Le promesse infinite, ministro dopo ministro: “Sarà terminato presto”

Un lungo e imbarazzante elenco di previsioni messianiche: il Mose è straordinario, il Mose ci salverà; sarà terminato “entro il 2009”, “entro il 2011”, “entro il 2014”, “entro il 2016”, eccetera.

Se ne parla da 30 anni. Una delle prime visite fu quella di Romano Prodi – all’epoca presidente dell’Iri – il 5 aprile 1989. Gli furono illustrate le finalità e il contenuto del progetto Mose redatto dal Consorzio Venezia Nuova, guidato da un’altra vecchia gloria tuttora in attività: Luigi Zanda. I promotori si raccomandavano: “Perdere tempo sarebbe un fatto grave”. Non avevano la minima idea del capolavoro che avrebbe realizzato lo Stato italiano.

Si sono succedute battaglie, valutazioni contraddittorie, autorizzazioni date e negate, sprechi, intoppi e soprattutto una clamorosa inchiesta sulle mazzette, che volavano a destra e a sinistra. Intanto, in tutti questi anni, i politici si avvicendavano al capezzale del Mose per magnificarne le sorti progressive.

Il più entusiasta – per motivi ovvi, ex post, che gli sono valsi l’arresto – era l’ex governatore veneto Giancarlo Galan. Tra le tante dichiarazioni trascendentali dell’ex forzista va segnalata quella del 6 dicembre 2001, giorno in cui il Comitato per Venezia sanciva il primo via libera: “Il Mose costerà dai 5 ai 6mila miliardi (di lire, ndr) e sarà pronto in 8 anni. È una giornata storica”. Quel giorno si sbilanciava anche Renato Brunetta: “È un passo verso la modernità, che consente a Venezia di guardare con sicurezza al futuro, una grande opera di ingegneria che salverà la città”.

Anche Silvio Berlusconi era un rumoroso fan delle dighe mobili. Il 13 maggio 2003 – oltre 16 anni fa – l’ex premier posava la prima pietra del cantiere. E sfoggiava il consueto ottimismo: “È un’ opera che solo grazie al nostro intervento si sta concretizzando, è la più importante opera di tutela ambientale del mondo”. B. peraltro annunciava il Mose già da tempo. Nel 1999 lo descriveva così: “Un’opera epocale e colossale che tra poco salverà Venezia da un fenomeno, quello dell’acqua alta, che potrebbe portare nel tempo alla sua distruzione”. Ha detto proprio così: tra poco. Il suo ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi era più specifico sui tempi per completare il Mose (aprile 2003): “I lavori inizieranno subito e saranno conclusi nel giro di 8 anni”.

All’inizio dei cantieri si contava di chiudere tutto per il 2011. Il cronoprogramma è stato poi aggiornato con impressionante frequenza, da ministri, primi ministri, governatori.

La buonanima di Altero Matteoli, il 17 settembre 2009 (all’epoca titolare delle Infrastrutture) annunciava il giro di boa: “La costruzione è a metà dell’opera, entro il 2014 dovrebbe essere completato. Un’opera unica al mondo, studiata anche dagli Stati Uniti”.

Il più struggente epitaffio sul Mose è quello firmato dal già allora governatore Luca Zaia il 9 giugno 2010: “Il Mose vedrà la luce, non sarà un’ opera incompiuta – assicurava il leghista – ma la dimostrazione dell’efficienza della gente veneta”. Quasi una questione di orgoglio etnico. Quel giorno Zaia aveva organizzato un grande spettacolo a beneficio della stampa internazionale. Il racconto è di un’agenzia dell’epoca: “Il nuovo governatore del Veneto ha compiuto la sua prima visita ai cantieri del Mose e per suggellare l’evento, organizzato in grande stile con lance ed elicotteri a disposizione di giornalisti e tv di tutto il mondo, ha apposto la sua firma su un ‘cassero’ delle dighe mobili con tanto di dedica ai lavoratori impegnati a completare l’opera entro il 2014. ‘Ai lavoratori del Mose, con stima Luca Zaia’, ha scritto a pennarello aggiungendo un post scriptum: ‘grazie!!!’”.

Nell’estate del 2012 viene stabilito che l’inaugurazione sarebbe slittata al 2016 per il ritardo dei finanziamenti. Agli albori del governo Renzi, ci pensa il ministro dei Trasporti Maurizio Lupi a tranquillizzare tutti (22 marzo 2014): “I tempi saranno rispettati, entro il 31 dicembre 2016 devono assolutamente essere conclusi i lavori”. Assolutamente.

Poi esplode l’inchiesta e scattano gli arresti: viene alla luce il sistema di tangenti vergognoso che ruota attorno alla grande opera. Che però ormai non si può fermare: il Mose, in ballo da 30 anni, è ancora “quasi” terminato. Matteo Renzi sta sereno: “Sono convinto che sarà un sistema tecnicamente all’avanguardia che aiuterà Venezia”. Il suo ministro Graziano Delrio riprende il discorso l’11 luglio 2016. Ne è sicuro: “Il completamento del Mose sarà fatto entro il 2018. L’opera è un frutto dell’ingegneria italiana di straordinaria rilevanza”. Nel 2018 invece alle Infrastrutture c’è Danilo Toninelli. Dice: “Io non lo avrei mai fatto”. Però “al netto degli intoppi, ormai manca poco al suo completamento”.

Tre decenni di parole scritte sull’acqua. Letteralmente.

Tutti in coro sulle acque: “Il Mose va completato”

Dopo la notte della paura e dell’acqua altissima, arrivano parole e conto dei danni. Al rito delle dichiarazioni i veneziani sono abituati, visto che da quasi vent’anni attendono il Mose che dovrebbe salvare la città e la Laguna dalle maree. Ma sono anche abituati a rimboccarsi le maniche, per ripulire case e negozi, gettare cose inservibili e scrollarsi di dosso le scorie di ciò che rende unica e fragilissima Venezia.

La seconda mareggiata più alta di sempre è stato un evento eccezionale e drammatico. Basta guardare quei 7 cm che la separano dai 194 del 4 novembre 1966, quando fu una specie di apocalisse. Questa volta poteva andare peggio. Una vittima, un pensionato di 68 anni fulminato mentre cercava di riavviare le pompe per togliere l’acqua dalla sua e una seconda persona è morta, ma per cause naturali.

Non ci voleva molto a capire l’entità del disastro. Bastava guardare le immagini di piazza San Marco invasa dal mare, la Basilica flagellata dalle onde, le gondole sulle rive, i vaporetti affondati, i pontili alla deriva, il Teatro la Fenice inagibile, l’incendio al museo di Ca’ Pesaro e, infin, la cripta di San Marco con 110 cm di acqua. E ieri mattina la città si è svegliata aspettando una marea superiore al metro e mezzo, che si è fermata a 144 centimetri.

Ed ecco le parole, che ruotano attorno al Mose, grande incompiuta teoricamente in grado di contenere maree alte fino a tre metri. Il premier Giuseppe Conte è arrivato nel pomeriggio: “La situazione è drammatica, ma il governo è presente, siamo qui per dare il segno di una fattiva partecipazione. Venezia è un patrimonio dell’Italia e dell’umanità che ha bisogno di risolvere una serie di problemi storici che si trascinano”. Oggi sarà decretato lo stato di emergenza. E il Mose? “Siamo nella dirittura finale, al 92-93% dell’opera e guardando all’interesse pubblico non c’è che da prendere una direzione nel completamento di questo percorso”.

Al mattino il governatore Luca Zaia aveva denunciato: “È una porcheria che 5 miliardi di euro siano in fondo al mare. Finiamo il Mose, anche se non l’avrei mai approvato”. Il sindaco Brugnaro: “Oggi ci giochiamo la credibilità. Dobbiamo dimostrare che siamo capaci di salvare Venezia, un bene dell’umanità. Il Mose va finito”. Sulla stessa linea il leader della Lega Salvini: “Il Mose è pronto a entrare in azione, ma servono 100 milioni per la manutenzione annua. In Senato presenterò un emendamento alla manovra per trovare questi soldi, per mettere in sicurezza un patrimonio non italiano, ma mondiale”. Improntato al pragmatismo l’impegno assunta da Luigi Di Maio: “Gli imprenditori e le associazioni che fanno grande questa regione ci chiedono che si blocchino mutui e contributi. A questa richiesta dobbiamo rispondere subito. Ci metteremo al lavoro per una moratoria”.

Forza Ladri Vivi

Il problema è sempre un altro. Sull’evasione, una delle migliori trovate dei benaltristi è che limitare il contante non serve perché i “grandi evasori” se ne infischiano se la soglia del cash scende da 3 mila euro a mille. Peccato che l’evasione di 110-130 miliardi l’anno sia la somma delle grandi, medie e piccole evasioni; e quelle medie e piccole sono in gran parte di criminali che incassano in contanti dal pizzo, dallo spaccio, dalla prostituzione e devono riciclare il bottino con pagamenti legali per non destare sospetti. A questo punto il benaltrista ha pronto il piano B: le manette non servono, perché è molto più utile “incrociare i dati”. Peccato che i dati siano tutti lì a disposizione, ormai anche dai paradisi fiscali, infatti siamo pieni di organismi che li incrociano; il guaio è che, una volta scovati, gli evasori non vengono neppure indagati perché, per commettere reato, dovrebbero superare soglie così alte che non riuscirebbero a valicarle neppure se s’impegnano. E comunque la prescrizione è assicurata: l’accertamento arriva 3-4 anni dopo la dichiarazione infedele o fraudolenta, quando non c’è più tempo per fare indagini, udienza preliminare e tre gradi di giudizio. E, anche se si fa in tempo, le pene sono così irrisorie da diventare non un freno, ma un incentivo a evadere e frodare.

Ma ecco pronto il benaltrista col piano C: il carcere non serve perché è meglio “confiscare il maltolto”. Ora, a parte che l’una cosa non esclude l’altra, anzi vanno di pari passo, oggi lo Stato riesce a recuperare meno del 5% dell’evasione che accerta. E, se quasi tutte le evasioni restano sotto le soglie di non punibilità, le indagini non partono proprio, dunque non scatta neppure il sequestro preventivo, figurarsi la confisca finale. In ogni caso, anche se si arriva alla confisca, l’evasore può fingersi nullatenente e, se ha un’azienda, simulare perdite e bisogna ricominciare da capo per dimostrare che i soldi li nasconde, e poi scovarli. Tantopiù che, per i reati fiscali, le società non sono soggette alla legge 231 sulla responsabilità penale delle persone giuridiche. E non si rischia il sequestro “per sproporzione” (fra beni posseduti e redditi dichiarati). Ora, per la prima volta nella storia, il governo Conte rimedia a tutti questi buchi con un ventaglio di norme di raro buonsenso ed efficacia. I pagamenti cash consentiti passano da 3 mila a 2 mila euro nel 2020 e a mille nel 2021. Le soglie di impunità scendono. I massimi e i minimi di pena aumentano, così per i casi più gravi si va in galera sia prima (custodia cautelare) sia dopo la sentenza (espiazione pena) e, in più, si può intercettare.

La 231 si applica alle società anche per reati fiscali (con pene pecuniarie fino a 500 “quote”). E il sequestro per sproporzione vale anche per evasori e frodatori. In più, con la Spazzacorrotti in vigore da un anno, per tutti i reati (non solo fiscali) commessi dal 1° gennaio 2020 la prescrizione si bloccherà alla sentenza di primo grado: fra 3-4 anni, quando arriveranno i primi verdetti, nessuno avrà più speranza di farla franca allungando i tempi in appello e in Cassazione. Le anime in pena che, a corto di argomenti, vanno cercando l’“anima” del Conte 2 dovrebbe riconoscere che è una rivoluzione copernicana: morale (basta con l’iniquità di un sistema che costringe i poveri e gli onesti a mantenere con tasse altissime i ricchi e i ladri che non le pagano), sociale (si redistribuisce più equamente la ricchezza) e finanziaria (si recuperano risorse per le riforme sempre rinviate per mancanza di fondi). Infatti il Partito Trasversale degli Evasori (il primo in Italia: 11 milioni di elettori) sta scatenando i suoi partiti – centrodestra e Italia Viva – e giornaloni con raffiche di emendamenti e fake news.

Forza Italia Viva non si premura neppure di dare un minimo di coerenza alle balle che racconta. Ettore Rosato, già celebre per aver dato i natali alla peggior legge elettorale della storia, riesce a sostenere restando serio che, nell’ordine: “le manette non sono strumenti per combattere l’evasione” (peccato che siano in vigore in tutto il mondo fuorché in Italia); “servono solo a spaventare chi vuole investire in Italia” (Rosato è convinto che chi investe in Italia lo faccia per evadere il fisco e si spaventi se anche l’Italia mette in carcere gli evasori come il suo paese d’origine); “siamo il partito no tax” (quindi incostituzionale ed eversivo, visto che l’art. 53 della Costituzione recita: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”); “le manette per chi ruba ci sono già” (falso: in Italia i detenuti per reati fiscali sono poche decine, contro i 7 mila della Germania e le decine di migliaia degli Usa); “siamo contrari alle manette per chi commette degli errori” (siccome il carcere è previsto per chi occulta 200 mila euro all’anno evadendone almeno 100 mila, per Rosato chi nasconde al fisco fino a 199.999 euro e ne evade fino a 99.999 è uno sbadato). Finora i renziani dicevano: “Le manette non servono, servono multe salate e sequestri e confische dal maltolto”. Ma ora casca l’asino: vogliono cancellare dalla legge di Bilancio sia le manette agli evasori (cioè le pene più alte e le soglie più basse), sia la confisca dei beni per sproporzione, sia le multe alle società frodatrici. Cioè tornare alle norme attuali, quelle che garantiscono ogni anno il saccheggio legalizzato di 110-130 miliardi. Negli anni 80, un deputato attaccò in aula un pippone su una fumosissima riforma del Codice penale, finché il presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro lo fulminò: “Onorevole, se ci dice quale processo vuole aggiustare e quale amico vuole salvare, facciamo prima”. Oggi, a questi manigoldi, non c’è neppure bisogno di domandarlo: lo sappiamo benissimo.

Addio, “modernissimo” direttore di 86 anni

Negli ultimi giorni di settembre festeggiavamo il successo che aveva riscosso a Sofia il 20. Aveva diretto il Boris Godunov di Musorgskij in memoria di Nicolai Ghiaurov; e l’avevano invitato a tornare. Lui pensava al Don Carlos di Verdi nell’edizione autentica in cinque atti e in francese. Sull’aereo aveva contratto una fatale polmonite. Forte come era, ha resistito a lungo, troppo. Ma l’8 non ce l’ha fatta. Era, e per me è, Elio Boncompagni, uno dei più grandi direttori d’orchestra viventi. A maggio aveva compiuto 86 anni.

Non era uno di quelli “della vecchia scuola” che tante volte giustamente rimpiangiamo, pur essendo stato assistente di Tullio Serafin, uno dei caposaldi di tale tendenza. Da lui e da altri (Santini, de Fabritiis, Gardelli), aveva appreso le astuzie e le “tradizioni” (quelle da rispettare e quelle da respingere). Ma era un direttore modernissimo. Per la concezione rigorosa del rispetto del testo e per un’idea dei rapporti di tempo: specie nel repertorio sinfonico, tra le varie parti di un movimento di una Sinfonia e tra tutti i movimenti fra di loro.

Parto proprio dal Don Carlos. L’ultima volta l’ha diretto a Zagabria due anni fa. È di certo l’Opera più complessa di Verdi, quella che gli ha causato più fatica e più disperazione. Il sommo compositore non è mai riuscito in vita ad ascoltarla intera. Oggi ce ne sono quattro versioni. Fino al 1974 se ne conoscevano due: una in quattro atti e una in cinque. Ambedue in italiano: l’autentica è in francese. Quella in quattro atti proviene dalla, ripeto, disperazione del Maestro, il quale, vedendo l’Opera continuamente amputata, decise di tagliarsela da sé, ed eliminò l’intero primo atto. I direttori d’orchestra che l’adottano dovrebbero vergognarsene. Poi, a quasi vent’anni dalla prima esecuzione (1867), l’Autore ripristinò parzialmente il primo atto. Solo nel 1973 il musicologo americano Andrew Porter trovò nelle cantine dell’Opéra le parti mancanti del primo atto, tagliate alla “prima” perché l’Opera era “troppo lunga”. Questa versione venne diretta per la prima volta da Boncompagni nel 1974 al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, del quale era direttore artistico. Lo è stato anche al San Carlo di Napoli, a Stoccolma, a Vienna (Volksoper e poi Staatsoper), e ad Acquisgrana, dove fondò l’orchestra sinfonica.

Sul podio pareva un ragazzo: per la sobrietà efficace del gesto, l’instancabilità, la sconfinata conoscenza del repertorio lirico e sinfonico. Ma nel nostro paese trovò una specie di muro. Pur avendo diretto esecuzioni memorabili, a Milano, a Catania, a Cagliari, a Napoli, i soprintendenti lo vedevano per lo più come un nemico. Alcuni consideravano una missione affidatagli da Dio stroncare la carriera di “quel vecchio rimbambito”, come mi disse uno di loro. A Liegi avrebbe dovuto dirigere nel 2021 una delle sue scoperte, l’edizione in italiano e modificata dell’ultimo capolavori di Donizetti, il Don Sebastiano. L’ha interpretata in tutto il mondo, mai in Italia. A Liegi ha avuto l’invito da parte di un altro esule, il soprintendente Stefano Mazzonis. Sono convinto che se non è arrivato a quella data sia anche per il crepacuore causatogli dall’odio in patria, che l’angosciava, che egli non riusciva a comprendere e che l’ha fiaccato.

Ricordiamolo nelle meravigliose esecuzioni, nella simpatia, nella bontà, persino nell’ingenua fiducia verso la vita che, nonostante tutto, non aveva perduta.

 

Voce, rock e la solita libertà: “La differenza” la fa Gianna

Profuma di libertà La differenza, nuovo album della Gianna nazionale in uscita venerdì. Vincitrice del Premio Tenco 2019, la cantante di Siena torna all’attivo a due anni di distanza da Amore gigante, confermando il miglior connubio compositivo italiano da diversi anni, quello con Gino Pacifico, con il quale firma anche la suggestiva title-track: “Siamo come basso e batteria, all’unisono da dodici anni – chiosa Gianna alla presentazione alla stampa –. Il disco è partito un anno fa: è difficile vivere in casa con una bambina che ti dice continuamente ‘mamma quando smetti di cantare?’. Mi bloccava la creatività e così ho trovato una stanza di pochi metri quadri a Nashville: ‘Le donne devono avere una stanza per essere creative’ dice Virginia Woolf e io le ho dato retta. Della scena di Nashville mi aveva parlato Dave Stewart, è un mondo nuovo di musica rock, blues e soul. La città non e più legata solo al country ma è diventata una fucina di energie afroamericane. Questo miscuglio è ciò che cercavo per fonderlo con la mia identità. Dave mi ha suggerito il produttore e tutto è iniziato con questo sistema di registrare dal vivo. Buona la prima, massimo la seconda e la differenza si sente. Ecco perché il titolo. Anche se deriva da una canzone con protagonista una donna innamorata, quindi dipendente ma fortissima proprio per le certezze che le danno i suoi sentimenti: vai, fai e disfa, ma la differenza tra me e te la faccio io. Lo dice divertita e consapevole, senza menarla. Ho ripreso il discorso iniziato in California, i musicisti sono rimasti impressionati dalla mia voce, abbiamo scavato e fatto ricerca sulle parole che dovevano sgorgare dalle viscere. Tra le altre cose, avendo avuto un piccolo incidente al ginocchio, cantavo da seduta e credo davvero di aver tirato fuori la voce dall’utero, spingendo. Nemmeno i Foo Fighters fanno dischi come il mio, usano overdub, ritoccano tutto, io ho fatto spazio alla mia voce e creato qualcosa di nuovo, che brucia di un fuoco puro e antico ma suonato in epoca digitale. Il rock per me è spaccare”. L’album sarà l’ossatura del nuovo live in giro per l’Europa a partire da maggio dell’anno prossimo con una tappa significativa allo stadio Artemio Franchi di Firenze. Le dieci tracce sondano soprattutto le relazioni, con l’amore uber alles: “Ma non è quello sdolcinato. Sono canzoni rapportate a una relazione vera che crea meccanismi tossici. I problemi dell’ambiente partono dai rapporti umani: è bello confrontarsi e ascoltarsi. E poi in amore ci vuole una visione e quella io l’ho sempre avuta. Poi quel che conta davvero resta il brivido: una cosa da comunicare e non qualcosa per consolarsi”.

La voce certo, il talento, la maturità, ma non solo: con Mina, Gianna è l’unica grande interprete e songwriter capace di essere erotica e sensuale grazie a una difficilissima semplicità e schiettezza: entrambe riescono ad animare le parole e farle diventare sexy. Basta una sua tonalità appena udibile ed è l’equivalente di una strizzata d’occhio. “In studio un musicista spagnolo mi ha detto che il vibratore da loro si chiama il consolatore, l’avessi saputo prima ci avrei fatto un pezzo (ride, ndr)”. “E ti sento da qua anche se alzo la musica” nasce dalla collaborazione con Coez in Motivo: “Ho questo intuito, lancio artisti con i duetti. Coez come essere umano mi è piaciuto moltissimo, fa solo quello che è nelle sue corde. Oltre a lui mi piacciono Salmo e Massimo pericolo”. “Quando perdi i documenti e si vede la tua vera identità” è il fulcro del rock’n’roll fatto testo piazzato in Romantico e bestiale. In qualche canzone si tenta un confronto sul tempo che passa, ma Gianna non si lascia certo intimidire: “Penelope è rimasta un po’ scottata dalla scomparsa della nonna e spesso mi fa qualche domanda esistenziale. Fare il genitore è difficilissimo. La faccio vivere nella sua libertà di apprendere. Non voglio che mamma insegni troppo. Eppure il messaggio di Gloucester Road è anche uno schiaffo a chi dice che una donna dopo cinquant’anni non può fare rock. Eccomi qui”.

Bella camera con vista tombe: le case degli scrittori

C’è quello che s’è fatto rialzare il piano-cucina per essere comodo quando pulisce il pesce e quello che si corica invece in un letto da Bella addormentata; c’è quello che prende a bastonate le piante e un altro che si è chiuso in un castello salvo poi lamentarsi della depressione: casa che vai, scrittore che trovi. Évelyne Bloch-Dano ne ha stanati alcuni in giro per il mondo, confezionando un saggio curioso che è altresì una guida turistica: Le case dei miei scrittori, in libreria da oggi per i tipi di Add. Nido ma anche fucina creativa, la dimora di un letterato restituisce molto del suo immaginario e temperamento: oggi molte di esse sono convertite in musei, centri di ricerca e biblioteche aperti al pubblico; ecco una cernita. Castelli. Balzac visse nel castello di Saché, nella Loira, pur dormendo in una stanza angusta con letto a baldacchino su cui “amava lavorare” dalle tre del mattino fino al pranzo delle cinque. Del pomeriggio. Chateaubriand si chiuse a Combourg, fortezza misteriosa e inospitale, in cui s’inventò “il male del secolo”: la depressione. A Port-Marly sorge il castello di Monte-Cristo; Dumas padre lo acquistò nel 1847 a 500 mila franchi: tre ettari di colline con dimora rinascimentale, un padiglione gotico e un parco all’inglese con cascate e fossati. Più sobrio, suo figlio stazionò a Marly-le-Roy, vantando solo un palcoscenico in casa e un letto in stile impero con figure di bronzo e cigni scolpiti. L’esoso Montaigne, nell’omonimo castello con tanta terra da farci il vino, dormiva in una torre tonda senza moglie, alloggiata di fronte. Nel castello di Cirey stavano Voltaire e Madame du Chatelet, “filosofi voluttuosi” e pure puzzoni: gli interni erano una “sozzura”.

Campagna. Simone de Beauvoir ardeva di bucolica passione da quando era bambina in vacanza dai nonni: nel Limousin la raggiunse clandestinamente anche Sartre, e il loro amore sbocciò sotto i salici piangenti. Karen Blixen a Nairobi manteneva una importante fattoria dove oggi sono conservati alcuni oggetti del film La mia Africa: i pantaloni di Robert Redford arredano bene. Un ex setificio in Provenza fu il ritiro di Camus: si trovava così a suo agio da voler diventare sindaco del paese, Lourmarin. Cocteau comprò casa insieme a Jean Marais a Milly, accumulando un raro bestiario: sfingi, galli impagliati, unicorni, zampe di uccello, teste di camoscio e un letto da Bella addormentata. Viceversa, Nietzsche lo spartano si ritirava in Engadina: la sua camera era sempre in disordine, letto sfatto e stivali spaiati a terra. Proust si divideva tra il paesaggio letterario di Illiers-Combray e l’appartamento parigino, dove i fan abbracciano ancora il caminetto e altre suppellettili come le tende blu e la caffettiera.

Dimore modeste. A Ussy-sur-Marne Beckett alloggiava in una “capanna arredata”, scarna, se non respingente, come il suo inquilino, che “prendeva a bastonate le piante”. Rousseau invece a Montmorency andava fiero delle sue pervinche, mentre i Céline a Meudon avevano un giardino angusto: lì vissero “come barboni” per anni, lì dove è morta venerdì la vedova Lucette. Erasmo si accontentò della periferia di Bruxelles, vicino a Molenbeek, famoso quartiere di terroristi.

Città. A Berlino Brecht tornò nel 1948, in Chausseestrasse, con le finestre che si affacciavano sul cimitero francese: una camera con vista tombe che gli dava “una certa allegria”. A Parigi il Muro di André Breton è ora esposto al Centre Pompidou: una collezione di cento oggetti così com’erano disposti nella casa-atelier del surrealista. A Londra Dickens affittò una dozzina di stanze in Doughty Street per sé e parentado. Moquette floreale, caminetto vistoso, mobili rosa: tutto era in stile vittoriano, cioè brutto. Keats visse a Roma, in Piazza di Spagna, che ora ospita una biblioteca di diecimila libri, e pazienza se il poeta lì non scrisse neanche un verso. Edgar Allan Poe fu cittadino di Baltimora – la sua casa ora è affittabile per Halloween – mentre Edith Wharton di Lenox, dove aveva ascensore ed elettricità già nel 1902. Americana del Maine fu la Yourcenar, circondata in casa da abat-jour e altarini buddisti.

Sfarzi. Zola a Médan comprò un’enorme “conigliera” con due torri, una sala da biliardo, un teatro, un camino medievale, vetrate ovunque e uno specchio in camera da letto. Casa Malaparte a Capri spicca ancora per la sua arroganza geometrica, tra “vascello e prigione”. Hugo in esilio dimorò sull’isola di Guernsey: vi acquistò a prezzo stracciato Hauteville House, costruita da un corsaro e infestata dai fantasmi. Simenon in Svizzera volle ricreare un ranch texano con 25 camere, piscina e infermeria, mentre a Key West, in Florida, Hemingway andò a vivere con la seconda moglie (di 4) Pauline Pfeiffer, arredatrice e figlia di papà, che sganciò i soldi per la magione. Avevano una piscina turchese di acqua di mare, palme, vetri di Murano, ceramiche portoghesi e mobili funzionali: persino il piano-cucina fu rialzato perché Ernest fosse comodo mentre puliva il pesce.

Assalto pirata alla nave italiana rubano il tesoro e scappano

“Il Messico non è per tutti. È solo per i messicani” ha scritto sul suo profilo Facebook Livio Vespasiani, marittimo ortonese imbarcato sulla nave italiana Remas, attaccata ieri dai pirati nelle acque del Golfo del Messico. Il commando di 7-8 uomini è salito a bordo dell’imbarcazione – che si occupa di rifornimento per le piattaforme petrolifere offshore del gruppo Micoperi –, ha aperto il fuoco contro l’equipaggio, lo ha rapinato ed è fuggito, lasciandosi dietro due feriti. L’unità di crisi del ministero degli Esteri e l’ambasciata d’Italia a Città del Messico hanno seguito il caso con la massima attenzione. Per capire come sono andate le cose, la Procura di Roma ha aperto un’indagine. Al momento dell’assalto, si trovavano a bordo 35 persone – 9 gli italiani –, compreso un ufficiale della Marina mercantile messicana che ha poi coordinato i contatti con le autorità del posto. Sarebbe stato lo stesso equipaggio a respingere l’attacco. I feriti sono entrambi italiani e non sono in pericolo di vita. La Remas è stata scortata da un’unità militare messicana nel porto di Ciudad del Carmen, dove i due feriti sono stati sbarcati per essere soccorsi dal personale medico allertato. Alessandro Fiorenza, primo ufficiale della nave, in un messaggio inviato al comandante di rimorchiatore Luigi Spinosa ha scritto: “Non c’erano bende così ho cercato di fermare l’emorragia con i fili del caricabatterie, ho cercato ghiaccio in cucina per metterlo sulle ferite”. “Mentre ero in cucina – ha aggiunto – i pirati passavano dietro di me, non mi hanno fatto nulla, forse hanno capito che stavo soccorrendo un ferito”.

Messico, Morales nella lunga lista di rifugiati

Le immagini scattate dopo il saccheggio della sua casa a est di Cochabamba mostrano sedie capovolte, vetri rotti e quadri – autoritratti e scatti di Che Guevara o Chavez – a terra. Durante l’ultima irruzione dei “gruppi violenti” – le forze armate hanno annunciato operazioni congiunte per contenere le agitazioni crescenti nel Paese – il presidente dimissionario della Bolivia Evo Morales era già sulla sua strada per il Messico, Paese che gli ha offerto asilo. Intanto la senatrice boliviana Jeanine Anez, considerata probabile presidente ad interim della Bolivia in base alla Costituzie, ha confermato una sessione straordinaria del Parlamento per designare il suo successore. Quella messicana è una lunga tradizione di accoglienza: Morales è l’ultimo a unirsi a una lista di beneficiari dell’asilo che va da Giuseppe Garibaldi, Lev Trotsky, Luis Buñuel, lo scrittore e politico cubano José Martì e il premio Nobel guatemalteco Rigoberta Menchù. Condizionato dalla vicinanza agli Stati Uniti e da un arsenale contenuto, il governo messicano pratica da sempre una diplomazia molto legata al diritto internazionale. Certo, l’offerta da parte del governo di Lòpez Obrador potrebbe discendere dalla “simpatia” per Morales, ma si contano almeno 150 anni di consuetudine “umanitaria”. Era il 1853 quando il Messico firmò con la Colombia un accordo di non estradizione per crimini politici. Poi le dittature del ‘900 in America Latina produssero un gran numero di richiedenti asilo. Negli anni Settanta da Argentina, Cile, Brasile e Uruguay e nei decenni successivi da El Salvador e Guatemala.

Gli ultimi mesi, del resto, confermano la tendenza. A seguito della crisi venezuelana le richieste sono passate da 2.137 nel 2014 a 29.631 nel 2018, stando ai dati ufficiali. Degli anni delle dittature si ricordano memorabili gesti diplomatici. Nel 1973 il governo di Luis Echeverría, prima del colpo di Stato di Pinochet in Cile, mandò un aereo alla ricerca della vedova di Salvador Allende. Anche il prelievo di Morales è stato effettuato da un velivolo militare messicano, il Gulfstream G 550, inviato per il presidente e il suo vice, Álvaro García Linera, nel dipartimento di Cochabamba. L’aereo si è poi fermato per 4 ore all’aeroporto di Asunciòn, capitale del Paraguay. Durante lo stop – giustificato da esigenze di rifornimento – si sono diffuse voci sui motivi della presenza di Morales nel Paese che non si colloca sulla rotta per il Messico (è a sud della Bolivia). Il ministro dell’Interno del Paraguay ha confermato l’offerta di asilo anche del proprio Paese, salvo essere smentito dal collega degli Esteri, che ha precisato: “Disponibilità non vuol dire offerta ”.

Gaza, razzi e raid aerei Ucciso un capo jihadista

Il sud di Israele si è svegliato all’alba di ieri con l’inquietante ululato delle sirene, i colpi delle batterie Iron Dome che cercavano di intercettare lo sciame di missili – saranno quasi 200 a fine giornata – partito da Gaza. È stata la risposta della Jihad islamica, il movimento islamista che contende ad Hamas il controllo della Striscia, all’uccisione poco prima dell’alba del comandante dell’ala militare del gruppo. Israele ha replicato con decine di raid aerei ed è stato un altro giorno di guerra per la Striscia.

Baha Abu al-Ata sapeva di avere una vita in prestito. Negli ultimi mesi, il suo nome era iniziato a comparire regolarmente sui media israeliani ed era stato etichettato dall’establishment della Difesa come il principale responsabile di una recente serie di attacchi missilistici provenienti dall’enclave costiera. Si era nascosto in un appartamento a Shejaia, una delle borgate di Gaza City, è morto per l’esplosione di un missile a basso potenziale che ha centrato la camera da letto dove dormiva con la moglie.

Un bombardamento chirurgico, immediato. Nessuno ha sentito la morte che arrivava. Il caccia che ha sganciato il missile teleguidato è rimasto nel cielo buio sopra Gaza City poco più di un attimo. Un’operazione congiunta fra lo Shin Bet – il servizio segreto interno – e l’Idf che è stata comunicata dal Comando centrale appena dopo l’alba. Israele non vuole un’escalation ha però detto ieri pomeriggio il Chief of Staff dell’Idf Aviv Kochavi, ma ha avvertito che le Forze Armate sono pronte per questo scenario. Kochavi ha parlato a fianco del premier uscente Benjamin Netanyahu e del direttore dello Shin Bet Nadav Argman, al termine di una riunione del Gabinetto di sicurezza al quartier generale militare di Tel Aviv.

A Gaza, per il timore di essere il bersaglio dei raid i leader islamisti sono scomparsi nei tunnel-rifugio scavati sotto le sabbie della Striscia. Le infuocate dichiarazioni sono quindi affidate a note scritte diffuse dai portavoce. La Jihad islamica si dice “pronto alla guerra”. Per Hamas l’assassinio di Abu al-Ata non passerà senza una “punizione”. La possibilità di una escalation è palpabile, ma molto dipenderà dalla posizione di Hamas. Non sembra che i suoi miliziani stiano partecipando attivamente a questa offensiva missilistica dalla Striscia, né sono state colpite (per ora) dall’Idf basi o uffici del movimento islamista. Dai raid israeliani sono state centrate invece diverse postazioni della Jihad islamica e un suo centro di addestramento vicino Rafah. Attacchi nei quali sarebbero morti 5 miliziani e altri trenta i feriti. Il modo in cui andranno le cose resta nelle mani di Hamas che potrebbe, in una certa misura, accogliere positivamente il fatto che Abu al-Ata sia fuori dai giochi, perché ha interrotto i suoi sforzi per mantenere la calma e ottenere ulteriori concessioni da Israele attraverso l’Egitto e il Qatar. Ma Hamas deve considerare i sentimenti della gente di Gaza. Sarà difficile per il gruppo frenare la Jihad islamica, e potrebbe anche lasciare che alcune delle sue unità agiscano per rappresaglia. In queste circostanze non è impossibile che l’organizzazione possa perdere il controllo e scivolare in un’escalation molto più ampia.

Ieri le batterie Iron Dome hanno intercettato 60 missili diretti verso i centri abitati, Sderot, Askelon e Ashdod. Poi l’allerta è stata allargata a Holon e Rishon Lezziyon, infine anche a Tel Aviv. È la prima volta che l’Idf ordina la chiusura di scuole e aziende nell’area di Tel Aviv dalla guerra del 2014. È rimasto operativo l’aeroporto internazionale Ben Gurion che non è distante. Sul lato israeliano una trentina i feriti lievi e seri danni, soprattutto Sderot dove sono state colpite case private ed è bruciata una fabbrica alimentare.

L’altra notte a Damasco, quasi in contemporanea con l’attacco a Gaza c’è stato sono un tentativo di assassinio attribuito a Israele. Anche lì, i missili sono stati lanciati da un jet contro la casa di un boss della Jihad islamica, Akram al-Ajouri, nell’elegante quartiere di Mezzeh. Stando ai report dalla capitale siriana, Ajouri sarebbe ferito mentre un figlio è morto nel raid.

Spagna, rischiatutto rosso-viola

È la prima volta che accade. La Spagna si avvia verso un governo di coalizione tra socialisti e sinistra di Unidas Podemos. “Un governo progressista”, nella definizione del premier socialista uscente Pedro Sánchez, che quest’aggettivo lo andava ripetendo da ore, fin dai risultati elettorali che domenica scorsa lo hanno ribadito vincente, a soli 6 mesi dalle ultime urne, ma come allora, senza una maggioranza per governare. E dopo la firma dell’accordo con l’ex rivale, Pablo Iglesias, Sánchez è tornato a ripeterlo: “Il nostro Paese ha bisogno urgentemente di un nuovo governo, che si metta in moto il prima possibile. E questo nuovo governo sarà categoricamente progressista”, non solo perché “composto da forze progressiste, ma perché lavorerà per il progresso della Spagna e di ciascuno spagnolo”.

Ma soprattutto – ha spiegato Sánchez – “questo governo si innalzerà come una diga di contenimento all’estrema destra”. Su questo concetto il leader socialista ha insistito perché “cosciente di aver deluso gli elettori” nel non aver trovato un accordo con Iglesias alle scorse elezioni. “Ma ora ci siamo riusciti e ne è valsa la pena – spiega con una retorica quasi magistrale Sánchez –: il progetto che proponiamo è talmente ambizioso che va oltre qualsiasi tipo di scontro che c’è stato negli ultimi mesi”. Dello stesso parere è il leader di Podemos, uscito più debole di aprile dalle urne eppure assurto in 48 ore allo scranno della vicepresidenza. “Sarà un governo che mette insieme l’esperienza del Psoe con il coraggio di Up. È il momento di lasciarci alle spalle i rimproveri e iniziare a lavorare gomito a gomito nello storico e ambizioso compito che abbiamo di fronte”.

Ambizioso è dire poco a leggere i punti del contratto sottoscritto dai due e suggellato da un abbraccio tra Sanchez e il leader di Podemos iconico quanto il bacio tra Leonid Breznev e Erich Honecker, con Iglesias che si stringe a occhi chiusi a colui che fino a qualche ora prima era “el señor Sánchez”. Il patto, in dieci punti, prevede l’ovvio e di più: la crescita economica e la creazione di posti di lavoro combattendo la precarietà e incentivando impieghi stabili e di qualità; lotta alla corruzione e protezione dei servizi pubblici; rivalutazioni delle pensioni e investimenti sulla scienza per attrarre i cervelli in fuga; lotta al cambiamento climatico; rinforzare le piccole e medie imprese; nuovi diritti compresa la morte dignitosa e l’eutanasia; politiche femministe: sicurezza, indipendenza e libertà delle donne nella lotta contro la violenza machista, uguaglianza retributiva e permessi di paternità; ripopolamento della “Spagna vuota”. E – nota dolente – la coalizione di governo si impegna a “garantire la convivenza in Catalogna, favorendo il dialogo e cercando formule di comprensione e accordo, nell’ambito della Costituzione”. Detto in modo un po’ ambiguo qualche riga sotto, l’obiettivo è “rafforzare lo stato delle autonomie per assicurare la prestazione adeguata dei diritti e servizi di loro competenza” e “garantire l’uguaglianza tra tutti gli spagnoli”. Niente di ricevibile da Esquerra repubblicana: “Per noi ora è no, se le cose non cambiano, non c’è niente da fare”, hanno fatto sapere gli indipendentisti. Intanto alla frontiera con la Francia, la gendarmerie ha arrestato 19 manifestanti separatisti che hanno bloccato le strade. Ma c’è ancora tempo per i chiarimenti e qualche giorno per fare i conti per il voto di fiducia che – come i nodi– verrà al pettine intorno al 16 dicembre. Per allora, si spera che Sánchez e Iglesias trovino l’appoggio dei partiti regionali, così come quello dei catalani indipendentisti. I rosso-viola per ora di sì certi ne hanno appena 155 su 176 (120+35), a cui si sommano i 3 di Mas Pais di Inigo Errejon, tutto felice del raggiunto accordo. È escluso che a favorire l’investitura astenendosi siano i Popolari. Pablo Casado ha ribadito il suo “no” a “un governo radicale, esattamente il contrario di ciò di cui la Spagna ha bisogno”.

Ciudadanos, da parte sua, con i 10 deputati rimasti a las Cortes, pur essendo decisivo, ha fatto sapere che “non può appoggiare Iglesias” perché contrario agli interessi della maggioranza degli spagnoli”. Questa determinazione, nonostante le dimissioni del leader Rivera, continua a posizionare gli arancioni dalla parte delle destre, Vox compresa che con il presidente Santiago Abascal ha ammonito Sánchez” che con Iglesias “abbraccia il comunismo bolivariano”. Una cosa è certa, la Borsa spagnola pare non aver gradito l’annuncio, con l’indice Ibex in discesa, trainato giù da titoli come Bankia – contro la cui privatizzazione Podemos si batte da anni – e il gruppo energetico Erc, a cui Sánchez ritirerà la proroga di 60 anni dell’accordo per lo stabilimento nel nord del Paese.