Veleni dem sulla giornalista candidata dal presidente

Sarà Stefania Bondavalli, giornalista di Reggio Emilia, da un anno in Regione nello staff del governatore a guidare la lista civica Bonaccini presidente alle prossime Regionali. La candidatura della giornalista televisiva, molto nota, soprannominata la “Lilli Gruber di Reggio Emilia” ha scatenato diverse scintille. In particolare nella provincia reggiana, dove la competizione elettorale rischia di pregiudicare il bis di Ottavia Soncini, consigliera regionale dem di Reggio Emilia, vicepresidente dell’assemblea legislativa, area fortemente cattolica e pupilla di Graziano Delrio.

Lo stesso nome che nei passati mesi era circolato come alternativo a quello di Stefano Bonaccini. Lo scorso giugno Soncini offre un incarico di 12mila euro per “l’ideazione e la gestione di un piano di comunicazione” a Nicola Fangareggi, sul quale polemizzano i grillini: “Il giornalista è al centro delle polemiche per l’inchiesta Octopus sulle false fatturazioni. Gli auguriamo di poter dimostrare la sua estraneità ma riteniamo che sul piano dell’opportunità politica la consigliera Soncini debba riconsiderare il caso”. Soncini conferma la fiducia al suo. Non gliela toglie nemmeno il 19 settembre quando Fangareggi, in un post su Facebook (poi prontamente cancellato) scritto in un gruppo chiuso insinua che l’unico motivo per cui Bondavalli avrebbe potuto essere candidata è perché ha una relazione con Stefano Bonaccini. Presidente della stessa amministrazione di cui Soncini fa parte. Interpellato dal Fatto Fangareggi non ha voluto rispondere o fornire spiegazioni. Bondavalli ha annunciato con un post che si difenderà: “Un post lesivo della mia dignità personale, affido la vicenda alle sedi competenti, purtroppo ancora una volta la donna non viene valutata per ciò che è e le sue competenze”.

Emilia, Bonaccini debutta senza big nazionali del Pd

Accompagnato da 204 sindaci dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini ha lanciato ufficialmente la sua candidatura per il bis. “Salvini non lo vedrete più fino alla prossima campagna elettorale e anche Borgonzoni, se non sarà eletta, non so se tornerà a Roma. Io invece sarò comunque qui anche se non venissi eletto”. Bologna e Roma, locale e nazionale, due mondi distinti e lontani. Esattamente cinque anni fa al PalaDozza – dove oggi sarà Matteo Salvini – l’attuale governatore chiudeva la propria campagna elettorale insieme a Matteo Renzi e Vasco Errani: il primo accolto da numerose contestazioni, il secondo da un lungo applauso. L’attuale premier di Italia Viva battezzò anche l’apertura della corsa di Bonaccini, a Medolla, nel cuore modenese della zona colpita dal terremoto del 2012.

Stavolta sono altri i nomi scelti per questa occasione: Federico Pizzarotti da Parma, ex Movimento 5 Stelle; Isabella Conti da San Lazzaro, ex Pd dopo il passaggio a Iv; Virginio Merola per Bologna. E poi ancora Luca Vecchi (Reggio Emilia), Giancarlo Muzzarelli (Modena), Enzo Lattuca (Cesena), Michele De Pascale (Ravenna) e Andrea Gnassi (Rimini). Nomi sconosciuti ai più una volta superati i confini emiliano-romagnoli, ma cruciali in questo momento in cui l’avversario leghista gioca invece sul campo nazionale. Una scelta ben precisa per il candidato dem. Per Bonaccini la chiave è il territorio: “Avrei potuto fare altre scelte, ma ho deciso di candidarmi per l’Emilia-Romagna perché ho ritenuto di essere più utile qui, per la mia gente. Gli altri giocano una partita nazionale dove l’Emilia-Romagna non è un fine o un obiettivo, ma solo uno strumento per rendere più forte il proprio partito o abbattere il governo”.

Non a caso, finora di big del Pd non se ne sono visti. La foto di Narni per l’alleanza umbra con Giuseppe Conte, Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti e Roberto Speranza intorno al candidato umbro (perdente) è un ricordo da scongiurare, qualcosa da non ripetere. “Se saremo capaci di declinare sul territorio il senso del nostro progetto, sarà più semplice far comprendere alle persone qual è realmente la posta in gioco in questo voto, stiamo parlando di Emilia-Romagna e non di altro” la chiusa programmatica del governatore. Diversi gli endorsement, a distanza però, spesi nei confronti di Bonaccini. Ultimo in ordine di tempo quello dell’ex premier Romano Prodi. Anche Gianni Cuperlo, che sta organizzando la tre giorni bolognese del Pd “Tutta un’altra storia” per questo weekend ha fiducia: “Bonaccini vincerà, perché affronta i problemi veramente e non fa solo propaganda”.

Unica, a sinistra, voce fuori dal coro finora quella di Lanfranco Turci, storico dirigente del Pci, già presidente della Regione, deputato, sottosegretario nel governo D’Alema 2. “Deciderò chi votare più avanti, credo che meritino rispetto le liste di sinistra che si presenteranno autonome dal Pd” ha dichiarato a Radio Radicale. “Potere al Popolo e L’Altra Emilia Romagna sono progetti a cui guardo con rispetto, se fossi sicuro che il mio voto sia decisivo per fermare la Lega mi turerei il naso come Montanelli e voterei Bonaccini, ma in questi anni ci sono stati interventi che gridano vendetta”. In particolare: “La volontà di costruire autostrade inutili come quella tra Campogalliano e Sassuolo nel Modenese, è stata varata una legge urbanistica che cancella la programmazione in capo agli enti locali e pubblici”. Una legge, conclude Turci, “che la destra e la Lega hanno votato”.

Smentite, aperture e passeggiate campane: la sindrome di accerchiamento di Di Maio

Qualcuno ne parla già come se un’epoca si fosse chiusa: “Luigi ha dedicato gli ultimi sei anni della sua vita al Movimento. Questo non glielo può togliere nessuno. Solo una cosa ha sbagliato: la scelta delle persone di cui si è circondato. D’altronde, sono gli unici che ancora gli sono rimasti fedeli”.

Quelli che amano i numeri, li contano in una ventina di persone: il nucleo storico dello staff , a cui si aggiunge ormai solo una sparuta pattuglia di deputati e ministri. Il grosso degli eletti che un tempo erano i “dimaiani” di ferro ha ormai raffreddato l’entusiasmo nei confronti del capo politico. È un disamore che per il momento scorre sotto traccia, ancora sopraffatto da una sorta di timore reverenziale: non solo perché Di Maio ancora tutto può, ma soprattutto perché quasi tutti i parlamentari che adesso alzano la testa, a “Luigi”, devono carriere di discreto successo.

Eppure la richiesta di “condivisione” che una volta era il cavallo di battaglia dei soli dissidenti, adesso è arrivata sul tavolo dei maggiorenti del Movimento. La avanzano, nemmeno troppo timidamente, i più vicini a Di Maio, convinti che la montagna della “riorganizzazione” di cui si parla da un anno, partorirà un topolino. Non sarà “il team del futuro”, né la squadra di referenti regionali a risolvere i problemi di gestione dei Cinque Stelle. “Serve una segreteria politica”, è il refrain che ripetono tutti, più o meno ad alta voce. Il che significa che Di Maio deve cedere pezzi importanti di potere, “perché non si può rendere conto a lui per tutto”. Giurano di farlo per il suo bene, perché non può contemporaneamente guidare il Movimento, essere capo delegazione nel governo e fare pure il ministro degli Esteri. Ma lui non deve fidarsi troppo di chi dice di volerlo aiutare: “Sono in grado di reggere tutto”, ripete nei colloqui privati. E nel dubbio invita le persone di cui più si fida a partecipare alla “call” aperta su Rousseau (tanto poi, alla fine, l’ultima scelta spetterà a lui).

La sindrome da accerchiamento non è facile da gestire. E non è un caso che ieri alcuni dei “suoi” – a cominciare dai ministri Patuanelli, Fraccaro e Bonafede – si siano affrettati a smentire i retroscena che li volevano più in linea con il premier Conte che con il loro capo politico. Una ratio, quella della smentita, a cui nel Movimento ricorrono solo quando tira aria di bufera.

Ma Di Maio s’è fatto pure ecumenico. E in vista delle Regionali della prossima primavera – quelle di gennaio le ha già archiviate, M5S non si presenterà – ha deciso di scaricare su tutto il Movimento ogni responsabilità: entro il 10 dicembre alcuni referenti regionali dovranno consigliarlo sul da farsi. Per dirne solo una: in Puglia, è disposto perfino a farsi assistere da Barbara Lezzi, la senatrice che gli ha piazzato la mina su Ilva. In Campania, ha preso la fedelissima Valeria Ciarambino e il fichiano Salvatore Micillo: un colpo al cerchio e uno alla botte. Nel dubbio, intanto, si fa avanti lui. Questo weekend, nonostante il daffare non gli manchi, Di Maio lo dedicherà alle questioni di casa. Due giorni di colazioni, pranzi e caffè con gli attivisti: dalla pasticceria di Pomigliano a una frittura ad Abbascio ù mare, a Pozzuoli; dal pranzo nelle terre della falanghina, a Guardia Sanframondi, fino alla passeggiata sul corso di Salerno. Se non fosse già al governo, sembrerebbe uno in campagna elettorale (e forse lo è).

Tutti i guai 5Stelle – Il M5S litiga su ruoli e soldi. E in Senato rischia altri addii

Le stelle sono sempre cinque, ma i guai del Movimento sono molti di più. E attorno al capezzale del M5S malato c’è già qualche presunto medico che per ora alimenta volentieri la febbre. Basta ascoltare un sottosegretario grillino: “Sono giorni che Giancarlo Giorgetti la butta lì ad alcuni di noi. ‘Salvini e Di Maio dovrebbero tornare a sentirsi, a parlarsi. Guardate che situazione c’è ora…”. E le sillabe che il Richelieu della Lega semina con sorriso da Aristogatto sono brace per l’ansia di tanti 5Stelle. Timorosi che il Carroccio stia già di nuovo strappando anima e soprattutto patti futuri al capo politico, al Di Maio che non tiene più a bada i gruppi parlamentari, che non è riconosciuto. Il leader che riunisce il caminetto dei big e ai maggiorenti che invocano una segreteria politica risponde dilungandosi su una “fase costituente” o con il silenzio. E anche per questo martedì ha messo la crisi di governo sul tavolo quando il premier Giuseppe Conte e alcuni eletti pugliesi hanno discusso forte dello scudo penale per Mittal, ribadendolo nell’assemblea congiunta. “Se servirà metteremo la fiducia e ognuno si assumerà le sue responsabilità in aula”, ha ammonito il capo politico da Statuto. Quello che ci sarà ancora, qualunque cosa accada ai giallorossi. E di guai ne sono già capitati, ai 5Stelle, incapaci perfino di eleggere un capogruppo alla Camera.

Voto, non voto. Ieri lo ha scritto La Stampa: “Di Maio ha la tentazione del voto anticipato”. E di seguito l’elenco di big e ministri, che sospetterebbero della voglia del capo di sparigliare.

Il Movimento ha reagito con una lunga teoria di smentite, e con un post di condanna sul blog. Diverse ore dopo una fonte di governo assicura: “Luigi in realtà non vuole tornare con il Carroccio. Ma farlo sospettare serve come strategia, per tenere a bada i gruppi deve tenerli sulla corda, ricordando che lui può tenersi aperta ogni strada”. Però i cattivi pensieri non sono mica affare dell’ultima ora. Per esempio gli incontri con amministratori locali e simpatizzanti organizzati per la a Scuola Open Comuni, altra emanazione dell’associazione Rousseau di Davide Casaleggio, a tanti suonano come una via per selezionare i parlamentari prossimi venturi, graditi a Di Maio e al figlio di Gianroberto. E salutoni ai parlamentari al secondo mandato, che senza una deroga andranno pacificamente a casa, e alla loro urgenza di un congresso e di un coordinamento politico. Mentre il capo ha ancora anni davanti a sé. E può ricollocarsi in un eventuale, nuovo governo, come ministro. “Il M5S deve essere l’ago della bilancia” ripete da mesi Di Maio. E la traduzione è che in futuro dovrà e potrà accordarsi con chiunque. A sinistra, e magari soprattutto a destra.

Correnti e gruppi. Continuano a scandirlo, quel mantra: “Nel Movimento non esistono correnti”. Però i centri di potere sì, eccome, con squadre annesse. Quest’estate l’asse Di Maio-Casaleggio, quello che immagina candidati, ha dovuto cedere il passo al fondatore Beppe Grillo e al presidente della Camera Roberto Fico, fautori dell’accordo con il Pd. Nel frattempo attorno a Di Maio, reduce da un disastro nelle Europee, è esploso un po’ tutto. La distanza tra i vertici si è allargata. E certe voci critiche si sono compattate. Per esempio gli eletti siciliani, capeggiati dall’europarlamentare Ignazio Corrao, furioso per la scelta di capilista esterni per le urne del 26 maggio. Una ferita che Di Maio ha cercato di suturare chiamando come viceministro ai Trasporti l’ex capogruppo nella Regione Sicilia Giancarlo Cancelleri. Ma in queste settimane Corrao aveva disseminato altri post severissimi con il capo politico, fino a invocare un ritorno in prima fila di Alessandro Di Battista. Così pochi giorni fa Di Maio è volato a Bruxelles e si è chiuso in una stanza con lui e un altro europarlamentare critico, Piernicola Pedicini. Risultato, un “disgelo”, raccontano fonti qualificate. Ma sul versante italiano il clima è da trincee contrapposte. Ex ministre come Giulia Grillo o Barbara Lezzi, assieme a un discreto gruppo di ex sottosegretari, marciano in un’altra direzione (anche se con Lezzi si è riaperto il dialogo). E una big come Paola Taverna è descritta come “preoccupata”. Con il capo è rimasta una ridotta di fedelissimi, come il ministro dello Sport Vincenzo Spadafora. Gli sono tuttora vicini il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro e il Guardasigilli Alfonso Bonafede, perplessi però da alcune scelte. Molto ascoltata è la viceministra all’Economia Laura Castelli, in buoni rapporti anche con Giuseppe Conte. Di Maio sta poi ricucendo con il senatore Gianluigi Paragone, mentre c’è gelo con Stefano Buffagni, viceministro al Mise, addetto a quasi tutte le nomine di peso. E Alessandro Di Battista? “Alessandro è totalmente allineato con Luigi” giurano dal “giro” del capo politico. Ma tanti malpancisti lo invocano. E lui, in mezzo al fuoco, sa di potersi ancora giocare un mandato.

Senato. D’accordo le strategie e gli scenari, ma poi anche in politica decidono i numeri. E quelli dei grillini in Senato raccontano di un gruppo che potrebbe perdere altri pezzi. Perché dopo l’espulsione di Elena Fattori, già passata di sua sponte al Gruppo misto, ora ci sono altri due senatori con “le dimissioni in mano”, come riassume un big del M5S: il docente di Diritto civile Ugo Grassi, tentato dalla Lega ma destinato in caso di addio al Misto, e l’avvocato ligure Mattia Crucioli. Il Movimento sta tentando in ogni modo di trattenerli. Ma se lasciassero il M5S scenderebbe a 103 eletti, portando a otto il conto dei senatori cacciati o fuggiti. E i giallorossi, Pd e Movimento più i quattro di Leu, sarebbero sempre più appesi ai voti degli ex grillini (alcuni, come la stessa Fattori, giurano di voler comunque sostenere il governo) e soprattutto dei 17 del gruppo Psi-Italia Viva. Ossia dei renziani, tornati attivissimi nel corteggiare i grillini. Ma anche il Carroccio ammicca che è un piacere, nel Palazzo dove il governo si regge su un pugno di voti di maggioranza.

Restituzioni. Ieri dai piani alti hanno fatto piovere il monito: “Il collegio dei probiviri è pronto a sanzioni contro gli eletti non in regola con le restituzioni”. E non è casuale. perché molti dei peones irati o semplicemente disamorati di Di Maio non versano da tempo immemorabile. Al punto da rivendicarlo in alcune email recapitate ai vertici: “Non ho pagato perché non ritengo giusto pagare”. Sono parecchi quelli che non versano perché non tollerano l’obolo di 300 euro mensili per la piattaforma web Rousseau, il cuore operativo del Movimento gestito da Casaleggio. Ergo, la contesa sui soldi è un altro capitolo della sfida al capo e al suo riferimento milanese, in fondo a tutto il sistema a 5Stelle. “Ma in diversi vogliono solo tenersi il denaro”, ghigna un veterano.

Capogruppo. I candidati entrano ed escono, le squadre cambiano, ma nulla. Anche ieri sera la votazione per il capogruppo a Montecitorio è andata a vuoto. Non è bastato il passo di lato dell’attuale vicecapogruppo Francesco Silvestri, perché l’ex sottosegretario Davide Crippa si è fermato a 85 voti, mentre lo sfidante Riccardo Ricciardi non è andato oltre i 73. Numeri troppo bassi, visto che la (demenziale) regola interna esige il consenso del 50 per cento più uno dei deputati. Ma la stupidità della norma incrocia la chiara fame di caos di un gruppo sfaldato in frange. E le 17 schede bianche e le 15 nulle di ieri sono uno sberleffo rumoroso, innanzitutto al Di Maio che invocava la fine della vicenda dopo oltre due mesi di votazioni inutili. Mentre il Pd guarda da fuori, preoccupatissimo. Perché le croci dei 5Stelle pesano anche sui dem. Sempre di più.

I giornali e la “posizione della Procura”: lo scudo non c’è più e non va rimesso

Negli ultimi giorni su diversi giornali abbiamo letto articoli che spiegavano quale sia la vera posizione della Procura di Taranto attorno allo scudo legale. In un caso (Corriere della Sera) si sostiene che non c’è alcun bisogno dello scudo per condotte pre-esistenti, il che è vero entro certe condizioni, in un altro (Stampa) che “lo scudo c’è già”.

Entrambi citano come fonte un virgolettato di una nota della Procura inviata al Parlamento a settembre proprio sull’immunità per i gestori di Ilva: “Le condotte poste in essere in attuazione del Piano ambientale di cui al periodo precedente non possono dare luogo a responsabilità penale o amministrativa in quanto costituiscono adempimento delle migliori regole preventive”.

Tutto a posto? Mica tanto. Quella affermazione fra virgolette non è infatti del Procuratore capo di Taranto, Carlo Maria Capristo, che firma la nota, ma la citazione letterale del decreto Renzi del 2015 che introdusse, appunto, lo scudo penale per Ilva. Da tempo, è vero, viene fatto sapere che la Procura della città ionica non aspetta col fucile puntato la fine della “tutela” per i gestori di Ilva, ma il punto è chiarire se lo scudo c’è, se tuteli ancora ArcelorMittal e, in subordine, se l’immunità piaccia alla Procura come sembrerebbe. Le risposte, a stare alla famosa nota di settembre, sono: no e no.

Breve riepilogo. Introdotto da Renzi nel 2015 a coprire quasi tutto (anche salute e sicurezza sul lavoro), lo scudo penale doveva inizialmente durare un anno e mezzo, termine poi prolungato assieme alla scadenza del piano ambientale prima al marzo 2019, poi all’agosto 2023. A questo punto il cosiddetto “decreto Crescita” del 30 aprile 2019 stabilisce che lo scudo cessa di avere i suoi effetti per “affittuari e acquirenti” (ArcelorMittal) il 6 settembre 2019, rimanendo in vita e solo per le bonifiche per i commissari governativi.

A quel punto, siamo a giugno-luglio, parte la sarabanda sullo scudo con la multinazionale franco-indiana (“ce ne andiamo”) e il governo ci ripensa e prova a reintrodurre l’immunità anche per l’azienda: col nuovo decreto del 3 settembre (dl Imprese), scrive la Procura di Taranto, il governo “mantiene in vita la suddetta immunità”, anche se “necessariamente ed esclusivamente” per l’attuazione del Piano ambientale.

Cosa se ne deduce? Che secondo la Procura lo scudo era stato abolito col decreto Crescita e che il decreto Imprese ha provato – non riuscendoci poi per la rivolta di alcuni senatori grillini – a resuscitarla estendendola fino all’agosto 2023, data limite per la realizzazione del Piano ambientale. Nel merito, peraltro, la bocciatura di quel tentativo è netta: “Appare poco conforme ai principi costituzionali concedere spazi temporali troppo ampi quando si discute di condotte che comunque mettono in pericolo l’ambiente, la salute dei lavoratori e delle popolazioni vicino al siderurgico che subiscono l’attività nociva emissiva dello stesso”. O ancora: “La dilatazione eccessiva del termine relativo alla cd. immunità potrebbe portare diversi problemi di contrasto quanto meno con l’art. 3 della Costituzione e con il diritto alla salute dei lavoratori e delle popolazioni costrette a subire le emissioni nocive dello stabilimento (artt. 32 e 35 Cost.)”.

Insomma, lo scudo non c’è più per Mittal, anche secondo la Procura, che nel merito lo giudica dannoso e incostituzionale: il virgolettato da cui siamo partiti ha terminato di avere effetti il 6 settembre. Se il governo lo ritiene giusto e utile dovrà, insomma, reintrodurre l’immunità con una norma ad hoc.

“Immunità, una legge incostituzionale e un brutto segnale”

Se chiedi a Felice Casson – ex senatore ed ex magistrato che si è occupato, tra le altre cose, del processo alla fabbrica dei veleni di Marghera – cosa pensa dello scudo Ilva ti racconta questo episodio: “Appena nominato senatore andai a Taranto per un convegno. Ricordo che visitai l’Ilva in compagnia di Raffaele Guariniello. La situazione della sicurezza, e parlo di più di dieci anni fa, era disastrosa a vista d’occhio”.

Dottor Casson, è vero che senza una protezione penale nessuno si farà carico dell’Ilva?

Facciamo un passo indietro. Il problema dello scudo penale me lo sono posto dall’inizio perché come senatore avrei dovuto votarlo. E invece ho sempre evitato di farlo, perché lo ritenevo e lo ritengo illegittimo da un punto di vista costituzionale. Nel caso di specie non si può con una legge ordinaria violare una serie di norme costituzionali, creando una generale e generica impunità penale. Non si capisce perché uno scudo dovrebbe essere dato a una impresa e non a tre o a dieci: così si viola il principio di determinatezza della legge penale e di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Allora bisognerebbe dare uno scudo a tutti gli imprenditori rispetto alle leggi sull’ambiente: ma questo va chiaramente in contraddizione con il principio per il quale lo Stato tutela la salute di cittadini e lavoratori e l’ambiente.

L’obiezione che viene fatta, anche con una certa sicumera, è che Arcelor Mittal non può farsi carico di responsabilità derivanti dalle precedenti gestioni.

Ma è una balla! Dal punto di vista penale nessuno può essere chiamato a rispondere per fatti commessi da altri nel passato. Su questo non ci piove. L’unica eventuale corresponsabilità può riguardare ad esempio il caso in cui uno acquisisca un’area inquinata non bonificata, sia consapevole dell’inquinamento e la situazione perduri. Ma qui siamo in una situazione diversa.

Altra obiezione: i reati ambientali sono reati di continuità.

Certo, anche se non sempre. E comunque: se non c’è un’azione o un’omissione ascrivibile a una persona, o una persona giuridica, questa non può essere imputabile.

Mettiamo che muoia un operaio per una malattia insorta anni fa, Arcelor Mittal risponde di questa morte in sede penale?

La posizione di Arcelor Mittal verrebbe valutata se nel periodo della sua gestione non ha posto in essere misure di sicurezza a tutela della salute degli operai e dei cittadini. Nei processi che riguardano le morti sul lavoro a causa dell’amianto si vanno a verificare le responsabilità delle varie società periodo per periodo di competenza.

Quindi non è per lo scudo che la società se ne vuole andare?

Ma certo che no. Questo è un ricatto che viene riproposto da decenni. Non solo in Italia, ma anche nei paesi in via di sviluppo che mi capita di vedere nei miei viaggi. Ricordo su Porto Marghera un’intervista di Eugenio Cefis al Gazzettino, nel novembre del 1972, che diceva: se la magistratura sequestra gli impianti, fa indagini e poi ci condanna noi chiudiamo tutto e ce ne andiamo. Quanti anni sono passati? La storia è sempre quella: a rimetterci sono i più deboli, i lavoratori. E in questo caso anche i cittadini che abitano a Taranto.

L’idea di rafforzare l’articolo 51 del codice penale – che esclude la punibilità in caso di esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità – per le imprese strategiche per lo Stato la convince?

Per me sarebbe una presa in giro. Nel caso di una malattia o di un decesso andrebbe comunque aperta un’indagine. O no? Non si accerta più perché la gente muore? E comunque si andrebbe verso una pronuncia di incostituzionalità: perché deve valere per Ilva e non per altri? Ma la cosa peggiore secondo me è che così torniamo al passato. Anzi a situazioni peggiori: in passato non si osava tanto. Oggi che la sensibilità in materia ambientale è così alta, bisogna fare esattamente il contrario! Cioè fare in modo che le imprese abbiano tra le priorità la tutela dell’ambiente e della salute.

La domanda vera, a questo punto, forse è: Ilva può funzionare senza scudo?

Non credo che Arcelor Mittal voglia lo scudo, per le ragioni che ho detto. E cioè che dovrebbe rispondere solo per sé. Il problema è industriale, hanno fatto male i conti. Io non credo che il governo debba sottrarsi al conflitto. E soprattutto che non si debba arretrare rispetto alle tutele: le ho detto che sono stato all’Ilva più di dieci anni fa e che oggi non è cambiato nulla. Non dobbiamo rischiare di trovare, tra dieci anni, una situazione ancora peggiore.

Ilva, la maggioranza (per ora) disinnesca il pericolo “scudo”

Magari il governo ha notizie diverse da quelle che arrivano dagli operai Ilva di Taranto, con Arcelor Mittal che sta portando allo spegnimento degli impianti. Fatto sta che si continua a prendere tempo sulla vicenda, nella speranza che il colosso franco-indiano dia segni di ripensamento. E così la maggioranza procede a colpi di guerre interne.

Il problemapiù grosso, al momento, è tra 5stelle e, come è noto, riguarda il ripristino di una qualche forma di scudo penale per i gestori dell’Ilva. L’accordo non c’è, ma – è la sensazione diffusa – sarà trovato o quanto meno lo scontro sarà aggirato, perché nessuno è pronto a far cadere il governo sul tema. E così nel frattempo vengono disinnescati i pericoli immediati. Ieri la presidenza della commissione Finanze della Camera, guidata da Carla Ruocco (M5S) ha cassato come inammissibili gli emendamenti di Italia Viva per ripristinare l’immunità penale che avrebbe fatto implodere i pentastellati. In seconda battuta è partito il balletto sul documento con cui i senatori grillini hanno aperto, per così dire, a una trattativa.

Per capire la partita, serve un passo indietro. Martedì mattina i parlamentari pugliesi (39, di cui 13 al Senato) capitanati dall’ex ministro Barbara Lezzi, a Palazzo Chigi hanno spiegato a Giuseppe Conte, titolare della trattativa con Mittal, che non c’è spazio per qualsiasi ritorno dell’immunità penale. Nemmeno nell’ipotesi, auspicata dal premier, di una norma interpretativa erga omnes che – appoggiandosi all’articolo 51 del codice penale (nessuno è punibile per atti commessi adempiendo alla legge, che nel caso sarebbe il piano ambientale) – si applichi a tutte le aziende strategiche. Conte la chiede perché il governo è convinto che una qualche forma di tutela giuridica servirà anche ai nuovi gestori nel caso Mittal se ne vada. Linea condivisa dagli altri presenti, da Luigi Di Maio al ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli. Niente da fare. A quel punto il leader M5s è passato alla minaccia: “Ve ne assumerete la responsabilità”. Concetto ribadito in serata all’assemblea dei deputati a Montecitorio.

A quel punto al Senato incassano il colpo. A Di Maio, che aveva chiesto un documento sulla posizione da portare al prossimo vertice di maggioranza, i senatori rispondono con quattro punti: il primo è che sullo scudo si resta contrari, ma disponibili, nel momento in cui ci fosse valutazione del premier “sulla eventualità della necessità di un provvedimento normativo”, a discuterne in assemblea. Poi assestano anche due ceffoni al “capo”, inserendo al quarto punto che lo scudo penale non è un tema su cui si giocherà la tenuta del governo e dando mandato di rappresentare la loro posizione a Patuanelli, individuato come una figura in grado di mediare tra il corpaccione parlamentare e il leader che non ha più il polso dei suoi gruppi. Nel pomeriggio anche un fedelissimo di Di Maio, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede prova a smorzare le minacce del capo: “Sull’Ilva non c’è nessuna possibilità che caschi il governo”. “Luigi vuole evitare che l’Ilva diventi il nuovo caso Tav”, spiega Francesco Silvestri, vicecapogruppo 5S alla Camera.

Al netto delle paure e del tatticismo, una breccia si è aperta nel muro eretto dai parlamentari pugliesi dei 5Stelle. Al punto che per tutto il giorno si rincorrono rumors della disponibilità a uno scudo penale “a tempo”, mai contenuta nel documento e subito smentita dai diretti interessati. “C’è disponibilità a discuterne, non a un provvedimento”, spiega in serata Patuanelli, che poi incontra i deputati 5Stelle.

Nel frattempo il governo si prepara allo scontro con Mittal, senza un vero piano B. “Sarà il duello del secolo e per questo confidiamo che la multinazionale torni sui suoi passi”, spiega Patuanelli. Intanto però c’è il pericolo immediato della fermata degli impianti entro fine mese. “È evidente – spiega Patuanelli – che visti i tempi di recesso dal contratto, che sono strettissimi, riteniamo che anche per una questione ambientale sia necessario garantire una continuità produttiva. Ed è evidente che eventualmente i commissari torneranno a gestire l’impianto se dovesse avvenire il recesso. Ma per noi non ci sono assolutamente i presupposti”. Entro domani, intanto, i commissari depositeranno al Tribunale di Milano il ricorso d’urgenza (ex articolo 700 del codice di procedura civile) contro le preteste del colosso franco indiano.

Ostinata e contraria: la Liguria che resiste

Resistenza. È il filo conduttore del documentario #Liguria, realizzato da Loft Produzioni e firmato da Matteo Billi, Pietro Barabino e Ferruccio Sansa per la serie Italia.doc (disponibile in esclusiva su www.iloft.it e su app Loft da domani). Perché, come direbbe Fabrizio De André, i liguri hanno sempre vissuto in direzione ‘ostinata e contraria’. È il destino di chi sta con il mare in fronte e i monti alle spalle. Così la gente di Liguria, diceva Italo Calvino, è sempre al confine tra desiderio di partire e bisogno di radici, tra apertura al mondo e chiusura in se stessi.

Ecco allora un documentario che racconta la Liguria di oggi senza filtri, con le parole dei suoi protagonisti. E non si poteva che partire dal mare, quello scuro del porto. Sono i camalli a raccontare l’altra Genova, città fatta di moli e non di strade. Il porto che è una delle più grandi industrie d’Italia, ma oggi soffre la concorrenza spietata dell’Oriente. Tra i moli si difende l’identità di Genova: lavoro, solidarietà, partecipazione. Resistenza, appunto. La stessa di Emmanuel Diaz, fratello di Henry, morto nel crollo del Morandi. Emmanuel viene dalla Colombia, è uno dei nuovi liguri. Ha deciso di restare a Genova perché “la vita e il destino hanno deciso di tenermi qui”.

Come gli operatori di San Marcellino che nel centro storico ogni giorno aprono la porta a persone sole, disperate, semplicemente povere. Tra i vicoli dove ogni notte si accendeva la luce della finestre di don Andrea Gallo – siamo stati anche lì, nella Comunità di San Benedetto – e dove da ragazzo camminava De André. Quella che il poeta Giorgio Caproni raccontava così: “Genova di sentina/ Di lavatoio. Latrina/Genova di petroliera,/struggimento, scogliera”.

Genova, ma non solo. Ecco le Cinque Terre, così appese sugli scogli per resistere alle onde, ma anche alle colline che si sgretolano a ogni alluvione. Qui dove si tenta di immaginare un turismo che rispetti l’ambiente e non ceda al cemento. Quella tentazione che ha contaminato un po’ tutti: da destra a sinistra. E che ha permesso alla ‘ndrangheta di mettere radici nel Ponente ligure, tra Savona e Imperia. Ma qualcuno anche qui resiste, come Rolando Fazzari che arrivato dalla Calabria ha perso tutto – l’impresa, il figlio – pur di non farsi arruolare dalle mafie. Resistente.

E resistono gli ultimi abitanti dell’entroterra. Perché la Liguria è mare, ma ha origini anche nei monti, come Cristoforo Colombo che veniva dalle valli alle spalle del mare. Quei paesi dove oggi gli abitanti si contano sulle dita di una mano e non ci sono più bambini, né scuole, né medici. Ma qualcuno resta, ostinato e contrario.

Già, quel contrasto, quello stridore di pensieri e sentimenti da cui nascono poesia, musica, perfino comicità. Poche terre hanno dato quanto la Liguria: da Eugenio Montale a Camillo Sbarbaro, da De Andrè a Ivano Fossati. E poi Beppe Grillo e Maurizio Crozza. Fino ad Andrea Ceccon, ai Pirati dei Caruggi, che continuano quella scuola che sa ridere, magari a denti stretti, ma di se stessi.

Anche questa è resistenza. E non si poteva che arrivare a Savona, nella casa di Sandro Pertini. Qui si finisce o forse si ricomincia, mentre la Liguria ricostruisce il ponte e la propria identità. In questa terra medaglia d’oro alla Resistenza che oggi vota a destra, multa i clochard. E deve decidere cos’è.

I nostri fiumi malati di cemento. Così si sono distrutti in 50 anni

Uno sguardo più amplio all’Europa, uno più stretto all’Italia: lo stato di salute degli specchi d’acqua dolce è critico in almeno il 60 per cento dei casi nel continente e in Italia solo il 43 per cento dei fiumi è in un “buono stato ecologico”. Per i laghi, la percentuale scende al 20 per cento, solo due su dieci. Il dossier del Wwf “Un futuro per i nostri fiumi” è chiaro sull’influenza dell’uomo. La sintesi è questa: i nostri fiumi sono in gran parte “canalizzati”, dighe e sbarramenti ne interrompono la continuità, i boschi ripari vengono tagliati e gli alvei dragati. Inoltre si coltiva in modo insostenibile, molti centri non hanno ancora sistemi fognari adeguati e il consumo di suolo continua a trasformare il territorio.

Lo studio, 110 pagine di dati, cartografie e analisi, è dettagliato. Analizza, ad esempio, i reticolati dei fiumi e verifica su un campione pari a circa l’8% delle risorse idriche se le costruzioni sono a più di 150 metri dalle rive come previsto per legge. Emerge che la Lombardia e il Piemonte hanno convertito a uso urbano, circa 500 km quadrati di suolo vicino ai fiumi, mentre la Toscana, l’Emilia Romagna e il Veneto, insieme, si attestano su circa 620 km quadrati. Per il centro-sud il Lazio ha avuto un consumo paragonabile alle regioni del nord con 150 Km quadrati. In totale sono stati trasformati in cinquant’anni circa 2mila km quadrati di ambiti fluviali, l’equivalente di circa 310mila campi da calcio. Le trasformazioni più intense sono avvenute lungo le sponde dei fiumi di secondo ordine, ovvero quelli il cui bacino abbia una superficie maggiore a 400 km quadrati: sono passate dal 3,56 per cento al 25,7 per cento. Solo in Liguria quasi un quarto del suolo (23,8%) costruito entro la fascia di 150 metri dagli alvei fluviali, è stato occupato tra il 2012 e il 2015, si è costruito anche dentro gli alvei. Secondo l’Ispra, già nei tre anni prima del 2016 le regioni hanno continuato drammaticamente a portare cemento e infrastrutture dentro la fascia dei 150 metri: il Trentino Alto Adige ha incrementato del 12 per cento il consumo nelle fasce fluviali, il Piemonte del’9 per cento, l’Emilia Romagna con dell’8,2 per cento, la Lombardia dell’8 per cento, la Toscana del 7,2 pe cento. Solo dal novembre 2015 a maggio 2016 sono stati convertiti ad uso urbano 50 chilometri quadrati corrispondenti ad una velocità media di 280 metri quadrati al giorno, cioè tra 500 e 600 metri quadrati al giorno su base annua. Quella che può sembrare una briciolina, rappresenta invece una velocità pari al 66 per cento di quella registrata nel mezzo secolo del dopoguerra. Dieci anni a questo ritmo porterebbero a 2mila chilometri quadrati ulteriori di superfici artificializzate.

Un focusè dedicato alla città di Longarone, quella della tragedia del Vajont che nel 1963 fece 2mila vittime a seguito di una frana che fece tracimare l’acqua del bacino alpino realizzato con una diga. L’area, prima di essere spazzata via, si sviluppava su 59 ettari. Il problema è che la successiva ricostruzione non sembra aver imparato la lezione. La superficie si è quadruplicata, tre quarti dell’urbanizzato sono stati collocati vicino all’alveo fluviale spesso in aree a “elevata” o “media pericolosità”. Colpa, spiega il Wwf, del fatto che le opere idrauliche come difese spondali, argini e canali hanno creato un effetto di “finta sicurezza”. Ad Aulla, in Liguria, ad esempio, nel 1959 fu costruito un argine a ridosso del fiume che ha portato a edificare fin dentro il corso. Risultato: la città nel 2011 è stata invasa da acqua e fango. E ancora, il Vara altro fiume ‘impazzito’ nel 2011 che pochi giorni fa ha sommerso Borghetto di Vara: l’alveo attivo si è ridotto progressivamente. In tutt’Italia, insomma, negli ultimi anni la percentuale di suolo consumato all’interno delle aree a pericolosità idraulica elevata (eventi ogni 10 – 20 anni) è stata di un ulteriore 7,3 per cento mentre è del 10,5 per cento nelle aree a pericolosità media, con alluvioni “poco frequenti” e tempi di ritorno fra 100 e 200 anni. Una stima che porta il Wwf a ritenere che vi sono oltre 7,7 milioni di italiani a rischio alluvioni.

Ubi, indagati dieci clienti molto speciali

Gli indagati di Ubi Banca a Brescia hanno ricevuto una buona notizia, che contiene però una decina di pessime notizie. Quella buona è l’archiviazione dell’indagine per ostacolo alla vigilanza a carico di sette dirigenti di Ubi, tra cui gli ex presidenti dei consigli di gestione (Franco Polotti) e di sorveglianza (Andrea Moltrasio), insieme ai responsabili dei rischi (Mauro Senati), dell’antiriciclaggio (Carlo Peroni) e dell’audit (Stefano Tortellotti). L’inchiesta era partita nel 2017 dalle denunce di un funzionario antiriciclaggio della banca (Roberto Peroni), che per tutta risposta è stato prima demansionato e poi licenziato. Aveva avuto il torto di denunciare che una quarantina di clienti speciali, alcuni con ruoli di vertice dentro la banca, godevano di un trattamento molto particolare: per loro non valevano i controlli e non scattavano le segnalazioni di operazioni sospette. Dal 2012 al 2016, in banca si sarebbero verificati “sistematici episodi di omissione di segnalazioni per operazioni sospette, nonché degli obblighi di adeguata verifica della clientela nei confronti di persone legate a figure apicali in seno al gruppo bancario”. Nel maggio 2019, il procuratore di Brescia Carlo Nocerino e il sostituto Teodoro Catananti chiedono però l’archiviazione, poi accolta dal gip Carlo Bianchetti: perché non segnalare un’operazione sospetta non è più un reato penale, ma solo un illecito amministrativo. Già sanzionato dalla Banca d’Italia, pur con qualche ritardo, con una multa a Ubi di 1,2 milioni di euro. Eppure c’è la decina di cattive notizie. Il procuratore Nocerino ha disposto lo stralcio di almeno dieci casi di operazioni sospette, su cui ora indagheranno le Procure competenti per territorio in giro per l’Italia.

Archiviati i mancati controllori, saranno inquisiti i clienti molto speciali che erano al di sopra di ogni controllo. Le loro operazioni con Ubi potrebbero nascondere reati fiscali, riciclaggio di capitali, corruzione. Tra i quaranta clienti eccellenti i cui nomi erano entrati nel 2017 nell’indagine bresciana, c’erano la attuale presidente del consiglio di amministrazione di Ubi, Letizia Moratti; il consigliere d’amministrazione Pietro Gussalli Beretta (quello della fabbrica di armi), che l’inchiesta sui Panama Papers metteva in connessione con società offshore di Panama e delle Seychelles “che appaiono legate a Ubi”; l’ex presidente Polotti, titolare effettivo della società Ori Martin spa e dunque della collegata Aom Rottami, che nel 2014 bonifica 5,2 milioni di euro a una società di Dubai, allora nella black list fiscale; Corrado Faissola, ex presidente di Ubi e dell’Abi, scomparso nel 2012, che aveva ricevuto un bonifico “a rischio” da un conto svizzero; Gianluigi Gola, ex consigliere di Ubi; Luca Volontè, ex deputato dell’Udc di Pierferdinando Casini, titolare effettivo della Fondazione Novae Terrae; gli imprenditori Pierluigi Berlucchi e Mariliano Mazzoleni, che riceve da Ubi Lussemburgo fondi scudati tramite la fiduciaria Serfid. La vicenda che sfiora Letizia Moratti riguarda la Saras Trading, società svizzera del gruppo Moratti, che avrebbe ricevuto da Ubi Factor finanziamenti per oltre 50 milioni di euro poi finiti all’estero, con transazioni passate nelle Isole del Canale e che hanno coinvolto anche il gruppo petrolifero russo Petraco.