Siria, gli 80 sicari Isis arruolati dalla Turchia

Si sono cambiati di uniforme, lasciati alle spalle la divisa nera dello Stato islamico per indossare i panni dell’Esercito libero siriano. E quindi partecipare all’incursione turca nel Nord-Est della Siria. L’agenzia di stampa Hawar News ha pubblicato un dossier con 80 nomi, cognomi (e relativi crimini commessi) di jihadisti diventati miliziani turchi: da una parte all’altra del fronte. Transitati in Turchia, dopo essere stati sconfitti dalle Forze democratiche siriane o dal regime siriano, sono stati addestrati da Ankara per poi essere rimandati in Siria, assieme ai soldati turchi, per l’operazione “Sorgente di Pace”.

Dal 9 ottobre scorso, e in 35 giorni di guerra, il Turkish free syrian army e l’esercito di Ankara hanno compiuto crimini di guerra e violenze, terrorizzando la popolazione, nonostante i diversi cessate il fuoco. L’idea di Ankara era quella di creare una safe zone lunga 110 chilometri e profonda 30, ma a un mese di distanza è chiaro che la Turchia mira a invadere più territorio possibile, eliminare l’amministrazione autonoma dal confine, e spostare la popolazione curda il più a sud possibile.

Nelle zone occupate di recente è già cominciata una “turchizzazione” del territorio: le bandiere rosse sono ovunque, tutti i simboli curdi cancellati.

Nel rapporto, un fascicolo dettagliato, spicca il nome di Abu Saddam al-Ansari, conosciuto anche come Salim Turchi Al-Antari. Il 12 ottobre Al-Antari si è fatto un selfie durante l’esecuzione della famosa attivista Hevrin Khalef. La donna – segretario generale del Partito del Futuro della Siria, un movimento politico che dava fastidio perché testimoniava come curdi e arabi potessero lavorare insieme per un domani di pace – stava viaggiando sulla M4, una delle arterie principali del Paese, quando, complice un’imboscata, fu tirata fuori a forza dall’auto blindata e uccisa. Il tutto ripreso dai telefonini. Al-Antari era lì, lo si vede nei filmati. L’uomo si è unito allo Stato Islamico nel 2014. Ha combattuto a Palmira, al-Shair, e ad al-Tanf contro la coalizione internazionale. È un comandante di brigata tra le file del gruppo Ahrar al Sharqiya. Oggi nella città di Serekanye (Rais al Ain), caduta in mano turca il 17 ottobre scorso in seguito a una tregua negoziata dagli Stati Uniti con la Turchia. Nella stessa brigata c’è anche Samir al-Nasir Al-Anah o Khebab Al-Iraqi. Nato nel 1989 nella provincia di Anbar, Iraq, si è unito al Califfato nel 2013 e ha combattuto nel deserto iracheno. Poi si è spostato in Siria, è diventato emiro, comandante del fronte di Hasakah, e quindi a capo delle munizioni di Raqqa. Dopo la battaglia per la capitale di Isis è andato ad Azaz e poi a Gire Spi (Tal Abyad): l’altra città interessata dall’operazione turca.

Una traiettoria simile per Abdullah Ahmed al-Abduallah, originario di Homs. Nel 2014 si è unito allo Stato Islamico come emni, cioè ufficiale per la sicurezza interna, e ha vestito spesso i panni di agente sotto copertura per Isis. Oggi è responsabile dei silos a Serekanye. Abua Maria Al-Ansari, o Ahmed Khaled al-Rahmon, invece è stato addestrato sia dagli americani sia dai turchi. Con gli Stati Uniti ha lavorato nei primissimi anni della guerra civile, nel 2013. Poi è scappato e ha deciso di unirsi alle milizie islamiche, quindi è stato trasferito in territorio turco per un nuovo addestramento, quindi la battaglia di Afrin. Oggi si trova a Tal Abyad.

I dettagli del dossier sono impressionanti. Fa sorgere molte domande, e soprattutto dubbi, sui valori che la Turchia porti nella Nato. Dubbi sollevati anche da William Roebuck, inviato speciale della Casa Bianca per la Siria. In un memo diventato pubblico, il funzionario dice chiaramente che bisogna evitare questa incursione e, soprattutto, che gli Stati uniti hanno la consapevolezza che nel Nord-Est della Siria si stiano commettendo crimini di guerra. Una posizione che non ha fermato la visita ufficiale di Erdogan alla Casa Bianca. Mentre i curdi attendono, sempre più soli.

Intanto è cominciata una campagna per boicottare tutti i prodotti made in Turchia. “Non comprate le loro merci, altrimenti finanziate la guerra”, dicono i cartelloni sparsi per le città. La gente è stanca, e non sa quello che potrà accadere domani. Tra le milizie turche e le cellule dormienti dell’Isis, il sogno della pace è oramai svanito.

Mail Box

 

Carceri, sovraffollamento e strutture inadeguate

Si continua a discutere sul nostro sistema carcerario affrontando questa volta il tema del lavoro dei detenuti molti dei quali, e cioè circa il 70 per cento, una volta usciti dal carcere tornano a delinquere. Il problema è relativamente semplice, poiché non si è mai pensato a costruire moderne strutture carcerarie destinate anche alla riabilitazione dei detenuti, che rappresenta uno dei cardini del nostro ordinamento penitenziario. Questo problema, unito al concreto sovraffollamento degli istituti di pena – dovuto anche alla inagibilità di intere sezioni come quella di un carcere toscano dove su “101 posti solo 17 sono disponibili” – rappresenta il filo conduttore sul quale però mai la nostra classe politica ha mostrato un completo interesse.

Nicodemo Settembrini

 

Il Muro di Berlino è caduto, ma ne sono stati eretti altri

Trenta anni fa è stato abbattuto il muro della vergogna che divideva in due Berlino, benissimo. Il fatto strano è che i comunisti per erigerlo misero in soffitta la falce e il martello e si “armarono” di badile e cazzuola e oggi proprio loro, che si vantavano della costruzione, hanno cambiato idea quando hanno sentito che l’odiato Trump, copione, s’è messo pure lui a fare il muratore. La Germania Est da indipendentista è diventata europeista, è passata dal segretario del partito di unità socialista Erich Honecker della DDR (Repubblica “Democratica” Tedesca) colui che ha guidato il Paese in stile soviet dal 1971 al 1989, alla Cancelliera di ferro Angela Merkel, quindi dalla padella sovranista è finita nella brace di Bruxelles! Per la cronaca spicciola: il Muro era lungo poco più della tratta Milano-Torino, precisamente 155 km, e per 28 anni è stato uno degli emblemi dell’Europa divisa, mentre ora sempre divisi siamo ma senza muri, anche se dall’alto vogliono imporci il pensiero unico.

Enzo Bernasconi

 

Salvini sulla Segre sta facendo ancora una volta propaganda

Non credo assolutissimamente alla “redenzione” di Matteo Salvini nei confronti della Senatrice Liliana Segre.

Ancora una volta ha agito in funzione elettorale, come ha fatto quando ha usato il rosario, le felpe e tutte le sue manifestazioni folcloristiche.

Dovrebbe essere mostrato il meno possibile.

Anna Maria Bruscolini

 

Iraq, i militari italiani feriti combattevano i fondamentalisti

Cinque soldati italiani feriti in Iraq, con due casi di amputazione. È grave il bilancio dell’attentato subito dal nostro esercito, schierato in Iraq per addestrare le truppe locali anti-Isis. Hanno un senso queste missioni? – è la domanda che in questi casi torna nei dibattiti pubblici. Io credo di sì. Basti pensare alla protezione assicurata dai nostri militari alla grande diga posta a nord di quel Paese, un obiettivo sensibilissimo per la devastazione immane di civili che provocherebbe la sua distruzione ad opera dei fondamentalisti.

Sono ancora missioni di pace? O abbiamo – di fatto – smesso di ripudiare la guerra, come invece è scritto nella nostra Costituzione? Un po’ entrambe le cose.

Ma dobbiamo sapere che più c’è impegno nel pacificare le zone “incubatrici” di fondamentalismo – soprattutto con i presidi umanitari che sempre affiancano la nostra presenza – più si prevengono attentati nelle città occidentali. Quei cinque ragazzi – e le loro famiglie – devono sapere che non sono stati feriti invano.

Ma li si onora ribadendo con compostezza l’utilità del loro sacrificio; non facendo a gara chi urla più forte “tutti a casa!”.

Massimo Marnetto

 

Il governo renda detraibili le fatture di tutti gli artigiani

È il 1992: scoppia Tangentopoli. Corruzione, evasione fiscale… Cut! (come avrebbe detto il grande Sergio Leone).

2019: nella notte tra sabato e domenica scorsa ho un grave incidente stradale a Roma. Ne esco miracolosamente illeso, ma la macchina è da rottamare. Lo stesso autosoccorso mi avvisa che loro possono occuparsene.

“Che c’azzecca?” direbbe Antonio Di Pietro, il magistrato di Mani Pulite. Ecco, ci arrivo, ci azzecca eccome.

Lunedì mattina vado al deposito dell’autosoccorso, dove è stata portata la mia auto, e sbrigo le pratiche per la rottamazione. Pago 150 euro. Poi mi dicono “tutto a posto”. “No” replico io. E loro “Perché?” Io “non ho la ricevuta dei 150 euro”. “Eh, ma c’è l’Iva!”… “Perché, le ho forse detto che non voglio pagarla?”.

Ecco, il governo giallorosso Cinquestelle-Pd, che a me piace perché sono della Roma, parla di rendere detraibili le fatture dell’idraulico. Bene, non solo dell’idraulico ma di tutti gli artigiani che intervengono sulla casa: anche elettricisti, muratori, falegnami, elettrauto, carrozzieri. E rottamatori. Provate a rendere detraibili dalla dichiarazione dei redditi le fatture di questi signori.

Maurizio Graziosi

 

L’immunità parlamentare è lo scudo dei potenti

Intanto i nostri politici lo scudo se lo sono fatto da soli con l’immunità parlamentare… Mica pensano di toglierselo. Ah, ah, ah, quanti poteri a questi cialtroni.

Elio Ferrara

Gruber-Meloni. È importante che ci siano leader donna. Poi si possono non votare

 

La Meloni è riuscita a diventare nel nostro Paese l’unica donna leader di partito. Dovrei rallegrarmene solo perché sono una donna? Checché ne pensi Lilli Gruber, la cosa invece mi rattrista molto. Sinceramente non condivido niente del pensiero della Meloni, ma qui non è un problema di destra o di sinistra, non è questo il punto. Sulla politica economica e sociale di un paese si possono sicuramente avere idee diverse, ma per quello che riguarda le conquiste civili, la libertà di ogni individuo, il fatto che certi diritti si debbano concedere e non togliere ai cittadini, è tutto un altro discorso. Ne facciamo solo una questione di potere? È solo quello che desideriamo, a costo di adottare le stesse idee e gli stessi mezzi di molti maschietti? Anch’io mi sarei augurata che una donna potesse avere in politica un peso diverso e maggiore autonomia rispetto allo strapotere degli uomini, ma a quale costo? Una donna veramente progressista, altrettanto intelligente e grintosa, purtroppo, in questo momento storico non potrebbe avere tutto questo successo. Purtroppo stiamo diventando sempre più simili agli uomini nelle cose negative, è questa la nostra grande conquista? È importante la parità tra i sessi ma le idee, i veri valori, contano di più. Se si tratta di una Meloni o di una Le Pen, chi se ne frega che un leader sia una donna.

Enza Ferro

 

Gentile Enza, le confesso che invece io sono d’accordo con Lilli Gruber: è importante che ci siano leader donne. E non è vero che ci sono solo da una parte politica. Pensi ad Angela Merkel, alla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, ad Ana Brnabic premier serba progressista, ad Alexandra Ocasio-Cortez, astro nascente dei Democratici negli Usa, a Zuzana Caputová primo presidente donna della Repubblica Slovacca, paladina della lotta alla corruzione ed europeista, alla neo premier belga Sophie Wilmès. O alla premier neozelandese Jacinda Ardern, che ha appena fatto approvare la legge che impegna il paese ad azzerare quasi del tutto le emissioni nocive entro il 2050. I valori contano di più, lei ha ragione. Nessuno le chiede di votare una donna di cui lei non condivide le idee. Però è necessario tenere conto della situazione (sbilanciatissima) della rappresentanza. Sono stata fermamente contraria alle quote rosa (le ritenevo una misura ghettizzante e offensiva) finché non mi sono resa conto che c’è un gap da colmare. E anche se è triste dirlo le quote hanno funzionato per tutte le minoranze.

Silvia Truzzi

Cannavacciuolo, il Peròn dei fornelli tv e il giappo-test

Viviamo di illusioni. Ogni anno ci illudiamo che la mareggiata di masterchef accessoriati di mousse, fumetti, riduzioni, colature, julienne accenni a ritirarsi. Invece aumenta, come l’acqua alta a Venezia. Meraviglie del product placement. Tramonta l’era del patriarca Carlo Cracco, ritiratosi nel suo bagno e nel suo living; ma, come era già successo con Karl Marx, si sono create una sinistra e una destra cracchiana. A sinistra abbiamo chef Rubio, il bisunto dei camionisti; a destra Antonino Cannavacciuolo, rudimentale nella favella ma paterno nei modi. Se l’addio di Rubio a Discovery e l’ostracismo in Rai ci confermano la crisi planetaria dei rivoluzionari, il peronista Antonino ha il vento in poppa e ha aperto la sua Chef Academy su Sky Uno. Gli alunni lo ascoltano in adorazione, come si conviene a un maestro di vita, nella speranza di essere ammessi alla sua “brigata stellata”; roba che Recalcati dovrebbe partire all’istante per Itaca a chiedere scusa a Telemaco. Alla Antonino Chef Academy si impara di brutto, si rischia perfino qualche trauma, il maestro di vita non le manda a dire. “Hai esagerato con il primo sale” “Il parmigiano viaggia per conto suo” “La ricotta non si sente”. Terribile poi “il test dell’umai”, alla presenza del grande chef giapponese Tokuioshi (“L’umai è complesso”, ammette lo stesso Antonino). I ragazzi stringono i denti, i lucciconi agli occhi. Le parole sono pietre, a volte perfino padelle. Ma tengono duro. Per Cannavacciuolo questo e altro.

Il piano “choc” del Matteo smemorato

Quante volte ci siamo chiesti perché esistono le zanzare? E in una scala più grande: perché esiste il dolore? La conclusione è che tutto è necessario, parte di un equilibrio cosmico. Le zanzare sono indispensabili alla catena alimentare, il dolore all’evoluzione, etc. Ecco, Italia Viva invece è semplicemente inutile. Forse per questo, per la sua indifferenza (ricambiata) alla realtà, il suo leader parla incessantemente di tutto e fornisce soluzioni proporzionate alla sua logorrea. Ieri, per dire, ha rilasciato a La Stampa la sua periodica intervista-format, quella che i giornali pubblicano a turno da tre anni, da quando cioè Renzi si è ritirato dalla politica. Stavolta ha pronto un piano choc per l’economia.

“Abbiamo lavorato duro e abbiamo predisposto un piano più ambizioso di quello tedesco: 120 miliardi nel prossimo triennio”. Se un tempo Renzi parlava a nome dei giovani, dei toscani e dei rottamatori di tutto il mondo, oggi non è chiaro quale sia il soggetto dei suoi enunciati. “Abbiamo” chi? Lui con Boschi, Catello Vitiello (massone eletto col M5S), Carfagna e Polverini, tutti imbarcati o imbarcandi in Italia Viva? E chi ha approntato il piano choc, qualche new entry dagli anni al governo? Lele Mora alla Leopolda? Comunque, i settori sono molteplici: “Edilizia scolastica, energia, treni, strade, porti, aeroporti, piano casa, periferie: sblocchiamo tutto”. L’uomo dello Sblocca Italia, del Ponte sullo Stretto, dei mille asili in mille giorni, della Salerno-Reggio Calabria inaugurata e mai conclusa stavolta fa sul serio: perché non dargli una possibilità?

La ricetta è quella della “corsia preferenziale”: “Semplifichiamo le regole in via straordinaria, con il controllo dell’Anac come abbiamo fatto per l’Expo a Milano. Questo serve all’Italia, non la tassa sulle auto aziendali”. Mica come certi matti che volevano fare cassa vendendo le autoblu su eBay. A Milano nel 2016 ci furono 11 arresti: società legate a cosche mafiose avrebbero ottenuto lavori da 20 milioni per la costruzione di alcuni padiglioni di Expo. Ilda Boccassini, capo del dipartimento Antimafia, parlò di “un fiume di soldi in nero dalla Lombardia diretto in Sicilia”. Indi Renzi fa il numero della vittima che l’ha reso celebre: “Nei primi giorni siamo stati accusati di non aver rimesso l’immunità (a ArcelorMittal, ndr) al Senato. Poi di volerla rimettere. Qualsiasi cosa facciamo c’è chi si diverte ad attaccare Italia Viva. Evidentemente hanno paura di noi”. Come no, col 4% a cui è dato il suo partito c’è poco da scherzare. Il motivo per cui Renzi viene accusato di doppiezza sulla questione dello scudo penale all’ex Ilva è questo: il decreto legge n. 1 del 2015 (governo Renzi) escludeva “la responsabilità penale e amministrativa del commissario straordinario” per il risanamento ambientale. Il 4 novembre scorso Renzi dice: “Lo scudo penale è stato cancellato dall’esecutivo Lega-Cinque Stelle. Quello dell’immunità è un alibi che va tolto dal tavolo subito”, e ha fatto presentare emendamenti per ripristinarlo. Fatalità, è lo stesso Renzi che il 23 ottobre ha votato il decreto Salva Imprese, voluto da Lega-M5S e convertito in legge il 31 ottobre, che abolisce lo scudo penale che aveva messo lui.

Infine, dichiara guerra al Pd: “Noi (sempre lui, Vitiello etc, ndr) abbiamo un obiettivo… fare ai dem ciò che Macron ha fatto ai socialisti. Assorbirne il consenso per allargare al centro e alla destra moderata”. Al che viene in mente che in giro c’è ancora qualche replicante convinto che Renzi sia di sinistra che andrebbe avvisato (ma forse non sono stati riprogrammati volutamente: l’errore li fa sembrare umani). Renzi sa che il segreto del varietà è la replica. Per carità: a noi che abbiamo molto tempo libero e un gusto speciale per le curiosités piace starlo a sentire. Immaginiamo che per un operaio o un cittadino di Taranto le sue chiacchiere inutili siano meno spassose.

Milano, Provenzano ha infranto la narrazione unica

Per spezzare la narrazione di melassa su Milano migliore dei mondi possibili, c’è voluto il ministro Giuseppe Provenzano, a un dibattito con i presidenti di Lombardia e Liguria, Attilio Fontana e Giovanni Toti. “A differenza di un tempo, oggi questa città attrae, ma non restituisce quasi più nulla di quello che attrae. Intorno a essa si è scavato un fossato: la sua centralità, importanza, modernità e la sua capacità di essere protagonista delle relazioni e interconnessioni internazionali non restituisce quasi niente all’Italia”. Seguono gli alti lai del sindaco Giuseppe Sala e della Lega, stupiti che qualcuno osi cantare fuori dal coro unanime che gorgheggia le lodi di Milano.

Prova a ragionare fuori dal mainstream l’economista Gianfranco Viesti, sulle pagine del Messaggero. “Il timore è che lo sviluppo di Milano sia avvenuto spesso a danno del resto del Paese, e che fantastichi di se stessa come una città-stato largamente autonoma; e che il suo sviluppo sia avvenuto senza dare alcuna spinta al resto del Paese”. È una città a rischio di “sovranismo comunale”, scrive Viesti, che potrebbe “svegliarsi invece come un piccolo cantone svizzero, satellite della grande economia tedesca”.

Viesti riconosce l’efficienza e le eccellenze di Milano: nella buona amministrazione, nel diffuso senso civico, nel sistema dei trasporti, in quello universitario, nell’economia, negli alti livelli di occupazione e salari, nel sostegno che la ricchezza privata offre all’azione pubblica e collettiva (per esempio attraverso le Fondazioni). Ma poi si chiede: “La forza di Milano viene esclusivamente da se stessa e dalle sue capacità? In realtà, è forte anche e soprattutto perché è una grande città italiana. Che dalle risorse fiscali di tutti gli italiani ha tratto i suoi collegamenti ad alta velocità (che tanti altri non hanno); che dalle altre città attrae giovani formati con l’investimento a volte pesante di risorse familiari; che nel resto del Paese vende beni e soprattutto servizi per decine di miliardi”.

Ha avuto molto, Milano. “Il suo sistema universitario”, esemplifica Viesti, “è premiato da regole distorte” disegnate a danno delle università del Centro e del Sud. Su Human Technopole, che cerca di dare senso, in ritardo, ai terreni desolati dove è stato impiantato Expo, “a spese di tutti gli italiani” piovono miliardi concentrati lì con una “decisione del tutto discrezionale”. E vuole avere ancora di più: subito i fondi per una Olimpiade invernale, concessi a una città che con la neve c’entra zero; e in prospettiva una autonomia regionale differenziata che Viesti ha etichettato come la “secessione dei ricchi”.

Aggiungiamo un tema, suggerito non da ideologi comunisti, ma da una recente ricerca di Assolombarda: a Milano le disuguaglianze crescono, la ricchezza si concentra in poche mani e la distanza tra ricchi e poveri continua ad aumentare. E allora, forse va ascoltata anche la replica di Provenzano, ministro per il Sud, uomo del Pd – non un mestatore grillino – che nel tentativo di disinnescare la contrapposizione con il sindaco Sala, finisce per lanciare un avvertimento: “Tra le grandi città, come è Milano, e il resto dei territori, le periferie urbane e rurali, si scavano dei fossati sempre più profondi”. L’Italia “resta un Paese di piccoli centri, di province, di campagne deindustrializzate e aree interne”. E – aggiungiamo noi – di periferie urbane celebrate a parole, ma dimenticate nei fatti. “I luoghi che non contano poi si vendicano”, conclude Provenzano, “è la cronaca di questi anni da Trump alla Brexit fino all’ascesa dei nazionalismi in tutta Europa”.

Politici e dirigenti, aguzzini di Venezia

“Questo pomeriggio sarò a Venezia, duramente colpita dal maltempo. Voglio vedere da vicino i danni e rendermi conto della situazione”. Il tweet diffuso ieri del presidente del Consiglio Giuseppe Conte accende una flebile fiamma di speranza: se Conte davvero vorrà rendersi conto della situazione, comprenderà presto che Venezia non è stata affatto colpita dal maltempo. È stata colpita da una strategia di sfruttamento e abbandono gravemente colposa, a tratti flagrantemente dolosa. I nemici di Venezia, i suoi aguzzini, non sono i venti, le nubi, e l’acqua piovana: sono una classe politica e una classe dirigente marcia fin nel midollo, in Laguna e a Roma. Il ‘maltempo’ di cui parliamo è un tempo cattivo che dura da decenni: cattivo per la corruzione e la rapacità, cattivo per l’ignoranza, cattivo per la miopia e la pochezza di chi avrebbe dovuto decidere nell’interesse del bene comune, e invece ha pensato solo al ritorno immediato di pochi.

Con la fine della Repubblica di Venezia (1797) entrò in crisi il raffinatissimo meccanismo che per un millennio aveva conservato qualcosa che in natura ha vita limitata: una laguna lasciata a se stessa o diventa mare o si interra. Si può ben dire che la sopravvivenza della Laguna è “la storia di un successo nel governo dell’ambiente, che ha le sue fondamenta in un agire statale severo e lungimirante, nello sforzo severo e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città” (Piero Bevilacqua). Finita questa storia, l’estesa privatizzazione di parti della Laguna, la creazione di valli da pesca chiuse, la bonifica per ottenere terre asciutte per l’industria ha ridotto in notevole misura lo spazio in cui le alte maree potevano disperdersi. Contemporaneamente, sono state scavate e ampliate oltre ogni misura le bocche di porto che mettono in comunicazione mare e Laguna: alla fine dell’Ottocento la Bocca di Malamocco era profonda 10 metri, oggi contiene buche che raggiungono quota meno 57, il punto più profondo dell’Adriatico! Non è dunque difficile immaginare da dove entri l’acqua. La ragione: rendere la Laguna accessibile alle navi industriali e alle Grandi Navi da crociera. Uno sviluppismo dissennato, che fa oggi di Venezia la terza città portuale più inquinata d’Europa: per lo smog delle navi, e per i fanghi che stanno sul fondo dei canali e che rendono micidiali le acque che ora consumano i marmi di San Marco.

La situazione di cui il presidente Conte dovrebbe rendersi conto è questa: e – proprio come nel caso dell’Ilva – è su questo piano strategico, e non solo sull’impossibile gestione dell’emergenza, che il suo governo dovrebbe agire. Come ha scritto Edoardo Salzano, a cui è stata risparmiata la vista di questa Venezia in ginocchio, si dovrebbe iniziare “con lo smantellamento della chimera ottocentesca del MoSE, per ripristinare invece l’equilibrio ecologico e morfologico della Laguna, con l’adempiere finalmente al mandato legislativo (1973!) di escludere i traffici pesanti e pericolosi e impedire l’ingresso ai bastimenti più alti dei più alti edifici veneziani, col cancellare i progetti di tunnel sottomarini”. Una cosa Conte può fare subito: mettere fuori le Grandi Navi non solo dal Bacino di San Marco (come si limita a promettere il furbo ministro Franceschini), ma dalla Laguna. Perché è la Laguna come ecosistema che va salvata, non solo l’immagine da cartolina.

E quel che non solo Conte, ma tutti noi dovremmo capire è che Venezia è un terribile acceleratore. Ci mostra cosa succede a una città d’arte che viva solo di un turismo predatorio che cresce fino a espellere i residenti, a cancellare un’identità civile. Ci mostra cosa succede a un patrimonio culturale tutto orientato alla follia delle grandi mostre invece che alla cura del tessuto urbano, in un tripudio di tagli di nastri e inaugurazioni che tolgono soldi e consenso all’umile necessità quotidiana della manutenzione. Ci mostra con anni di anticipo quel che succederà in mezzo mondo se non fermiamo l’innalzamento delle acque provocato dal cambiamento climatico dovuto al dogma della crescita infinita.

Venezia che muore annegata è uno schiaffo in faccia a noi tutti, è un modo terribile di ricordarci che si può, si deve, smettere di sfruttare e consumare il suo fragilissimo ecosistema: “Moltissime specie hanno trovato il modo di vivere in armonia con la natura, senza che per farlo abbiano bisogno di suicidarsi. Lo fanno prendendo meno di quanto il pianeta è in grado di produrre e salvaguardando gli ecosistemi. Lo fanno vivendo come se avessimo solo una Terra, e non quattro”. Se, in questa frase dello scrittore Jonathan Safran Foer, sostituiamo alla parola ‘pianeta’ o ‘Terra’ la parola ‘Venezia’, riusciremo a capire perché non è colpa del maltempo: e come possiamo ancora, nonostante tutto, salvare Venezia.

L’editorialista ama l’azionista

Ci deve essere un virus nei giornali italiani per cui, quando viene fuori un contenzioso tra lo Stato e una grossa impresa, subito l’editorialista deve correre in soccorso dell’azionista: successe coi Benetton, succede con Mittal. Ieri, per dire, Il Sole 24 Ore e Il CorSera hanno già chiuso il contenzioso legale Ilva a favore degli indiani. “C’era un patto tra il governo italiano e Arcelor Mittal” la quale “aveva chiesto e ottenuto (per il favore, ndr) di non temere conseguenze penali per reati ambientali”. Che questo non sia scritto nel contratto e che, nell’offerta vincolante del 2017, l’azienda non considerasse la cosa determinante non rileva: “Adesso il governo è in un vicolo cieco”, dice il giornale rosa. Magari, fosse così. A via Solferino è addirittura già tutto finito: “Dopo la chiusura dell’Altoforno 2, la produzione dell’acciaio a Taranto finisce infatti fuori mercato”. Vabbè, l’Altoforno 2 non è spento, né lo sarà a meno che non lo decida Arcelor, ma cosa vuoi fare più se la multinazionale “ha potuto svincolarsi senza penali” (così, al passato), perché è stata “violata una condizione base del contratto” (la solita abolizione dell’immunità penale). Non solo è tutto finito, ma ora Arcelor potrà “rivalersi sullo Stato” per i soldi spesi finora. E qui il pensiero corre agli sprovveduti Mittal, che sganceranno milioni in avvocati quando il tribunale degli editoriali gli ha già dato ragione e pure il risarcimento.

“Non sono più piccola, ma mi rende ansiosa il pensiero di governare”

Se la sente di prendere un impegno serio, a cui guardano con fiducia migliaia di italiani, e di onorarlo?

Esponga.

Rinunci a utilizzare l’avverbio “sommessamente”. Lo mette ovunque, un po’ come il fascismo.

Non sento di poterle dare soddisfazione.

Sono Giorgia.

Vede com’è la comunicazione? Da un anno ripetevo questo refrain. Aveva ritmo.

Sono una donna.

Racchiudeva in quattro frasi tronche e asciutte la radice della mia azione politica.

Sono una mamma.

La difesa dell’identità, il valore della patria.

Sono italiana.

Il successo, diciamo così, è venuto imprevisto e tardivo.

Giorgia Meloni ora è in alto nei sondaggi. Sale, sale, sale. È questo però il tempo che si sale in un attimo e si scende ancor più velocemente.

Sono cosciente del rischio, e so che il voto degli italiani spesso sia troppo emotivo. Ma, a differenza di altri partiti, Fratelli d’Italia si è fatto la sua gavetta. Ha conosciuto la povertà, quando battagliava nelle piazze con il due o il tre per cento, poi quelli della minima sicurezza, quando abbiamo superato la soglia del quattro per cento alle Europee. Adesso, che sarebbe il momento del benessere, mi vede esaltata?

Non è più necessario il cognome. Adesso basta solo Giorgia, come un’icona pop.

Finché sei piccola e ti sbatti nella bassa classifica nessuno si accorge del tuo lavoro. Quando però la superi, be’ la gente si sente più tranquilla di avvicinarti. Ha presente il supermercato? Se il detersivo è sugli scaffali in bella vista, lei è disposto a fare la prova acquisto.

Lei ormai è dappertutto. Non c’è trasmissione tv dove non sbuchi, giornale che non richieda di intervistarla. Senza fare il conto dei social network che presidia da mattina a sera.

I social sono insieme disgrazia e fortuna. Riescono a metterti in contatto con gli elettori, senza dover subire mediazioni, ostruzioni, interpretazioni interessate. Però impongono un linguaggio semplificato, a volte persino banale. Rituale, ripetitivo.

A volte lei annoia.

Anch’io mi annoio, ma ricordo bene la lezione che ci dette Silvio Berlusconi qualche anno fa. Ripetere il medesimo concetto almeno sette volte perché davvero entri nella testa di tutti. Ed essere certi che ciò che per noi è straconosciuto, per la massa resta invece spesso oscuro e vago. Bisogna avere rispetto per le persone e inseguire anche quelli a cui la politica non interessa granché.

A furia di parlare sempre si rischia però di dire castronerie. Le zucchine di mare le ricorda?

M’impappinai. Avevo in mente la lunghezza della zucchina di terra e il diametro della vongola di mare, oggetto della minuziosa ma insopportabile regolamentazione europea. Ero distratta e coniugai la zucchina con il mare, feci involontariamente una crasi.

L’altroieri ha detto che i citofoni sono pubblici per difendere due suoi esponenti che hanno promosso una vergognosa caccia agli immigrati regolarmente assegnatari di case popolari filmando i loro cognomi.

Volevano denunciare una stortura delle norme, avevano bisogno di mostrare platealmente come in certi posti il settanta per cento degli alloggi vada a chi non è italiano. È giusto secondo lei?

Sul suo barcone stanno salendo un po’ tutti. Lei seleziona o raccoglie bendata?

Io faccio l’analisi del sangue. Chiedo, leggo, mi documento.

Il suo assessore regionale siciliano godrà della prescrizione e quindi non vedrà concluso il suo processo per truffa. Lei lo sa?

Abbiamo una commissione interna che verifica ogni caso. La congruità dei comportamenti, la serietà delle accuse, l’opportunità o meno di avanzare una qualunque decisione. Non mi è stato comunicato nulla di inquietante.

Perfetto. Passiamo ad altro. Giorgia Meloni vorrebbe votare domani.

Dissi a Mattarella, al tempo della formazione di questo governo, che non si può legittimare una coalizione che ha chiesto il voto su posizioni opposte. Andare alle urne era e resta una necessità.

Lei ha il fisico da opposizione.

Che dice?

Al governo rischia di scontentare. Meglio l’opposizione. Sono Giorgia, sono donna, sono italiana eccetera.

Lo so che se verrà il governo sarà una prova dura. Sono ansiosa di mio e tento sempre di non promettere il paradiso. Se ricorda, faccio solo un esempio, abbiamo proposto la flat tax per la parte incrementale del reddito. Ti detasso solo la quota che hai guadagnato in più rispetto all’anno precedente. Niente pazzie col fisco.

Salvini è un incosciente.

Non mi permetto. Sto dicendo che ho misura, che sento il rischio di fallire o deludere e prendo le distanze dagli eccessi.

Il suo amico Matteo la ama al punto da aver coniato, così si dice, un nomignolo per lei: nana malefica.

Lo ha detto a lei?

Non è un complimento.

Le donne sono sempre più fastidiose.

Fastidiosa è poco. Lei è arrembante, insidiosa, cattivella.

Siamo seri: Fratelli d’Italia cresce senza togliere un solo voto alla Lega. Dove sta il problema?

Giorgia la sa lunga.

Lealtà estrema, mio caro.

Con le “sardine” il papà di Borgonzoni

Più che un comizio, un vero e proprio show all’americana con tanto di palco centrale su cui muoversi insieme agli ospiti. Annunciato da decine di tweet e post, Matteo Salvini sbarca al PalaDozza di Bologna per lanciare la campagna elettorale a presidentessa della Regione di Lucia Borgonzoni.

La città, per tutta risposta, si blinda nell’attesa di una serata ad alta tensione. Diverse le misure di sicurezza prese per evitare ogni contatto tra i militanti leghisti e i contestatori dei centri sociali: l’area sarà controllata da un centinaio di agenti delle forze dell’ordine fin dalle prime ore del pomeriggio mentre i pullman del Carroccio, una quarantina da tutte le province, arriveranno direttamente all’ingresso dell’arena. Insieme a Salvini ci saranno i cinque governatori leghisti, a dimostrazione del buon governo regionale – Donatella Tesei dall’Umbria, Luca Zaia dal Veneto (maltempo permettendo), Attilio Fontana dalla Lombardia, per il Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga e per il Trentino Maurizio Fugatti – e due esponenti locali di Fratelli d’Italia, il consigliere comunale Marco Lisei e il deputato Galeazzo Bignami. Questi ultimi due, sono autori di un video su Facebook in cui passavano in rassegna nomi e cognomi di famiglie straniere sui citofoni delle case popolari di Bologna.

Possibile la presenza della “tigre di Ligonchio”, Iva Zanicchi, che recentemente ha annunciato il suo voto per la leghista: “Voterò Lucia, ma credo che la sinistra vincerà perché è radicata e perché ha governato bene”. Non il migliore degli endorsement. Ancora più netto Giambattista Borgonzoni, padre della candidata e architetto molto noto in città, che dopo aver dichiarato il proprio voto per l’avversario della figlia Stefano Bonaccini, ha aderito alla protesta pacifica e creativa delle sardine. Un flash-mob pacifico e creativo ideato da quattro trentenni residenti a Bologna “stanchi della propaganda sovranista e delle bufale di Salvini, al PalaDozza ci possono stare meno di seimila persone, noi occuperemo il Crescentone di piazza Maggiore e saremo di più, stretti stretti proprio come sardine, dimostreremo con l’ironia che Bologna non si lega”.

Lontane dal chiacchiericcio della politica, le persone travestite da sardine staranno per un quarto d’ora zitte: “Quante volte ci è salito il mal di pancia leggendo i commenti sotto i post della Lega? È il momento di cambiare l’inerzia della retorica populista, di dimostrare che i numeri contano più della prepotenza, che la testa viene prima della pancia e soprattutto che a Bologna siamo più di loro” sottolineano i promotori Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori, Giulia Trappoloni. Manifesteranno, però, anche i centri sociali e i collettivi universitari pronti a dare vita a un corteo che cercherà di avvicinarsi il più possibile alla convention del Carroccio. “Non è accettabile che un luogo storico come il PalaDozza veda questa provocazione da parte della peggiore destra. Bisogna scendere in strada e dire che Salvini non è gradito”. Negli ultimi anni le visite del leader leghista sono puntualmente sfociate in scontri. Prevista anche una “biciclettata” lanciata dagli anarchici a due passi dall’arena, a Porta Lame laddove si ricordano i caduti di una delle più importanti battaglie della Resistenza.