“Sono Mifsud”. Dopo due anni torna in voce il misterioso prof

Due colpi di scena a distanza di poche ore rilanciano il caso Mifsud. Il professore maltese testimone chiave del Russiagate, è tornato. O meglio è tornata la sua voce o di un tale che sostiene di essere lui. L’agenzia AdnKronos, Il Corriere della Sera e La Repubblica hanno ricevuto due audio: uno di 6 minuti e uno di 50 secondi. La voce maschile (che effettivamente somiglia a quella di Mifsud) dice in inglese: “È l’11 novembre 2019, sono Joseph Mifsud, questa è la mia voce”.

Nella conversazione Mifsud (?) dice di non avere nulla a che fare con i servizi segreti: “Se qualcuno degli apparati mi ha avvicinato io non ero a conoscenza che si trattasse di questo”. Descrive sé stesso come un professionista del “networking’. Precisa però di non avere “mai avuto accesso a informazioni riservate”.

La parte più di attualità è quella in cui spazza via dalla Link University l’ombra dei servizi segreti. Sul tema era tornato recentemente l’avvocato tedesco Stephan Roh.

Il legale di Mifsud ha registrato nel maggio 2018 un audio del professore che sostiene cose diverse da quelle contenute nel rapporto Mueller sul Russigate. Roh ha poi consegnato l’audio a luglio del 2019 agli uomini del procuratore speciale John Durham che stanno facendo la contro-inchiesta filo-Trump che noi abbiamo battezzato “Russiagate 2 La Vendetta”. Sempre il solito Roh nei giorni scorsi ha messo La Verità sulla pista buona, nelle Marche: “Lì si è nascosto Mifsud – ha detto Roh – fino a fine dicembre 2017, nella casa di un medico amico della Fadini”. Un medico effettivamente ha ospitato alla vigilia di Natale del 2017 Mifsud: si chiama Alessandro Zampini, ed è il compagno di Vanna Fadini, amministratrice della Gem, società di gestione della Link University.

E proprio quando esce la notizia dell’ospite di Mifsud ecco che il professore-fantasma riappare via audio con una mail spedita da un account anonimo (IAM_JOMI) agganciato al server protonmail.com, servizio di posta elettronica crittografata.

L’audio non cancella la domanda che resta su tavolo: come si concilia il mantra dei vertici della Link (“Mai più saputo nulla di Mifsud da ottobre 2017”) con la vacanza marchigiana di dicembre? La presenza di Mifsud a casa del compagno di Vanna Fadini sembra invece coerente con la versione di Roh.

Il sedicente Mifsud l’11 novembre spiega: “Recentemente sono stato informato che Link Campus è stata accusata di mettere in atto questioni o essere coinvolta con i servizi (di intelligence, ndr). Categoricamente smentisco e mi rifiuto di accettare qualsiasi cosa di questo tipo. Non c’è mai stato nulla di questo tipo”.

Il presidente Vincenzo Scotti, la presidente della Global Education Management srl (Gem), cioé la società che cura la gestione della Link, Vanna Fadini, e il direttore generale della Link Campus University Pasquale Russo avranno tirato un respiro di sollievo. Se anche Mifsud è stato ospite del compagno di Vanna Fadini nelle Marche a Esanatoglia, paesino di 2 mila abitanti, l’audio sembra fatto apposta per tener fuori la Link e i servizi di sicurezza.

Resta un problema: mentre il professore se la spassava nelle Marche con il compagno della Fadini, l’università gestita da lei pagava una casa sfitta a Roma per il prof. Mifsud.

Questa è la versione del direttore della Link, Pasquale Russo: “Vanna Fadini non era stata informata dal compagno. Da quel che ho capito Mifsud e Zampini erano appassionati di scacchi e trascorrevano giornate insieme. Sono rapporti personali e Link non è stata informata dal nostro consigliere Zampini. Vanna Fadini lo ha saputo ieri sera”.

Sui rapporti tra i Servizi segreti, la Link e la sua improvvisa scomparsa a fine 2017 getta acqua sul fuoco l’audio di Mifsud (registrato nel giorno in cui escono le mail di Roh con la storia della casa marchigiana): “Negli ultimi due anni – giura l’uomo dell’audio – non ho avuto contatti con nessuno di importante o particolare”.

Gozzo passa, ma sulla Dna si spaccano il Csm e Aei

Sia pure frastagliato, il Csm ha votato martedì i nuovi tre pm della Dna dopo che al plenum del 18 ottobre i togati Sebastiano Ardita e Nino Di Matteo si sono messi di traverso ai giochi in Terza commissione, competente per le proposte e ne hanno fatto una loro: quella per Nico Gozzo, pg a Palermo, pm antimafia di punta dagli anni 90, clamorosamente escluso dalle due terne di fine luglio, in pieno scandalo nomine, votate dai consiglieri della Terza. Sono passati Gozzo, Roberto Sparagna, pm di Torino e Giuseppe Gatti, pm a Bari. Gozzo ha diviso il gruppo di AeI. Oltre che da Ardita e Di Matteo è stato votato da Piercamillo Davigo ma non da Ilaria Pepe e Giuseppe Marra, giudici napoletani che hanno preferito Catello Maresca, pm partenopeo. Un nome che Pepe aveva votato in Terza, come gli altri componenti eccetto Laura Braggion di Mi, che gli aveva preferito Roberto Piscitello, come ieri tutto il gruppo, per la sua esperienza a capo dell’ufficio detenuti del Dap, esperto di 41 bis.

Il nome di Maresca, fin dal voto di luglio in Terza aveva fatto rumore: per titoli inferiori e minore anzianità rispetto ad alcuni esclusi. Durante la corsa, il pm della Dna Cesare Sirignano parla di lui al telefono intercettato di Luca Palamara: sembra sponsorizzare Maresca, di Unicost perché a suo dire la Dna è piena di pm di Area. Martedì, prima del voto, durissima polemica per l’intervento del presidente della Terza Michele Ciambellini, Unicost, che, difendendo le scelte della sua commissione “su base della circolare” si è riferito alle indagini antimafia in Sicilia, come se fossero superate. Di Matteo gli risponde a muso duro: “Se vogliamo dimenticare le stragi dobbiamo avere il coraggio di dirlo apertamente. Io non le dimentico”. Gozzo viene votato anche dai togati di Area, Peppe Cascini ha pure criticato apertamente la Terza e da quelli di MI, oltre che da Fulvio Gigliotti, laico M5s.

Carte, cavalli e omissioni: ecco Andreotti a scuola

Andreotti che gioca a carte, Andreotti che va alle corse dei cavalli, Andreotti alle Olimpiadi del ’60 a Roma. Basta un centenario, quello della nascita del Divo Giulio, e tutto può succedere, compreso il cortocircuito per cui a raccontare agli studenti delle scuole superiori Andreotti, spesso persino escluso dai programmi di storia, siano direttamente i figli Stefano e Serena insieme a qualche ex amico della Dc.

Ieri a Sondrio, oggi a Cremona. Stesso copione: il Provveditore (che poi è lo stesso in entrambe le città, Fabio Molinari) invia una circolare nelle scuole invitando le classi a un “incontro di formazione per studenti” dal titolo “Giulio Andreotti, un protagonista della nostra storia nel centesimo anniversario della nascita”. Oltre ai figli del Divo, a Sondrio arriva Gilberto Bonalumi – quattro volte deputato, due senatore, due sottosegretario, sempre con la Balena Bianca – e a Cremona Walter Montini, senatore nel 1992 e per molti anni al fianco di Andreotti. Un parterre non proprio neutrale – non foss’altro per il coinvolgimento emotivo nel giudizio del sette volte presidente del Consiglio – tanto che sindacati e associazioni stanno protestando contro il dirigente provinciale che ha promosso gli eventi.

 

I fedelissimi dc Bonalumi e Montini

A preoccupare Laura Valenti, segretaria della Flc Cgil di Cremona, c’è proprio la deriva agiografica degli incontri: “Nulla da dire se fosse stata organizzata all’interno di un percorso di formazione sulla storia del nostro Paese, ma ci pare fuori luogo che un’iniziativa celebrativa della controversa figura di Andreotti venga persino presentata dal dirigente dell’Ufficio scolastico di Cremona come un corso di formazione per gli studenti”. Il fatto che Andreotti sia una figura storica passa dunque in secondo piano se il racconto – per forza distorto e parziale – è affidato soltanto ai suoi cari: “Facciamo fatica – continua la Valenti – ad annoverare Andreotti tra le figure di indubbia eticità. Su di lui grava la macchia dell’imputazione per reati gravissimi, ovvero la concreta collaborazione con personaggi di spicco di Cosa Nostra, per i quali non vi è mai stata una assoluzione ma una semplice prescrizione”.

 

Le foto dell’archivio di famiglia

E invece a Sondrio, come presumibilmente a Cremona, vanno in scena vita, morte e miracoli di un uomo per bene, un uomo di Stato: “Proprio perché definita una figura controversa – ammette Serena davanti agli studenti – io e mio fratello ci impegniamo a parlare di lui per mostrare la sua vita”. In modo che nessuno si faccia strane idee. “L’incontro è stato messo in discussione da un’organizzazione sindacale – si è giustificato invece Molinari –, ritengo che ciò offenda la mia intelligenza, quella dei vostri insegnanti e la vostra perché credo abbiate la capacità di ragionare e valutare ciò che ascoltate”.

Nel dubbio, meglio far ascoltare e vedere un Divo rilassato e così lontano dalle ombre sulla mafia, sui rapporti con Michele Sindona e su tutto il resto. I figli presentano decine di foto dall’archivio privato della famiglia, i ragazzi guardano, il Provveditore gongola. Il tutto alla presenza di Marcella Fratta, assessore della giunta di centrodestra di Sondrio, e in una sala della Sede della Provincia, con tanto di patrocinio concesso dall’Ufficio Scolastico per la Lombardia.

E oggi si replica, nonostante a Cremona anche la lista “Sinistra per Cremona” abbia alzato la voce: “La figura di Giulio Andreotti non può che rimandare alla memoria le vicende giudiziarie che lo hanno coinvolto. Non vediamo quale altro aspetto di rilievo educativo e di interesse per gli studenti, prescindendo dalle vicende strettamente politiche, possa emergere”.

Chef Rubio, bandiera della sinistra. Ma parla come uno di CasaPound

Per raccontare chi sia Chef Rubio senza giudizi contaminati dal tifo politico, bisogna partire dal nome d’arte: Chef Rubio. Il termine chef se ne sta lì appiccicato al cognome ritoccato (si chiama Rubini).

Senza che “chef”, Rubio, lo sia stato mai. È un po’ tipo Mamma Ebe, Mastro Geppetto, Babbo Natale, che tu non sai più perché si chiamano babbo, mastro e mamma, ma ormai ti sei abituato così e amen. Il vero problema di Rubio sta proprio nel suo continuo provare a depistare, forse più se stesso che gli altri, su quale sia la sua reale natura. Che è quella del bullo mascherato da capopopolo. Da bandiera della sinistra con i modi dello smargiasso di CasaPound. Ed è in questa zuppa densa di contraddizioni che lo smargiasso si sbraccia da anni cercando di restare a galla, sostenuto da una certa sinistra a cui basta che dia dello stronzo a Salvini per farselo stare simpatico.

A proposito di Salvini, Rubio ne è nemico pur ricalcandone gli stessi schemi, dal linguaggio carico d’odio (“Prima o poi ti incontro”, “Vigliacco senza palle”) alle fake news buttate lì per armare seguaci (memorabile il tweet in cui insinuò il dubbio che Salvini, ricoverato, si fosse inventato un malore). E ne ricalca gli schemi tipici degli arruffapopoli mascherati da amici del popolo, quando si lancia in analisi politiche semplificate all’osso, e gettando benzina su questioni che chiederebbero prudenza. Se Salvini lo fa con i migranti, lui lo fa con la questione israelo-palestinese.

Ci sono decine di tweet feroci in cui Rubio, convinto che il tema possa essere compresso in due slogan insultanti, si schiera coi palestinesi senza porsi il problema del “come”. Nello specifico, definendo Israele uno stato neonazista con “esseri abominevoli” e scrivendo “per salvare il pianeta eliminate fisicamente i sovranisti” con accanto una bandiera di Israele. Quando qualcuno gli fa notare che istiga l’odio contro Israele, lui risponde che ce l’ha con i sionisti-cancro-del-mondo, mica con gli ebrei.

Peccato che qualche tweet più in là scriva “Ah Rabbì” o “jewish idiot” o “Israele tra le tante cose di merda che offre al mondo deporta i filippini. Pulciari e avari dalla notte dei tempi”. E peccato, anche, che manifesti un’ostilità implacabile nei confronti di Roberto Saviano, di origini ebraiche, definito “finto giornalista” e “zerbino dei bancarottieri di Londra”. E invece Saviano, per sua fortuna, continua a lavorare per Repubblica. Un giornale che, alla notizia del licenziamento di Chef Rubio da parte di Discovery, pubblica un articolo piccato il cui passaggio più emblematico è: “Veder spadellare con la vacua leggerezza di Nonna Papera riesce molto più rassicurante per autori e spettatori”. Quindi chi non insulta sui social è Nonna Papera. Ne deduciamo che Cracco sia Paperino, un vacuo sfigato che cucina senza chiamare “rabbì” chi gli toglie una stella Michelin. E parliamo dello stesso giornale che dedica servizi su servizi a “Odiare ti costa” e “Parole Ostili” sui social.

Rubio non vuole essere Salvini ma è Salvini, vuole spacciarsi per anti-sionista ma fa battute antisemite, cosa manca? Ah già, vuole farci sapere che è contro il bullismo e presta il suo volto a campagne e programmi tv (come quello su Rai 2 da cui è stato escluso). Peccato che lo stesso Rubio abbia scritto su Facebook “Il bullismo c’è sempre stato, solo che si chiamava strada. Si incassava muti, si restituiva e a casa ‘tutto bene’”. Dunque il suo saggio insegnamento è rispondere alla violenza con la violenza e non dire nulla ai genitori. Tra parentesi, Amnesty interruppe ogni collaborazione con Rubio proprio per queste frasi. Del resto, che a lui piaccia prestare il volto a onlus di ogni tipo è risaputo.

È stato testimonial di quasi tutte le campagne del pianeta, da #salvaungorilla a salva un albero a salva un boscaiolo albino. Spesso auto-proponendosi, e non mancando di far inviare dal suo ufficio stampa decine di email ai giornali sulle iniziative benefiche. E guai a contestargli qualcosa, perché potrebbe rispondere con battute sessiste. A me ha scritto che io ce l’ho con lui perché “sta cosa che non gliel’ho dato non je va giù”. Su Belen aveva twittato che a furia di tette e culi “poi dici le violenze”.

Devo rinfrescare la memoria a Rubio e rammentargli che non ce l’ho lui, ma è lui ad avercela con me per il mio lavoro sul Fatto. Nel 2016 ho condotto una lunga inchiesta su gruppi Facebook chiusi in cui milioni di odiatori (alcuni perfino arrestati tempo dopo) condividevano contenuti razzisti, sessisti e la nota cartella denominata “Bibbia”, con centinaia di foto e video di minorenni. Tra questi “Welcome to favelas” e “La fabbrica del degrado”, in cui per anni si è praticato cyberbullismo. Dalla mia inchiesta iniziarono, con mia grande sorpresa, i post insultanti di Rubio. Mi venne spiegato che lui era attivo su quelle pagine. Lo contattai e lui mi disse: “Hai spaventato miei amici amministratori”. In pratica, la mia colpa era quella di aver rivelato i nomi di chi era a capo di quei gruppi in cui, tra le altre cose, si insultavano donne, ragazzi down, persone di colore, minorenni, ebrei.

Tutto questo prima che Rubio scoprisse la sua vocazione da testimonial anti-bullismo e difensore dei deboli, ovviamente. Va ricordato a un certa sinistra, prima che scomodi di nuovo la teoria dell’editto bulgaro per uno che, più che vittima della censura, è vittima di se stesso.

Caso Siri, dalla Giunta del Senato l’ok al sequestro di email, chat e sms

La Giunta per le autorizzazioni del Senato ha dato il via libera ai magistrati di Milano che si erano rivolti a Palazzo Madama per poter sequestrare email, conversazioni via chat, sms e altri contenuti del cellulare del collaboratore dell’ex sottosegretario leghista Armando Siri, indagato per autoriciclaggio aggravato: oltre ai due pc già sequestrati potranno utilizzare anche quanto contenuto nello smartphone di Marco Luca Perini e che sia utile per fare luce sui finanziamenti ottenuti dal parlamentare dalla Banca agricola Commerciale di San Marino a condizioni ritenute di particolare favore e che poi ha utilizzato per l’acquisto di un immobile a Bresso (Milano) intestato a sua figlia. Compresi i 10.742 messaggi, tra sms, mms e chat scambiati tra Perini e Siri quando quest’ultimo era già senatore.

L’autorizzazione è arrivata dopo un duro braccio di ferro in Giunta, dove la Lega, appoggiata da FI e Fd’I ha chiesto, ma senza successo, di rinviare il voto sul caso Siri. Ha prevalso invece il fronte composto da 5 Stelle, Pd, Leu e Italia Viva, favorevoli a dare l’ok alla Procura di Milano. Lo scarto è stato minimo: 11 sì e 9 no, con un voto concluso tra le polemiche. Le stesse che hanno accompagnato la trattazione del caso di Luigi Cesaro: anche su questo dossier l’intero centrodestra chiedeva un rinvio con la riapertura dei termini per l’analisi della richiesta di autorizzazione all’uso delle intercettazioni da parte dei magistrati del Tribunale di Napoli Nord, che giace in Senato, senza risposta, ormai da oltre 18 mesi.

Qualcosa finalmente si muove: l’indicazione dei partiti che appoggiano la maggioranza di governo ha infatti prevalso e pertanto già giovedì prossimo si saprà se e in che termini le conversazioni telefoniche acquisite agli atti dell’inchiesta per corruzione elettorale potranno essere infine utilizzate senza nuovi approfondimenti o ulteriori audizioni del senatore forzista, nei guai per un’inchiesta che lo accusa di aver procacciato voti con promesse di posti di lavoro e commesse pubbliche per far eleggere suo figlio Armando alle elezioni regionali campane del 2015.

Insomma anche per Cesaro si avvicina il momento della verità. Quanto a Siri ora sarà l’aula del Senato a dover bollinare definitivamente le decisioni assunte in Giunta. Secondo cui non è emerso alcun fumus persecutionis nei confronti di Siri da parte della Procura di Milano, che ha anche motivato correttamente l’estensione dell’“acquisizione probatoria” del cellulare di Perini. Per il Senato è giustificata dal fatto che “i rapporti tra i due coindagati andrebbero oltre il ristretto ambito istituzionale”: il collaboratore del parlamentare leghista aveva infatti partecipato agli incontri con gli esponenti della Banca del Titano che hanno portato al rilascio dei finanziamenti e risulta lui stesso acquirente di una porzione dello stesso immobile di Bresso acquistato dalla figlia del senatore.

Lara Comi Spa: l’euroforzista che procacciava affari. Per sé

Clienti da trovare, affari da chiudere, fatture da inviare per ricerche di mercato, in certi casi copiate dall’inizio alla fine. In uno, addirittura, presa dalla Casaleggio Associati. Lara Comi, ex parlamentare europea di Forza Italia, durante il suo mandato a Bruxelles più che di politica pare essersi occupata di affari e guadagni. Questo emerge da alcuni verbali di testimoni depositati dalla Procura di Milano dopo la chiusura indagini sul nuovo tangentificio Lombardia e notificata agli avvocati il 30 settembre. Gli elementi emersi al momento non hanno un rilievo penale. Nel fascicolo in mano all’antimafia Comi è indagata per corruzione, truffa e finanziamento illecito per un pagamento fatto dal capo di Confindustria Lombardia Marco Bonometti, anche lui indagato.

Torniamo ai verbali di sommarie informazioni. Il 14 maggio viene sentito Angelo Fusi che si occupa di pianificazione pubblicitaria attraverso la sua Adt srl: “Ho conosciuto la Comi nel 2014 (…), a distanza di tre anni le ho dato due incarichi per ricerche di marketing (…). Non avevo in mente cosa potesse offrirmi (…), ma intendevo conferirle un incarico sulla fiducia”. Fusi spiega poi di non aver avuto idea del contenuto dell’incarico e che fu la Comi stessa a inviargli l’importo per la consulenza. “È stata la prima e ultima volta che ho pagato qualcuno per le ricerche di marketing, in quanto questo è stato da sempre il mio business”. Fusi paga così due consulenze per un totale di 17.000 euro. Una delle due ricerche, quella sull’E Commerce, fatturata da Comi attraverso la sua Premium consulting, secondo la Procura, “è interamente copiata (…) ed è scaricabile dal sito della Casaleggio Associati con il titolo E Commerce in Italia 2018”. In totale, rileva la Procura, i costi che Fusi sostiene per la Comi sono circa il 30% del fatturato 2018. Sul fatto lo stesso Fusi non saprà dare una spiegazione. Nemmeno saprà motivare la velocità con cui la consulenza sull’E Commerce del valore di 7.500 euro sia stata pagata in tre giorni dall’invio della ricevuta. La fattura, a detta di Fusi, non risulta registrata. Cosa che il titolare dell’Adt farà solo dopo gli arresti del 7 maggio scorso. Anche Alessandro Maggioni si occupa di spazi pubblicitari. Fino a febbraio ha lavorato per la Mediaxchange che nel dicembre 2017 inizia una trattativa per pubblicizzare l’Agenzia per il turismo di Livigno. “Il presidente Luca Moretti ci fu presentato da Lara Comi”. L’allora europarlamentare era già in contatto con Paolo Piccardo titolare della Wide, altra società di pubblicità.

Maggioni: “Piccardo mi disse che la Comi era una persona interessante perché poteva, attraverso il suo network, portarci nuovi clienti”. Un politico o un procacciatore d’affari? Chiedono i pm a Maggioni: “Le pare normale che un parlamentare europeo facesse questo tipo di attività?”. Risposta: “Normale no”. Del resto la Comi si presenta a Maggioni non come politico ma “come esperta di marketing e comunicazione”. Il rapporto tra Comi e Mediaxchange si qualifica, secondo Maggioni, nel 10% sul fatturato prodotto dai nuovi clienti portati dal politico. Durante l’interrogatorio, la Procura mostra a Maggioni diverse fatture emesse dalla Comi a favore della Mediaxchange. In molti casi la risposta è: “Non ricordo con precisione”. Quindi aggiunge: “La sua (della Comi) iniziale volontà di collaborare è stata superata dal suo obiettivo di massimizzare i guadagni (…). La cosa che mi ha colpito è stata la sua attenzione per il denaro”. In una mail inviata a Maggioni, Comi scrive: “Livigno è stato un lavoro impegnativo e costante da parte mia, quindi mi pare giusto il 15%, arrotondando possiamo fare 20k (20 mila euro)”. Enrica Montanari, fino al maggio scorso, ha lavorato presso la società Publicom come digital marketing consultant. Ceo di Publicom è Giannipio Gravina, il quale divide l’ufficio con Massimiliano Cicu figlio di Salvatore Cicu, ex parlamentare europeo di Fi. Publicom si è occupata della campagna elettorale della Comi. Dice la Montanari: “La Publicom ha fornito ulteriori servizi alla Comi, consistenti nel formare le sue assistenti sulla gestione dei social network. Publicom non ha mai fatturato queste prestazioni alla Comi (…). Ogni volta che veniva nominato una assistente locale, cosa che accadeva spesso perché la Comi le cambiava frequentemente, noi impiegate della Publicom dovevamo collaborare e aiutarle nella formazione”.

Paolo Piccardo è l’amministratore della Wide. “Ho conosciuto Lara Comi a casa di Clemente Mastella, a Ceppaloni, durante la festa per i suoi 70 anni. Era il 2017”. Piccardo così firma con la Comi un contratto nel quale al politico sarà corrisposto il 20% sul fatturato generato dai nuovi clienti. “Nel contratto – dice Piccardo – si parla di piani di marketing, in realtà si trattava di procacciamento di clienti”. Un politico che fa il procacciatore di affari. A Piccardo la cosa risulta strana. Dice: “Ne ho parlato con lei. Comi mi ha risposto che gli europarlamentari stranieri hanno un altro lavoro”.

“Serviva manutenzione, non lo stupido Mose”

“No, basta, ne ho le scatole piene di parlare di Venezia. È inutile. In questo Paese non ha senso predicare, non c’è nessuno che ti ascolta. Volevano tutti il loro Mose… io me li ricordo, destra e sinistra, Prodi e Berlusconi… tutti ad applaudire alle cerimonie… e poi i giornali e le tv a osannare. E adesso siamo ancora lì con questa rogna dell’acqua alta”.

Massimo Cacciari, lei è stato tre volte sindaco di Venezia. L’ultima fino al 2010. Ma il Mose non le è mai andato giù…

Basta, non si possono fare battaglie da solo. Io cerco di dimenticare… nella vita bisogna saper dimenticare.

Ma a volte bisogna anche ricordare.

Macché, non gliene frega niente a nessuno. Ma io me lo ricordo quando nel 2006 c’è stata la commissione e io sono stato l’unico a votare contro. L’unico. E ho preteso che fosse messo tutto a verbale, anche i dubbi dei pochi tecnici che non erano a libro paga del Consorzio Mose. E poi gli ho detto: auguri, spero che finiate nel 2013-2014 come avete promesso.

Battaglia finita?

Sì. Io non sono come i Cinque Stelline che se cambia amministrazione si cambia decisione. Ero contro il Mose, ho perso, ne ho preso atto. Almeno, mi sono detto, se proprio vogliono farselo speriamo che non caccino al vento miliardi di euro. Invece…

Miliardi sperperati e siamo sempre in alto mare.

Ora i nodi sono venuti al pettine. Pensi… hanno appena rinviato la prova al 2020 o al 2021, chi lo sa. E già ci sono problemi di manutenzione e guai alle giunture.

Sarà mai pronto questo benedetto Mose?

Nel frattempo le strutture sono rimaste in acqua decenni. E se non funziona il cerino resta in mano ai commissari.

Ma lei come lo avrebbe risolto il problema?

Serve fare manutenzione alla città, come era stato fatto dal 1966 al 1994. Come avevamo fatto noi negli anni ’90. Avevamo rialzato le fondamenta, si era lavorato sulle fogne. C’era una legge speciale, i fondi arrivavano presto e venivano spesi per Venezia. C’era anche un progetto per rialzare la basilica. La città era stata davvero risanata. Invece… da venticinque anni il Mose ha assorbito tutto, ogni euro è finito lì. Addio alla manutenzione, addio al restauro dei ponti. E tutti ad applaudire.

E adesso il disastro dell’acqua alta…

Parliamoci chiaro: è acqua alta, non è il Vesuvio che erutta. Non è un terremoto. Funziona così: l’onda prima arriva e poi se ne va. Certo, se dura cinque giorni allora mangia le strutture e incentiva l’esodo dei vecchi, perché vivere a Venezia è sempre più duro.

Venezia è morta?

Macché morta, è una città stupenda. Durerà secoli, molto più di me e di lei. È una grande grana e soprattutto si poteva evitare. Ma ormai io ho rinunciato, non ascolta nessuno.

E il sindaco Luigi Brugnaro come si è comportato? Ci ha parlato?

Chi se ne frega di Brugnaro. Ma si figuri se ci parlo. La colpa stavolta non è sua, ma anche lui vuole il Mose… sempre questo Mose.

Cacciari, lei si è arreso?

In questa Italia i competenti non contano un cazzo, nessuno li ascolta. Anche al Governo ci voleva gente competente, ma uno come Carlo Cottarelli non lo vuole nessuno. Va bene, ascoltate i Cinque Stelle e la Lega, dai. Sono anni che diciamo che prima o poi una nave da crociera sfonderà piazza San Marco. E intanto quelle continuano ad andare. Un giorno ce le troveremo in basilica, vedrà.

Nel cuore di Venezia, i danni e le ferite: “È una guerra persa”

Più che rabbia, c’è rassegnazione. Quel senso di impotenza che accompagna i veneziani nella loro sempiterna convivenza con l’acqua alta. Non si può nemmeno definire una battaglia, perché quella è demandata alla grande macchina da guerra che si chiama Mose, il quale, dopo tredici anni di cantieri, più che un’arma vera è una leggenda, visto che tutti ne parlano, ma ancora non è entrato in funzione. E finché non vedranno le paratie alzarsi dalle onde per fermare le maree, visto che sono piuttosto concreti, i veneziani non ci credono. Così non resta loro che sostenere una lotta personale estenuante.

Il barista contro l’onda. Il commerciante di pelletteria con il metro per misurare il livello della limaccia. Il ristoratore contro la paura di accendere i frigoriferi per verificare se i motori siano da buttare. Una lotta in chiave semplicemente difensiva, perché di fronte all’acqua si può far poco, se non raccogliere le cose bagnate e gettarle nei sacchi delle immondizie. O spazzare l’ammasso di terra e acqua, ripulire i pavimenti e dare aria ai locali. Limitandosi a contare i danni.

È quello che stanno facendo, in una via crucis senza fine, gli abitanti che vivono lungo Rio del Magazen, a due passi da Piazzale Roma, verso Salizada San Pantalon. È un angolo di Venezia molto attivo, tanti negozi, bar e ristoranti. I palazzi raggiungono al massimo i tre piani. Roberto Banditelli è uno degli ultimi fiorai. “Un disastro. Guardi le carte decorative come sono ridotte. E chi pensava che sarebbe arrivata così in alto?”. Vi avevano avvertiti… “Dicendo che non si superavano i 145 centimetri? A quel livello mi sarei salvato, come un anno fa, questa non è una zona bassa. E poi c’è un gradino. Di centimetri ne sono arrivati quasi 190”.

In effetti, martedì sera la situazione è precipitata in mezz’ora. “I due frigoriferi e la lavastoviglie sono da portare in discarica”, sospira Luca Agnoletto del Bistrot. Antonio Peressin da 35 anni confeziona oggetti di pelletteria. Esce dal laboratorio, mostra la lunga linea orizzontale lasciata dalla marea sugli arredi in legno che assorbono come spugne. “In negozio c’era mezzo metro d’acqua”. “No, noi non abbiamo avuto danni” risponde invece Giovanna Franzoi, nel vicino negozio di copisteria. Divinazione? “No, semplicemente non ci siamo fidati delle previsioni del Comune. Noi li aumentiamo sempre di almeno 20 centimetri. E non sbagliamo. Così abbiamo alzato macchine e tavoli”. Per questa volta a loro è andata bene. Un anno fa, con 156 centimetri, si erano salvati anche i manutentori di caldaie della Junkers. “Vede la paratoia sull’ingresso? L’acqua si era fermata per un pelo. Adesso è entrata, per almeno 90 centimetri, distruggendo le macchine” mostra Alessandro Zaja.

Storie tutte uguali in una Venezia in ginocchio. Su cui aleggia una domanda. Perché in mezzo secolo il problema dell’acqua alta non è stato risolto? “Hanno fatto poco per affrontarlo”, risponde il fioraio Banditelli, “Il Mose è stato creato solo per magnar schèi”. E l’artigiano Peressin. “Investimenti sbagliati, scelte sbagliate. Hanno puntato tutto sul Mose e tralasciato interventi alternativi”. Che poi è la vecchia diatriba tra sostenitori delle dighe mobili e fautori dei lavori di salvaguardia, innalzamento delle rive e consolidamento degli argini, il partito di Massimo Cacciari. Ma è come se le grandi scelte passassero, nella loro inefficacia, sopra la testa della gente. Anche per questo Alessandro Golfetto, intento a spazzare l’ingresso di un piccolo condominio a San Pantalon, sentenzia amaramente: “È una guerra persa. Chi vuole stare a Venezia deve vivere in alto. Il piano terra lasciamolo al corso della natura”.

Trent’anni di sprechi e tangenti per una grande opera da buttare

A Venezia, il 3 novembre 1988, alle undici del mattino, c’è un bottone da schiacciare. Pronti a premere simbolicamente il pulsante, nella torre di fronte alla laguna, sfilano il vicepremier Gianni De Michelis, il ministro delle Partecipazioni statali Carlo Fracanzani, il presidente della Regione Veneto Carlo Bernini, il sindaco di Venezia Antonio Casellati. Il clic svela il futuro delle magnifiche sorti veneziane: la paratoia – larga 20 metri e lunga 17 – in una dozzina di minuti lascia il fondale e si staglia in superficie. Il Mose – Modulo Sperimentale Elettromeccanico – può funzionare: 22 anni dopo la drammatica “acqua alta” del 4 novembre 1966, giunta a 194 centimetri, la politica italiana e il Consorzio Venezia Nuova (Cvn) guidato all’epoca da Luigi Zanda e Giovanni Mazzacurati, annunciano la rivoluzione che salverà una delle città più belle del mondo. Ieri i centimetri d’acqua hanno toccato quota 184: il Mose – al costo di circa 6 miliardi – non funziona ancora. Nessuna rivoluzione. Piuttosto, l’ennesima commedia italiana fondata sulle mazzette.

Già nel 1990 il Cvn annuncia che non può completare i lavori nel 1995: di questo passo, si dice negli uffici di Zanda e Mazzacurati, finiremo tra il 2020 e il 2030. Profetico fu il settimanale Il Mondo che nel 1991 pubblicò un’inchiesta sul Mose intitolandola così: “Monumento allo spreco”. L’associazione Italia Nostra affigge in città i manifesti che riproducono la copertina e il pretore di Venezia, su richiesta del Cvn, li fa rimuovere. 23 anni dopo la magistratura interviene ancora. Ma per un altro motivo: i pm Stefano Ancilotto (oggi procuratore aggiunto di Venezia), Stefano Buccini e Paola Tonini iscrivono nel registro degli indagati un centinaio di persone con l’accusa di corruzione.

Il primo a finire in manette, il 28 febbraio 2014, è Piergiorgio Baita, all’epoca Ad della impresa Mantovani. In estate la Guardia di Finanza arresta Mazzacurati, si ipotizzano corruzioni, finanziamenti illeciti della politica, la costituzione di fondi neri per centinaia di milioni. Agli arresti anche il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni (Pd), accusato di finanziamento illecito: assolto perché il fatto non costituisce reato in relazione a 110 mila euro di contributi, ricevuti per la campagna a candidato sindaco del 2010, mentre per altri 250 mila euro viene dichiarata la prescrizione.

Tra gli indagati anche Marco Milanese, consigliere economico dell’ex ministro Giulio Tremonti (mai indagato), accusato di aver incassato 500mila euro “al fine di influire sulla concessione dei finanziamenti al Mose” inclusi nel Cipe, poi condannato a Milano per traffico d’influenze.

Ma è Giancarlo Galan, l’ex presidente del Veneto, in quel momento parlamentare di Forza Italia, l’uomo sul quale la Procura punta maggiormente il riflettore: dal 2005 al 2011 avrebbe ricevuto uno stipendio da un milione l’anno, tramite il suo assessore Renato Chisso, per “influire sulle decisioni inerenti il rilascio dei nulla osta da parte delle competenti commissioni regionali”. Un milione e 100 mila euro furono invece pagati per ristrutturare il casale di Galan sui Colli Euganei. Secondo le accuse, tra il 2007 e il 2008, fu ristrutturato il corpo principale del casale e poi, nel 2011, la “barchessa”. Un’operazione che a Galan non costa nulla perché, sostiene l’accusa, è la Mantovani Costruzioni a pagare attraverso un sistema di sovrafatturazioni. L’architetto che si occupa della ristrutturazione viene archiviato ma la vicenda si ritiene provata.

Altri 400 mila euro l’anno erano destinati al magistrato della Corte dei Conti, Vittorio Giuseppone (per lui è intervenuta la prescrizione), per “accelerare le registrazioni delle convenzioni, presso la Corte dei conti, da cui dipendeva l’erogazione dei finanziamenti al Mose e al fine di ammorbidire i controlli”. Claudia Minutillo, ex segretaria personale di Galan che pure ha patteggiato una pena a due anni di reclusione, racconta ai pm di aver saputo che negli uffici del Cvn, una mazzetta da 500mila euro, a suo dire destinata proprio a Milanese, volò dietro un armadio quando la Gdf giunse per le perquisizioni: “La Finanza – disse la Minutillo – sigillò l’armadio e la sera andarono a recuperarli”. Quando non finivano dietro un armadio, le mazzette venivano consegnate negli incontri in alberghi di lusso o ristoranti fuori mano, racconta sempre Minutillo. Baita (anche lui ha patteggiato 2 anni) dice che i costruttori pagavano al Cvn 100 milioni l’anno: “Tangenti e consulenze e contratti a tutti. Se si mettono in pila fanno un miliardo di euro e non sono serviti al progetto Mose, ma a rafforzare il Cvn nella città, nei rapporti con la politica, locale e romana”. Per corruzione viene processato e condannato (ha patteggiato 4 anni) anche l’ex generale della Gdf Emilio Spaziante. Patteggia Mazzacurati, scomparso pochi mesi fa. Condannato in primo grado a 4 anni l’ex ministro Altero Matteoli, deceduto prima dell’appello che ha stabilito il non luogo a procedere.

Patteggia anche Galan: 2 anni e 10 dieci mesi, villa confiscata per un controvalore di 2,6 milioni al quale lo Stato ha chiesto un risarcimento di 5,8 milioni per danno all’immagine, sequestrandogli altri beni. Il dato positivo è che grazie al lavoro della Procura di Venezia, l’erario ha potuto recuperare una cifra superiore alle tangenti scoperte, che oscillavano tra i 40 e i 50 milioni. La Cassazione metterà la parola finale su una delle inchieste più importanti dai tempi di tangentopoli. Di certo, nel 2017 l’appello ha confermato in grandissima parte l’impianto accusatorio.

E non è finita: la Procura di Padova è tuttora a caccia di una parte dei soldi del Mose. Secondo l’accusa sono stati riciclati.

“Se non riduciamo i gas serra, la Laguna ha il destino segnato”

Il centro maree di Venezia non sbaglia: negli ultimi dieci anni i fenomeni oltre il metro sono stati sempre più numerosi. Luca Mercalli parte da nord-est per rispondere alle domande su quale sia l’attuale e prossimo quadro climatico generale. Sono state già cinque le perturbazioni dall’inizio del mese, la sesta è dietro l’angolo e non pare destinata a passare troppo in fretta. Venezia nell’occhio del ciclone sferzata da venti paragonati a uragani e un’onda straordinaria che ha invaso calli, piazze oltre a edifici. Per il meteorologo, climatologo e divulgatore scientifico siamo nel pieno di una situazione “ibrida”. Spiega come “da un lato la stagione si presti a questi fenomeni ma di certo il riscaldamento globale non la migliori”. Per essere più chiari: “Lo scenario è tale per cui se non si rispetterà l’accordo di Parigi sulla riduzione di emissioni di gas serra entro la fine del secolo il livello dei mari aumenterà di un metro. Applicando le indicazioni di Parigi lo stesso innalzamento potrebbe essere contenuto al mezzo metro”. In questi giorni sono previsti venti la cui velocità, in alcune zone d’Italia, sarebbe paragonabile a quella di un uragano. “Da noi gli uragani non esistono quindi userei più la definizione venti tempestosi”; Mercalli ricorda come esattamente un anno fa la tempesta Vaia avesse distrutto decine di migliaia di ettari di foreste alpine nelle Dolomiti. “L’anno scorso siamo arrivati molto vicino al limite. Quello in corso è certamente l’evento più grave della storia nota”. Il precedente record di acqua alta si è infatti verificato nel 1966 quanto il livello è arrivato a 194 centimetri. Dal punto di vista climatico Luca Mercalli precisa “come questi eventi rientrino nella normale variabilità ma il cambiamento climatico sicuramente può amplificare tutto. Il problema è che non sappiamo di quanto”. Il barometro quindi è il centro maree di Venezia? “Da un certo punto di vista sì perché i loro grafici certificano un dato più che rilevante della situazione climatica nel nostro Paese”. La conclusione è limpida: l’incremento del numero di maree superiori al metro rendono di fatto più vulnerabili le città che si affacciano sul mare. Senza Parigi, Venezia rischia davvero grosso.