Prescritto per truffa il fedelissimo della Meloni

Manlio Messina, assessore regionale al Turismo della Regione Sicilia, tira un sospiro di sollievo e se la cava grazie alla prescrizione. Per l’ufficialità – i termini dopo sette anni e mezzo verranno raggiunti l’1 dicembre – bisognerà aspettare soltanto la prossima udienza, già fissata per il 10 dicembre. Il fedelissimo di Giorgia Meloni in Sicilia, nominato a luglio nella giunta del presidente Nello Musumeci in quota Fratelli d’Italia, era accusato dai magistrati della procura di Catania di truffa aggravata ai danni dello Stato.

Nel mirino i rimborsi del periodo 2009-2012, percepiti da Messina quando ricopriva l’incarico di consigliere comunale a Catania. Soldi per un ammontare di 31mila e 450 euro che il Comune aveva versato a una società privata in cui il politico ricopriva in modo simulato, secondo la Guardia di finanza, il ruolo di direttore commerciale. Insieme all’assessore alla sbarra sono finiti anche i titolari della ditta: Giuseppe Privitera e Danilo Belfiore.

Quello nei confronti di Messina è stato un vero e proprio processo lumaca, mai entrato nel vivo nonostante la prima udienza risalga al 29 marzo 2016. Poi appena sei udienze in tre anni e una lunga serie di rinvii, di cui almeno tre per dei clamorosi difetti di notifica agli imputati. In una occasione, giusto per citare un caso, il messo notificatore si sarebbe recato in via Etna anziché in via Etnea. L’ultimo appuntamento in tribunale ieri mattina. Appena una manciata di minuti utili agli avvocati difensori dei tre imputati, insieme al legale del Comune di Catania costituitosi parte civile, per conteggiare con precisione i termini per dichiarare ufficialmente estinto il reato. Alla giudice monocratica Eliana Trapasso non è rimasto altro che fissare una nuova udienza per chiudere la faccenda.

De Magistris consolida l’asse con Fico

Ha cambiato 33 assessori in poco più di otto anni e non ha intenzione di fermarsi, il sindaco arancione di Napoli, Luigi de Magistris. Mentre ieri presentava le 4 new entry in giunta – tra le quali spicca la professoressa Francesca Menna, ex consigliera grillina molto vicina al presidente della Camera Roberto Fico – già pensava alla sua lista DemA per le elezioni regionali 2020, “e siccome ritengo che qualche componente di questa giunta sarà candidato – rifletteva De Magistris – sarà necessario un ulteriore cambio”.

Sarebbe l’undicesimo rimpasto. Quello appena compiuto è il decimo e dovrebbe servire, nei proponimenti del sindaco, come tagliando e convergenza di un’automobile che di qui a poco dovrà affrontare una curva rischiosa: la mozione di sfiducia presentata da 16 consiglieri dei gruppi Pd, Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Fratelli d’Italia, La Città, Napoli popolare e gruppo Misto, che verrà discussa in aula il 22 novembre. Mozione preceduta a fine ottobre da un audio registrato di nascosto – e svelato da Repubblica – di una chiacchierata privata tra cinque consiglieri di maggioranza dei gruppi Verdi, Agorà e Riformisti democratici per discutere di come logorare De Magistris e costringerlo a mollare loro qualche poltrona.

Travolti da quello che in napoletano si chiama ’scuorno’ (imbarazzo), i cinque “congiurati” – rappresentanti di forze politiche che in Comune stanno con de Magistris, ma per le Regionali guardano a De Luca – hanno calato la testa, rinunciato a partecipare al rimpasto, e hanno giurato amore eterno al sindaco, che dovrebbe superare la curva della sfiducia senza particolari problemi. Ai consiglieri degli altri gruppi “promossi” assessori subentreranno nuovi eletti di sicura fedeltà, anche se i nomi del rimpasto lasciano qualche strascico per la netta sterzata a sinistra. Mugugni e critiche trasversali hanno accompagnato la decisione di avvicendare l’assessore alla cultura Nino Daniele, di area Pd (che prese le distanze dalla sua nomina), ben introdotto e apprezzato in quel mondo, che era in sella da sei anni. Sarà sostituito da Eleonora De Maio di DemA, proveniente da Insurgencia, spina dorsale del sostegno dei centri sociali a questa amministrazione. Entra in giunta in quota DemA-centri sociali anche Luigi Felaco, e in quota Sinistra al Comune Rosaria Galiero, ex leader studentesca. Escono, oltre a Daniele, Roberta Gaeta, che lascia le politiche sociali, e Mario Calabrese, ex titolare dei trasporti, anche loro in giunta dal 2013. Via anche Laura Marmorale, assessore alle politiche dell’immigrazione da appena un anno. Padre Alex Zanotelli, punto di riferimento dei movimenti arcobaleno, ha inviato a De Magistris un audio dicendo “non mi aspettavo da te l’epurazione di Marmorale”. Lo ha rivelato De Magistris, piccato: “Un missionario prima di parlare dovrebbe pensare bene a ciò che dice”.

La nomina politicamente più interessante è quella di Menna, che assume le pari opportunità e la salute. Segue la ciambella di salvataggio lanciata da Fico a De Magistris, prova forse di un costruendo asse in vista delle Regionali, alla notizia della mozione di sfiducia: “Chi è eletto deve governare 5 anni, poi saranno i cittadini a giudicare”. Fico e Menna due anni fa sedevano affianco in conferenza stampa per invocare a nome del M5s la sfiducia contro De Magistris. Il video circola ancora.

Bologna: seimila “sardine” per rispondere a Salvini

L’ultima volta che il leader leghista tenne un comizio a Bologna era il lontano 2015. Scelse piazza Maggiore, dichiarando entusiasta che “centomila persone perbene” erano arrivate apposta per sostenerlo. Per il Crescentone un numero impossibile, pari a 23 persone per metro quadro. Domani l’ex ministro sarà al Paladozza con Lucia Borgonzoni, candidata alle prossime elezioni in Emilia-Romagna. L’arena scelta può ospitare meno di 6.000 persone, su questo nessun dubbio.

Di qua l’idea di quattro trentenni laureati a Bologna: una “guerra” di numeri per dimostrare a Salvini quanto davvero possa essere pieno il Crescentone di piazza Maggiore. Andrea Garreffa, Roberto Morotti, Mattia Santori, Giulia Trappoloni hanno lanciato sul web un fish-mob contro l’appuntamento leghista: travestiti da sardine occuperanno piazza Maggiore al grido di “la bellezza ci salverà”. La prima rivoluzione ittica mai vista. Muti come pesci, nessuna bandiera o coro, banditi gli insulti. “Matteo Salvini è un po’ come Don Rodrigo dei Promessi Sposi, parla alla pancia delle persone, noi volevamo parlare alla testa e al cuore. Ha tutti i diritti di fare il suo comizio, ma noi non lo ascolteremo, saremo altrove a parlare un altro linguaggio, quella della creatività e del coinvolgimento, basta con le palle, a Bologna non ci crediamo”.

Garreffa è guida turistica, Morotti ingegnere, Santori educatore e Trappoloni fa la fisioterapista. Nessuna tessera di partito in tasca o esperienza di attivismo politico, ma solo la voglia “di smontare la sua retorica e il suo linguaggio, arriva qua come se fosse il vincitore annunciato ma si sbaglia di grosso, l’ironia e la creatività sono l’unico antidoto possibile. Abbiamo misurato accuratamente il Crescentone e le persone saranno belle strette, da qui l’idea delle sardine, puntiamo a essere 6.000, di più di quelli che saranno al palasport. Stretti ma tanti. La nostra forza saranno i numeri”. Un solo slogan: Bologna non si lega.

Tra gli altri, hanno già manifestato la propria adesione Roberto Morgantini, anima delle “Cucine popolari” che offrono 2.800 pasti al mese, e Elly Schlein ex europarlamentare che recentemente ha lanciato la lista di sinistra “Coraggiosa” per le prossime regionali. “Non ci piace chi urla più forte e stravolge i dati di realtà piegandoli ai propri interessi, qua i valori importanti come l’antifascismo non sono passati” sottolineano gli organizzatori.

La risposta delle sardine, pur silente, ha un che di politico: “Meglio stringersi che perdersi”. Nonostante gli annunci trionfalistici Salvini teme il flop. Non a caso la Lega della Lombardia ha scritto a tutte le sue organizzazioni territoriali e provinciali: “Attenzione, mobilitazione massima perché il Paladozza sia stracolmo per lanciare un chiaro e decisivo segnale di imminente sfratto al governo abusivo delle poltrone, delle tasse e degli immigrati”. Un escamotage commentato anche da Romano Prodi, intervenuto a un incontro con Achille Occhetto sulla svolta della Bolognina: “Come mai tutti vengono a farsi curare in Emilia? Cosa dobbiamo fare, arrivare a dire prima gli emiliani? C’è il desiderio di tanti, stranieri e italiani, di venire in Emilia, adesso c’è anche l’importazione degli autobus da parte di Salvini”.

L’uomo che sussura ai palazzinari ora sogna l’ascesa al Campidoglio

Un fantasma si aggira fra i sette colli, quello dei palazzinari. Sognano di riconquistare il Campidoglio attraverso Roberto Morassut, l’uomo che li rese felici nel 2008 con il famoso piano regolatore che ha regolato solo gli interessi del mattone e in forza del quale, secondo le regole frattali della politica italiana, l’artefice è diventato sottosegretario all’Ambiente. Infilando in ogni frase l’aggettivo “democratico”, Morassut si segnala come ultimo epigono del funzionariato comunista romano forgiato da Goffredo Bettini. Il partito del mattone lo considera spendibile per il dopo-Raggi e la sindaca dovrebbe preoccuparsi: dopo lo choc dell’amministrazione grillina, i romani sono considerati disponibili a votare l’eterno ritorno di coloro contro i quali votarono in massa per la stessa Raggi.

Se gli elettori hanno la memoria corta, lo scarso senso dell’umorismo di Morassut provvede a rinfrescargliela. Nel ponderoso contributo democratico di lancio della sua candidatura, ospitato dal Foglio dell’immobiliarista Valter Mainetti, ha lodato gli alacri concittadini “che ogni mattina si alzano ben presto e vanno a lavorare, mettendosi in viaggio sulle consolari”. Chi non vive a Roma non può apprezzare a pieno l’autogol dell’ex assessore all’Urbanistica. I romani sulle consolari non si mettono in viaggio ma in coda, invocando diuturnamente “li mortacci de tutti l’assessori” perché vivono nei quartieri periferici benedetti dal piano regolatore di Morassut (Tor di Nona, Bufalotta eccetera) ma ai quali i sindaci Francesco Rutelli e Walter Veltroni (altre due invenzioni di Bettini) si dimenticarono di assicurare trasporti pubblici decenti.

Morassut si sente un grande futuro alle spalle. Il suo rimedio al fallimento di Raggi è “non più un centrosinistra, espressione geometrica lineare priva di vero significato, ma un soggetto tridimensionale o circolare, un riformismo civico che metta insieme il basso e l’alto”. Non avete capito? Riproviamo. Egli propugna “uno schieramento elettorale molto aperto e simbolicamente nuovo in cui le attuali rappresentanze migliori e di buona volontà dei soggetti costituiti sappiano mescolarsi e aprirsi per dar vita a un nuovo, articolato schieramento civico e riformista”. Adesso è più chiaro: “l’alto”, i “soggetti costituiti” sono i costruttori: “Dobbiamo abolire la parola palazzinari. (…) Gli eredi delle vecchie famiglie cercano nuove strade, innovative e sostenibili, ma le istituzioni non appaiono in grado di garantire che le vecchie ricette”. Sbagliano dunque i maligni a credere che essi cerchino solo nuove strade per uscire da Regina Coeli. Al contrario, predica Morassut, sono migliori dei politici. E infatti il Messaggero del costruttore Franco Caltagirone si precipita a intervistarlo: “Sindaca lontana dalla realtà” (26 ottobre), “Io in corsa? Prima i temi” (6 novembre).

Non si sa per quale maledizione biblica a Roma la politica finisca sempre per sottomettersi ai costruttori. La scuola Bettini si è impadronita di questo cinico realismo quando i costruttori erano tutti andreottiani. A fine anni 80 Morassut arriva dalla sezione Alberone all’ufficio stampa della federazione romana del Pci. Il suo vice è Maurizio Venafro, poi capo della segreteria di Rutelli sindaco e infine capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla Regione Lazio dove viene disarcionato da un’inchiesta per turbativa d’asta per finire alla Link University di Enzo Scotti. Assolto in primo grado, è stato condannato in appello a un anno per aver favorito Salvatore Buzzi nella gara per il centro unico di prenotazione sanitario.

In quel Pci di fine anni 80 il tesoriere è Mario Schina. Anche lui primeggia in Mafia Capitale come braccio destro di Luca Odevaine, in passato stretto collaboratore di Zingaretti alla provincia di Roma e di Veltroni in Campidoglio. Schina è a libro paga di Buzzi e per questo sconta in carcere una condanna definitiva a 4 anni per corruzione. Nel Pci romano dove cresce Morassut c’è anche Michele Civita, poi assessore regionale con Zingaretti, oggi a processo per lo stadio della Roma con il costruttore Luca Parnasi.

Morassut è l’uomo che sussurra ai mattoni. Rutelli lo piazza nel comitato per le Olimpiadi di Roma 2004 e lui subito appoggia il villaggio olimpico a Tor Vergata, zona cara a Caltagirone. Nel ‘97 diventa segretario del Pds romano, ma nel 2000 viene eliminato da un’imboscata dalemiana e va al suo posto il bettiniano ma non troppo veltroniano Zingaretti. Morassut viene ricompensato con l’assessorato all’Urbanistica nella giunta Veltroni (2001-2008), dove battezza per le Olimpiadi di Roma 2016 certi terreni tra la Magliana e Muratella, anch’essi cari a Caltagirone.

Ci sono i politici che guardano le donne e quelli che guardano le aree fabbricabili. Morassut dirige l’orchestra del piano regolatore, la cui parte marcia fu subito denunciata da suoi compagni di indiscusso prestigio come l’ex vicesindaco Walter Tocci e il grande urbanista Vezio De Lucia, e raccontata al grande pubblico da Paolo Mondani in una puntata di Report del maggio 2008 resa memorabile dal genio dell’ex assessore: querelò facendo l’offeso, provocando una sentenza che non solo assolve il giornalista ma quasi lo critica per averla toccata troppo piano.

La corsa di Morassut verso il Campidoglio è la rivincita dell’album di famiglia. Il selfie perfetto del bettinismo-rutellismo-veltronismo è scattato alla festa del 60esimo compleanno di Bettini, sette anni fa. Siedono a tavola festosi, nei posti d’onore, Caltagirone, Veltroni, Rutelli e Gianni Letta, con Andrea Mondello (Birra Peroni). Il costruttore Claudio Toti (Lamaro) siede accanto a Zingaretti e di fronte a Marco Follini, e poi Giovanna Melandri e l’ex presidente della provincia Enrico Gasbarra – che ha lasciato in eredità all’obbediente Zingaretti il brutto affare del nuovo palazzo della Provincia, pagato a Parnasi come se fosse oro facendo imbestialire Caltagirone. Una catena di affetti che Morassut vuole riproporci tutta intera.

Incendio in acciaieria: “Caldaia forata”

“Fiamme altissime” che hanno quasi raggiunto i tubi del gas all’interno della ‘Acciaieria 2’: oltre il caos gestionale, a Taranto ci si mettono anche gli incidenti negli stabilimenti dell’ex Ilva e la mancanza di sicurezza a complicare una situazione già drammatica.

La descrizione di quanto accaduto è di Fim, Fiom e Uilm secondo cui le fiamme improvvise sono state determinate da una colata di acciaio fuoriuscita da una caldaia (‘siviera’) bucata. A evitare conseguenze peggiori è stato l’intervento dei vigili del fuoco. “Oltre al grave episodio – rilevano i sindacati – nell’intervento emerge una mancanza inaudita, la completa assenza della distribuzione d’acqua della linea d’emergenza che doveva essere utile al reintegro delle cisterne e di supporto a tutta l’acciaieria in caso di incendio”. Le Rsu di Fim, Fiom e Uilm ritengono “intollerabile l’intero accaduto a dimostrazione che l’Acciaieria 2 e tutti gli altri impianti necessitano di interventi immediati, e di una seria manutenzione ordinaria e straordinaria sino ad oggi solo annunciata senza nessun effettivo intervento”.

Oltre agli incidenti improvvisi, secondo l’Usb i rischi per gli operai riguardano anche il piano di calpestio del nastro che trasporta i minerali, tra le sostanze più temute da chi abita a ridosso della fabbrica.

“L’accumulo di minerali sul piano di calpestio sotto il tamburo di rinvio del nastro trasportatore ‘MP/2’ dell’area parchi minerali – denuncia l’Unione sindacale di base – sovraccarica la struttura con la possibilità di determinare un cedimento”. Così come sarebbe avvenuto nei giorni scorsi, secondo il sindacato, nell’area ‘AGL/2’ dove sarebbe crollato un piano di calpestio.

L’Usb ha proclamato lo sciopero generale per venerdì 29 novembre, con una manifestazione nazionale a Taranto. “Si vuole costringere una città a piangere altri morti e a continuare a sopportare i fumi e le polveri omicide dell’ex Ilva – afferma il sindacato – pur di salvaguardare l’occupazione, e nemmeno tutta”.

La Fiom Cgil di Taranto, invece, ha chiesto un incontro urgente all’amministratore delegato di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli, sugli “attuali e futuri assetti produttivi” e in particolare sull’annunciato progressivo stop degli impianti.

Mittal vuol spegnere l’Altoforno. Svuotati i parchi dei minerali

Lo scontro in seno al governo sullo scudo penale rischia di essere risolto troppo tardi per il futuro dell’Ilva. Arcelor Mittal non risponde alle offerte dell’esecutivo e non dà conferme per eventuali incontri. Ma più passano i giorni, più dall’Ilva di Taranto arrivano notizie allarmanti sulle azioni messe in campo dal colosso.

L’ultima e più grave la denuncia la Fiom. L’azienda – che al momento è solo affittuaria degli impianti – avrebbe fatto comunicare a voce ai lavoratori dell’Altoforno 2 un cronoprogramma per lo spegnimento. Niente di scritto, ma ordini impartiti da dirigenti e capi reparto agli addetti: il 20 è prevista la fermata; il 24 l’abbassamento di carica e il 25 il colaggio della salamandra (la ghisa che si deposita nella parte bassa dell’altoforno e non viene mai fatta fuoriuscire). “Gli ordini vengono comunicati telefonicamente, giorno per giorno, con le decisioni su quali reparti chiudere senza passare dai sindacati”, denuncia Francesco Brigati, Rsu della Fiom. Lo spegnimento dell’altoforno avrebbe conseguenze drammatiche, visto che riavviarlo richiede tempi lunghi e costi elevati.

È la conseguenza dello stop all’approvvigionamento di materiali. Ieri la Fiom ha fatto un sopralluogo ai parchi deposito (sia minerari che carbone) trovandoli svuotati (come mostrano le immagini). Le navi non scaricano più le materie prime. Mittal ha bloccato lo scarico al molo polisettoriale di Taranto e ha fermato i camion provenienti da Brindisi. Si procede dando fondo ai depositi per tenere gli impianti al minimo verso la fermata. Una delle due linee di agglomerazione (che prepara i materiali per la colata) è ferma, e in meno di una settimana il siderurgico rischia di fermarsi del tutto.

Contattata dal Fatto, Mittal si trincera dietro un no comment. I danni di una mossa del genere sarebbero enormi. Chiunque subentrasse alla multinazionale si troverebbe impossibilitato a continuare la produzione, visto che per caricare i materiali sufficienti serve almeno un mese e mezzo (nel parchi – spiegano fonti vicine al dossier – ce n’era per centinaia di milioni) e gli altiforni non devono essere spenti. La Fiom ha chiesto all’ad di Arcelor Mittal Lucia Morselli e ai commissari di governo un incontro urgente con un documento allarmante: “A seguito di alcune comunicazioni aziendali di fermo impianti serve un chiaro programma rispetto agli attuali e futuri assetti produttivi. Riteniamo inaccettabili – si legge – che l’azienda, di fronte a una situazione emergenziale, stia operando in assoluto silenzio senza incontrare le organizzazioni sindacali. Come prevede il contratto di affitto all’articolo 13 la conduzione dei rami d’azienda deve obbligatoriamente garantire l’efficienza degli impianti”. Insomma, Mittal deve gestire il siderurgico senza causare danni irreparabili né mettere in condizioni capestro chi dovesse subentrare. “Il governo intervenga subito”, avvisa Brigati.

L’accusa a Mittal di star compromettendo gli impianti comportandosi come se ne fosse proprietario sarà parte rilevante del ricorso d’urgenza (ex articolo 700) che i commissari depositeranno domani al Tribunale di Milano contro il recesso del contratto chiesto dal colosso, che ieri ha depositato la citazione al tribunale meneghino. La gestione commissariale si riserva qualunque azione, anche sul fronte penale, per evitare danni al siderurgico. Potrebbe arrivare una diffida e anche richieste di misure cautelari, anche tenendo conto che si tratta di impianti sequestrati.

Oggi i commissari depositeranno i documenti per dimostrare di aver ottemperato entro i termini a buona parte delle prescrizioni chieste dal Tribunale di Taranto per evitare lo spegnimento dell’Afo2. Per l’ultima (l’automazione del piano di colata), verrà chiesta una proroga oltre il 13 dicembre. Impostazione condivisa con il custode giudiziario. Rischia di essere tutto inutile.

Sullo scudo non c’è accordo. E Di Maio minaccia i grillini

La giornata è iniziata a Palazzo Chigi e finita a Palazzo Madama contro lo stesso muro. E chissà se è “il muro che vien detto futuro” su cui si interrogava Giorgio Caproni. Per ora, e fuor di metafora, è il muro della maggioranza degli eletti pugliesi dei 5 Stelle che non vogliono votare nessuna forma di “esimente penale” per chi gestisce l’Ilva: il plotone, necessario in Senato a tenere in piedi la maggioranza, rifiuta e segue finora la pasionaria di questa battaglia, l’ex ministra Barbara Lezzi, che pure nel Consiglio dei ministri del 6 agosto votò “salvo intese” il decreto Imprese che reintroduceva lo scudo, previsione poi cancellata da un emendamento della stessa Lezzi.

La giornata, dicevamo. Era iniziata con alcuni dei parlamentari del Movimento eletti in Puglia – 39 in tutto al netto degli espulsi, di cui 13 in Senato – che varcano il portone di Palazzo Chigi. Vanno a incontrare Giuseppe Conte, depositario unico della trattativa sul gruppo dell’acciaio col gigante in fuga ArcelorMittal, il cui principale motivo di lagnanza (almeno a livello formale) è proprio la cancellazione del cosiddetto “scudo penale”: se sarà trovato un accordo, una qualche forma di immunità penale ne farà sicuramente parte, ha spiegato paziente il presidente del Consiglio, e comunque, anche se la multinazionale alla fine se ne andrà, la rivendicherà chiunque sia incaricato di gestire Ilva. Attorno a lui annuivano il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli, quello dei Rapporti col Parlamento Federico D’Incà e pure Luigi Di Maio, che ha ricordato a tutti che “il Parlamento è sovrano e decide assumendosi le sue responsabilità”. In sostanza, se volete votare contro bene, ma poi andiamo tutti a casa…

L’idea dell’esecutivo, com’è noto, è fare una norma che – appoggiandosi all’articolo 51 del codice penale (non è punibile chi stia adempiendo a un obbligo di legge, come nel nostro caso è il Piano ambientale) – si applichi a tutte le aziende strategiche. La pacata perorazione del premier, però, non ha convinto il gruppo dei ribelli: nessuna esimente penale, di nessun genere, nemmeno mascherata da norma erga omnes. La tesi è che lo scudo non serve: se uno gestisce l’azienda correttamente non sarà indagato per responsabilità pre-esistenti. Una tesi smentita dalla stessa Procura di Taranto nel documento inviato al Parlamento proprio sul decreto Imprese: i pm ritenevano che lo scudo proposto da Di Maio ampliasse eccessivamente la nozione di “rischio accettabile” per la popolazione nel momento in cui l’azienda continuava – come da 7 anni – a produrre in modo sostanzialmente illecito. Come che sia, la discussione a Palazzo Chigi, racconta chi era presente, è stata aspra e si è finiti al solito muro (contro muro), anche se nel pomeriggio una nota dei capigruppo grillini parlava di “dialettica costruttiva” e di una riunione in cui “nessuno ha posto aut aut, né si è arrivati ai ferri corti”.

La cosa non deve essere stata così piacevole se l’Ilva è stata poi il piatto principale, nel tardo pomeriggio, delle assemblee dei gruppi 5 Stelle. Mentre sono tutti riuniti il capo politico, che partecipa a quella della Camera, manda una nota alle agenzie: faremo “rispettare a Mittal gli impegni presi” e, soprattutto, “da parte del M5S c’è tutto il sostegno all’azione collegiale del governo: in questi casi serve lucidità e grande senso di responsabilità”. Una speranza, più che altro.

I grillini del Senato invece, già che sono lì, gli assestano uno schiaffone. Il “capo” aveva chiesto un documento con la posizione dei gruppi da portare al vertice di maggioranza sull’Ilva che potrebbe tenersi oggi: la posizione c’è, ma il gruppo di Palazzo Madama ha dato mandato di rappresentare la sua posizione al ministro Patuanelli, non a Di Maio.

I contenuti sono quel che sono: 1) sullo scudo resta il no, almeno finché non ci saranno novità; 2) decarbonizzazione dell’acciaieria; 3) accelerazione del piano ambientale; 4) questa vicenda non è determinante per il futuro della maggioranza. Certo questo non possono deciderlo da soli, ma il punto era dare un altro schiaffone al capo in difficoltà. È tardi, Di Maio prende atto a Montecitorio. Formalmente si parla di Ilva, in realtà si prendono le misure a quel muro che vien detto futuro.

Vitiello ci riprova: “Sono garantista al 100% Matteo è straordinario, di un’altra statura”

“Non mi aiuta l’allitterazione”.

Catello Vitiello.

Nome e cognome suonano male. Preferirei Lello.

Lello Vitiello, oggi con Italia Viva, garantista fino al midollo, era un deputato di Dieci volte meglio.

Esatto.

E che partito è?

Tecnicamente non glielo saprei dire. Ho trovato quel simbolo sfogliando tutte le sigle presenti nella competizione elettorale. Cercavo una casa in Parlamento. Anche modesta, ma qualcosa che non mi facesse sentire solo. Stare nel gruppo misto senza un’identità è faticoso.

Catello Vitiello.

Meglio Lello. E diamoci pure del tu.

Avvocato penalista del foro napoletano. Ultragarantista.

Il mio faro è l’articolo 27 della Costituzione. Secondo e pure terzo comma.

Lontano dalla politica.

Ho quasi vergogna a dirlo, ma non me ne fregava nulla. Dal 2001 non votavo più. Nessuna passione.

Di politica sapeva niente.

Zero spaccato.

Luigi Di Maio però la avviluppò malgrado la sua totale ignoranza.

Mi arriva l’offerta di candidarmi. Amici mi riferiscono che il leader del Movimento cerca qualcuno.

Di Maio giustizialista voleva il garantista.

Mi sono fatto l’idea che cercasse un fiore diverso. Altrimenti perché cercare un avvocato per di più penalista? Nessuna delle cinque stelle è dedicata al giustizialismo.

Lello Catiello candidato alle Politiche del 2017.

Durò pochissimo. Un anonimo riferì che ero massone in sonno.

Non solo garantista, ma anche massone!

È un reato?

Ma i 5 Stelle non possono proprio.

E allora perché la loro piattaforma è intestata a Rousseau, il teorico della massoneria moderna?

Che fa, provoca?

Mi ritrovo fuori dal movimento prima ancora di essere eletto. Caparbiamente decido di proseguire la campagna elettorale.

Vitiello ha combattuto casa per casa.

Chiamo tutti i miei amici.

Il suo papà è un democristiano di antico lignaggio a Castellammare, il collegio dove è candidato.

Riesco a farcela.

Incredibile!

In Parlamento mi occupo dei reati dei colletti bianchi. Difendendoli da avvocato, so tutto ciò che si deve sapere.

E al tempo della Lega al governo sottoscrive un emendamento che alleggerisce il peculato.

Ma lo faccio sussumere dall’abuso d’ufficio!

Garantista.

Al cento per cento.

Pignolo di suo.

Approfondisco sempre.

Lo nota Matteo Renzi.

Mi fa chiamare.

Lei è il rappresentante di Dieci volte meglio.

Ero troppo isolato. Io da solo che potevo fare?

Incontra Renzi.

E mi si apre un mondo.

E lo credo bene.

Lui è di un’altra statura. Ha una visione, un orizzonte.

Sa guardare avanti.

Mi affascina subito.

E Renzi trova in Vitiello una roccia progressista.

Passate e larvate simpatie di centrodestra a onor del vero.

È il rappresentante della destra dialogante.

Liberale.

Dieci volte meglio.

Più che un partito era un espediente per la mia visibilità.

Oggi Vitiello è di nuovo sugli scudi per aver tentato di evitare il carcere a coloro che non pagano l’Iva.

Una cosa sono le fatture false e una cosa l’Iva.

E come è finito?

Hanno ritirato l’emendamento. Ora ho un gruppo e si sceglie: questo sì questo no.

Giusto.

Colleghi valentissimi.

Ma non la batte nessuno.

Sono deputato da commissione. In aula mi perdo un po’.

Niente impresentabili. I paletti di Conte per i “Responsabili”

“Mara deve avere il coraggio di cominciare da oggi a fare la nuova Prodi, a federare il centro di FI e il Pd”. L’unico che sembra avere le idee chiare, in quel miscuglio di spinte e di controspinte che si definisce “centro”, è Gianfranco Rotondi, un passato nella Dc, oggi vicepresidente di Forza Italia, pronto sia a ricostituire una Federazione politica ispirata allo scudo crociato, sia a partire per un progetto che dovrebbe rivoluzionare il panorama politico italiano. Tutto si basa, dunque, su Mara Carfagna, che dovrebbe diventare la prima candidata premier donna, surclassare tutti gli uomini (e le altre donne) che aspirano a intestarsi quello spazio (a partire da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi), ed essere l’anti-sovranista di punta.

In questa fase di fibrillazioni continue e imprevedibili del governo, le manovre si moltiplicano, perlopiù in contraddizione tra loro. Il personaggio chiave, però, è proprio Mara. Nella versione Rotondi, dovrebbe mettere insieme un gruppo (per ora in gran parte silente) di 40 deputati e 30 senatori, da utilizzare da subito per andare in sostegno al governo su qualche provvedimento, ma da intendere come zoccolo duro per una nuova forza politica, che dovrebbe strutturarsi a partire dai territori, in previsione di elezioni a primavera. Nonostante l’anatema lanciato anche ieri sera da Berlusconi: “Chi va via da Forza Italia è un coglione”. In questo schema, Italia Viva avrebbe una funzione non da protagonista, ma da comprimaria. E l’obiettivo non sarebbe quello di fornire un “aiutino” al governo, da responsabili, ma di stare all’opposizione.

Dal canto suo, la Carfagna sta lavorando a un’operazione intermedia: con 10 deputati (tra cui Renata Polverini, Occhiuto, Cannizzaro, Russo, Pintangelo, Cascelli) e 12 senatori (si fanno i nomi di Mallegni, Del Mas, Cangini, Causin) ragiona su gruppi autonomi, sempre però per stare all’opposizione. L’operazione da molti è data come imminente: c’è chi se l’aspettava già tra ieri e oggi. Ma la vice presidente della Camera (complice una cena di Stato al Quirinale, ieri sera, con il presidente portoghese, Marcelo Rebelo de Sousa) sta prendendo ancora tempo. E sta facendo sondaggi a 360 gradi. Anche perché molti dei parlamentari da lei attenzionati sono gli stessi su cui lavora Renzi (il quale non si stanca di contattarli e ricontattarli). Per esempio, Polverini è una che ancora guarda a Iv, una che ancora sarebbe disponibile a sostenere il governo.

Nel frattempo, Giuseppe Conte, stanco dei continui attacchi di Renzi, ma pure della guerra sotto traccia che gli fa Luigi Di Maio, potrebbe persino considerare la formazione di un gruppo proprio, ma sarebbe pronto ad accettare l’ingresso di un gruppo di aiuto alla sua maggioranza. Condizione numero uno: che si tratti di profili presentabili. Capire chi è pronto ad andare in suo soccorso è un po’ più complicato. Su questo si innestano le manovre dello stesso Renzi, che sta cercando di intestarsi l’operazione Responsabili.

Raccontano i fedelissimi che la manovra per staccare un gruppetto di deputati e senatori da FI sarebbe iniziata ad agosto, già prima della crisi di governo, sotto la regia del fu Rottamatore e di Andrea Marcucci. In Senato sarebbero, in prima istanza, Causin, Dal Mas, Berardi, Masini, Fantetti. Per ora non confermano. L’idea era di farli traghettare nel Misto, per poterli utilizzare a diversi scopi. Adesso, dovrebbero essere una sorta di riserva da offrire Nicola Zingaretti e solo in subordine a Conte. Perché, in questi magheggi a vari livelli, un’altra ipotesi sul tavolo è quella di sostituire il premier con uno del Pd, tipo Dario Franceschini. Tra caos creativo ed entropia distruttiva, il passo è breve.

Renzi come B.: emendamenti contro le manette agli evasori

Si fa presto a dire lotta all’evasione. Perché sulla stretta immaginata dal decreto Fiscale è partita la trincea degli emendamenti. Con i deputati di Italia Viva, la nuova creatura renziana, in prima fila per fare a pezzi il carcere per i grandi evasori voluto dal Movimento 5 Stelle e difeso dal premier Giuseppe Conte, che aveva giurato una “lotta senza quartiere” ai furboni del fisco.

In commissione Finanze alla Camera è stata presentata una gragnuola di emendamenti che mette una seria ipoteca sulle misure che adesso ballano dopo la richiesta di sopprimere o annacquare in particolare l’articolo 39 del decreto. Proprio quello che inasprisce le pene per i reati tributari e introduce la confisca dei beni di cui il condannato abbia disponibilità per un valore sproporzionato al proprio reddito. Su cui si annuncia una battaglia all’ultimo sangue: a Montecitorio, insomma, lo scontro in seno alla maggioranza è dato per certo.

Le proposte di modifica dei renziani, infatti, lasciano ben poco all’immaginazione. I due deputati Mauro Del Barba e Massimo Ungaro chiedono di cancellarlo tout court con un tratto di penna esattamente come Forza Italia: niente stretta, dunque, per i grandi evasori (quelli che sottraggono al fisco somme superiori ai 100 mila euro) che il decreto in questione vorrebbe invece punire con la reclusione fino a 8 anni, rispetto ai 6 previsti oggi, in caso di dichiarazione fraudolenta mediante l’emissione di fatture per operazioni inesistenti.

E sempre lo stesso tandem, ma con l’aggiunta dell’altro neorenziano, il deputato Catello Vitiello, massone eletto dal M5S, chiede anche di sopprimere l’innalzamento di pena previsto per il delitto di dichiarazione fraudolenta perpetrata compiendo “altri artifici”. E di spazzare via le nuove previsioni che riguardano le dichiarazioni infedeli al fisco e che innalzando la pena della reclusione – portando il minimo da 1 a 2 anni e il massimo da 3 a 5 anni – determinano, nei casi più gravi, l’applicazione della custodia cautelare in carcere.

Stesso discorso vale per l’omessa dichiarazione: anche qui la richiesta è quella di sopprimere le previsioni messe a punto dal governo che vorrebbe portare la reclusione, nel minimo da 1 a 2 anni e nel massimo da 2 a 6 anni, e la possibilità di utilizzare le intercettazioni nelle indagini che riguardano questi delitti.

Nel mirino di Iv anche le nuove norme abbozzate nel decreto che inaspriscono le pene previste dalla normativa precedente sull’occultamento o la distruzione di documenti contabili, l’omesso versamento di ritenute dovute o certificate e l’omesso versamento di Iva. Insomma, fosse per loro tabula rasa, o quasi, rispetto a quanto messo per iscritto dal governo. E pure sulla confisca allargata ai grandi evasori, i loro emendamenti non promettono niente di buono. Nata per contrastare la criminalità organizzata, la confisca allargata consente di aggredire la ricchezza non giustificata ritenuta frutto della sua accumulazione illecita.

Il decreto fiscale la estende anche ad alcuni delitti in materia di imposte sui redditi e Iva con la possibilità di sequestrare denaro (ma anche beni o altre utilità) a chi non sia in grado di giustificarne la provenienza legittima. O comunque a chi abbia, anche tramite società, disponibilità “in valore sproporzionato” rispetto al reddito.

Insomma una misura draconiana che però non pare convincere i renziani. Che infatti chiedono o di cancellarla del tutto o, se proprio non se ne dovesse fare a meno, di escludere la possibilità che lo strumento si applichi ai casi di indebita compensazione, quella che ha a oggetto crediti non spettanti o inesistenti superiori a 100 mila euro, e ai delitti di dichiarazione infedele. Ma non è tutto: sempre i due deputati di Italia Viva Del Barba e Ungaro propongono infatti anche di sopprimere le nuove norme sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, enti di fatto o associazioni non riconosciute che prevedono la sanzione pecuniaria fino a 500 quote, per il reato di dichiarazione fraudolenta.

Secondo loro la sanzione può applicarsi solo quando si tratti di azioni od omissioni “di carattere intenzionale e siano connesse al territorio di due o più Stati membri dell’Unione e comportino un danno complessivo pari ad almeno 10 milioni di euro”. Insomma, lotta all’evasione sì, ma senza esagerare.