Ilva, oltre gli indiani c’è la “tara italiana”

Che ArcelorMittal, nei recenti sviluppi del dramma dell’Ilva, abbia torto è fuor di dubbio: ha firmato un contratto e adesso non intende più rispettarlo essendosi accorta (o facendo finta) che i suoi investimenti in Ilva non sarebbero stati remunerativi. Sarebbe però del tutto fuorviante addebitare l’intero dramma Ilva, che vede in conflitto salute e lavoro, al gruppo indo-francese perché questo è entrato in scena, nella parte di affittuario dell’Ilva, solo nel novembre del 2018. E prima?

Prima la storia del colosso siderurgico è una storia italiana, italianissima con protagonisti tutti italiani. Scrive Angelo Bonelli nel suo Good Morning Diossina: “Le proporzioni del dramma sanitario e ambientale nel capoluogo ionico, a partire dai primi anni 90, erano evidenti sia alla popolazione che ai medici che constatavano un aumento di malattie da mesotelioma, leucemie, patologie tumorali e malattie della tiroide. Nonostante vi fossero segnali preoccupanti dal punto di vista sanitario, collegati alla grave situazione di inquinamento ambientale, le Istituzioni si dimostravano immobili e latitanti”. Il drammatico conflitto fra salute e lavoro risale quindi ai primi anni 80 quando ArcelorMittal era lungi da essere apparsa a l’onor del mondo italiano. E qui bisogna fare una breve storia del colosso siderurgico di Taranto.

Alla sua nascita, fra il 1960 e il 1965, la proprietà di quella che oggi chiamiamo Ilva era dell’Italsider, società pubblica, di Stato, ovviamente italiana. In grave crisi durante tutti gli anni 80 l’acciaieria venne venduta nel 1995, a prezzi di favore, alla famiglia Riva, italiana. Da quando la magistratura nel 2012 cominciò a occuparsi del “caso Ilva”, che non poteva quindi più restare nascosto, si sono succeduti sei esecutivi, governo Monti, governo Letta, governo Renzi, governo Gentiloni, governo Conte I e governo Conte II. Almeno i primi cinque hanno pasticciato con una serie di decreti e controdecreti, di leggi e di controleggi, in una confusione indescrivibile, senza cavare un ragno dal buco. Adesso Conte (due) cerca di metterci una pezza togliendo di mezzo alcuni pretesti, come lo “scudo penale” con cui Mittal ha cercato di giustificare il suo recesso dal contratto, ma lo stesso Conte ha dovuto onestamente ammettere di “non avere soluzioni in mano” se ArcelorMittal deciderà comunque di ritirarsi. Arvedi, Del Vecchio, gli antichi concorrenti di ArcelorMittal, hanno fatto capire di non essere più interessati. E comunque se anche un gruppo italiano o internazionale decidesse di entrare nell’ex Ilva potrà porre condizioni ancora peggiori di quelle di ArcelorMittal perché il governo italiano è preso per la gola. Ilva è la più grande acciaieria d’Europa, ma in Europa ci sono molte altre acciaierie di quasi uguale portata e nessuna è nelle sue condizioni. Come mai? Evidentemente le altre acciaierie europee quando hanno installato i loro stabilimenti hanno preso qualche precauzione. Per esempio in Europa la stessa ArcelorMittal piazza i suoi stabilimenti a qualche chilometro dai centri abitati. Probabilmente, ma non lo sappiamo, chi ci va a lavorare si ammala ugualmente di tumore, ma almeno l’acciaieria non inquina un’intera comunità come l’Ilva che sta nel bel centro di Taranto.

Che fare ora? Si dice: nazionalizziamo l’ex Ilva. Ma a parte che non è affatto detto che questo sia compatibile con le norme europee, i precedenti non sono incoraggianti. Quante volte lo Stato è intervenuto in Alitalia perdendoci un mucchio di quattrini, i quattrini dei contribuenti, e adesso siamo costretti a chiedere l’elemosina a Lufthansa o a qualche altra compagnia aerea che certamente non si accollerà Alitalia gratuitamente ma chiedendoci un prezzo pesante?

A mio avviso è evidente che, al di là del “caso Ilva”, esiste una “tara Italia” che affonda le sue radici molto lontano nel tempo e che dipende dall’incapacità, dall’insipienza, dalla corruzione dei nostri governanti. Il colossale debito pubblico, che ci rende difficile muoverci in qualsiasi settore, lo abbiamo accumulato a partire dalla metà degli anni 80 con l’allegra e corruttiva gestione della cosa pubblica da parte del cosiddetto CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) e in questo caso non è responsabilità né di Berlusconi né di tutti i governi che si sono succeduti dal 1994 dopo che Mani Pulite aveva cercato, senza riuscirvi, di richiamare la nostra classe dirigente, politica e imprenditoriale, al rispetto delle leggi e alle proprie responsabilità. Il “caso Ilva” non è quindi che la punta dell’iceberg di una mala gestione decennale in cui sono coinvolti tutti i governi e anche noi cittadini che non ci siamo mai ribellati salvo quando abbiamo dovuto renderci conto di un dramma che sembra irrisolvibile: o vai a lavorare e ti ammali o non ci vai e non hai i soldi per vivere e devi ricorrere a una carità pubblica che il “sistema Italia” non è in grado di sostenere. Auguri.

Mail box

 

Taranto, tra lavoro e salute meglio scegliere la vita

Caro Marco, Taranto ha un “mostro” chiamato Ilva che vanta la maggior produzione in tutta Europa, se ho capito bene. Fin qua, ci siamo. Ma questo titano produce oltre che acciaio anche veleno che provoca malattie mortali. È vero che dà lavoro a molte persone, ma nello stesso tempo toglie loro, se non la vita immediatamente, sicuramente la serenità riguardo alla salute. Il lavoro e la salute sono elementi indispensabili per vivere. Ma tra i due, quale scegliere per disperazione? Io sceglierei la salute. Ma avrei diritto a una pensione che mi sostenesse nelle spese indispensabili. Pensione sacrosanta che deve lo Stato a tutti quegli operai che sono impossibilitati per responsabilità altrui, a continuare a lavorare. Non dimentichiamo che l’Ilva avvelena, così com’è ora, non solo i lavoratori ma tutti i cittadini che respirano la sua aria. A mio avviso va chiusa e magari riaperta con misure di sicurezza serissime ed efficientissime. Solo così si può riavere il lavoro non solo per lavorare, ma anche per vivere.

Roberto Calò

 

L’ex rottamatore di Rignano è diventato uno scorpione

Ricordate la favola della rana e dello scorpione? Oggi chi interpreta alla perfezione la parte dello scorpione è Renzi che ha chiesto un passaggio al Pd e ai 5Stelle per traghettare il suo “nuovo” partito verso percentuali di consenso degne ma che, nonostante stia imbarcando ogni genere di personaggio (meglio se con la fedina penale non intonsa), non sembra riscuotere nei sondaggi tanto credito. Lo pseudo rottamatore/scorpione ha presentato un emendamento per ridare ad Arcelor Mittal l’immunità penale (come aveva già fatto durante la sua stagione). La manovra oltre a indebolire la posizione contrattuale del governo rischia creare una crisi con probabile ritorno alle urne in cui (Forza) Italia Viva ne uscirebbe con le ossa rotte.

Leonardo Gentile

 

Le atrocità della storia e il lato oscuro dell’uomo

Il sindaco di Preadappio nega il contributo alla partecipazione di un ragazzo delle superiori al progetto “Promemoria Auschwitz. Il treno della memoria”. Ma lo stesso sentenzia che “questi treni vanno solo da una parte”, dimenticando tutto il resto. È stato eletto con una lista di centrodestra e fa sapere che tutta la storia è importante, quindi anche gli stermini perpetrati nei gulag, non solo nei campi nazisti. Per conoscere le nefandezze della storia nella loro completezza. Lo sterminio nazista è una delle pagine più tristi e vergognose. Ma rimane una delle tantissime vergogne che nei secoli abbiamo prodotto. E sarebbe sicuramente utile allargare questa conoscenza per far capire che non esiste posizione politica alla base delle atrocità, ma un lato oscuro della natura umana.

Cristian Carbognani

 

DIRITTO DI REPLICA

Gentile direttore, molti dipendenti del Ministero dello sviluppo economico hanno letto domenica scorsa l’articoletto del giornalista Giorgio Meletti nel quale si invita il ministro Patuanelli ad aprire un tavolo “per indagare su come passano le giornate i 3 mila dipendenti del Mise”. È necessario puntualizzare alcuni punti: 1) I dipendenti del Ministero non sono 3 mila, bensì 2393 (di cui 187 impiegati tra gli Uffici di diretta collaborazione del Ministro e il Segretariato Generale); il dato pubblicato dal vostro giornalista si riferisce alla dotazione organica e non al personale effettivamente in servizio; 2) I 2393 dipendenti sono ripartiti tra le 6 sedi romane del Ministero, le 2 sedi periferiche Unmig, le 8 sedi della Direzione incentivi, le 11 sedi degli Ispettorati della Dgat e le 27 sedi delle Dipendenze provinciali degli Ispettorati; 3) Il numero dei dipendenti è calato negli anni, motivo per cui, oggi, una grande percentuale di questi vive in emergenza e con carichi di lavoro, anche a 60, 62, 64, 66 anni, insopportabili. Certamente, come in qualsiasi ambito lavorativo, si possono annidare dipendenti meno motivati, forse anche per motivi legati al mancato rinnovo del contratto, o forse per il fatto che il Ministero è invaso da anni da Società esterne che prestano “assistenza tecnica”, pagata con centinaia di milioni di euro, nel più profondo disinteresse dei vertici politici. In ultimo, un invito civile e rispettoso al giornalista Giorgio Meletti: venga a trovare in ufficio lo scrivente, per verificare come e quanto si lavora. Una ultima puntualizzazione, che potrebbe essere utile al giornalista: apra un tavolo di interesse sulle molte Agenzie e Autority presenti in Italia, sulle loro competenze e, soprattutto, sui loro costi.

Marco Marzocchi

 

Dispiace che i sindacalisti del Mise esprimano questa grinta con i giornalisti e non con i ministri che hanno ridotto il Ministero nello stato che il signor Marzocchi descrive. Comunque niente paura, nessuno ha insinuato che al Mise siano sfaticati: è stato il ministro a rivelare che le centinaia di crisi aziendali sono seguite da uno solo dei 2393 dipendenti, ma la notizia non ha eccitato l’orgoglio sindacale. Suggerire che il ministro dovrebbe sapere che cosa fanno gli altri 2392 (magari per lodarli pubblicamente come sembrano pretendere) mi sembra il minimo. Magari vengono fatti sfiancare in lavori inutili. O va tutto benissimo?

Giorgio Meletti

Piaccia o meno, Greta e altri lottano per interessi generali

Ho letto l’articolo di Tomaso Montanari “Lo schiaffo di Edimburgo”: facile rinunciare a 74.000 euro! Vorrei che tutti quelli che applaudono la decisione e il museo stesso, facessero a meno dei prodotti di British Petroleum: smettessero di riscaldarsi con fonti non rinnovabili, di muoversi usando benzina, gasolio o Gpl, non prendessero quindi più l’aereo, smettessero di utilizzare prodotti derivati dal petrolio per vestirsi, prepararsi il pranzo… Compreso il museo ovviamente: basta riscaldamento d’inverno. Quanto alla “fragile e forte” Greta Thunberg, davvero l’estensore dell’articolo crede che il mondo degli investitori, che ormai da anni (se non decenni) si muove verso tecnologie almeno apparentemente più ecosostenibili, lo faccia a causa di una bambina? O non è forse che questa bambina ha trovato visibilità sui media internazionali proprio perché essi sono influenzati da grandi aziende e finanziatori interessati a spingere queste nuove tecnologie? Quella del museo è una inutile e ridicola presa di posizione ideologica e non pragmatica; o forse una mossa pubblicitaria, dato che nel mondo odierno, il mondo nel quale per perdere il posto di lavoro non serve più un processo, basta entrare nel mirino del #MeToo, se non si è green si è ostracizzati, non c’è più posto per il dissenso, ma solo per l’integrale adesione al pensiero dominante. E non ne faccio un problema scientifico, dato che il riscaldamento globale pare essere ormai assodato (dico pare perché io non sono un ricercatore né tantomeno uno scienziato). Quello che mi rattrista sono le posizioni manichee aderenti al pensiero imperante.

Cristiano Briarava

 

Gentile Briarava, l’acqua alta di questi giorni a Venezia è solo un timidissimo assaggio di ciò che succederà, entro l’arco della nostra vita: Venezia e un bel pezzo di mondo scompariranno a causa dell’innalzamento dei mari provocato dallo scioglimento dei ghiacci provocato dall’innalzamento delle temperature provocato dell’enorme quantità di gas serra prodotta dall’uomo attraverso la combustione di combustibili fossili e attraverso l’estensione senza precedenti degli allevamenti di animali da carne. E questo è solo un aspetto: siamo sull’orlo di un collasso generale del pianeta. Urge un cambio radicale di rotta. Ma il pensiero dominante e gli interessi trainanti non stanno affatto lavorando per questo cambiamento: vanno anzi in direzione contraria, perché ragionano in termini di semestri, non di decenni. Chiunque – da Greta alla National Gallery of Scotland – provi a scuoterci, fa dunque l’interesse generale. Anche il suo: che lei lo veda, oppure no.

Tomaso Montanari

Il dimesso Castellucci comanda ancora e detta la linea ad Aspi sull’inchiesta

A che titolo Giovanni Castellucci interloquiva con gli avvocati di Autostrade per l’Italia, ispirandone le linee delle istanze dell’azienda del gruppo controllato dalla famiglia Benetton, quando si era dimesso da diversi mesi dalla carica di amministratore delegato? È la domanda che scaturisce da un clamoroso retroscena dell’inchiesta bis della Procura di Avellino sulla insicurezza delle barriere di alcuni viadotti tra la Campania, le Marche e l’Abruzzo. Una domanda alla quale il procuratore capo di Avellino Rosario Cantelmo si è dato una risposta: Castellucci, nonostante le dimissioni da Aspi e la controllante Atlantia, “manterrebbe ancora una posizione di supremazia all’interno della concessionaria tanto da prendere decisioni societarie a cui, invece, dovrebbe essere del tutto estraneo”. E grazie a questa posizione, ancora a ottobre, quasi un mese dopo le dimissioni da Atlantia e quasi un anno dopo le dimissioni da Aspi, dava le indicazioni. Decisioni utili ai suoi interessi processuali in vista del processo di appello per la strage di Acqualonga del 28 luglio 2013, i 40 morti precipitati dal viadotto irpino nel pullman che dopo aver rotto i freni finì per abbattere un new jersey dai tirafondi ormai marciti per le intemperie e la mancata manutenzione.

Castellucci in primo grado è stato assolto. Ma secondo la tesi dei pm, riportata dal Gip Fabrizio Ciccone nel decreto notificato ai difensori di Aspi, sarebbe ancora molto attento agli sviluppi del ricorso della Procura e del relativo processo di appello che inizierà a Napoli il prossimo 17 dicembre.

La storia emerge dalle poche pagine di un rigetto, l’ennesimo, del Gip alle istanze degli avvocati di Aspi che puntano ad ottenere il dissequestro delle barriere sequestrate, perché insicure, lungo i viadotti di cui il Fatto ha scritto nei mesi scorsi. È un indagine bis nata dagli atti del processo. Secondo il Gip non solo l’ultima istanza, ma “verosimilmente” anche quelle precedenti sono state redatte “secondo interessi e finalità che nulla hanno a che vedere con la tutela e la sicurezza degli utenti della strada”. Avevano invece un altro scopo: essere “corrispondenti agli interessi processuali di un terzo”, Castellucci.

Lo avrebbe ammesso “candidamente” l’avvocato Gagliardi, uno dei legali di Aspi. Interrogato dai pm il 28 ottobre, Gagliardi ha risposto in un modo che il Gip definisce “sorprendente”, rivelando di aver ricevuto da Castellucci in una telefonata dell’8 ottobre “alcune valutazioni da inserire nell’istanza”. “Castellucci – ha detto l’avvocato – dopo aver concluso la sua esperienza in Aspi, era molto attento nel seguire il possibile sviluppo che poteva avere ricadute sul processo di appello relativo all’incidente del viadotto di Acqualonga. Castellucci infatti riteneva che le risultanze del procedimento in corso potevano essere oggetto di valutazione in sede di appello”. Dalla documentazione fornita ai pm risulta che l’ex ad supervisionò l’iter e diede l’ok finale via mail: “Punto. Ogni altro riferimento è fuorviante. A mio avviso”.

Caso Cucchi, lascia il giudice: è un carabiniere in congedo

Carabiniere in congedo, in contatto con diversi esponenti dell’Arma, “in particolare con il generale Tullio Del Sette”, ex comandante dei carabinieri, chiamato come teste dalla parte civile della famiglia di Stefano Cucchi. Per queste ragioni, il giudice di Roma Federico Bona Galvagno ieri, leggendo un provvedimento del presidente del tribunale Francesco Monastero, ha annunciato la sua astensione al processo per il depistaggio dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, il 22 ottobre 2009, una settimana dopo il suo arresto da parte dei carabinieri.

“Non può esserci il sospetto – ha scritto il presidente – che il giudice possa non essere imparziale in un processo in cui ci sono 8 imputati carabinieri”. E così ha autorizzato l’astensione del giudice. Bona Galvagno aveva chiesto di astenersi solo dopo che Monastero aveva ricevuto una lettera sull’opportunità dell’astensione del giudice, firmata dagli avvocati di parte civile, in testa Fabio Anselmo per la famiglia Cucchi, Diego Perugini e Massimo Mauro per gli agenti di polizia penitenziaria ingiustamente accusati. Il presidente ha ora assegnato il processo alla giudice Giulia Cavallone. Prossima udienza il 16 dicembre. Per i depistaggi sono imputati il generale Alessandro Casarsa, ex comandante del Gruppo Roma e altri 7 carabinieri, tra cui il colonnello Lorenzo Sabatino, ieri in aula, ex comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma. Sono accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. La difesa del generale Casarsa ha chiesto una testimonianza a effetto mediatico: quella di Vincenzo Barba, il pm del primo processo. Invece, l’avvocato dello Stato Maurizio Greco ha presentato la richiesta di costituzione di parte civile del ministero della Giustizia. In udienza preliminare si erano già costituiti l’Arma con il ministero della Difesa e quello dell’Interno.

I controllori del Morandi: “Il cassone ha mollato”

Il cassone. La causa del crollo del Morandi sembra essere stata individuata. Ne sono sempre più convinti investigatori e pm. E adesso dalle intercettazioni emerge che gli indagati hanno lo stesso dubbio: “…O che il cassone ha mollato, perché metti che le campane, metti la sfiga che sulle campane ci percolava dell’acqua che entra in soletta, te l’hanno corroso, vum (è il rumore con cui Casini simula il crollo, ndr) ha mollato subito”.

A parlare è Carlo Casini (responsabile sorveglianza Spea di Genova dal 2009 al 2015); all’altro capo del telefono Marco Vezil (dirigente Spea). Spea è la società che doveva fare i controlli . È il 25 gennaio scorso. I due sono intercettati e la Guardia di Finanza cattura una frase che potrebbe avere un grande peso per l’inchiesta: “Mollando subito – aggiunge Casini – è venuto giù perché… certo che se effettivamente… lo strallo… perché che cosa può essere successo? Può essere successo che il cassone comprimeva e a un certo punto ha mollato!”. Vezil risponde: “Però lì siamo deboli perché non andavano, nel cassone….”. E Casini conferma: gli ispettori di Spea “non potevano andarci”.

L’intercettazione è contenuta nelle 250 pagine con cui il pm genovese Walter Cotugno aveva chiesto l’emissione di misure cautelari nei confronti di undici tecnici e dirigenti di Spea nell’inchiesta sui falsi nei report di sicurezza dei viadotti. Il gip ha respinto, ma alla fine il Tribunale del Riesame ha ordinato misure interdittive per dieci indagati.

Ecco, i cassoni. Potrebbero essere la chiave dell’inchiesta sul Morandi. Ma, appunto, anche del fascicolo sui report di sicurezza relativi ad altri ponti. Perché anche in questi casi, secondo l’accusa, “è emerso che almeno dal 2013 gli ispettori Spea non ispezionavano l’impalcato nelle opere d’arte costruite con i cosiddetti ‘cassoni’”. Un’ipotesi che l’intercettazione pare confermare. I cassoni, in parole povere, sono quelle intercapedini che stanno sotto il manto stradale e lo sostengono. Secondo l’intercettazione la dinamica del disastro potrebbe essere questa: le piogge sarebbero entrate nei cassoni e con il tempo avrebbero provocato l’erosione della struttura, soprattutto degli elementi d’acciaio.

La contestazione dell’accusa è chiara: Spea dal 2013 non avrebbe controllato i cassoni. Non solo: “Gli autori hanno attestato, falsamente, di avere svolto le ispezioni su tutta l’opera, e su tutte le parti indicate nei rapporti, con completezza. Così facendo hanno emesso atti falsi che attestavano notizie false (difetti non controllati, assenza di difetti) sulla sicurezza di parti di strutture che non avevano controllato. Per anni!… A volte hanno copiato i vecchi voti, altre volte hanno attestato l’assenza di difetti”. Una ricostruzione fondamentale per le indagini. Ma non solo. Sempre più chiaro è l’allarme sulla sicurezza di molti altri viadotti, soprattutto in Liguria, dove i cassoni da anni non sarebbero stati controllati. Lo ha detto al Fatto uno dei tecnici che hanno ispezionato i viadotti dell’autostrada A12, la Genova-Livorno: “Abbiamo trovato molta acqua nei cassoni. C’è umidità dappertutto, sembra che nessuno ci entri da anni”.

E nelle ultime settimane Spea (società del gruppo Autostrade che si occupava delle verifiche di sicurezza) insieme con società terze ha avviato controlli a tappeto su tutti i viadotti. I risultati sono stati molto diversi – e meno ottimistici – rispetto a quelli passati: “Le attività ispettive – scrive il pm – paiono effettuate con maggiore correttezza e comprendono l’esame dei cassoni e delle altre strutture cave. Tale esame ha determinato un deciso aumento dei voti (a volti più alti corrisponde una maggiore pericolosità, ndr)”. Quattro ponti hanno riportato “voto 70 con immediata limitazione della circolazione”.

Il Mose ancora rinviato e la ruggine se lo mangia

L’acqua va su, e il Mose resta giù. Nei giorni della grande paura per l’acqua alta a Venezia è facile fare ironia su un’opera che è come una chimera. Basti pensare che risale al 2003 l’apertura dei cantieri per realizzare le dighe mobili contro le maree che periodicamente allagano il centro storico e le isole. Da allora sono trascorsi 16 anni. In mezzo, come uno spartiacque biblico, c’è stato lo scandalo che ha portato in carcere l’ideatore dell’opera, l’ingegnere Giovanni Mazzacurati, nel frattempo deceduto. Ma le paratoie del Mose, attaccate ai cassoni di cemento, sono ancora, e irrimediabilmente, sotto acqua.

E pensare che era stata scelta una data simbolica, il 4 novembre scorso, per provare ad alzare tutte le 19 paratoie mobili alla bocca di porto di Malamocco. Infatti, l’Aqua Granda, la più alta marea che ha sommerso Venezia in tempi moderni, risale al 4 novembre 1966. La laguna si gonfiò, con la complicità dello scirocco fino a raggiungere l’eccezionale livello di 194 centimetri sopra il medio mare. Fu una catastrofe. E quel giorno cominciò a nascere l’idea che fosse necessario impedire che Venezia diventasse una novella Atlantide. Il Mose entra in funzione a 110 centimetri di marea, costituisce una difesa fino a tre metri e viene considerato capace di contrastare un innalzamento del mare di 60 centimetri nei prossimi 100 anni. Ma il 4 novembre la prova non si è fatta. In precedenza erano state alzate le paratie di Lido Treporti (21 barriere), Lido San Nicolò (20 barriere) e Chioggia (18 barriere). Pochi giorni prima del momento fatidico si è fermato tutto. Perchè alcuni tubi che immettono aria e acqua per consentire l’innalzamento e l’abbassamento dei portelloni, hanno manifestato vibrazioni anomale. E quindi, “in via precauzionale” si è preferito ordinare controlli prima di procedere. Le paratie stanno dando problemi da qualche anno, nonostante il Mose non sia ancora entrato in funzione. Ad esempio sono risultate inceppate dalla sabbia che si deposita sui fondali. Per non parlare delle cerniere in acciaio, l’elemento più delicato del sistema: stanno arrugginendo. La loro durata di vita, pensata per resistere un secolo, si è drasticamente ridotta, l’acqua marina è implacabile.

E così il Mose è ancora lì, alta tecnologia inerte in fondo alla laguna. Se si domandasse a un veneziano quando il Mose entrerà in funzione, non ve lo saprebbe dire. È frastornato dalle promesse mancate. Gli stessi addetti ai lavori sono costretti ad aggiornare continuamente il crono-programma. Probabilmente le paratoie saranno ultimate l’anno prossimo. Poi comincerà il periodo di collaudo che durerà un anno. Sempre con l’incubo delle cerniere arrugginite che hanno richiesto un bando di gara per trovare ditte in grado di risolvere il problema dei materiali, contemplando l’eventualità di rifarle. Una data possibile del fine-lavori è la fine del 2021. Una data probabile il 2022. Intanto, il prezzo che era stato “chiuso” nel 2005 a 5 miliardi 493 miloni di euro, viaggia verso i sei miliardi. Sullo sfondo rimane la grande domanda: il Mose funzionerà mai davvero?

L’acqua alta in San Marco. Allarme rosso a Venezia

Per il momento il ritardo della perturbazione in arrivo dal Medio Adriatico ha salvato Venezia. Ieri mattina era attesa un’acqua alta eccezionale, 140 centimetri che avrebbero allagato il 60 per cento del centro storico. Il picco di marea si è fermato a 127 centimetri alle 10:30 perché il rallentamento atmosferico ha mitigato l’effetto dei venti di scirocco e dell’onda di Sessa nel mare. Ma la previsione infausta è stata spostata soltanto di dodici ore, un’ora prima di mezzanotte. Ieri sera alle 21:30 ha superato il livello del mattino a 143 centimetri, la previsione è cresciuta a 160 per le 23. E questa mattina, alle 10:25 l’onda potrebbe riportare l’incubo dei 150 centimetri. La città rischia di finire in ginocchio per due giorni. Tutto dipenderà dal vento e dalle piogge sul Nord-est. Ma l’allerta durerà fino a sabato, perché le previsioni fissano sempre l’onda di piena a 125 centimetri.

Ieri mattina la Basilica di San Marco emergeva dalle acque in modo surreale. Ma questa è la visione per i turisti, che comperano a prezzi carissimi gli stivali dagli ambulanti, scattano foto e sguazzano sui masegni. La realtà è molto più drammatica, perché non solo le calli e i campielli, ma anche i piani terra di molte case sono stati allagati. E il procuratore della Basilica, l’ingegnere Pierpaolo Campostrini, ha denunciato: “È indecente. Noi cerchiamo di limitare il danno, ma non abbiamo sistemi di difesa quando l’acqua è così alta. Sono protezioni solo parziali in alcune zone, ad esempio nella cappella Zen con paratie mobili. Abbiamo altri strumenti di difesa passiva con paratoie che sono state spostate e adeguate, e con pompe in funzione. È però largamente insufficiente, quando l’acqua è a quell’altezza”.

Il Piccolo Mose, così lo chiamano i veneziani, realizzato visto che quello grande non entra in funzione, è impotente. I danni sono gravi, come un anno fa. “Il nartece è allagato, ci sono 70 centimetri d’acqua – spiega Campostrini –. E questo genera danni per capillarità nei mattoni, così l’acqua sale più in alto. Un terremoto o un crollo di un edificio sono evidenti, ma un’invasione di marea ripetuta accresce un danno subdolo, perché nascosto. L’acqua va via ed evapora, ma il sale rimane dentro”. Il ministro Dario Franceschini ha inviato a Venezia i suoi ispettori. E assicura: “Siamo pronti a finanziare quanto richiesto lo scorso anno dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna per la tutela della Basilica”.

La perturbazione ha colpito al Sud. Anche oggi scuole chiuse a Napoli, mentre riapriranno a Matera, città della Cultura 2019, dove ieri le antiche strade si sono trasformate in torrenti in piena con fango e detriti che non hanno risparmiato il rione dei Sassi. Danni ingenti in gran parte della Puglia. In contrada Malerba ad Altamura (Bari) un anziano di 80 anni, Pasquale Cutecchia, è morto colpito dal ramo di un albero del proprio giardino, spezzato dal forte vento.

“Papa all’inferno” L’ultima rivolta contro Francesco

“Il Papa andrà all’inferno”. Il duello di carta incarta da sempre la Chiesa. E l’ultima rivolta contro Francesco, su sfondo dottrinale, avviene per mezzo di una lettera tradotta in sette lingue e firmata da un centinaio di cattolici – sacerdoti, filosofi, studiosi e nobili – non certo progressisti né devoti al pontificato di Bergoglio. Il testo conquista clamore mediatico perché scaglia accuse severe a Francesco: è colpevole di sacrilegio – dicono – per l’adorazione di Pachamama, una divinità pagana, durante una funzione al recente sinodo sull’Amazzonia. Cioè le stesse statuette che un ragazzo austriaco ha gettato nel fiume Tevere.

Al Papa è imputata anche l’adesione a un documento sulla fraternità con il Grande Imam della moschea di Al-Azhar. Con risolutezza, gli scriventi condannano Jorge Mario Bergoglio, il pontefice peccatore, alla dannazione eterna per aver infranto il primo comandamento – non avrai altro Dio all’infuori di me – e lasciano sul baratro degli inferi tutti i fedeli che non si dissociano. Oltre l’involontaria comicità, questo vuol dire scisma per la Chiesa o qualcosa di simile. E il Vaticano l’ha presa sul serio. Tant’è che la risposta si trova sull’Osservatore Romano, il quotidiano ufficiale della Santa Sede, e si compie con un intervento di monsignor Felipe Arizmendi Esquivel, un vescovo messicano: “È una grande impudenza condannare il Papa come idolatra, perché non lo è stato né lo sarà mai. Non c’è stato alcun culto idolatrico. Sono simboli di realtà ed esperienze amazzoniche, con motivazioni non solo culturali, ma anche religiose, ma non di adorazione, perché questa si deve solo a Dio”.

La lettera è impreziosita da nomi di rilievo negli ambienti conservatori della Chiesa, come lo storico Roberto de Mattei, il teologo Brian W. Harrison o la principessa tedesca Gloria Thurn und Taxis, amica di Alessandra Borghese e di monsignor George Ganswein, ancora il principale collaboratore di Joseph Ratzinger, l’anziano papa emerito che viene usato per screditare Bergoglio.

I cento ribelli, per dare sostanza all’invettiva, indicano i loro idoli, quelli che contestano Francesco: i cardinali Brandmüller, Urosa Savino, Müller, Burke; i vescovi Viganò, Azcona Hermoso, Schneider, Voderholzer, Eleganti. E poi aprono un sito, registrato lunedì in Canada da un committente che ha deciso di celare la propria identità. I cento chiudono la lettera – in serata condivisa anche da Viganò, l’ex nunzio a Washington che lo scorso anno chiese le dimissioni di Francesco – con un doppio appello. A Bergoglio: “Chiediamo di pentirsi pubblicamente e senza ambiguità, di questi peccati oggettivamente gravi e di tutte le trasgressioni pubbliche che ha commesso contro Dio e la vera religione, e di riparare questi oltraggi”. Al clero: “Chiediamo a tutti i vescovi della Chiesa cattolica di rivolgere una correzione fraterna a papa Francesco per questi scandali, e di ammonire i loro greggi che, in base a quanto affermato dall’insegnamento della fede Cattolica divinamente rivelato, se seguiranno il suo esempio nell’offesa contro il primo comandamento, rischiano la dannazione eterna”. Un’azione stravagante con radici in quel pezzo di Chiesa che non ha mai accettato Bergoglio e si alimenta tra i nostalgici di Ratzinger. Il duello di carta e non solo di carta arriva in superficie. E fa un po’ spavento.

“Giochiamo al gioco del potere non a quello della seduzione”

“Signora o signorina?” La domanda la pone un manager a una giornalista. Lei però, invece che sorridere o arrossire, gli risponde così: “E lei, signore o signorino?”. È trascorso qualche anno, la giornalista è diventata una delle più autorevoli conduttrici della tv. Lilli Gruber ha appena scritto un libro, che noi aspettavamo da qualche tempo perché è da qualche tempo che si capisce l’urgenza del tema nei suoi discorsi. Il pamphletto (termine coniato da Jacques, marito femminista di Lilli) s’intitola Basta e casomai non fosse chiaro il senso, c’è anche un punto esclamativo. Sottotitolo: “Il potere delle donne contro la politica del testosterone”.

Il libro parte dal celebre episodio del mazzo di rose promesso da Salvini e mai mandato. Lui per giustificarsi ha detto: “Sono un maschietto”. Che vuol dire?

Peggio: ha detto ‘Ho i limiti di un maschietto’. Sottinteso: non ci si può far niente, è la nostra natura. Ma questo è un concetto profondamente ingiusto, tanto per gli uomini quanto per le donne. Proprio con questa scusa del ‘che vuole, son ragazzi’ la disuguaglianza di genere si è perpetuata nel tempo: i maschi sarebbero geneticamente incapaci di riordinare, pulire, cambiare un pannolino o tenere chiuso nei pantaloni quello che mio marito chiama ‘il muscolo centrale’. Basta. Non è vero che tutti gli uomini sono così. E anche se lo fosse: siamo al mondo per superarli, i nostri limiti.

Lei dice che la battaglia per la parità tra uomini e donne non è di destra né di sinistra. Però i bersagli dei suoi strali sono soprattutto i politici di destra, da Salvini a Trump. A loro appartengono maggiormente le tre V del discorso pubblico, “visibilità, violenza, volgarità”?

Ammetterà che a cercare un macho nella sinistra italiana si rischiano parecchi dispiaceri… A parte gli scherzi, confermo: la battaglia per la parità di genere è bipartisan e anche bisex. È vero che, dall’America alla Russia e dall’Inghilterra alla Turchia, l’internazionale del testosterone va al potere in schieramenti ‘di destra’ (attenzione però: è sciovinista anche Xi Jinping, capo del partito comunista più potente del mondo). A guardar bene, questi leader non sono accomunati da un’ideologia o da una fede politica. Ma dalla corruzione, dall’impunità, dal disprezzo per la democrazia. E per le donne. Per questo sostituirli con leader più equilibrati è il modo per costruire un mondo migliore per tutti: maschi e femmine, di destra e di sinistra.

La cosa più impressionante del suo libro sono i numeri. Tipo che il 75% del lavoro non retribuito nel mondo è svolto da donne. Secondo lei non sono anche troppe donne a sottovalutare queste disuguaglianze?

Sì, e il motivo principale è che queste disuguaglianze non vengono raccontate abbastanza. Soprattutto alle generazioni più giovani, che vivono certe conquiste come acquisite: per tanti di loro, la battaglia per il voto alle donne è attuale più o meno quanto la battaglia di Lepanto. Quando però si spiega loro quanto sia facile fare passi indietro, cominciano a notare per esempio le corsie preferenziali che i maschi hanno sul posto di lavoro, ad arrabbiarsi per i mille piccoli luoghi comuni con cui il linguaggio quotidiano offende il femminile. Non c’è sottovalutazione, c’è mancanza di consapevolezza. Per questo ho scritto pagine che non contengono opinioni ma fatti, dati, storie che chiunque possa usare come arma contro i negazionisti della disuguaglianza. Occorre ancora alzare la voce contro l’ingiustizia, perché l’ingiustizia si nutre di silenzio.

Una volta Sabina Ciuffini ci ha detto: rispetto tutte le donne che hanno conquistato il potere, anche se ci sono arrivate infilandosi nel letto di qualcuno. Vista la sproporzione tra i sessi non è il caso di sottilizzare. È d’accordo?

No, non sono d’accordo, perché ciò che si ottiene infilandosi nel letto di qualcuno non è potere. È un posto elargito ‘per gentile concessione’ del maschio di turno. Viene facilmente donato e altrettanto facilmente sottratto, per assegnarlo alla prossima in lista d’attesa dietro il divano o sotto la scrivania. Il potere è un’altra cosa: è la via per produrre il cambiamento. Si merita, si conquista e si mantiene. E lo si usa per promuovere le più brave, così che le ‘gentili concessioni’ non siano mai più la regola del gioco.

Quote rosa: ancora molte donne pensano che siano un ghetto. Perché non è così?

Guardiamoci intorno: è ancora la norma per molti datori di lavoro assumere, a parità di curriculum, il candidato maschio. E tra i dati che cito c’è quello sulla disuguaglianza salariale: mediamente il 16%. C’è un motivo razionale per pagare di più un uomo, a parità di ruolo, responsabilità e performance? No. Eppure è così ovunque. Esiste una discriminazione negativa, e l’unico modo per combatterla è una discriminazione positiva: le quote rosa. Che costringono, a parità di merito, a scegliere la candidata donna. Fino a quando il sistema non tornerà in equilibrio e non ce ne sarà più bisogno.

Tra i consigli che dà alle ragazze ce n’è anche uno di moda, solo apparentemente secondario: compratevi una giacca. “Nella vita pubblica non ci si veste per essere sexy. Provate a chiedervi: se oggi incontrassi la donna che mi promuove, mi troverebbe a posto?”.

Avvertenza: non c’è niente di male a vestirsi sexy. Non deve passare il concetto aberrante che se ti metti la minigonna poi ‘te la sei cercata’. Però ogni situazione ha i suoi codici e il mondo del lavoro richiede che l’attenzione sia sulla competenza, non sul corpo. Sbaglierebbe anche un uomo in canottiera, ma loro in ufficio in canottiera non ci vanno: sono più furbi. Allora, facciamoci furbe anche noi e giochiamo al gioco del potere, non a quello della seduzione.