Farsa dighe: pronte solo nel dicembre 2021. Da Conte 20 milioni per i primi indennizzi

Venezia senza difese dopo 50 anni di chiacchiere, sprechi e tangenti, è il vero dramma. L’acqua altissima del 12 novembre, con quel metro e 87 centimetri che sembrava inarrivabile dopo l’alluvione del ’66, lo ha solo confermato.

È per questo che il Mose, il sistema di dighe mobili che a 16 anni dall’apertura dei cantieri ancora non funziona, è il relitto-simbolo del naufragio di Venezia. Ma è anche un parafulmine e un feticcio a cui ci si aggrappa sperando che quando sorgerà dalle acque sarà capace di fermare le maree. E che non ci sarà un’altra volta. Al punto che molti si sono chiesti: ma non avrebbero potuto provarci, almeno per un volta? Non avrebbero potuto perché il Mose non è ancora stato messo in funzione, hanno alzato le barriere più volte per eseguire test. Il sofisticato sistema elettrico e idraulico, poi, non è completato. Serviranno ancora sei mesi. Quello attuale serve per la manutenzione e le prove. Infatti dal Consorzio Venezia Nuova confermano il cronoprogramma: appuntamento al 31 dicembre 2021.

Il problema è riuscire a rispettare almeno la data. Il premier Conte, arrivato mercoledì in Laguna, ieri ha visitato Pellestrina, l’isola più colpita. Ha annunciato di aver convocato per il 26 novembre il Comitatone interministeriale per la salvaguardia di Venezia. Il che è già una notizia. “Discuteremo anche la governance per i problemi strutturali, grandi navi, Mose, e un maggiore coordinamento tra le autorità competenti. Sta arrivando il Commissario straordinario per il Mose, dobbiamo integrare la nomina del Consorzio Venezia Nuova e c’è ancora il Provveditorato competente sulle acque. Dobbiamo coordinare meglio il lavoro”.

Ha così accolto le richieste formulate dal sindaco Luigi Brugnaro. Poco dopo il ministro delle Infrastrutture, Paola De Micheli, ha annunciato che il supercommissario sarà Elisabetta Spitz, ex direttore dell’Agenzia del Demanio. Insomma, il governo vuole procedere sulla via del completamento dell’opera e riavviare procedure in stallo. Il premier ha poi anticipato. “Adotteremo il decreto che dichiara lo stato di emergenza per Venezia, come ci è stato chiesto dal presidente della Regione”. Nel pomeriggio approvati i primi 20 milioni di euro. Come in tutte le calamità naturali, dopo l’emergenza, ci si preoccupa dei danni, che secondo alcune fonti arriverebbero a 1 miliardo di euro. Conte ha spiegato che vi sono due fasi: “La prima ci consentirà di indennizzare i privati e gli esercenti sino a un limite per i primi di 5 mila euro e per i secondi di 20 mila euro”. La seconda? “Per chi ha danni più consistenti, li quantificheremo con più calma e potranno essere liquidati dietro istruttoria tecnica”.

Sulla linea del fare c’è anche il ministro Luigi Di Maio, che ha attaccato: “Promuovi opere pubbliche come questa, nate già vecchie e infarcite di tangenti e corruzione? Questo è l’effetto. Un’opera fermata dalla magistratura per indagini, ora, benché non sia la migliore soluzione possibile, va terminata al più presto per proteggere Venezia subito”.

In piazza San Marco è comparso perfino Silvio Berlusconi, con gli stivali da acqua alta. “Il Mose va finito”. Per forza, la prima pietra la mise lui, nel 2003, quando era all’apice del potere, con accanto Giancarlo Galan.

Voce in controtendenza, quella di Armando Danella di Ambiente Venezia: “Saranno i cambiamenti climatici ad affondare il Mose, perché dimostrano che è un’opera vecchia e dannosa. Il governo cambi rotta”. Oggi nuovo colmo di piena alle 11:20 a 145 centimetri, scirocco permettendo.

Le facce da Mose sul luogo del disastro: “E lo Stato che fa?”

La fotografia definitiva sul Mose porta la data del 14 maggio 2003. È stata scattata a Venezia dopo la posa simbolica della prima pietra. I soggetti stringono tra le mani un pezzo di nastro tricolore che è appena stato tagliato: sulla sinistra in cappotto scuro c’è Altero Matteoli, ministro dell’Ambiente ex Msi; alla sua destra c’è un sorridente Giancarlo Galan presidente della Regione Veneto di Forza Italia; al centro l’uomo con le forbici in mano, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; alla sua destra c’è il leghista Luca Zaia, si distingue per il fazzoletto verde appuntato sulla giacca nera (all’epoca era presidente della provincia di Treviso, due anni dopo sarebbe diventato vice di Galan in Regione e nel 2010 avrebbe preso il suo posto); sulla destra con un vistoso foulard rosso gonfiato dal vento c’è Renato Brunetta, veneziano, ai tempi eurodeputato di Forza Italia, il futuro gli avrebbe regalato vari incarichi, tra cui quello di ministro.

È una foto a suo modo incredibile, come tutte quelle che precedono un disastro. I cinque politici sorridenti e ben vestiti inauguravano quello che sarebbe diventato un monumentale altare all’incapacità e alla corruzione della politica italiana.

Eppure ancora oggi hanno la faccia – invecchiata in modo più o meno inclemente – per correre a Venezia a parlare di Mose, cercando – altrove – i colpevoli della catastrofe. Tranne il povero Matteoli, morto in un incidente stradale nel 2017 (pochi mesi dopo la condanna a 4 anni per corruzione), in questi giorni hanno parlato tutti.

Persino Giancarlo Galan, il personaggio simbolo dell’inchiesta sulle tangenti del Mose, per la quale ha conosciuto il carcere di Opera e poi patteggiato una pena di due anni e 10 mesi (e la restituzione di 2,5 milioni di euro). Ieri Galan è tornato metaforicamente sul luogo del (suo) delitto. Senza arretrare di un millimetro: “Il Mose funzionerà, sarà la più grande opera idraulica della storia dell’umanità dopo il Canale di Panama”, ha detto ai microfoni di Radio Cafè. Di chi è la colpa, quindi? “Doveva essere pronto nel 2012, andate a verificare. È in ritardo? Chiedete a Roma. La Regione non c’entra niente”.

Galan chiama in causa i governi (anche quello in cui ha fatto il ministro?). A Roma, per lustri, a Palazzo Chigi c’è stato lui. Silvio Berlusconi ieri è corso a Venezia ad abbracciare il sindaco Luigi Brugnaro (e si è pure commosso). L’ex premier non si dà pace: “È uno scandalo che il Mose non sia ancora in funzione. C’era una prova il 4 novembre che non è stata fatta, quindi si potrebbe già provare a usarlo”. È lo stesso Berlusconi che dal 2003 a oggi è stato presidente del Consiglio in due diversi mandati, lo stesso Berlusconi che è stato leader della maggioranza di centrodestra che ha governato ininterrottamente il Veneto negli ultimi 18 anni, lo stesso Berlusconi che ha fatto eleggere governatore per tre volte il pregiudicato Galan, lo stesso Berlusconi che nel 1999 dichiarava: “Il Mose sarà pronto presto”. Vent’anni fa. Oggi dà la colpa al grillino Toninelli, rimasto ai Trasporti per 15 mesi: “Era contrario a tutte le opere pubbliche”.

In stivaloni accanto all’ex premier, durante la visita alla città sommersa, c’è Renato Brunetta. Anche lui straordinario sostenitore di quest’opera disastrosa, pure lui tra i protagonisti della lunga stagione del centrodestra di governo, e particolarmente coinvolto nelle decisioni sulla sua Venezia. Oggi ovviamente non sa a chi dare la colpa: “Con il Mose – dice – l’acqua alta non avrebbe travolto tutto. Soltanto che l’opera è stata fermata in ragione degli scandali succedutisi dal 2014 in poi”. Eh già.

E con chi se la prende Luca Zaia? “Il Mose è uno scandalo nazionale – arringa in queste ore l’uomo che governa il Veneto dal 2010 – perché non è in funzione?”. Lui, sia chiaro, non c’entra nulla: “Non è un’opera della Regione, ma un cantiere dello Stato”. Eppure uno dei primissimi atti di Zaia da presidente fu una visita trionfale, con stampa al seguito, proprio a quel cantiere “dello Stato”: “Questa non sarà un’opera incompiuta”, giurava. E firmava con il pennarello uno dei container (sempre dello Stato, sia chiaro) per rendere omaggio agli operai: “Grazie!!!”. Ora, con sprezzo del ridicolo, attacca l’attuale ministra delle Infrastrutture, la dem Paola De Micheli: “Abbiamo un’opera da 5 miliardi di euro che resta bloccata sott’acqua”, arringa il leghista. Risposta: “Ma Zaia in questi anni stava sulla luna?”.

Lo scontro tra commissari mentre Venezia affondava

A Venezia i centimetri contano. Quindici, venti in meno, martedì scorso, avrebbero impedito che l’acqua entrasse nella cripta della basilica di San Marco. È accaduto soltanto 6 volte in 1200 anni. La simulazione effettuata in quelle ore all’interno del Consorzio Venezia Nuova, tra qualche giorno, è destinata a dimostrare che si sarebbe potuto evitare. I tecnici del Cvn sono convinti che, alzando le paratie della bocca di Lido, con un picco intenso e di breve durata, come quello di martedì, la marea si sarebbe abbassata tra i 10 e 20 centimetri, rispetto ai 187 di martedì. A differenza della simulazione effettuata a ottobre scorso che, però, con maree e venti diversi, ha dimostrato che l’effetto è stato poi vanificato in assenza di tutte le altre paratie.

Il punto è che sin da lunedì uno dei commissari straordinari del Mose, l’avvocato Giuseppe Fiengo, aveva messo in campo la proposta di testare le paratie di bocca di Lido. L’altro commissario straordinario, il professor Francesco Ossola, non è stato d’accordo. E la proposta non è stata accolta.

Alle 17 di lunedì, quando le previsioni già annunciano acqua alta intorno ai 145 centimetri, il sindaco di Chioggia chiama l’avvocato Fiengo per fargli una richiesta: “Considerate le previsioni – gli dice Alessandro Ferro – facciamo un tentativo per alzare le paratie della bocca di porto di Chioggia”. “Quale migliore occasione per testarlo – spiega al Fatto il sindaco – considerato che i test precedenti erano stati positivi, sia a Chioggia che a bocca di Lido?”.

In effetti, l’unico test non andato a buon fine, poche settimane fa, è stato quello della bocca di Malamocco, a causa di vibrazioni che non erano previste, provocate da un imperfetto funzionamento delle staffe. L’inconveniente ha portato il Cvn a rimandare il test successivo, previsto il 4 novembre e annunciato come una sorta di prova generale. L’episodio, come vedremo, in questa storia ha la sua rilevanza. E per capirlo dobbiamo tornare alla telefonata di martedì scorso tra il sindaco di Chioggia e il commissario Fiengo.

Alla richiesta del primo cittadino, Fiengo si mostra in qualche modo favorevole, ma spiega che l’idea non è praticabile: l’opera non è stata ancora collaudata. Giusto. Ma qui si trattava di altro. Di un test. E i test già effettuati dicono che, con l’attivazione delle paratoie di bocca di Lido, l’acqua sarebbe salita dai 10 ai 20 centimetri in meno. Molti veneziani avrebbero avuto notevoli danni in meno. E anche per la basilica di san Marco la situazione sarebbe cambiata: “Con 15, 20 centimetri in meno avremmo evitato questa tragedia”, spiega al Fatto il procuratore della basilica di San Marco, Pierpaolo Campostrini.

Fiengo è disponibile a testare le paratie di bocca di Lido, ma Ossola gli ricorda che è lui, a rivestire il ruolo di responsabile della sicurezza, quindi non c’è nulla da fare. Nelle riunioni si sottolinea che i test sono stati sospesi dopo le vibrazioni emerse nei giorni precedenti. Vero. Ma riguardavano la sola bocca di Malamocco. La paratie, a bocca di Lido, non hanno dato alcun problema. La vicenda, per quanto risulta al Fatto Quotidiano, è stata poi verbalizzata il giorno dopo, martedì, quando la situazione è precipitata. La divergenza di vedute è stata quindi messa nero su bianco. Anche il sindaco di Chioggia, dopo aver chiamato Fiengo, prova a contattare anche Ossola, attraverso un suo direttore tecnico, ma la proposta di testare le paratie non viene accettata.

In un’intervista al Corriere Ossola ha spiegato che le parti meccaniche e il software non sono ancora tarati. E c’è il rischio, in condizioni di vento estremo, come quelle di martedì, che le onde scavalchino le paratoie creando dei danni.

Poi aggiunge che per il funzionamento del Mose sono necessarie quattro squadre mentre, a disposizione del Cvn, ce n’è solo una, quella che si occupa dei test. Il punto è che proprio di un test si trattava. E proprio un test proponeva il commissario Fiengo. Non sappiamo chi tra Ossola e Fiengo abbia ragione, e di certo il parere più tecnico è quello di Ossola, ma sappiamo che le simulazioni dimostrano che la marea si sarebbe abbassata di circa 20 centimetri. È lo stesso Ossola a parlarne nell’intervista. Giudicandoli però “non risolutivi”. Per il procuratore della basilica di San Marco, invece, avrebbero potuto risolvere tanto. Non pensa – chiediamo a Fiengo – che con quel tentativo avreste potuto salvare la Basilica? “È uno dei motivi per cui ho messo in campo questa possibilità. Ma non sono un tecnico. E sapevo che non eravamo bene attrezzati”.

La Salvinistra

L’ultima scemenza della sinistra salviniana da talk show, detta anche Salvinistra, è che “Salvini ha una narrazione, mentre il governo giallo-rosa non ce l’ha”. Cioè non racconta balle, visto che la “narrazione” salviniana è una raffica di panzane. Ma la circostanza non sfiora neppure questi geni del tafazzismo, che certificano le cazzate del Cazzaro ogni volta che aprono bocca. L’altroieri avevano un assist imperdibile: è finita sott’acqua Venezia, governata da un sindaco di centrodestra e da una Regione leghista da sempre, dopo trent’anni di annunci a vanvera, promesse mancate, miliardi (6 o 7) buttati nel Mose, con annessi sprechi, marchette, mazzette e retate che affratellano la Prima e la Seconda Repubblica. Naturalmente il Mose non funziona: non è mai stato completato (siamo al 95%, dicono), ma in compenso le strutture metalliche sono in acqua da tempo, ormai arrugginite e cadenti prim’ancora dell’inaugurazione, così ai costi dell’ultimo miglio andranno aggiunti quelli delle riparazioni. La prova per il varo, slittata dal 2011 al 2020, è rinviata al 2021 e forse è meglio così: nessuno sa se, dopo, il Mose proteggerà Venezia dall’acqua alta. Lo scopriremo solo vivendo, anzi spendendo. E molti esperti giurano che non servirà a niente. Del resto non si chiama così in onore di Mosè (se no era meglio Noè), ma del Modulo Sperimentale Elettromeccanico: cioè è un esperimento mai tentato al mondo, il più caro della storia, al buio.

Ora è tutto uno starnazzare di Zaia, Brunetta, Brugnaro, Salvini e altre facce da Mose: “Dateci il Mose! Dov’è il Mose?”. A noi, lo chiedono. Zaia potrebbe domandarlo a Galan, arrestato per tangenti sul Mose, di cui era il vice prima di prenderne il posto. Brunetta, oltreché a Galan, potrebbe chiederlo a se stesso e a B., che insieme a Lunardi, Matteoli, Costa, Lupi, Delrio e altri preclari ministri, hanno sponsorizzato la boiata pazzesca a spese nostre. E Salvini, anziché chiedere altri 100 milioni per il Mose, dovrebbe domandare ai suoi campioni del buon governo veneto che fine han fatto i 6 miliardi già spesi. Ma di queste facce da Mose la Salvinistra non parla, anche perché dovrebbe sconfessare Prodi&C.. L’altroieri, a Otto e mezzo, Sallusti incolpava gli ambientalisti, i pm e naturalmente i 5Stelle, cioè quelli che sul Mose avevano ragione, ma purtroppo non hanno mai governato né il Veneto né l’Italia quando il Partito Trasversale degli Affari buttava i nostri soldi. In studio c’era il solito esponente tascabile della Salvinistra. Poteva contrastare la narrazione sallustiana ricordando che in Veneto da 25 anni non muove foglia che la Lega e B. non vogliano.

Invece parlava d’altro: attaccava anche lui i 5Stelle (“il loro programma era contro il Mose”: cioè avevano ragione) e il governo Conte “ostaggio di una minoranza M5S sullo scudo a Mittal”. Un frittomisto di Mose e di Ilva con le solite balle sull’immunità abolita: come se Arcelor Mittal fuggisse da Taranto per quella (chiude pure le acciaierie in Polonia, Sudafrica e Usa: cazzo c’entra lo scudo?) e a doversi vergognare fosse chi l’ha tolta, non chi l’ha data. È la narrazione salviniana, a sua volta identica a quella berlusconiana e renziana. Il “partito del Pil e dei sì” che “sblocca i cantieri” delle grandi opere contro il “partito della decrescita e dei no”. Invano Cacciari si sgolava a ricordare che da un quarto di secolo il Mose prosciuga tutte le risorse di Venezia, rubandole alla manutenzione, alla pulizia dei fondali, al restauro dei ponti, al consolidamento delle fondamenta, ai progetti di barriere anti-acqua alta molto più efficaci ma molto meno costosi. E proprio questo era ed è sempre il problema: piccole opere = piccoli costi e piccole mazzette; grandi opere = grandi costi e grandi mazzette. Vale per il Mose, l’Expo, le Olimpiadi e il Tav che, se mai si farà dopo 30 anni di balle, sarà il Mose di domani (con costi tripli, però).

Questa è l’unica “narrazione” alternativa a quella dei salvinisti e della Salvinistra: quella del buonsenso, della legalità e dell’ambientalismo che, fra l’altro, ha il pregio di dire la verità. E impone di finirla con gli Sblocca-Italia: semmai serve un poderoso Blocca-Italia, inteso come blocca-grandi opere inutili e sblocca-piccole opere utili. Ma non è di moda, perché il Partito degli Affari allunga i suoi tentacoli da destra a sinistra, con i giornaloni (gli stessi che la menano con Greta) a fare il coro. E chi stecca in quel coro perde. Quando nacque il governo giallo-verde, il M5S impose di condizionare ogni opera pubblica da iniziare o appena iniziata (per il Mose il danno ormai era fatto) a una severa analisi costi-benefici. Ma bastò la prima, quella che bocciava il Tav per 8 miliardi di perdite, perché quel metodo fosse abbandonato. Per mesi il M5S, Toninelli in testa, fu lapidato da destra e da sinistra, dai trombettieri di Confindustria e dalle loro madamine, come il partito che bloccava l’Italia, mentre purtroppo non era riuscito a bloccare nulla. E ci perse le Europee. La scena del 7 agosto 2019 in Senato, vigilia della crisi del Papeete, è un reperto d’epoca: tutti i partiti, dai “fascisti” della Lega ai loro alleati FI&FdI agli “antifascisti” del Pd, che votano tutti insieme appassionatamente per il Tav. E i 5Stelle soli con un pezzo di LeU che votano contro, cioè pro ambiente, pro risparmio, pro Val di Susa. Se i giallorosa vogliono essere alternativi al salvinismo, lascino starnazzare la destra e la Salvinistra e tirino dritto su una vera green economy e una dura lotta all’evasione, alla corruzione e alla prescrizione. Avranno contro l’Italia dei prenditori, dei magnager e dei loro giornaloni, e a favore l’Italia dei cittadini onesti. Tra le due Italie non c’è compromesso che tenga. O si sceglie la seconda, o tanto vale lasciare subito il campo a Salvini: la prima preferisce lui.

Addio a Poulidor, il più grande “secondo classificato” della storia

Un paio di giorni prima di morire, Jacques Anquetil chiama al telefono Raymond Poulidor, il grande avversario di mille corse, l’eterno secondo della mitologia ciclistica francese. È il suo addio malandrino. Anquetil ha vinto cinque Tour de France, Poulidor nessuno: è stato tre volte secondo e otto volte terzo. Non ha mai indossato la maglia gialla. Jacquot è spossato. Il cancro allo stomaco è ormai devastante. Ma prima di soccombere, non resiste a ironizzare sull’antica rivalità, persino dinanzi all’ultimo traguardo della vita: “Ti rendi conto, vecchio mio, non hai veramente fortuna, perché ancora una volta sarai secondo…”. Jacques Anquetil spira il 18 novembre 1987. Giusto 32 anni dopo, pure PouPou ha tagliato quel maledetto traguardo e ha raggiunto Jacquot. Poulidor, infatti, è spirato ieri nella sua abitazione di Saint-Léonard-de-Noblet. Aveva 83 anni. E molti rimpianti. Quel prologo del Tour 1970, perso per un soffio, otto decimi di secondo, quando l’olandese Joop Zoetemelk gli soffiò la maglia. O la celebre ventesima tappa del Tour 1964, quella del Puy de Dome, l’arrampicata che divenne un drammatico e furibondo duello spalla a spalla con Anquetil, ma pure quel giorno sfiorò la maglia gialla, senza sfilarla al rivale, che restò in vetta alla classifica per 14 secondi. Alla fine, perse quel Tour, staccato di 55 secondi. Più beffarda fu la malasorte durante il Tour del 1968: senza Anquetil, tutti lo davano per favorito. Il quotidiano Le Monde aveva addirittura enfatizzato la sua partecipazione: “Una sola cosa marcia in Francia, ed è Poulidor”…

Il 15 luglio Poulidor viene travolto dalla moto che segnala i distacchi. Doppia frattura dell’osso frontale. Il volto sanguinante e tumefatto, le lacrime, il ritiro: il dramma commosse i francesi per i quali la carriera del campione sventurato appariva un vero e proprio martirio. Lo amarono di più, perché rappresentava ai loro occhi uno di loro che aveva osato battersi contro un semidio della bicicletta, un fuoriclasse di misteriosa (e superiore) qualità. Ma Poulidor aveva cuore, rabbia, tenacia. E questo compensava la delusione delle amare sconfitte. Per Anquetil si provava stupore.

Per PouPou, compassione e amore.

E tuttavia, Raymond mai si lagnò di questo infame destino, di questa maledizione che gli impediva di trionfare al Tour. Accettava questa sorte ingrata, almeno, l’accettava in pubblico: “Più ero sfortunato, più la gente mi apprezzava, e più guadagnavo grazie a questa fama, al punto che talvolta arrivavo a pensare che vincere non serviva a niente…”. Era consapevole che se avesse vinto il Tour, di lui si sarebbe parlato molto di meno. Gli andava il ruolo di Ettore al cospetto d’Achille. E che i duelli con Anquetil – parossistici in molte occasioni – riuscissero a polarizzare i francesi, tra “anquetilistes” e “poulidoriens”. Emblematico il titolo dell’Equipe, il giornale organizzatore della Grande Boucle, che alla fine del Tour 1964, titolò: “Anquetil il vincitore, Poulidor

l’eroe”. Oh, intendiamoci, di vittorie ne collezionò tante. E alcune di prestigio: la Milano-Sanremo del 1961, la Freccia Vallone del 1963, la Vuelta dell’anno dopo. Conquistò pure sette tappe del Tour, in tutta la carriera arrivò primo per 189 volte. Appese la bici al chiodo nel 1977, a 41 anni, capace ancora d’arrivare sul podio del Tour. Erano gli anni in cui la gente inviava lettere a “monsieur Poulidor, France”. E Antoine Blondin, il cantore del ciclismo d’Oltralpe, rivelò che chi soffriva di più la “poupoularité” di Raymond era Anquetil: perché aveva scoperto che nei Criterium, le gare in circuito a pagamento, lui pigliava cachet più alti. Alla faccia del palmarès.

La Divina in forma smagliante incanta tutti (da ologramma)

Inotabili del governo greco sparsero nell’Egeo le ceneri di Maria: una folata di vento dispettosa le respinse a bordo della nave. A quarantadue anni dal suo rito funebre, e dopo aver riconquistato a suon di ovazioni il pubblico tra le due sponde dell’Atlantico, la Callas si esibirà domani sera a Padova al Gran Teatro Geox, accompagnata dalla Bohemian Symphony Orchestra di Praga diretta da Eimean Noone. La Divina, in forma smagliante con uno scialle rosso a fasciare l’abito bianco, dispenserà tutta la gloria del repertorio, dal Roméo et Juliette di Gounoud al Macbeth verdiano, passando per la Carmen di Bizet e la Gioconda di Ponchielli fino alle immancabili Casta Diva e Vissi d’arte. Lo stregone del “The Hologram Tour” è il direttore creativo Stephen Wadsworth, che sulla Callas ha operato a Broadway in Master Class di Terence McNally. Per la prima volta in Italia, dunque, un fantasma tornerà in scena. Altri sono già in giro per il mondo. Come se un Ulisse impresario fosse sceso nell’Ade a convincere i grandi della musica a tornare su a prendersi l’applauso.

L’ologramma porta i concerti al di là dei confini della realtà: prendi un big defunto, ti fai concedere la licenza dagli eredi, poi costruisci lo spettacolo sfruttando l’evoluzione di una tecnologia già in voga nell’800, la “Pepper’s ghost”, che utilizzava luci, fumi e piani inclinati per suggerire l’illusione di uno spettro reincarnato.

Oggi i marchi vincenti del settore (Base, Eyellusion ed Hologram Usa, tutti americani) sono vicini alla perfezione dell’effetto esoterico-live: serve un attore che impersoni il caro estinto e ne riproduca nei dettagli movenze e vezzi. Sulla testa del doppelgänger vengono piazzate microcamere che catturino smorfie, sguardi, movimenti della bocca. A quel punto, con il computer, si “innesta” la faccia digitale della star, sostituendola a quella del sosia. Si macina di espressività e rendering come a Hollywood, creando opacità e profondità sul corpo del personaggio. Infine si lavora su ballo e canto, registrando la performance con laser in 2D che la proietteranno su uno schermo in plexiglass o su invisibili fogli di mylar posti al centro del palco, mentre i musicisti in carne e ossa interagiranno con il protagonista dello show. Dopo pochi minuti gli spettatori saranno convinti di assistere a un prodigio.

Considerazioni etiche a parte, l’ologramma-show è un business colossale: tra qualche decennio tutte le leggende del rock saranno decedute, e sarà il turno di Rolling Stones o Elton John. Ma chi resisterebbe già oggi alla tentazione di rivedere Elvis, Freddie Mercury o Hendrix? E non si parla di fantascienza alla Bladerunner. Nel 2012 fece sensazione, al Festival di Coachella, l’apparizione di Tupac Shakur, il re del rap ucciso nel 1996. Sembrava ripescato dall’Oltretomba, salutò persino i presenti. Due anni più tardi, al Billboard Awards, mattatore fu Michael Jackson, scomparso un lustro prima: ballava e cantava come nei momenti migliori. Un paio di anni fa i metallari si sono divisi sulla tournée post mortem di Ronnie James Dio, compianto frontman dei Black Sabbath, ma alla fine erano tutti lì in visibilio a fare le corna heavy. Per non dire di Zappa: la band che lo circondava era la sua, la voce di Frank era stata ricavata da un set inedito del ’74.

Oggi è battaglia tra i produttori: alla Eyellusion studiano un tributo a David Bowie, con l’ologramma che debutta da Ziggy Stardurt e finisce nei panni del Duca Bianco. Quelli della Base (che propongono la Callas) stanno presentando tra Usa ed Europa un fortunato “Rock’n’roll dreams tour” con Roy Orbison e Buddy Holly. La novantenne vedova di Buddy piange quando rivede il marito, precipitato con l’aereo nel 1959. Ed è annunciato per febbraio 2020 l’allestimento faraonico su Whitney Houston (con 18 tra coristi, strumentisti e ballerini), mentre alla Hologram Usa si fregano le mani per gli incassi su Billie Holiday e puntano dritti su Amy Winehouse.

Ma è necessario aver lasciato il pianeta Terra per essere ologrammati? Macché: l’avvenimento clou del prossimo anno sarà marcato “Abbatar”. Con gli avatar dei quattro sovrani svedesi dell’ultrapop tonici come quarant’anni fa. Tre canzoni nuove, la band che pompa Mamma mia! e loro a casa alle prese con gli acciacchi. Le implicazioni del filone sono infinite: saranno presto riesumati dittatori, santi, sportivi, animali estinti. Potrebbero giovarne anche i politici estenuati dai rally elettorali. Tanto, ci pensano gli schiavi virtuali a mandare avanti la baracca.

Da Mussolini a Churchill, i veri drogati fanno la storia

La Storia la scrivono i tossici: Kennedy era dipendente dalle anfetamine, Hitler dagli oppioidi, Mussolini dai clisteri, Mao dal sesso, e via così. Turbe psichiche, e quindi farmaci e droghe, non sono solo appannaggio dei dittatori: “Su 37 presidenti americani dal 1776 al 1974, 18 (49%) presentavano disturbi psichiatrici come depressione o alcolismo”. Lo rivela Tania Crasnianksi ne Il potere tossico – in libreria da oggi con Mimesis –, in cui sbozza i ritratti dei più influenti leader del XX secolo “sotto controllo medico”, dalla cui salute dipese la sorte del mondo intero.

Churchill. Winston avrebbe voluto passare la vita a mollo nella vasca da bagno perché gli alleviava il “black dog”, la depressione (forse sindrome bipolare). Lord Moran fu all’inizio restio a prescrivergli droghe, poi cedette sulle anfetamine e gli ipnotici e infine passò agli stimolanti, più barbiturici e antidolorifici. Ma non riuscì a cambiare lo stile di vita del paziente: fino a 10 sigari al giorno, mezzo litro di champagne, vino bianco a pranzo, vino rosso a cena, brandy di notte. Spesso andava in aula brillo; quando una deputata lo incalzò, dandogli dell’ubriacone, il premier rispose: “Signora, lei è brutta. Ma io domani non sarò più ubriaco”.

Mussolini. Georg Zachariae fu caldeggiato dall’amico Adolf, preoccupato per la salute del duce: non mangiava, non andava di corpo, non dormiva e si imbottiva di lassativi, oltre a soffrire di anemia e pressione bassa. Il doktor iniziò a curarlo con iniezioni di testosterone e ormoni estratti da testicoli animali, proprio lui che si rifiutava di mangiarli, osservando un regime vegano. In compenso trangugiava cocktail stimolanti a base anche di batteri per la flora intestinale. Ma le sue malattie, dalla gastrite all’astenia, erano di origine psicologica: una depressione nervosa, pare, e infatti per l’autopsia Mussolini morì in salute.

Hitler. Theodor Morell prescriveva ad Adolf “elevate dosi di medicinali, ai limiti della legalità” tra oppioidi, anfetamine, barbiturici, sedativi, cocaina, morfina, stimolanti per il cuore e “pozioni” con vitamine, batteri, steroidi e ormoni, più belladonna e stricnina contro la flatulenza. Niente di illegale, anzi: i laboratori nazisti sintetizzarono per primi l’eroina per curare la dipendenza da morfina. Ma la tossicodipendenza del “paziente A” diventò insostenibile nel 1943, quando intuì che la guerra era ormai persa.

Kennedy. Jfk consumò stupefacenti almeno quanto Hitler: suo pusher fu Max Jacobson, il “doctor Feelgood”, specialista dello stress, a sua volta drogato. Kennedy era dipendente dagli analgesici sin da ragazzo, oltre a soffrire del morbo di Addison, curato con cortisone e steroidi, ma la lista di farmaci era più lunga: antibiotici contro le malattie veneree, anfetamine, barbiturici, ritalin, benzedrine, oppiacei (come il Fentanyl, tornato di moda), codeina, metadone, alcol, cocaina, Lsd, hashish. E vitamine. Il dottore gli faceva le iniezioni sul collo, ogni 6 ore.

Stalin. Vladimir Vinogradov fu fatto fuori – professionalmente; c’è a chi andò peggio – nel 1953 a causa delle paranoie del paziente-dittatore, che paventava un complotto di medici ebrei. Eppure Stalin fu ucciso dalle sue stesse fobie perché si rifiutò di farsi curare. Colto da ictus, rimase in agonia per giorni: dopo la morte si scoprì che la sua grave forma di arteriosclerosi aumentava i deliri persecutori.

Mao. Era un erotomane: credeva di conquistare la “longevità tramite il sesso”, accoppiandosi con ragazzine e ragazzini. Ovviamente contrasse molte malattie veneree, favorite dalla scarsa igiene: non si lavava mai, nemmeno i denti, e soffriva d’insonnia, curata da Li Zhisui con un anestetico e barbiturici. Il dottore non durò molto: in preda ai suoi quarti di luna e di sciatica, Mao lo licenziò perché “la mia medicina è solo nuotare”.

Pétain. I maligni sussurravano che da quando c’era il Maresciallo la “Francia era governata da un medico di campagna”, Bernard Ménétrel. Per altri Pétain era un “rimbambito”, manipolato dal suo terapeuta. In realtà era pigrissimo: lavorava solo tre ore al giorno, tenendosi su con la benzedrina. La sua lucidità mentale peggiorò di anno in anno, tanto che al processo – nel 1945 – andò completamente fuso.

Franco. Vicente Gil era “Vincentón” per l’amico Francisco, un “Caudillo” ossessionato dall’odore della polvere da sparo, segno di “una vita sessuale insoddisfacente”. Franco godeva di buona salute, a parte gli stravizi a tavola che lo portarono a pesare oltre 90 chili per 1,63 di altezza. Quando morì d’infarto, la cartella clinica riportava oltre una dozzina di patologie.

Gaza-Israele, colpi incrociati: 23 arabi morti

Gli infaticabili mediatori egiziani sono al lavoro, con i buoni uffici del Qatar, per fermare l’escalation militare a Gaza, ma intanto nei cieli sopra la Striscia si incrociano missili palestinesi e caccia israeliani.

Il segretario generale della Jihad islamica Ziad al-Nakhala si è incontrato al Cairo ieri sera con mediatori egiziani che cercano un’intesa per un “cessate il fuoco” tra Israele e il gruppo islamista. È già in Egitto l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente, Nikolay Mladenov, che è stato responsabile del raggiungimento delle tregue che hanno posto fine ai precedenti conflitti di Gaza. Si spera ma intanto si spara. Ieri è stata un’altra giornata di guerra nel sud di Israele, sale il numero delle vittime palestinesi – in serata il conto si è fermato a 23 morti e 50 feriti – aumentano i danni inferti in Israele dallo sciame di missili e mortai che partono dalla Striscia, con le rampe di lancio nascoste fra le case, gli uliveti, vicino le scuole dell’Onu. Diventa così difficile per l’Idf organizzare una risposta davvero mirata senza il rischio di colpire civili, ecco perché sale il numero delle vittime.

Se il lancio dei missili – ieri si è superata quota 300, gran parte dei quali intercettati dalle batterie Iron Dome – dovesse proseguire, Israele è pronto all’escalation e tornare alla procedura delle “uccisioni mirate” dei leader islamisti. Non ha usato mezze misure il premier uscente Benjamin Netanyahu che è andato al comando sud – responsabile delle operazioni nella Striscia – con il neo ministro della Difesa Naftaly Bennett. Il portavoce dell’Idf – il generale Hidai Zilberman – in un incontro con la stampa ha annunciato che i militari hanno dispiegato ulteriori sistemi di difesa aerea dell’Iron Dome nell’Israele centrale come precauzione contro i nuovi attacchi alla regione più densamente popolata del paese. Le unità di commando dell’Idf sono state anche inviate a sud verso le comunità vicino al confine di Gaza per difenderle in caso di tentativi di infiltrazione da parte di terroristi della Striscia. L’alto ufficiale ha annunciato che finora Hamas non si è unito ai combattimenti e che l’Idf sta facendo attenzione a tenere quel gruppo islamico, i governanti di Gaza dal 2007, fuori dal conflitto astenendosi dall’attaccare i suoi siti e cercando di limitare i danni collaterali, cosa che potrebbe costringere i suoi miliziani a reagire. “Noi non stiamo attaccando Hamas. Gli obiettivi della Jihad islamica che stiamo bombardando non sono al centro di Gaza City, sappiamo che stiamo camminando sul filo del rasoio. Abbiamo centinaia di altri target che possiamo attaccare”, ha concluso Zilberman. Non c’è dubbio che in questa crisi gli obiettivi (immediati) di Hamas e Jihad islamica – finanziata dagli iraniani e numericamente meno consistente – divergano. Hamas è interessato al mantenimento della tregua con Israele, al transito delle (poche) merci dai valichi ufficiali su cui esige una tassa, ai 30 milioni di dollari al mese che arrivano dal Qatar e passano con l’accordo di Israele necessari a pagare i dipendenti governativi, all’allargamento delle zone di pesca e ai permessi di uscita giornalieri per i lavoratori agricoli. Aperture di Israele in cambio della calma attorno alla Striscia. La Jihad islamica palestinese non ha come Hamas la responsabilità di gestire gli affari quotidiani di un territorio devastato e impoverito, non governa e non sente vincoli. Vuole però sedersi al tavolo dove si spartiscono gli aiuti per i disperati di Gaza.

Kievgate, comincia lo “show”. Kent inguaia Rudy Giuliani

Con la sfilata dei testi in audizione pubblica e in diretta televisiva, l’inchiesta sull’impeachment diventa show mediatico, in una sala della Camera scelta apposta perché, le sue colonne “in tv vengono bene”. L’America che s’interessa di politica segue, incollata allo schermo, il calcio d’inizio, della fase pubblica dell’indagine che potrebbe portare all’impeachment di Donald Trump, accusato di abuso di potere – e c’è pure l’ipotesi di corruzione – per avere fatto pressioni sull’Ucraina affinché indagasse su suoi rivali politici.

I primi due testimoni ascoltati in diretta tv dalla Commissione Intelligence della Camera, davanti a una vera e propria giungla di telecamere, sono William Taylor, incaricato d’affari degli Usa a Kiev, e George Kent, sotto-segretario al Dipartimento di Stato con delega all’Europa. Entrambi hanno già raccontato a porte chiuse come Trump cercò di condizionare gli aiuti militari a Kiev e pure la visita del neo-presidente Voldymyr Zelensky alla Casa Bianca con l’avvio in Ucraina di indagini contro i Biden, il padre Joe – candidato alla nomination democratica per Usa 2020 – e il figlio Hunter. Poi toccherà fra gli altri a Marie Yovanovitch, l’ambasciatrice degli Usa in Ucraina rimossa perché ostile al “quid pro quo”. Altri personaggi, come Mick Mulvaney, il capo dello staff ad interim della Casa Bianca, e John Bolton, ex segretario per la sicurezza nazionale, cercano, invece, un avallo legale al loro coinvolgimento nell’inchiesta e hanno chiesto ai giudici federali di stabilire se sono tenuti o meno a presentarsi. Mulvaney non ci tiene, Bolton pare invece ansioso di raccontare quel che sa. C’è il clima delle grandi occasioni: telecamere schierate in un’aula piena, solo posti in piedi disponibili. Nel pubblico, c’è chi agita cartelli bipartisan. Uno filo – Trump: “93 giorni da quando Adam Schiff”, il presidente democratico della Commissione Intelligence, “conosce l’identità della talpa” della telefonata incriminata del 25 luglio fra Trump e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky – talpa che i repubblicani vogliono che testimoni, mentre i democratici ne proteggono l’anonimato –. Uno anti-Trump: “Mi preoccupa che, se non lo mettiamo in stato d’accusa, potrebbe essere rieletto”. Mancano, però, i colpi di scena, le rivelazioni. La audizioni sono condotte dal presidente Schiff e dal suo alter ego repubblicano Devin Nunes. Schiff e Nunes si dividono l’ora e mezzo di domande e risposte in due segmenti da 45 minuti ciascuno. Domande vengono anche poste dagli avvocati degli staff, rinforzati nella circostanza. Schiff denuncia “atteggiamenti da impeachmnent” di Trump e lo accusa d’impedire ai testi di venire a deporre – cosa già avvenuta più volte –, mentre la speaker della Camera Nancy Pelosi sostiene che il presidente ha anteposto “interessi personali a quelli nazionali”.

Taylor e Kent confermano quanto già detto a porte chiuse. Kent chiama in causa Rudy Giuliani, l’avvocato di Trump – “il suo atteggiamento mi allarmò” – e scagiona i Biden – non c’è motivo d’ipotizzare corruzione nei rapporti con la Burisma, l’azienda energetica ucraina di cui Hunter era socio-; Taylor inguaia il rappresentante degli Usa presso l’Ue Gordon Sondland, che era al corrente del “quid pro quo”, e pure con Giuliani, che creò “un canale di comunicazione irregolare” tra Usa e Ucraina.

Trump mostra distacco: fa sapere di essere al lavoro nello Studio Ovale per preparare l’incontro con il presidente turco Tarcep Rayyip Erdogan, e di seguire lo show in tv; poi cambia idea e fa sapere di non avere tempo per vedere in tv “la caccia alle streghe”. Ma poi non ce la fa più e ritwitta un video della Casa Bianca contro la “bufala impeachment”.

Cento miliardi Usa a Erdogan in cambio della tregua

Nonostante, o forse proprio a causa della minaccia da parte di Ankara di acquistare i jet militari russi in barba alla comune appartenenza alla Nato, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato accolto con tutti gli onori concessi ai grandi statisti nello studio Ovale da un Trump ridanciano e tronfio. L’amichevole rapporto personale tra The Donald e Il Sultano è l’unico freno ancora in grado di evitare il collasso dei rapporti tra i due storici alleati. A mettere a repentaglio la lunga e strategica relazione tra Washington e Ankara è stata la decisione di Erdogan di tradire gli alleati Usa acquistando lo scorso anno il sistema di difesa antimissile russo S-400 anziché quello statunitense Patriot. Il Pentagono ha reagito obbligando Trump a bloccare la vendita dei jet F-35 e il Congresso imponendo sanzioni economiche. Ma Erdogan non si è scoraggiato e ha usato la sua arma di ricatto preferita: rivolgersi a Putin. Lo zar non vede l’ora di assistere alla totale distruzione della partnership tra Stati Uniti e Turchia, bastione sud-orientale dell’Alleanza Atlantica. Il secondo motivo di frizione tra Usa e Turchia è la questione siro-curda. Il Pentagono e il Congresso, compresi molti deputati repubblicani hanno aspramente criticato la decisione di Trump di permettere di fatto l’invasione turca del Rojava siriano. Ma ciò che sta a cuore al tycoon approdato alla Casa Bianca è la rinuncia da parte del suo prepotente omologo del sistema S-400. Se Ankara accetterà potrà ottenere gli F-35 e soprattutto un accordo commerciale da ben 100 miliardi di dollari. Se invece nulla cambierà, si verificherà un terremoto geopolitico e, secondo molti osservatori, Trump potrebbe vedere danneggiati i propri interessi personali in Turchia come la perdita degli introiti che gli derivano da aver concesso il marchio “Trump Tower” a un grattacielo di Istanbul di proprietà di un imprenditore fedele a Erdogan.