L’onda di Venezia non è solo colpa del mare

Non prendiamoci in giro. Il riscaldamento climatico globale è un flagello epocale, ma non usiamolo come paravento per coprire una storia che ha ben determinate responsabilità locali. La distruzione della laguna di Venezia (e quindi della città insulare storica che con la laguna vive in simbiosi) viene da lontano e deriva da precise scelte di politiche economiche e di pianificazione territoriale che continuano imperterrite. L’aumento del numero e della forza delle maree è provocato solo in parte dall’eustatismo (aumento del livello medio del mare). Il resto è tutta opera nostra!

La laguna ha una superficie di 550 km quadrati. È uno straordinario ecosistema formato da bassi fondali (barene, velme, ghebi, valli ecc.) che reggono, avvolgono e proteggono le isole edificate dagli eventi marini esterni. Le colossali opere idrauliche costruite nei secoli dalla Repubblica di Venezia (deviazione dei fiumi a monte e “murazzi” a mare) hanno sempre seguito questo criterio: non esporre Venezia alle mareggiate ed evitare gli interramenti. Con l’avvento dell’era industriale e il prevalere degli interessi portuali, che dura fino ai nostri giorni con il business della crocieristica, si è fatto esattamente il contrario: si è ristretta la laguna e si sono approfonditi i canali marittimi che regolano i flussi mare/laguna innescando una erosione dei fondali (mezzo milione di metri cubi di sedimenti all’anno) che ha trasformato la laguna in un braccio di mare. Il punto più profondo dell’Altro Adriatico lo si trova in laguna, al Faro Rocchetta: una fossa profonda più di 50 metri in cui si pescano ostriche!

Le conseguenze le abbiamo viste anche l’altra drammatica notte. Non siamo più in presenza di “acqua alta” (che cresce lentamente), ma di una violenta onda di marea. L’acqua sospinta dal vento di scirocco non trova più ostacoli lungo il suo percorso (bassi fondali e terre emerse) in entrata in laguna attraverso le tre bocche di porto (Lido, Malamocco e Chioggia) e diventa un fiume in piena che si infrange sulle fragili rive, sulle fondamenta e sulle fondazioni della città.

Il Mose era sbagliato anche prima di diventare un’opera corruttiva (e proprio per questo motivo aveva bisogno di corrompere gli organi tecnici e politici dello Stato). La scelta progettuale derivava dal fatto di non disturbare gli interessi dei traffici marittimi e di consentire a navi sempre di grandi di entrare in laguna.

Gli ambientalisti lo dicono da sempre: la prima opera di “adattamento” volta ad aumentare la “resilienza” dell’ecosistema veneziano dovrebbe essere il piano morfologico di rinaturalizzazione della Laguna di Venezia, la creazione di un parco nazionale naturale (che il sindaco Brugnaro ha ben pensato di abrogare), la immediata fuoriuscita delle navi dalla laguna, la bonifica di Porto Marghera.

L’errore del M5S è nella mancata evoluzione a partito

Si discute di una possibile implosione o addirittura dell’estinzione dei 5 Stelle. Un problema di leadership? di inadeguatezza alla prova del governo? Anche. Ma, forse, più in radice, sta la mancata evoluzione del M5S come partito a tutti gli effetti. Una maturazione, non una capitolazione. Mi permetto un suggerimento. Diano ascolto ai costituzionalisti che condivisero la loro meritoria battaglia contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi. In tema di art. 49 della Costituzione, essi ci hanno sempre ammonito: il metodo democratico interno ai partiti è questione cruciale. Non confinata al foro interno di partito. Ne va della qualità stessa del sistema democratico. Specie se si tratta del partito maggioritario in Parlamento. Gli altri problemi sortiscono di lì. Esemplifico. Si diceva di una leadership messa in discussione ma al momento, si osserva, senza alternative. Solitaria, ma condizionata dal garante Grillo (decisivo nel rovesciamento delle alleanze di governo) e da un certo dualismo con il premier Conte indicato dal M5S. Dunque, ci si chiede: oggi il M5S ha un capo, troppi capi o nessun capo? In un partito “normale” il “capo politico” – già l’espressione stride con lo spirito dell’art. 49 – dopo una sequela di sconfitte elettorali e bruschi cambi di linea, sarebbe stato sfidato apertamente dentro un congresso grazie a un confronto portato in superficie e candidature alla leadership maturate naturalmente. È la cosiddetta contendibilità. Non un problema che si risolve con aggiustamenti organizzativi o concessioni negli organigrammi. Questo nodo irrisolto inibisce, a valle, l’iniziativa dei 5 Stelle. A cominciare dal problema identitario.

Quello che conduce a reiterare il mantra del M5S né di destra né di sinistra o come “ago della bilancia”, una via di mezzo tra una sciocchezza e una furberia dal sapore trasformistico; alla perfetta intercambiabilità delle alleanze; a rifiutarsi di conferire rilievo politico alla collaborazione nel governo nazionale cui fare seguire non già l’automatismo, ma almeno l’idea di non escludere programmaticamente alleanze sul territorio utili a scongiurare il trionfo dell’avversario comune, una destra altrimenti senza competitor; persino alla rinuncia a partecipare alle elezioni regionali – un fuor d’opera per il principale gruppo in Parlamento – e dunque all’abbandono dell’ambizione di avere propri referenti sul territorio, mettendovi radici.

Reiterare una tale indeterminatezza potrebbe per paradosso condurre un movimento, va riconosciuto, più di altri sensibile alla questione morale a praticare comportamenti che la contraddicono o che comunque non giovano alla credibilità della politica. Due soli esempi. Quello di oscillazioni trasformistiche – né di qua né di là o un po’ di qua un po’ di là – che, in passato, hanno fatto la fortuna (e il discredito) di partitini e professionisti della rendita di posizione. E quello – sin quando non si produrrà la suddetta, trasparente contendibilità interna – dello spettacolo, non edificante, delle pratiche ritorsive di ex ministri, ex sottosegretari o parlamentari dalle ambizioni ministeriali frustrate che sparano sul quartier generale. Uno spettacolo ancor più avvilente in un movimento giovane e “anti-casta”. Senza neppure il contegno, magari ipocrita, in uso nei vecchi partiti, ove magari ci si tratteneva confidando nel futuro dopo avere saltato un giro. A meno che ci si sia già rassegnati all’idea che altri giri non ve ne saranno.

Segre e i santini pop della sinistra da bar

Della sinistra intellettuale, o di quel che ne rimane, si sottolineano spesso i difetti in termini di “distanza dal popolo”, elitarismo, supponenza e complesso di superiorità. Ma non si parla quasi mai della sua tendenza a cadere vittima di vere e proprie ossessioni mistico-religiose per incolpevoli persone trasformate in totem.

La cosiddetta e più spesso sedicente intellighenzia possiede un Pantheon che aggiorna quotidianamente con personaggi mediatici per qualche motivo stimabili, autori di gesti lodevoli o portatori di biografie rispettabili, acconciate a icone del Bene, depositari di Verità rivelate, messaggeri di Valori assoluti. È il caso di Carola Rackete, una capitana e marinaia trasformata in intellettuale organica, interpellata ormai su questioni politiche, sociali, artistiche, come se guidare una nave della Sea Watch desse anche la patente per guidare una rivoluzione morale. Il fatto che Carola sia stata insultata da Salvini e dagli sgherri dei social ne ha fatto automaticamente una Santa laica.

Più preoccupante è il caso di Greta Thunberg, giovanissima attivista per il clima proposta via social per il Nobel per la Pace, trattata dai media come una profetessa, paragonata a Giovanna D’Arco (quindi vergine contadina già lambita dalle fiamme del rogo), dotata di una particolare Scienza infusa che non passa per la scuola, che non frequenta più (secondo testimoni sarebbe persino in grado di vedere le particelle di CO2 a occhio nudo). Un tale culto irrazionale porta con sé naturalmente il suo contrario: Greta, adorata dal pubblico raffinato come l’oracolo infallibile che sfida i Grandi della Terra (ben felici di ospitarla, peraltro), è presa a bersaglio dagli odiatori con una violenza uguale e contraria alla devozione dei tifosi; la sua piccola persona scatena gli istinti di chi sfoga la sua frustrazione su figure portate in trionfo dai “privilegiati” ecologisti (è un meccanismo di psicologia sociale di brutale semplicità). In un caso così magnetizzato, chiunque contesti la santità e la natura sapienziale di Greta viene messo tra gli odiatori tout court e tra i negazionisti del cambiamento climatico. A proposito di odiatori e della tensione che si genera tra devozione e avversione, la ribalta mediatica di questi giorni è occupata dal cosiddetto “caso Segre”, che invece è un caso di insulti online contro una senatrice a vita. Liliana Segre, ebrea sopravvissuta al campo di sterminio di Auschwitz, è oggetto di un certo numero di commenti antisemiti: secondo Repubblica 200 al giorno, non uno di meno; secondo l’Osservatorio Antisemitismo e alcuni debunker (rivelatori di bufale), molti di meno; ma questo non importa. Quel che interessa è che il caso-insulti si è evoluto per superfetazione in un tema mediatico capace di mobilitare fazioni pro e contro Liliana Segre, una vittima del nazismo, finita sotto scorta proprio in concomitanza col montare di questo caso. Se è un segno della follia generale ingrassata dal web che i negazionisti della Shoah rivendichino il diritto di parola, è irragionevole che chiunque non si riconosca in quella nociva follia sia chiamato ad arruolarsi nelle Forze del Bene che issano la figura di Segre tra le icone responsabili della palingenesi morale di un popolo. Infatti su di lei, per fagocitarne l’autorevolezza, si sono subito avventati i propalatori di banalità più famosi d’Italia (Renzi su Twitter: “Chi attacca Liliana Segre non sta attaccando una donna, una sopravvissuta all’Olocausto, un simbolo, una senatrice a vita. No! Chi attacca Liliana Segre sta attaccando se stesso: perché noi siamo tutti Liliana Segre”) e si è rovesciata un’oscena strumentalizzazione, con Salvini che si è permesso di paragonarsi a lei per gli insulti che riceve e di dire in un talk-show: “Segre porta sulla pelle gli orrori del nazismo e del comunismo”.

Proporre Segre come Presidente della Repubblica, come fanno i direttori di Huffington Post e Repubblica, sembra più una reazione emotiva e passeggera che un’azione ragionata. Come se la Presidenza della Repubblica fosse un’onorificenza concessa come risarcimento a chi subisce offese razziste sui social, e non un preciso ruolo istituzionale ricoperto per meriti politici, oltre che biografici e morali. A scanso di equivoci: non stiamo dicendo che la senatrice Segre non meriti di fare il Capo dello Stato; ma che farne una figurina, un hashtag, un volto da t-shirt contro l’odio del web, ha per effetto di esporre lei, una signora ottantanovenne perbene, ironica e intelligente che da anni testimonia l’orrore del nazifascismo, proprio alla incontrollabile ferocia da cui si cerca di difenderla.

Rendere Segre un santino pop, seppure di quel pop raffinato che mischia laicismo e misticismo come piace a certa sinistra convenzionale in cerca di idoli, vuol dire depotenziarne il messaggio, che lei è sopravvissuta per raccontare, sulla base dell’insegnamento di Primo Levi.

“Applaudite pure lei”: Lucia candidata-ombra

“Io non sono bello come Lilli Gruber, non sono intelligente come Gad Lerner. Ma sono qui perché in Emilia Romagna si vota. Quello che in Italia non si fa”. Alle 21:15, Mario Giordano dà il via alla serata che sancisce l’apertura ufficiale della campagna elettorale della Lega in Emilia al PalaDozza, storico Palazzetto dello Sport di Bologna . “Matteo, Matteo”. Il fedelissimo del “Capitano”, Alessandro Morelli scalda la platea in attesa del comizio. Il volto di punta è lui. Tanto che Morelli scandisce dal palco: “Lucia, Lucia. Applaudite anche lei”. Sulla scheda ci sarà scritto Lucia Borgonzoni, ma è la battaglia di Matteo Salvini.

La prima ovazione è proprio per Giordano, che quando mancano pochi minuti alle 20 si dirige sul palco per fare un sopralluogo. Gli schermi che scendono dal soffitto, le buste che ricoprono le sedie, nei colori della Lega, giallo e blu (dentro ci sono una spilletta, un cappellino, un volantino), la colonna sonora fatta di grandi successi del passato (Notti magiche, Voglio una vita spericolata, Acqua azzurra, acqua chiara): la coreografia ricalca quella di una convention all’americana. Cinque anni fa al PalaDozza Stefano Bonaccini aprì la sua di campagna. Con lui c’era l’allora premier, Matteo Renzi. Ma l’atmosfera era meno frizzante: l’obiettivo era difendere un potere mai messo in discussione in Regione, dagli anni 70. Fino ad oggi. “L’Emilia-Romagna è di tutti”, si legge sui manifesti. Per Salvini si tratta della madre di tutte le battaglie, dalla quale partire per la riconquista del governo. Da settimane batte palmo a palmo la Regione. E la squadra elettorale è la stessa del Viminale. Primo tra tutti, Luca Morisi, lo spin doctor che s’è inventato “La Bestia”. Maglioncino a collo alto verde, più volte il leader leghista entra per tastare il polso alla serata, accompagnato da lui. “Alla faccia dei gufi, stanno per entrare altre 1000 persone”, dice alle 21, finalmente quasi rilassato. I pullman ritardano per le manifestazioni contro di lui e fino alle 20 e 30 il PalaDozza, che conta 5500 è ancora pieno solo a metà. Ma alla fine sono pochi i posti rimasti vuoti. Arriva tutto lo stato maggiore del partito. Si presenta a sorpresa pure Giancarlo Giorgetti e si cala nella parte al punto da farsi scattare selfie mentre oscilla al ritmo di Jeeg Robot. “Passavo di qui, in treno. E mi sono fermato. In genere in questo Palazzetto ci vengo per il basket: il Varese e il Cuneo. Si perde sempre”. Una profezia? Lui non scioglie la metafora. “Se vinciamo l’Emilia, il governo cade? Dovrebbe essere così, ma M5s e Pd più perdono più governano”.

All’entrata c’è il banchetto del tesseramento. La gente fa la fila, paga i 10 euro, reclama partecipazione. “Dove sta la sezione a Bologna?” La parola d’ordine è “Liberazione”, ma nel senso di “Liberazione dal Pd”. Fuori regalano le bandierine, e dentro la colonna sonora diventa sempre più amarcord. “Scelgo la Borgonzoni perché è una donna”, dice Chiara, bolognese. “Ed è anche di Marzabotto”. “Nel senso di simbolo antifascista?” “Sì” dice convinta lei. “La destra è libertà”, chiosa Maurizio. “Bonaccini è un’ottima persona, è la struttura che non funziona. Qui sono troppi anni che governano e quindi mangiano”. Razionalità emiliana più che destra estrema.

Alla fine, sul palco salgono uno a uno i i governatori della Lega (Zaia, Fontana, Solinas, Fredriga preceduti dalla neo eletta Tesei in Umbria). Poi tutti insieme con la candidata. “Lucia, una di noi”, scandisce la folla. Ma la chiusura è ancora per Salvini. I toni contro i manifestanti fuori si alzano via via che va avanti la serata. L’immagine è quella di un Carroccio di governo, ma la sfida si preannuncia caldissima.

Bologna “non abbocca”: 13mila sardine anti-Lega

Non è servito nessun pullman lombardo per riempire il Crescentone bolognese, le sardine hanno vinto. Obiettivo raggiunto, piazza Maggiore era piena.

Sardine disegnate appuntate sui vestiti, sardine ritagliate nel cartone, sardine copricapo: tutte unite perché “Bologna non abbocca”. Una mobilitazione nata su Facebook invitando 6.000 persone a occupare pacificamente la piazza per dimostrare di essere di più rispetto ai leghisti ospiti del PalaDozza, la cui capienza è di 5.500 persone. Stretti davvero come pesci, i presenti – studenti, famiglie con bambini, anziani – hanno letteralmente occupato ogni centimetro quadro del Crescentone.

Seimila sicuri, per gli organizzatori anche il doppio. “Hanno partecipato 12 o 13mila persone, forse 15mila, abbiamo sicuramente raddoppiato. Mai avremmo pensato di scatenare questa ondata di follia creativa. La sfida dei numeri l’abbiamo stravinta, nonostante i cartelloni che ci assillano da settimane e le migliaia di euro che la Lega spende sui social tutti i giorni. Li abbiamo già disintegrati, senza un euro ma con tanto cervello e migliaia di sorrisi” gongolano i quattro trentenni ideatori del flash mob ittico. Dopo un minuto di silenzio è partita la musica, un omaggio doveroso e in tema: Com’è profondo il mare di Lucio Dalla. Numerosi gli esponenti del Partito Democratico e di sinistra, sindaci e consiglieri del territorio, ma mescolati alla gente comune come Giambattista Borgonzoni, padre della candidata leghista Lucia. Anche Nicola Zingaretti – che domani sarà in città per la tre giorni del Partito Democratico – ha apprezzato con un tweet: “Qui c’è una Bologna bellissima, grazie ai ragazzi che l’hanno organizzata”. Anche se l’ultima canzone intonata dai presenti è Bella ciao questa non è una manifestazione politica, piuttosto ricorda i girotondini di morettiana memoria.

Numeroso anche il corteo dei centri sociali, più di 3mila i partecipanti tenuti a distanza dall’arena da idranti e forze dell’ordine. Ad aprire lo striscione “Bologna partigiana” affiancato da “Lega e Pd due facce della stessa medaglia”. Forse un richiamo a chi cinque anni fa occupava lo stesso PalaDozza: Matteo Renzi. Più divertenti gli striscioni appesi ai balconi delle case private in zona Palasport: “Bacioni dalla Russia” o “Salvini sei un boomer”. Qualche fuoco d’artificio e lancio di bottiglie accompagna il lungo percorso scandito da musica anni Novanta (esclusa Myss Keta) e slogan “Questa è la Bologna delle lotte”. Per qualche minuto si diffonde la voce che il blocco dei viali, arterie principali del traffico cittadino, avrebbe bloccato gli autobus in arrivo alla convention leghista. La gioia è palpabile ma le immagini del palazzetto pieno smorzano in fretta gli entusiasmi. Almeno 200 gli agenti e i carabinieri schierati: nessun contatto con i manifestanti, bagnati più volte dagli idranti. La conclusione per tutti è una sola, Bologna non si lega.

Lara, l’enfant prodige delle ragazze di B. risparmiata dal “ciarpame senza pudore”

Era anche lei nella squadra delle ragazze che B. voleva candidare alle Europee 2009. Una nutrita truppa di almeno una decina. Alcune vennero escluse per la reazione di Veronica Lario, che all’Ansa definì la carica delle giovanissime “ciarpame senza pudore”. Ma lei no: insieme a Licia Ronzulli e Barbara Matera si salvò e venne eletta a Strasburgo con 63.158 preferenze alla tenera età di 26 anni. Lara Comi, però, si è sempre considerata diversa dalle cosiddette “veline” dell’ex Cavaliere.

Siamo nel 2009 e l’impero berlusconiano è al suo apice: nonostante le voci su presunte serate allegre, il Caimano domina incontrastato la politica italiana. Ha pure deciso, quell’anno, di festeggiare per la prima volta il 25 aprile facendosi immortalare a Onna, comune terremotato in Abruzzo, col fazzoletto da partigiano al collo. Le Europee, però, sono alle porte e il Pdl è in cerca di giovani leve. Ne vengono selezionate un tot, cui i big del partito accettano di dare lezioni. Ci sono Franco Frattini, Mario Mauro, Gaetano Quagliariello e Renato Brunetta. “Ho fatto lezione per 4 ore, sono esausto. Per andare in bagno alzavano la mano. Una l’ho sgridata perché masticava la gomma. La più brava? Lara Comi…”, disse all’epoca Brunetta (come racconta Marco Travaglio in Papi, uno scandalo politico). Libero in quei giorni titola sereno: “Il piano di Silvio per piazzare tutte le veline”. Poi Comi viene intervistata dal Giornale: “Io, superlaureata, difendo le veline che fanno politica”.

Veronica Lario, però, non pare essere d’accordo tanto da sferrare un primo attacco, il 28 aprile, seguito poi da quello definitivo, la conversazione con Repubblica del 3 maggio in cui, annunciando la richiesta di divorzio, parla di “figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere successo, notorietà e crescita economica”. E da lì fu l’inizio della fine.

Lara Comi, dicevamo, ha sempre rifiutato questo identikit. E in effetti nella mole di intercettazioni e verbali su Bunga Bunga e dintorni il suo nome non c’è. Spunta, però, una foto che la ritrae in vacanza con Roberto Formigoni, con cui ha un forte legame.

Nata a Garbagnate Milanese nel 1983, inizia a fare politica a 19 anni, come portavoce di Forza Italia a Saronno, hinterland di Milano. Da qui entra nelle grazie di Mariastella Gelmini che la prende come sua assistente. A 21 anni è già alla guida dei giovani forzisti della regione. Nel frattempo si laurea due volte: alla Cattolica in Scienze economiche e alla Bocconi in Economia dei mercati internazionali. Ma riesce pure a lavorare, diventando “brand manager” della Giochi Preziosi. “Ho conosciuto Berlusconi nel 2004, a San Siro, dopo Milan-Brescia: fu scudetto!”, raccontò lei. “Lara Comi ha due lauree, ha coordinato i giovani azzurri, è dirigente della Giochi Preziosi e non è mai andata in tv”, disse di lei Silvio per giustificarne la repentina ascesa e la candidatura. Prima ci prova alle Politiche del 2008 alla Camera, ma non ce la fa. L’anno dopo è in Europa. Ma siccome Strasburgo è lontana e a 26 anni ci si può sentire soli, decide di assumere sua madre come assistente parlamentare nonostante la legge lo vieti. Quando scoppia lo scandalo, nel 2017, deve restituire 126 mila euro, la cifra incassata dalla genitrice. A Strasburgo, però, verrà riconfermata nel 2013 con 83.987 preferenze. Mentre nel 2019 risulterà la prima dei non eletti.

Appassionata giocatrice di calcio femminile, il suo viso angelico da brava ragazza della porta accanto le ha però procurato anche un doloroso problema personale: uno stalker (tale Giovanni Bernardini, imprenditore veneto, ex candidato sindaco a Jesolo per Sel) l’ha perseguitata per mesi tanto da essere arrestato e condannato. “Ho vissuto un incubo che non auguro a nessuno”, ha dichiarato Comi sulla vicenda. Ora agli arresti è finita lei.

La rete delle mazzette arrivata ai piani alti di Lega e Forza Italia

Lara Comi a parte, la seconda puntata del premiato tangentificio Lombardia dirada le nebbie padane dentro le quali si nasconde il ruolo della Lega. Nel mirino della Procura entrano anche personaggi di Forza Italia di rilievo nazionale come il non indagato Marco Bestetti, nuovo delfino di Silvio Berlusconi, presidente del Municipio 7 e coordinatore nazionale dei giovani di FI. La rete è complessa. Partiamo da Paolo Orrigoni, il regista dei supermercati Tigros ieri finito ai domiciliari per corruzione. Secondo l’accusa l’imprenditore molto vicino al numero due del Carroccio Giancarlo Giorgetti ha pagato una mazzetta da 50 mila euro per costruire un punto vendita a Gallarate.

Il paesone in provincia di Varese è una bandierina importante sulla mappa della corruzione anche nazionale. Qui, stando ai verbali di Alberto Bilardo, ex coordinatore locale di FI, “il sistema degli accordi volti a favorire le pratiche urbanistiche a fronte di retrocessioni (mazzette, ndr) in favore di Nino Caianiello è risalente nel tempo”. Alessandro Petrone, ex assessore all’Urbanistica indagato per corruzione e imposto in giunta da Caianiello con l’ok dei vertici nazionali della Lega, progetta operazioni illecite: “Ho preparato una cartina – dice a Caianiello – che ha venti croci, sembra un cimitero. Ci sono venti opportunità”. A Gallarate oggi è indagato il sindaco Andrea Cassani, casacca leghista di corrente salviniana. Accusa: turbativa d’asta. Due le imputazioni, una in particolare per collocare nella commissione che avrebbe dovuto redigere il progetto del Pgt avvocati vicini alla cerchia di Caianiello. Il nome di Cassani poi è presente negli atti costitutivi di due associazioni politiche, “Maroni Presidente” e “Prima il Nord”, finite in un’inchiesta milanese che ha visto indagato per appropriazione indebita e poi archiviato in udienza preliminare l’assessore regionale Stefano Bruno Galli. Parte di questi atti, poi, sono sul tavolo della Procura di Genova che indaga sui 49 milioni di rimborsi elettorali alla Lega.

Torniamo in terra insubre. Orrigoni, che nel 2016 si è candidato a sindaco di Varese con l’appoggio di Giorgetti, incontrava Cassani per discutere della variante per la costruzione del Tigros. Caianiello ne parla con i pm: “L’accordo illecito (…) non poteva garantire il risultato atteso che occorreva convincere la Lega e Cassani”. Le ritrosie del sindaco, al quale non è contestato l’episodio corruttivo, si scioglieranno alla festa di matrimonio di Emanuele Monti, consigliere regionale leghista e presidente della Commissione Sanità.

Qui è presente anche Orrigoni che, spiega Caianiello, otterrà da Cassani “la garanzia” che “si sarebbe fatto parte attiva con l’assessore Petrone” per fargli ottenere il risultato “attraverso lo strumento della variante generale”. Conclude Caianiello: “Cassani non era contrario all’operazione”. A Gallarate, poi, è di casa l’avvocato Andrea Mascetti, professionista della Lega vicino a Giorgetti. Qui, sito del Comune alla mano, il legale, che non risulta indagato, ha preso molte consulenze in modo del tutto lecito. Stando al verbale di Laura Bordonaro, ex dirigente di una partecipata, indagata con Caianiello, il sistema Lega non si alimenta con le retrocessioni in denaro. “Mascetti – spiega – viene indicato come persona che finanzia la Lega anche mediante associazione che a lui facevano capo come Terra Insubre”. La stessa che ha percepito lecitamente un finanziamento da Fondazione Cariplo, al cui interno ha un ruolo Mascetti.

Secondo una denuncia depositata con l’avviso di chiusura indagini, “il sistema di tangenti e finanziamenti illeciti alla Lega” inizia in un comune della provincia di Varese, “con i soldi delle consulenze” che “ritornavano in contanti”. Si lavora su questo e anche sui piccoli comuni come Cairate il cui sindaco leghista, Paolo Mazzucchelli (non indagato), è risultato in contatto con Caianiello. Annota la Finanza: “I comuni di Cassano Magnago e Cairate” sono “controllati da loro”. Dirà Caianiello: “Cairate è come Gallarate”.

La rete, poi, è piena di incroci. Orrigoni, vicino alla Lega, si incontra con l’azzurro Bestetti grazie a Caianiello che lo definisce il “suo figlioccio, ha imparato in fretta e ha superato il padre”. Bestetti può dare una mano a mister Tigros che vuole aprire un supermercato nel quartiere milanese di Baggio.

Con loro anche Pietro Tatarella, consigliere comunale indagato. Dice Caianiello a Orrigoni: “I due hanno detto: facciamo modificare il progetto”. Dopo l’incontro, annota la Finanza, “Orrigoni domanda a Caianiello delucidazioni sulla dazione che dovrà elargire a Tatarella e Bestetti”. Dazione della quale al momento non è stata trovata traccia.

Tangenti, arrestata la Comi: “Soldi Ue per FI e Jurassic”

Sul tema ha persino firmato un libro. Si intitola Finanziamenti europei per tutti. È “un manuale d’uso per far capire a cittadini, imprese, enti e associazioni come cogliere le opportunità dei fondi Ue”, spiegava a Milano il 15 marzo. Perché “non utilizzare i fondi europei è uno spreco”, sottolineava quel giorno Lara Comi. Infatti lei i soldi Ue li ha utilizzati eccome. Tra il 2009 e il 2010, ad esempio, in qualità di deputata, aveva fatto assumere la madre come consulente all’Europarlamento e, scoperta, ha cominciato a restituire la somma. Ma non solo: per i fondi di Bruxelles l’ex eurodeputata di Forza Italia – arrestata ieri insieme a Paolo Orrigoni, titolare della catena Tigros, e Giuseppe Zingale, ex direttore generale della agenzia per il lavoro Afol – ha un senso particolarmente spiccato. Al punto – come emerge dalle pagine dell’ordinanza – da utilizzarli per far arrivare a “Jurassik Park” Nino Caianiello i soldi che lui le chiedeva per contribuire a coprire i costi del sistema di potere di Forza Italia in Lombardia.

Il ras del Varesotto pretendeva pagamenti regolari e più volte si era sfogato contro Lara, che non rispettava i patti: “Questa è da settembre che non tira fuori una lira per la sede”, si lamentava intercettato il 4 aprile 2019. Un modo escogitato da Nino per recuperare un po’ di soldi era stato alzare lo stipendio dell’addetto stampa della Comi e farsene dare una parte. Il 12 novembre 2018, Andrea Aliverti aveva firmato un nuovo contratto che portava il stipendio da 1.085 a 3.495 euro al mese: di questi 1.500 dovevano andare a Carmine Gorrasi, ex segretario provinciale FI, “per il pagamento delle spese delle strutture del partito nella provincia di Varese” e un’altra fetta doveva finire al famelico Caianiello.

Così facendo, annota il gip di Milano Raffaella Mascarino, Comi procurava “per sé e per altri un ingiusto profitto, pari alla predetta maggiorazione di importo, con corrispondente pari danno per il Parlamento europeo”, dimostrando altresì “nonostante la giovane età, una non comune esperienza nel fare ricorso ai diversi, collaudati schemi criminosi volti a fornire una parvenza legale al pagamento di tangenti, alla sottrazione fraudolenta di risorse pubbliche e all’incameramento di finanziamento illeciti”.

Per cogliere le occasioni, Lara – ora ai domiciliari per corruzione, false fatture, finanziamento illecito e truffa aggravata al Parlamento Ue – era arrivata al punto da portarsi Caianiello a Strasburgo. Lo aveva fatto facendogli firmare un contratto da collaboratore dal 1° novembre al 31 dicembre 2016 “per 40 ore settimanali a fronte di un corrispettivo di 2.450 lordi mensili”. Un’attività, annota il gip, “mai effettivamente e concretamente svolta”.

Il leitmotiv è uno solo: a Caianiello i soldi non bastano mai. E per accontentarlo la prima dei non eletti nel nord-ovest alle ultime Europee ricorre proprio al libro sui fondi Ue. Quelli “sono una battaglia della Comi. Molti fìnanziamenti europei, infatti, non vengono erogati per mancanza del progetto adeguato”, ha raccontato ai pm Maria Teresa Bergamaschi, a cui la forzista aveva fatto avere due contratti dalla Afol: uno da 17 mila euro e un altro da 21 mila. L’agenzia “aveva bisogno di consulenze in ambito europeo”, racconta l’avvocato genovese ai magistrati il 13 maggio. Caianiello ovviamente pretendeva che una parte di quei soldi Comi li “retrocedesse” a lui e a Zingale. I pagamenti però non arrivavano: “Io non ho visto niente”, ringhiava l’allora dg intercettato il 29 novembre 2018. “Io neanche”, confermava il ras. “E allora! Se non vediamo niente, non vedrà più niente nemmeno lei”.

Così la Comi era tornata a farsi sotto con la Bergamaschi e le aveva specificato che “avrei dovuto del denaro a Zingale quantificando la somma in 10 mila euro”. Maria Teresa però quei soldi non voleva tirarli fuori e l’amica le aveva proposto una soluzione: “Lei aveva la necessità di scrivere un libro sui finanziamenti europei e mi chiese di farlo per suo conto – racconta l’avvocato ligure –. Io le dissi che si poteva fare e quantificai su sua richiesta in circa 5 mila euro il costo della mia prestazione, che quindi procedemmo a compensare”. E gli altri 5 mila? “Dissi a Lara che l’avrei pagata a fronte di una fattura emessa dalla sua società (la Premium Consulting Srl, ndr) per una consulenza che io stessa le sub-affidai, a fronte di una consulenza che io stessa avevo ricevuto dalla società Cds Srl per un progetto europeo”. Una fattura che, specifica Maria Teresa, “era falsa”. In due parole, il senso di Lara per i fondi Ue.

Fare soldi con la CO²: inquinare conviene

L’Ilva di Taranto, impianto tra i più inquinanti d’Italia, negli anni a cavallo tra la gestione dei Riva e il commissariamento ha incassato più di 470 milioni di euro proprio grazie all’anidride carbonica diffusa nell’ambiente. E il paradosso non riguarda solo l’acciaieria che ora ArcelorMittal vuol ridare allo Stato.

Tra 2008 e 2015 i grandi gruppi dell’acciaio, del cemento, della chimica e del petrolio hanno messo a segno 25 miliardi di euro di incassi aggiuntivi come “effetto collaterale” del sistema europeo per lo scambio delle quote di emissione. Che sulla carta punta a ridurre i gas effetto serra rendendo costoso rilasciare CO². Ma sconta un peccato originale che al contrario consente all’industria del Vecchio continente di guadagnare dall’inquinamento. In modo legale e alla luce del sole.

Un’inchiesta di Fq MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez in edicola da sabato 16 novembre con un numero intitolato “Quanti ipocriti sul carro di Greta”, racconta retroscena e conseguenze di questo sistema pressoché sconosciuto fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori. La falla che ha aperto la strada ai “profitti eccezionali imprevisti” risale al 2005, quando il meccanismo dei permessi a inquinare è entrato in vigore. I pilastri dell’Emission trading system sono due: un tetto ogni anno più basso alla quantità totale di gas serra che possono essere diffusi in atmosfera e un mercato virtuale su cui le aziende vendono e comprano le quote. A regolare gli scambi, come su ogni mercato, devono essere i prezzi. Ma le istituzioni comunitarie temevano che i costi avrebbero incentivato la delocalizzazione. Così hanno stabilito che all’inizio le quote di emissione sarebbero state assegnate gratis, sulla base della produzione e della CO² emessa negli anni precedenti.

Nel 2008, però, con la crisi i livelli produttivi sono precipitati. Mentre il numero complessivo di diritti a rilasciare CO² è rimasto lo stesso. È a quel punto che i grandi gruppi industriali hanno iniziato a rivenderli sul mercato o scaricarne il valore sui clienti finali, guadagnandoci. Nell’elenco dei beneficiari, che vede al primo posto le aziende tedesche, compaiono fra gli altri Italcementi, Buzzi e Versalis. Fuori dai nostri confini spicca ArcelorMittal. Che nel 2018 ha stimato in 201 milioni di dollari il valore dei permessi ottenuti grazie alla presa in carico dell’Ilva (tutti i nomi e le cifre si trovano sul mensile in edicola). “Questi profitti in realtà erano stati previsti dall’Ue”, spiega a Fq MillenniuM Carlo Carraro, ordinario di Economia ambientale alla Ca’ Foscari di Venezia. “Sono serviti per aumentare il consenso all’introduzione del sistema, limitando l’opposizione dei Paesi dell’est Europa”.

Ma le agevolazioni ai grandi inquinatori non si sono esaurite dopo la fase introduttiva, né saranno tolte nel 2021 quando ci sarà una riforma del sistema: alcune tra le industrie più dannose per il clima, complice una forte azione di lobbying, continueranno a godere di un trattamento di favore. E riceveranno diritti gratuiti a inquinare per un valore di oltre 120 miliardi in dieci anni. Il conto lo paga l’ambiente, perché il risultato è che le emissioni del manifatturiero non calano. Non solo: i proventi di quella parte di permessi che gli Stati vendono effettivamente all’asta sono vincolati solo per metà al finanziamento di misure green. Germania, Regno Unito, Spagna e Francia utilizzano comunque l’intero ricavato per combattere il cambiamento climatico. L’Italia, schiacciata dal debito pubblico, ha invece dirottato il 50% al Fondo ammortamento titoli di Stato.

Mittal spegne l’area a caldo. Per Ilva conto alla rovescia

Ora che la comunicazione è ufficiale, il conto alla rovescia per l’Ilva di Taranto è partito. Arcelor Mittal se ne andrà, e cerca di farlo nel peggiore dei modi, con un “atto di guerra all’Italia”, per citare le parole del vicesegretario del Pd Andrea Orlando. Ieri l’ad della multinazionale, Lucia Morselli, ha riunito le Rsu del siderurgico tarantino annunciandogli il cronoprogramma che porterà alla chiusura dell’area a caldo, il cuore pulsante senza il quale l’Ilva semplicemente cessa di esistere.

Agli attoniti sindacalisti di Fiom, Uilm e Fim, Morselli ha spiegato il “piano di fermata”, che sarà inoltrato alle istituzioni, alle autorità competenti e al ministero dell’Ambiente che dovrà validarlo entro 60 giorni. Prevede lo spegnimento degli impianti a partire dall’area a caldo: l’altoforno 2 entro il 13 dicembre; l’altoforno 4 entro fine dicembre; l’altoforno 1 entro metà gennaio; agglomerato, cokerie e centrale termoelettrica si fermeranno subito. Già dal 26 novembre sarà chiuso il treno a caldo “per mancanza di ordini”.

Ai sindacalisti, Morselli ha motivato la decisione con l’eliminazione dello scudo penale decisa a fine ottobre e il fatto che il 13 dicembre scade il termine concesso dal tribunale di Taranto per mettere in sicurezza l’Afo2, sequestrato dopo la morte, avvenuta nel 2015, dell’operaio Alessandro Morricella. Secondo Mittal, per analogia anche gli altri due Afo sono insicuri e vanno fermati. “Una scusa”, attacca Francesco Brigati della Fiom. Che peraltro si scontra con il fatto che i commissari hanno depositato mercoledì i documenti per dimostrare di aver ottemperato al grosso delle prescrizioni per l’Afo2 (la cosiddetta “analisi di rischio”), e sono pronti a chiedere una proroga della scadenza per l’ultima, l’automazione del piano di colata. Un’impostazione condivisa con il custode giudiziario che non dovrebbe trovare il muro della procura. Sullo scudo, vale la pena di notare che dal 2015, quando è stato introdotto, è stato sollevato solo una volta in un procedimento penale, nel 2018 (e il Gip lo ha spedito alla Consulta).

La realtà è che Mittal ha deciso di mettere il governo spalle al muro, seguendo quanto già annunciato da Morselli due settimane fa: la fermata degli impianti. Oggi, al ministero dello Sviluppo, i vertici del gruppo incontreranno i sindacati alla presenza del ministro Stefano Patuanelli. Nel governo nessuno crede più che Mittal possa fare un passo indietro. L’unico obiettivo, adesso, è evitare un passaggio di consegne traumatico come quello a cui la multinazionale sta obbligando l’Italia.

Per questo è partita la corsa dei commissari per depositare già oggi al tribunale di Milano il ricorso d’urgenza (ex articolo 700) contro il recesso dal contratto avviato da Mittal, che al momento è solo affittuario degli impianti. Mossa che era stata inizialmente rallentata perchè mercoledì sera sembravano essersi aperti degli spiragli di trattativa: il colosso invece non si smuove dalla richiesta di 5mila esuberi e dal forte sconto sul prezzo d’acquisto (1,8 miliardi).

Il cuore del documento dei commissari (il cui deposito arriverà al peggio lunedì) è che Mittal deve rispettare gli impegni e gestire gli impianti senza danneggiarli fino a maggio, quando ci sarà la prima udienza nel merito sul recesso. Non può, quindi, comportarsi da proprietario è spegnere l’area a caldo, che porterebbe alla fine irreversibile dell’Ilva. Non solo. Secondo i commissari Mittal deve ripristinare anche il magazzino materie prime, stimato in centinaia di milioni, mentre invece sta svuotando i parchi minerali senza più scaricare merce per gli altiforni. La multinazionale, peraltro, sarebbe anche morosa visto che non ha ancora pagato il canone d’affitto (45 milioni) del trimestre agosto-settembre-ottobre. Dopo il deposito partiranno anche le diffide e le richieste di misure cautelari per il colosso. Intanto è allarme per l’indotto: le aziende denunciano i mancati pagamenti e crediti per 50 milioni, molte sono già ricorse alla cassa integrazione.

I sindacati si appellano al governo. Alla fine dell’Ilva manca meno di un mese.