabbiati che hanno manifestato in diverse città per chiedere riforme subito.

A Parigi, sono andati a scrivere il loro motto sui muri del ministero dell’Istruzione, dopo aver forzato il cancello, prima di essere evacuati dalla polizia. A Lille, dove François Hollande era atteso per una conferenza, un gruppo di studenti ha invaso la facoltà di Diritto e strappato le copie del libro dell’ex presidente, che ha annullato l’incontro. A Lione gli studenti hanno bloccato l’ateneo, prima di essere mandati via dalla polizia in serata, e sono tornati a occuparlo ancora ieri.

Mentre la fronda studentesca cresce e preoccupa il governo, Anas è ricoverato in ospedale in condizioni critiche. Se è ancora vivo lo deve alla sua ragazza che, dopo aver letto il post, ha chiamato i soccorsi, e a un operaio di un cantiere vicino al centro per gli studenti che, vedendo la scena, è corso a spegnere il fuoco con un estintore.

Anas Kournif è iscritto da quattro anni all’università, ma è molto in ritardo con gli esami. Per questo motivo non aveva più diritto alla borsa di studio e non sapeva più come fare per pagare le bollette. Negli ultimi tempi si arrangiava dormendo da amici o dalla ragazza. Ogni tanto tornava a casa dai genitori, a Saint-Etienne, a una sessantina di chilometri da Lione. Quello di Anas non è stato solo un gesto disperato.

Per Mélanie Luce, presidente dell’Unef, uno dei principali sindacati degli studenti, è stato innanzitutto un gesto “politico”. Il giovane non è né depresso né emerginato. È il segretario regionale del sindacato Solidaries Etudiant-e-s. È un militante. Di recente era stato in prima linea nella battaglia della riforma dei licei e delle modalità di iscrizione all’università. Aveva anche denunciato l’insalubrità delle case per studenti del campus di Lione. Nel suo post ha attaccato gli ultimi governi ma anche l’Europa, gli estremismi, la stampa allarmista: “Accuso Macron, Hollande, Sarkozy e l’Ue di avermi ucciso, creando incertezze sul futuro di tutti. Accuso anche Marine Le Pen e gli editorialisti di aver creato delle paure più che secondarie”. Laetitia, la sua ragazza, sentita dalla stampa locale, dice che Anas aveva aderito al “sindacalismo rivoluzionario”. La sociologa Annabelle Allouc, parlando con il giornale 20Minutes, paragona Anas alle suffragette inglesi dei primi del 900 che si battevano per il diritto di voto alle donne, e a Mohamed Bouazizi, il giovane tunisino che dandosi fuoco nel 2010 scatenò le primavere arabe.

Con il suo gesto radicale, Anas ha voluto “rivelare lo stato di grave precarietà degli studenti – ha detto Mélanie Luce dell’Unef – il problema è che si fanno solo riforme che ci precarizzano ancora di più. E intanto, tutte le spese, cibo, affitto, aumentano”.

Per Orlane François, presidente di Fage, il primo sindacato studentesco, “bisogna riformare tutto il sistema delle sovvenzioni sociali per gli studenti. Le borse vanno da 100 a 570 euro, non basta”. Si chiede quindi una “rivalutazione immediata e significativa”. Nel 2019, secondo un rapporto annuo dell’Unef, il costo della vita studentesca è aumentato del 2,83 per cento rispetto al 2018. Statistiche ufficiali del 2015 indicano che il 19,1 per cento degli studenti in Francia vive sotto la soglia di povertà e che il 46 per cento è costretto a accumulare più lavoretti per sbarcare il lunario. Eppure, nell’ottobre 2017, il governo Macron ha preso la decisione contestata di tagliare di 5 euro al mese le sovvenzioni per gli alloggi. Ora si teme che gli studenti esasperati possano aderire allo sciopero generale del 5 dicembre lanciato dai sindacati contro la riforma delle pensioni, ma che sta assumendo una dimensione più vasta.

Vi hanno già aderito anche il personale medico dei pronto soccorso e gli infermieri che protestano da mesi per il degrado delle condizioni del loro lavoro e la mancanza di mezzi. I ferrovieri promettono blocchi a oltranza nei treni. I Gilet gialli, che vorrebbero tornare sugli Champs-Elysées a un anno dall’inizio del movimento, il 17 novembre, saranno a loro volta in strada il 5.

Ieri, nel tentativo di portare la calma negli atenei, alcuni rappresentanti dei sindacati studenteschi sono stati ricevuti d’urgenza da Gabriel Attal, segretario di Stato per l’Educazione. Ma Laurence Roussignol, ex ministra socialista dell’Educazione, ha messo tutti in guardia: gli studenti che manifestano, ha detto alla tv France 2, “sono figli dei Gilet gialli”.

Mail Box

 

Il “Fatto” insegna che non tutti i giornali sono manipolabili

Sono una ragazza di 25 anni di origine etiope, cresciuta in Sicilia.

Ormai sono 5 anni che vivo a Milano, il mio sogno iniziale era quello di frequentare Scienze Politiche, ma mi è bastato guardare lo scenario per capire che non si fa più politica, si fa solo marketing. Ho deciso dunque di fare comunicazione e al momento lavoro in un’agenzia pubblicitaria.

Vi scrivo unicamente per dirvi che vi sostengo e che leggo il vostro giornale sempre. Ammiro ciò che fate e nutro un profondo rispetto per la storia di questo giornale, mi avete dimostrato che non tutti i mezzi di comunicazione sono manipolabili. Mi avete ispirato, per questo vi dico GRAZIE!

Un giorno spero di poter trattare tematiche più rilevanti, ma al momento faccio la gavetta lavorando su prodotti di consumo.

Milat

 

Solidarietà ai lavoratori delle acciaierie di Taranto

Illustre direttore, la Cisas Campania, Regione distrutta causa la chiusura di tutte le grosse e medie Aziende – cosa che ha creato una massa enorme di disoccupati e cassintegrati – ribadisce la propria solidarietà ai lavoratori delle acciaierie di Taranto chiedendo al governo la salvaguardia dell’occupazione per tutti i lavoratori interessati affinché non si verifichi il caso della totale chiusura dello stabilimento napoletano Ilva di Bagnoli.

La Cisas Campania chiede anche al Governo una maggiore attenzione nei riguardi dei pensionati con contributi effettivamente versati, le cui pensioni sono da decenni ferme e nemmeno rivalutate.

Segreteria Cisas Campania

 

L’art. 27 della Costituzione non parla di “premi”

L’ergastolano che durante un permesso premio accoltella un anziano riaccende il dibattito su tali favori concessi ai condannati. L’art. 27 della Costituzione non parla di premi, ma di trattamenti conformi al senso di umanità e che tendono alla riabilitazione del condannato. E tale riabilitazione è un processo di natura interiore che potrebbe venire inquinato dalla elargizione di un premio (il permesso premio). Il premio favorisce il conformismo, il servilismo e l’ipocrisia ed impedisce al soggetto di indirizzarsi autonomamente verso una autentica vita morale. Anche il condannato al carcere a vita, attraverso il pentimento associato a un iter spirituale di riabilitazione, può, se lo vuole, assurgere ad uno status conforme alla vera natura dell’uomo.

Maurizio Burattini

 

L’ammirazione per Salvini è sincera o interessata?

Condivido totalmente la lettera di Francesca Della Pietra pubblicata qualche giorno fa. Mi resta una domanda: giornalisti, opinionisti, imprenditori che si stanno spendendo allegramente per Salvini lo fanno per sincera e gratuita ammirazione o perché hanno già portato i risparmi alle Cayman?

Camilla Clerici

 

Sulle manette agli evasori Cantone è superficiale

Quanto dichiarato da Cantone contro le “manette agli evasori” mi sembra approssimativo e superficiale. La mia stima in lui scemò già una sera, quando a Fabio Fazio più o meno rispose che mafie e corruzione potevamo accontentarci di mantenerle a un livello “fisiologico”. “Quale sarebbe questo livello fisiologico?” avrebbe dovuto chiedergli Fazio.

Luigi Crifò

 

Un tempo le chiavi di casa venivano lasciate nella toppa

La stampa locale ci offre la possibilità di conoscere fatti degni di nota che avvengono nei nostri territori. Uno di questi è quello riportato nell’articolo titolato “Ladri in fuga, il barista dormiva lì”. Un episodio non isolato come sembrava fosse stato quello del gommista di Monte San Savino, ma purtroppo oggi assai diffuso e quindi molto preoccupante. Beati i tempi, ormai lontani, quando le chiavi di casa venivano lasciate nella “toppa” oppure quando il giudice emetteva un mandato di cattura, questa era allora la dizione letterale, nei confronti di un soggetto che aveva emesso un assegno a vuoto con il supporto di sei mesi di effettiva galera.

Nicodemo Settembrini

 

Altre lacrime di coccodrillo dopo gli scandali veneti

Venezia è stata sommersa più che dal mare, dalle lacrime di coccodrillo.

Il Mose – con tutti gli scandali che lo hanno reso incompiuto e inutile – è il monumento al disprezzo delle regole. Il simbolo perverso dei profeti dell’“ungere”, quelli che dicono che costruzione e corruzione vanno sempre insieme. Negli anni della sua realizzazione chi doveva controllare, non l’ha fatto; chi doveva eseguire il progetto a regola d’arte non l’ha fatto. Chi poteva rubare, l’ha fatto.

Ora tutti accusano tutti. Ma sono ancora molti a protestare in Parlamento contro norme per chiudere i varchi ai corruttori (e evasori), dopo anni di leggi lasche, gonfia-tasche.

Perché una cosa è chiara: dove passa la corruzione, poi arriva la distruzione. Abbiamo bisogno subito di una diga di correttezza fatta di leggi efficaci. Chi vi si oppone è un coccodrillo.

Massimo Marnetto

Spagna. I separatisti non vogliono sostenere il governo rosso-viola: l’ultradestra incombe

 

Buongiorno, leggo con stupore che in Spagna i separatisti catalani pensano di non appoggiare un eventuale esecutivo Psoe-Podemos. La mia impressione, da osservatrice poco attenta ma appassionata, è che così Esquerra Republicana fa solo il gioco dell’ultradestra di Vox, nemica giurata dei catalani.

Francesca Di Domenico

 

Gentile Francesca, in effetti, come avevano già anticipato all’indomani della firma del patto di coalizione tra Psoe e Podemos, gli indipendentisti catalani hanno confermato che non intendono votare sì all’investitura del governo spagnolo. I negoziati non finiscono qui, ma le premesse uscite dall’incontro di ieri tra il leader di Esquerra Republicana, Gabriel Rufián, e l’emissaria di Sánchez non sono delle migliori. Rufián resta convinto che finché non ci sarà un vero impegno da parte dei socialisti a “mettere fine al conflitto politico e non soltanto a reprimerlo con la forza”, Sánchez si può dimenticare l’appoggio dei separatisti, parte dei quali nel frattempo, manifestano alla frontiera con la Francia. Dal canto suo, il premier uscente ha risposto piccato, ricordando a Rufián ciò che anche lei teme: se la formazione dell’esecutivo progressista fallisse anche a causa del no degli indipendentisti, l’alternativa sarebbe forse un governo di destra che includerebbe anche Vox. Il che significherebbe “la fine del dialogo tra il potere centrale e i separatisti”. Certo, l’impressione è che i due schieramenti – Psoe e indipendentisti – giochino al ricatto tenendo in scacco gli spagnoli. Sánchez sembra non capire la delicata situazione in cui si trova tanto che resta ancora ambiguo e non chiarisce nei dieci punti del patto di governo rosso-viola come intenda risolvere la questione catalana. Per non parlare del dato che – anche se con meno seggi nazionali di Vox – Esquerra Repubblicana è il primo partito in Catalogna, prima dei socialisti, e con gli altri partiti indipendentisti rappresenta più del 40% del voto dei catalani. Dunque, nessun governo che si dica progressista può evitare di aprire un tavolo negoziale serio con i separatisti. E Vox è solo uno dei tanti motivi per cui dovrebbe farlo subito. Almeno con la stessa rapidità che ha impiegato a spartirsi con Podemos le poltrone, prima ancora di avere la certezza di averne. Rufián da parte sua, prima di parlare di conflitto politico con lo Stato centrale, dovrebbe ricordarsi del conflitto silenzioso, ma reale, in Catalogna, dove i cittadini che l’indipendenza non la vogliono vorrebbero almeno un governo dopo 4 elezioni in 4 anni.

Alessia Grossi

Un omaggio a Nicoletta Dosio, che ci ricorda come si fa

Non di rado rubriche simili a questa sui giornali sono dedicate a storie di persone che gli autori ritengono un esempio, storie di buone azioni e buoni sentimenti per lo più. Vorremmo farlo anche noi oggi e dacché i bravi ragazzi sono tutti occupati, dedicheremo la rubrica a una cattiva ragazza, per di più pregiudicata. Nicoletta Dosio ha 73 anni, ha insegnato tutta la vita in Val di Susa e da sempre è parte del movimento No Tav. Nel 2012, con altri, per protesta aprì per un’ora il casello di Avigliana dietro lo striscione “Oggi paga Monti”. Le hanno dato un anno, la condanna è definitiva e mercoledì le hanno fatto visita i carabinieri: “Non era per accompagnarmi in carcere, ma per verificare l’idoneità della mia casa a diventare per un anno la mia prigione. Ho risposto che non ho chiesto misure alternative, quindi, ancora una volta, non sono disponibile a essere la carceriera di me stessa: i domiciliari non li rispetterò. Ma com’è che questa ‘giustizia forte con i deboli e debole con i forti’, pronta a mandare in carcere un povero diavolo che sottrae a un supermarket due scatolette di tonno, risoluta a randellare coi suoi tribunali ogni opposizione sociale, cerca di evitare nei miei confronti un provvedimento che la sua stessa legge le imporrebbe? Vedremo nei prossimi giorni. La partita a scacchi continua”. Qualche anno fa avremmo detto “testa e palle”, oggi che quel linguaggio non si porta più scriviamo “testa e coraggio”: e chi se l’aspettava che ce ne fosse ancora in giro? D’altronde, si sa, le cattive ragazze vanno dappertutto: pure in galera.