L’alta moda mantovana è in perdita. A rischio 130 lavoratori di Corneliani

Un altro segnale, se mai ce ne fosse bisogno, delle profonde difficoltà in cui versa la manifattura italiana viene dalla moda: la Corneliani, storico marchio mantovano che confeziona abiti maschili di lusso, ha presentato un piano che prevede 130 licenziamenti. Un taglio che impatta su quasi un terzo delle persone oggi in servizio nello stabilimento lombardo e su oltre un decimo del personale totale sparso tra l’Italia e le sedi all’estero. La manovra è presentata come “necessaria per adattare la struttura ad anni di flessione della domanda”. I sindacati stanno in questi giorni organizzando scioperi a raffica contro questa decisione. Corneliani è un brand non conosciuto da tutti, a meno che non ci si possa permettere di arrivare a spendere 1.900 euro per una giacca misto seta e cachemire o 900 per un maglione. È nata in Italia negli anni cinquanta, poi si è espansa piantando negozi mono-marca anche negli Stati Uniti e stabilimenti produttivi in Cina, Slovacchia e Romania.

Non è bastato a evitare la crisi e nel 2016 è arrivato Investcorp, fondo con quartier generale a Manama, in Bahrein, che ha acquisito il 51% delle quote. È una storia già vista: l’impresa italiana di alta moda è in una fase complicata e arriva l’investimento estero che promette un rilancio. Spesso, però, c’è solo una nuova sforbiciata. A distanza di tre anni, infatti, le cose non vanno bene. In primavera il gruppo ha approvato un bilancio con 12 milioni di perdite, con un presagio di pesanti sacrifici da chiedere ai lavoratori. “I trend – spiegano da Corneliani – vedono sotto pressione specialmente la manifattura italiana di alta gamma, in competizione con i brand internazionali favoriti dall’ampio utilizzo di manifattura a basso costo proveniente da Paesi emergenti. In questo contesto il segmento più colpito appare proprio quello dell’abbigliamento formale maschile”. Tradotto: bisogna dare un colpo di accetta ai costi in Italia. Attraverso un processo di modernizzazione, ma anche liberandosi di 130 addetti. Se da un lato i lavoratori dovranno perdere il posto, dall’altro l’azienda metterà sul piatto 18 milioni per potenziare i canali di vendita e l’e-commerce. Ecco perché, secondo i sindacati, gli esuberi servono proprio a finanziare gli investimenti. Subito dopo l’annuncio, le sigle del tessile hanno organizzato due giorni di scioperi e il terzo è previsto per domani. Come ricostruito da Filctem Cgil e Femca Cisl, ad andare a casa saranno 72 operai e 58 impiegati, ma – come è consuetudine nel mondo della moda, si tratta di donne per il 90%. Anche loro, come i colleghi della Roberto Cavalli, della Stefanel e della Brandamour, costretti a vivere con l’ansia di ritrovarsi disoccupati dopo aver contribuito alla creazione di un’eccellenza.

I veri dati che svelano il bluff delle grandi opere

Pubblichiamo un estratto del libro di Marco Ponti “Grandi Operette” (Piemme), in edicola dal 12 novembre.

Riassumiamo un bel po’ di cose che sono venute fuori in questo libro.

– Le grandi opere creano poca occupazione, oggi, per ogni euro speso. Solo circa il 25% va a pagare i lavoratori che le costruiscono direttamente. Sono, dicono gli economisti, “ad alta intensità di capitale”. I cantieri sono molto meccanizzati. Poi, certo, le macchine devono essere a loro volta costruite da qualcuno. Ma, nel complesso, l’occupazione creata è poca rispetto a settori dove proprio il lavoro manuale è indispensabile. Pensate alla manutenzione di case, scuole ecc. O quella delle strade, o delle zone franose, che sono un’infinità.

– Poi le grandi opere finiscono, le manutenzioni no. Rimane improvvisamente disoccupata molta gente tutta in una volta. È un problema trovare a tutti subito un’altra occupazione.

– Usano delle tecniche che non innovano niente, tanto che ormai queste opere, anche quelle difficili, le sanno fare dappertutto. Persino le grandi macchine che scavano le gallerie (le “talpe”) a volte sono importate, è una tecnica ormai vecchia, ha trenta anni e più.

– Molte di queste opere fanno grandi danni all’ambiente, sia producendo per decenni un sacco di inquinamento nei cantieri, sia avendo un impatto poco piacevole sul fantastico paesaggio italiano, una nostra grande risorsa di cui ci rendiamo poco conto.

– L’argomento che le grandi opere ferroviarie farebbero bene all’ambiente togliendo traffico alle strade è ridicolo. Ne tolgono poco e anche sfoltendolo, riducono relativamente l’inquinamento. Il 90% del traffico continuerà a usare la strada, e inquinerà sempre di meno. Già oggi un camion moderno inquina un decimo di uno di vent’anni fa.

– I cittadini e le imprese vogliono le ferrovie solo a parole. Se se le dovessero pagare, non le prenderebbe nessuno. Le prendono, compresa l’alta velocità tanto decantata, solo perché la gran parte del costo lo pagano, o lo hanno pagato, gli altri. I sussidi alle ferrovie sono stati talmente alti e assurdi da scavare una grande crepa nei conti pubblici, all’incirca un quarto del buco totale dopo la Seconda guerra mondiale.

– Nel settore delle grandi opere c’è poca concorrenza (gli industriali non la vogliono). Tantissime cose devono essere comprate sul posto, perché costa troppo farle venire da lontano: il ferro, il cemento, la ghiaia e la sabbia con cui impastarlo, le stesse macchine del cantiere possono venire solo da vicino. E questo succede in tutto il mondo, e determina dei guai, perché la concorrenza in questo mondo non rende. Non è come per il computer su cui sto scrivendo, che ho potuto scegliere tra una dozzina di offerte.

– La poca concorrenza significa maggiori profitti, e più certi. Questi non si chiamano nemmeno più profitti, si chiamano rendite, e non fanno crescere niente.

– Poca concorrenza, e i grandi profitti che di solito ne seguono, sono anche una grande fonte di corruzione, e fanno molto gola alle mafie, che infatti sono molto presenti nel settore, non più con la lupara e la coppola, ma con legalissime società e funzionari in giacca e cravatta, ai quali però non piace affatto sentir parlare di concorrenza.

Ma è poi vero che le grandi opere funzionano così male? Guardiamo un po’ cosa dicono quelli che se ne sono occupati, guardandole e facendo i conti in giro per il modo, cioè gli studiosi specializzati.

Non ci sono dubbi possibili: una quindicina di anni fa è stata fatta una mega-ricerca mondiale su diverse centinaia di grandi opere nel mondo. Non sono dati recentissimi, ma, come si è ben dimostrato qui guardando molte grandi opere più recenti, non è che la realtà sia molto cambiata, anzi.

Il principale autore della ricerca, il professore danese Bent Flyvbjerg ha dichiarato che non può più metter piede in Svezia da quando, richiesto da un giornalista, ha detto che una linea ferroviaria da nord a sud del paese serviva al massimo a far viaggiare comode le renne (ma piaceva molto ai politici). Forse esagerava, ma è certo che i numeri sono impietosi, e soprattutto per le ferrovie. I costi veri sono risultati praticamente sempre molto più alti di quelli previsti dai costruttori: circa una metà in più. Il traffico previsto idem: è risultato più o meno la metà, soprattutto nei primi anni, i più importanti per giudicare se un investimento pubblico è utile o meno.

La ricerca analizza con gran cura il perché di questi errori, ma per chi ha letto fino a qui la risposta è facilissima: gli studi e le previsioni di costo e di traffico sono sempre fatti da chi vuole costruire l’opera, e con soldi non suoi, ma con quelli di chi paga le tasse. E non solo: coloro che decidono, oltre a non rischiare soldi propri, non dovranno nemmeno rendere conto, come politici, dei risultati ai loro elettori: le grandi opere sono lunghe da realizzare, loro non saranno più lì e comunque nessuno si ricorderà delle loro mirabolanti promesse.

 

© 2019 – Mondadori Libri SpA, Milano Pubblicato su licenza di Mondadori Libri SpA per il marchio Piemme

La passione Fs per i cacciatori di teste di Egon Zehnder

Sono di una precisione chirurgica i cacciatori di teste che lavorano per le Ferrovie italiane. Mirano sempre il bersaglio giusto e quando devono selezionare i manager scelgono inevitabilmente le persone che dovevano essere scelte. Le stesse che sarebbero state individuate anche dal capo dell’azienda, da circa un anno Gianfranco Battisti. La coincidenza di vedute tra quest’ultimo e gli head hunter è così sovrapponibile da ingenerare il dubbio che più che cacciatori quelli delle Fs siano notai della volontà aziendale, con il rischio che si producano tre effetti distorcenti. Primo: dietro il paravento della selezione del merito si perpetua il malvezzo della clientela. Secondo: viene pagato un lavoro più apparente che reale. Terzo: trattandosi di un’azienda di proprietà al 100 per cento del ministero dell’Economia, vengono inutilmente spesi soldi pubblici.

In Italia le più autorevoli società di cacciatori di teste sono due: Egon Zehnder e Spencer Stuart. Alle Ferrovie va di moda Egon Zehnder. Il capo a Roma di Egon Zehnder è Aurelio Regina che da molti anni è anche capo di Confindustria del Lazio e dell’Unione Industriale di Roma (Unindustria). Proprio in questa veste Regina è stato pure capo di Battisti che prima di diventare l’ad delle Fs è stato dirigente di Unindustria dove presiedeva la Sezione trasporto e logistica. Tra i due è rimasto forte nel tempo non solo un legame di amicizia e di condivisione di tante esperienze.

Battisti ha un legame forte e consolidato anche con un altro manager che in passato ha avuto un notevole peso alle Fs e all’Alitalia e i cui consigli sono stati decisivi proprio per la designazione di Battisti alle Ferrovie voluta circa un anno fa dall’allora governo 5 Stelle-Lega. Si chiama Marco Zanichelli e dal 2009 e per un lungo periodo è stato presidente di Trenitalia dopo essere stato uno dei manager storici di Alitalia: nel 1989 direttore delle Relazioni esterne, nel 1992 direttore centrale, nel 2001 segretario generale, l’anno dopo presidente di Alitalia Airport, poi direttore generale e infine ad di Alitalia nel 2004.

In questo momento per le Fs Alitalia è diventata il problema dei problemi e Zanichelli ha consigli da vendere per Battisti. Nel frattempo i cacciatori di Egon Zehnder hanno individuato la figlia di Zanichelli, Francesca, come la persona giusta per un incarico dirigenziale alle Fs. Francesca in effetti è stata assunta nella delicata area della Direzione strategie della holding ferroviaria. Incaricati dalle Fs di scovare anche l’amministratore della futura Alitalia, gli head hunter di Egon Zehnder stavano concentrando la caccia su un altro manager vicino a Zanichelli, Giancarlo Zeni, ora amministratore della compagnia Blue Panorama e in passato collaboratore proprio di Zanichelli all’Alitalia con l’incarico di direttore commerciale.

Gli infallibili cacciatori di Egon Zehnder nel frattempo hanno trovato la sistemazione adeguata per un’altra manager di peso: Grazia Maria Rita Pofi. Legatissima all’ex padre-padrone delle Fs, Mauro Moretti, Pofi ambiva a dirigere le Relazioni esterne della holding. Su consiglio di Egon Zehnder la Pofi è stata dirottata a dirigere le relazioni esterne di Anas che è una società controllata da Fs.

Mare svuotato, ma i governi vogliono i fondi per le barche

In mare c’è sempre meno pesce, ma l’industria rischia di sfruttarlo ancor di più. Coi nostri soldi. I governanti Ue vogliono stanziare una parte del bilancio comunitario, co-finanziato dalle imposte statali, per finanziare imbarcazioni più performanti che finiranno per aumentare le catture. È il rischio che si corre col voto di ieri degli eurodeputati in Commissione pesca, che apre la porta a sussidi ritenuti dannosi dalla stessa Organizzazione Mondiale del Commercio che intende proibirli entro il 2020. E che, secondo gli scienziati, ritarderanno ulteriormente l’obiettivo Ue di rendere la pesca sostenibile. Un traguardo che è già stato posticipato dall’iniziale scadenza del 2020 al 2025 per il Mediterraneo, il mare più sfruttato al mondo, dove l’Italia opera con la flotta più grande di tutti i paesi rivieraschi: nel 2019 sono quasi 2.700 i pescherecci tricolore con licenza di strascico. Un numero in diminuzione a causa della cronica crisi del settore, dovuta anche al calo del pescato.

In pratica, gli eurodeputati (inclusi tutti gli italiani indipendentemente dal colore politico) hanno autorizzato l’avvio delle trattative a porte chiuse coi ministeri nazionali riuniti nel Consiglio Ue (che co-legifera insieme all’Europarlamento). Sul tavolo negoziale c’è un testo che stravolge la proposta originale della Commissione europea che aveva l’obiettivo di rifinanziare il Fondo europeo per la pesca per il nuovo periodo 2021-2027. La proposta, presentata nel 2018, prevedeva solo aiuti finalizzati a incentivare e indennizzare la riduzione delle attività di pesca. In particolare, accordava un sostegno agli operatori per cessazioni definitive, oppure occasionali imposte dalle autorità in caso di emergenze ambientali (collasso delle risorse ittiche).

Nel corso del 2019 il Consiglio Ue e l’Europarlamento uscente hanno tuttavia votato una serie di modifiche incrociate che, secondo gli ambientalisti, aumenteranno la capacità di pesca delle flotte e la pressione sugli ecosistemi marini. Di fatto viene chiesto il ripristino degli stanziamenti all’ammodernamento e all’ampliamento delle flotte che l’Ue aveva abolito nel 2004 appunto per neutralizzare la sovrappesca. La misura più contestata è quella che permetterebbe ai governi di finanziare ammodernamenti finalizzati a migliorare la sicurezza a bordo. A proporla sono state Italia, Francia e Spagna, che insieme totalizzano il 40% di tutti gli aiuti sborsati dall’attuale Fondo per la pesca. Gli emendamenti approvati dagli ex eurodeputati, e riconfermati ieri dai neo-eletti, condizionano l’erogazione al fatto che gli ammodernamenti non aumentino l’effettiva capacità di pesca delle imbarcazioni. Il Consiglio Ue chiede stanziamenti ancor più generosi e condizioni ancor meno stringenti.

Vuole che sia finanziabile, non solo l’ammodernamento, ma anche la costruzione di nuove imbarcazioni a beneficio di giovani pescatori. E ammette, per di più, che la capacità di pesca delle singole unità ammodernate o costruite possa eventualmente aumentare, a patto che resti invariata quella dell’intera flotta di riferimento. Tali condizioni sono giudicate troppo vaghe dalle organizzazioni ecologiste.

“Ogni ammodernamento significa l’introduzione di nuove tecnologie che rendono le imbarcazioni più efficienti e quindi capaci di catturare più pesci a parità di tempo – commenta Flaminia Tacconi dell’Ong Client Earth –. Inoltre è difficile verificare che la capacità di pesca di un’intera flotta non aumenti”. Proprio per questo le attuali regole vietano agli armatori di mettere in acqua nuovi pescherecci senza ritirarne di vecchi di equivalente stazza e/o potenza di motore. Il Consiglio Ue chiede, peraltro, agevolazioni anche per il rinnovo dei motori purché non se ne aumenti la potenza. Problema: un recente studio della Commissione europea denuncia controlli inefficaci sulla reale potenza dei motori da parte dei governi. “Per verificare che gli aiuti non determinino sovraccapacità occorrerebbe confrontare i bilanci annuali delle aziende di pesca, un controllo che ancora non è previsto”, ammette Gianpaolo Buonfiglio, presidente dell’Alleanza delle Cooperative italiane della Pesca, che ufficialmente non è contrario ai sussidi.

Tante commissioni, zero fondi all’economia: banche all’assalto del tesoro dei Pir

Non è probabilmente un caso che il relatore di una delle prime proposte portate sul tavolo della Commissione Finanze della Camera sia proprio un family banker di Banca Mediolanum, che è anche vicepresidente della Commissione nonché deputato di Forza Italia. Si chiama Sestino Giacomoni e su Linkedin si presenta come private banker di Mediolanum e consulente finanziario indipendente (seppure le due cose insieme suonino come un ossimoro). La proposta riguarda i Pir, i piani individuali di risparmio. Ed è quella di tornare alla normativa precedente fatta dal governo Conte I, magari incrementando le risorse che i risparmiatori privati possono investire e “ampliare gli strumenti d’investimento che si possono inserire in questo contenitore con l’obiettivo di sostenere l’economia reale in favore delle piccole e medie imprese e delle società che non possono aspirare alla quotazione in Borsa”.

In due anni, ha sottolineato l’onorevole Giacomoni, “ben 23 miliardi di risparmi sono andati direttamente a finanziare le piccole e medie imprese”. Soldi in verità che sono affluiti sui fondi d’investimento specializzati, soprattutto di Intesa Sanpaolo e Banca Mediolanum che sono i ras del mercato. E, a voler essere un po’ pignoli, all’economia reale sono arrivati gli spiccioli (poco più dell’1% secondo una ricerca di Cfo Sim). Se i soldi dei risparmiatori vanno in un fondo che compra sul mercato secondario azioni di società già quotate all’economia reale non arriva nulla e di reale ci sono solo le commissioni di gestione che banche e reti possono generare con questo strumento. Eppure la retorica finto patriottica che investendo sui Pir si canalizza il risparmio delle famiglie verso il sostegno all’economia reale continua anche con questo governo, con l’Abi che spinge per ritornare almeno ai Pir vecchia maniera.

Passato il mese dell’educazione finanziaria, si invitano i risparmiatori a concentrare i propri investimenti nel Belpaese. Sorge il dubbio che i veri beneficiari delle proposte finora portate in Parlamento siano banche e assicurazioni visto che gli stessi intermediari sembrano aver fatto cartello e continuano a impedire quasi totalmente ai risparmiatori di costruirsi un Pir fai da te senza passare dai prodotti del risparmio gestito. In Paesi come Francia e Gran Bretagna dove i veri Pir sono nati (e prendono il nome rispettivamente di Pea e Isa) il risparmiatore è al centro e non c’è una riserva d’attività che di fatto costringe i risparmiatori che vogliono usufruire dei vantaggi fiscali a dover passare obbligatoriamente (e a caro prezzo) dal risparmio gestito. E non esistono soprattutto limiti geografici nazionalisti così stringenti.

La proposta fatta di rimettere mano ai Pir ha trovato un terreno fertile bipartisan fra Forza Italia, Pd e Movimento 5 Stelle e lo stesso ministro dell’economia Roberto Gualtieri. Tutti pronti a fare qualcosa dopo che una modifica normativa voluta dalla Lega (in prima fila l’allora deputato Giulio Centemero) e dal M5S a inizio 2019 ha di fatto congelato la vendita di fondi PIR. L’idea giallo-verde era di obbligare questi fondi a investire almeno il 3,5% nelle azioni dell’Aim (il listino di Piazza Affari dedicato alle “società ad alta prospettiva di crescita”) e il 3,5% in fondi di private equity.

E c’è da ringraziare che quasi tutte le società di gestione, per effetto anche della cattiva scrittura normativa, abbiano bloccato questa idea “meravigliosa”. Soprattutto vedendo quello che è successo alla regina dell’Aim, Bio On. La società di bioplastiche è crollata dell’80% (ed era arrivata a valere quasi un quinto del listino Aim) ed è ora sospesa a tempo indeterminato dopo che la procura di Bologna ha accusato di falso e manipolazione del mercato i vertici societari. Uno scandalo raccontato per primo proprio dal Fatto Quotidiano. Se Bio on fosse stata inserita nei Pir avrebbe causato un falò dei risparmi, estendendo il danno a centinaia di migliaia di risparmiatori. Costringere un fondo d’investimento aperto a investire in asset illiquidi o quotati su mercati non totalmente regolamentati non è un’idea geniale come avevamo fatto notare su queste pagine a inizio 2019.

Archiviata l’idea “meravigliosa”, il cantiere dei Pir si è quindi riaperto ed è comprensibile che banche e reti premano per un ritorno al passato. Grazie a un argomento di vendita irresistibile per molti risparmiatori come i forti stimoli fiscali (zero tasse su eventuali capital gain, dividendi, successione e donazioni se l’investimento di massimo 30mila euro viene mantenuto per almeno 5 anni), questo tipo di fondi e contenitori aveva riscosso un successo eclatante (23 miliardi di raccolta). Che si è trasformato in centinaia di milioni di euro di commissioni di gestione per banche e reti che hanno visto totalmente inaridirsi da inizio 2019 questo fiume di soldi. Per l’industria del risparmio gestito un affare irresistibile visto che le spese di gestione medie annue applicate ai sottoscrittori sono di oltre il 2%. Per un prodotto che probabilmente il risparmiatore terrà in portafoglio almeno 5 anni significa poter “tosare” circa un 10% di commissioni senza grande fatica. Sarebbe invece interessante l’idea di rimettere mano alla normativa sui Pir ma guardando all’esperienza francese e inglese. Come dimostrano i dati sulla trasparenza imposta alle banche dalla Mifid2 sui rendiconti dei costi in Italia, però, il tema non suscita interesse quasi alcuno ai legislatori italiani e più che la tutela del risparmiatore si continua a privilegiare quella del banchiere. E pazienza se il risparmiatore medio italiano è fra i più tartassati di Europa.

@soldiexpert

Banche e un nuovo fondo Salva-Stati: le minacce all’Italia

Due minacce mortali e una presa in giro. È il riassunto della situazione europea dell’Italia in questo fine 2019. Le prime due sono l’approvazione del nuovo Meccanismo europeo di stabilità (Mes), sui giornali detto Fondo monetario europeo, e la proposta tedesca per implementare l’unione bancaria. La terza è la decisione della Commissione Ue – anticipata da Reuters e alcuni giornali tedeschi – sul piano di salvataggio della malmessa banca Nord/Lb di Amburgo: tutto a posto, non si tratta dei vietatissimi “aiuti di Stato”, nonostante i 3,6 miliardi di euro necessari li mettano due Länder (2,5 miliardi) e le altrettanto pubbliche Sparkasse (1,1 miliardi). La mitologica Dg Competition guidata dall’altrettanto mitologica Vestager non vede problemi: è la stessa combriccola che definì “aiuto di Stato” l’intervento per Tercas del Fondo interbancario di tutela dei depositi, costituito con soldi di banche private. Passi per la presa in giro. In Italia è ben noto che le leggi si interpretano per gli amici e si applicano a tutti gli altri. Il problema vero è che anche l’attività legislativa è truccata o, detto in modo più gentile, ontologicamente asimmetrica. Prendiamo, per restare alle banche, la proposta avanzata dal ministro delle Finanze tedesco Olaf Scholz e citata da Angela Merkel nella sua visita a Roma lunedì. L’unione bancaria, com’è noto, è nata zoppa: partì con la vigilanza unica della Bce sugli istituti più grandi, proseguì col bail-in che da noi ha fatto più danni della grandine e si arenò sull’assicurazione comune dei depositi. Su quest’ultimo punto, come su qualunque forma di “condivisione dei rischi”, la Germania è contraria: ora propone di realizzare la “terza gamba”, ma solo in cambio di una ulteriore riduzione delle sofferenze e della fine della qualifica “risk free” per i titoli di Stato.

Tradotto: il rischio sarà valutato sulla base delle valutazioni delle agenzie di rating sui titoli di Stato e la banca dovrà accantonare soldi per coprire quel rischio. Questo metterebbe nei guai tanto gli istituti italiani quanto lo Stato: più necessità di capitale per i primi, maggior costo di raccolta per il secondo. Curioso che la proposta Scholz non dica una parola sui derivati che zavorrano i conti delle principali banche tedesche: è tanto vero che il Financial Times sostiene che è proprio la preoccupazione per i suoi decotti istituti a ispirare la proposta di Scholz.

Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha già risposto “no” alla proposta di Berlino sull’unione bancaria, mentre non è chiaro cosa intenda fare sulla minaccia più incombente per l’Italia: la riforma del Mes, il vecchio fondo salva-Stati. Ieri, in audizione in Parlamento, se n’è lavato le mani: “La modifica del Trattato è già stata concordata dal precedente governo (il Conte 1, ndr). Per l’Italia mi pare sia stata un’opportunità mancata. Sono disponibile al confronto in Parlamento”. La modifica del Trattato, nell’idea di Francia e Germania che hanno ispirato il testo, dovrebbe essere approvata entro l’anno e non è chiaro se l’Italia porrà il veto: quasi un obbligo alla luce della risoluzione parlamentare approvata a giugno, che impegna il governo “a non approvare modifiche che prevedano condizionalità” penalizzanti per gli Stati più deboli.

E cos’è questa riforma? “Un pericolo per l’Italia e gli italiani”, nelle parole consegnate alle Camere, mercoledì scorso, dall’economista Giampaolo Galli a nome dell’Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, non proprio un bastione di propaganda anti-europea. In sostanza, è il tentativo di predisporre attorno al nostro Paese una cortina di ferro finanziaria che ne riduca, isolandolo, il potere negoziale. Funzionerebbe così. Il Mes, organo tecnico con 160 dipendenti a solida guida tedesca, diventerebbe il dominus dell’Eurozona nelle situazioni di crisi: potrebbe concedere prestiti precauzionali a Paesi colpiti da choc esogeni il cui debito è sostenibile (a suo giudizio) o linee di credito precauzionali a Paesi che non rispettino tutti i requisiti a fronte della sottoscrizione di un Memorandum of understanding (vedi Troika). Problema: anche questo prestito condizionato non potrà essere concesso a chi sia in procedura per deficit o negli ultimi due anni non abbia rispettato il Patto di Stabilità. Tradotto: l’Italia, pur terzo contributore del Fondo, non potrebbe accedere ai prestiti. O meglio, per avere i soldi del Mes prima dovrebbe ristrutturare il debito. E infatti il nuovo Trattato prevede anche l’introduzione di clausole (dette Cac single limb) che renderanno più facile gestire il default coi creditori. È più chiaro, ora, a cosa serva garantire liquidità a chi ha i conti in ordine: “Una rete di sicurezza per evitare il contagio rispetto al Paese costretto a ristruttura”, dice l’economista.

Cosa significherebbe questo per l’Italia? Ancora Galli: “L’Italia ha risparmio di massa e il 70% del debito è detenuto da residenti, tramite banche e fondi di investimento. In queste condizioni, una ristrutturazione sarebbe una calamità immensa, genererebbe distruzione di risparmio, fallimenti di banche e imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della popolazione senza precedenti nel Dopoguerra. Nessun governo può prendere una decisione del genere se non nel momento in cui non fosse più in grado di pagare stipendi, pensioni, ecc. Una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori”. Forse, individuate le colpe di Tria (e di Conte 1), è il caso che il ministro Gualtieri dica cosa vuol fare lui. Magari può discuterne pure con Conte (2).

Come fu che Sala spiegò ai milanesi perché gli operai non votano il Pd

Lunedì, per una di quelle forme di autolesionismo che decenni di autocura non sono riusciti a estirpare, abbiamo passato alcune ore alla Fondazione Feltrinelli di Milano per un sontuoso happening organizzato da Huffington Post. È lì che abbiamo sentito dal palco il ministro Roberto Speranza di LeU suonare la nota canzone dei ceti popolari e del mondo del lavoro che hanno abbandonato la sinistra e quindi noi, la questione sociale, le disuguaglianze, eccetera. È vero, per carità, e mai ne eravamo stati più convinti che qualche minuto prima, mentre Beppe Sala e Giancarlo Giorgetti sullo stesso palco parlavano di Ilva. Il leghista: “Attenzione a dire no agli aiuti di Stato, perché senza non se ne esce. Le regole europee ti impediscono di fare politica industriale, mentre ti confronti con attori mondiali che la fanno anche a fini geopolitici”. Il sindaco di Milano: “Il problema è che devi avere gente formata sui dossier quando firmi gli accordi, abbiamo fatto la figura dei provinciali… Il tema è che a quel livello di produzione l’Ilva non regge, ma certo così c’è un problema di occupazione. E allora io gli aiuti di Stato li userei per quello, non per la nazionalizzazione”. Tradotto: il leghista vuole che la mano pubblica indirizzi il sistema industriale, il democratico al massimo fare un po’ di cassa integrazione e ritiene che tutti i problemi si risolvano con un buon manager. Chissà come mai i lavoratori non votano più a sinistra: forse non gli piace il capitalismo compassionevole di Sala o sarà colpa dei discorsi d’odio contro cui il sindaco è così impegnato?

Il caso Tik Tok: due lezioni per l’Occidente

Se leggete giornali di carta, non siete tipi da Tik Tok, la piattaforma che propone a ciclo continuo brevi video simili alle storie di Instagram. Ma l’ascesa di questo nuovo social network – 750 milioni di download in meno di 12 mesi – segna un punto di non ritorno. Ci siamo abituati in questi anni a fare appello al senso di responsabilità di Facebook, Google e Twitter per contrastare propaganda d’odio, fake news e interferenze nelle elezioni. Ora a decidere cosa si può pubblicare e cosa condividere è una società cinese così sensibile alle esigenze del Partito comunista che, ha rivelato il Guardian, censura i video sul massacro di piazza Tienanmen. Nessuno ha protestato quando nel 2017 ByteDance, azienda cinese con sette anni di vita, ha comprato per 800 milioni la piattaforma dove i ragazzini cantavano in playback, Musical.ly. Due anni dopo quella operazione ci impartisce due lezioni. Primo: la Cina dimostra che proteggendo il mercato interno dallo strapotere delle piattaforme digitali americane, si possono sviluppare dei competitor in grado di far tremare anche Facebook. Avrebbe potuto farlo – e forse può ancora farlo – anche l’Europa.

Secondo: in questi anni ci siamo raccontati la favola del monopolista buono, di Google che ha il motto “non fare del male” e di Mark Zuckerberg che vuole connettere il mondo in un grande abbraccio. Abbiamo lasciato a queste piattaforme la gestione di informazioni strategiche e abbiamo privatizzato le infrastrutture della democrazia. Ora una società cinese pretende di giocare secondo le stesse regole: alzi la mano chi è sereno sapendo che quasi un miliardo di ragazzini ha nel cellulare una app che accede ad audio, video, geolocalizzazione e contatti e che risponde a direttive politiche di un governo autoritario. Altro che Huawei. Se non vogliamo che Tik Tok giochi secondo le regole, l’unica soluzione è cambiare le regole. E, in un colpo solo, fermare l’ascesa cinese e togliere a Zuckerberg e soci il potere di cui abusano da un decennio.

La legge elettorale di don Matteo Renzi lo “Smemorandum”

I sistemi elettorali son roba complicata, si sa. Soprattutto alle nostre latitudini dove siamo riusciti a far dichiarare incostituzionali ben due leggi elettorali di fila: il Porcellum che ha fatto danni dal 2006, e l’Italicum che non ha fatto in tempo perché la Consulta lo ha bloccato addirittura prima che venisse battezzato. Ma veniamo ai fatti. Ieri, come ogni lunedì, Matteo Renzi ha inviato la sua enews, e mica una qualunque: la numero seicento. Il primo argomento che affronta è il caos spagnolo. E lo fa così: “Quattro elezioni in quattro anni e ancora ingovernabilità. Ciò che sta accadendo a Madrid (e a Barcellona) mette in gioco l’idea stessa di democrazia decidente. E crea sempre più distacco tra chi gestisce la res publica e i cittadini. Dovremmo riflettere sul perché il caos spagnolo è un danno all’idea stessa di democrazia europea. Leggo, nel frattempo, che qualche buontempone in Italia propone di copiare la stessa legge elettorale spagnola. Giusto per essere certi dell’ingovernabilità. Lo hanno proposto davvero, non è una barzelletta. Quattro elezioni in quattro anni e noi li prendiamo come modello?”. Non è una barzelletta. Infatti, appena diventato segretario del Pd, è proprio Matteo Renzi a proporre il sistema spagnolo come possibile soluzione.

All’alba del 2014 – sempre nella famosa enews, la numero 380 – Renzi anticipa una lettera che invierà ai segretari dei partiti e in cui presenta “tre possibili soluzioni sulla legge elettorale”. “Togliamo gli alibi agli altri: sono tre soluzioni molto diverse l’una dall’altra ma tutte e tre con la fondamentale caratteristica di rispettare il mandato delle primarie dell’8 dicembre che costituisce il riferimento fondamentale mio e del Pd”. Nella lettera allegata, il segretario del Partito democratico chiede “alle forze politiche che siedono in Parlamento, a tutte e ciascuna, di uscire dalla tattica e provare a chiudere un accordo serio, istituzionale, su tre punti”. Ancor prima del superamento del bicameralismo perfetto (sic) c’è “una legge elettorale che sia maggioritaria, che garantisca la stabilità e l’alternanza, che eviti il rischio di nuove larghe intese”. Quelle le farà lui dopo #enricostaisereno, ma pazienza. E comunque quali sono questi tre sistemi? Il secondo della lista è un Mattarellum rivisitato e corretto, il terzo un doppio turno di coalizione (tipo legge dei sindaci). E il primo? Attenzione: “Riforma sul modello della legge elettorale spagnola” (che comunque, detto tra noi, è un proporzionale, applicato su collegi molto piccoli, che determina soglie di sbarramento implicite molto alte). Don Matteo spiega così il suo modello alla spagnola: “Divisione del territorio in 118 piccole circoscrizioni con attribuzione alla lista vincente di un premio di maggioranza del 15% (92 seggi). Ciascuna circoscrizione elegge un minimo di quattro e un massimo di cinque deputati. Soglia di sbarramento al 5%”. Passa un anno, Renzi manda in pensione Letta e diventa premier. Il 4 maggio 2015 – dopo un iter segnato da compressioni del dibattito, incursioni notturne del premier a Montecitorio, varie scorciatoie parlamentari (tipo l’emendamento Supercanguro) e financo scazzottate in aula (13 febbraio) – l’Italia ha finalmente una legge elettorale, l’Italicum. Che però entrerà in vigore solo un anno e mezzo dopo. A dicembre del 2015, la Spagna torna al voto. Di nuovo una enews: “È la Spagna di oggi, ma sembra l’Italia di ieri. Di ieri perché ora abbiamo cancellato ogni balletto post-elettorale. Sia benedetto l’Italicum, davvero: ci sarà un vincitore chiaro. E una maggioranza in grado di governare. Stabilità, buon senso, certezze. Punto”.

Ma lo Smemorandum non potrebbe essere il prossimo sistema elettorale di Renzi?

Pur ridicolo, il nazi è nazi: serve da controfigura e utile idiota delle destre

Giunti finalmente ai rastrellamenti di quartiere, almeno dei nomi sui citofoni per vedere chi è straniero e chi no, i nazisti dell’Illinois non sono più tanto dell’Illinois, ma qui in mezzo a noi, a dispetto della solita solfa sulle “ragazzate”, “goliardate” e altre puttanate negazioniste.

La storia è nota: un consigliere comunale di Bologna, Marco Lisei, meloniano di Fratelli d’Italia, insieme a un deputato della Repubblica, Galeazzo Bignami, meloniano di Fratelli d’Italia anche lui (ma ex Forza Italia), videocamera alla mano, si sono fatti una passeggiata tra le case popolari di Bologna. Hanno così certificato che sui citofoni molti non si chiamano Rossi o Fabbri, come le nostre radici cristiane ci imporrebbero, ma nomi strambi, anche con delle h o delle k. La cosa ha molto turbato i due, che hanno preso al volo quella china dell’ottovolante che conduce alla cretineria assoluta: invasione, prima gli italiani, l’Emilia da liberare, eccetera eccetera. Non tragga in inganno il fatto che i due caratteristi, nell’irresistibile inquadratura-selfie-comizio, sembrino più Totò e Peppino in piazza del Duomo invece che due camicie brune al lavoro, è la solita questione della storia come tragedia e come farsa.

Quanto alla camicia bruna, il Bignami ce l’ha veramente, esistono foto che lo ritraggono mentre la indossa, con tanto di pugnale e fascia al braccio con la svastica, e ancora nel relax post prandiale con bandieroni della Repubblica di Salò e del partito hitleriano alle pareti. È roba vecchia, di quand’era capogruppo di Forza Italia in regione, e lui si difese dicendo… indovinate? Goliardia: era il suo addio al celibato (che bella festa, forse pioveva, se no andava a cercare Anna Frank sui citofoni con gli amici).

Naturalmente i due incursori hanno dovuto togliere il video dai loro social, nonostante avessero detto esplicitamente che della privacy se ne fottevano alla grande (un sincero “me ne frego”, con la retromarcia, però), ma resta l’enormità di un deputato della Repubblica che se ne va in giro a schedare i citofoni.

Piccola storia istruttiva, ma non l’unica. Il fascista tira, produce quel momentaneo, sterile accaloramento che hanno le provocazioni, oppure viene esibito come un tempo la donna barbuta o il mangiafuoco nelle fiere di paese. Paolo Del Debbio, per dirne uno che fa quel giochetto lì, esibisce nel suo programma un certo Brasile, energumeno-borgataro-fascista, con duplice effetto. Il primo: minimizzare e fare del nazismo di periferia una macchietta quasi patetica, e al tempo stesso aprire, sdoganare, inserire nella normale dialettica popolar-sovranista un elemento – lo squadrista più o meno ripulito – come se fosse un interlocutore normale. Interessante il sottopancia che scorreva mentre il camerata Brasile in primo piano diceva cose come “Nella borgata mia devi fa’ quello che dico io”; una scritta illuminante, una vera dichiarazione di poetica: “L’odio della sinistra: la destra è fascista”. Un ribaltamento così sfacciato che sembra una rivendicazione, non più sdoganamento di un’ideologia coi suoi maestri e i suoi mostri, ma un fattivo, operoso fiancheggiamento, cosa che fanno ogni giorno i giornali della destra.

La sensazione, insomma, è che ai bravi “liberali” e “sovranisti” e leghisti e meloniani, tutto ‘sto fiorire di volenterosi filonazi (nei comportamenti, nei gesti, nelle parole, nelle scritte sul corpo) non dispiaccia per niente, anzi. È come avere delle controfigure per le scene pericolose: gli squadristi dicono cose raccapriccianti su discriminazione, odio razziale, pulizia etnica, e i potentati politici annuiscono con aria pensosa, quando non incoraggiano apertamente il testacoda ideologico (Salvini che si paragona alla signora Segre per minacce, ne è un buon esempio). Il nazi è nazi, poi è goliardo quando lo sgamano, d’accordo, ma è tanto utile, signora mia.