Il silenzio è d’oro

Si sperava che sedersi allo stesso posto di Tommaso Buscetta, che al maxiprocesso, nell’aula bunker dell’Ucciardone, svelò tutti i segreti di Cosa Nostra, gli sciogliesse la lingua. Invece l’altroieri il teste assistito Berlusconi Silvio, chiamato a deporre dai difensori di Marcello Dell’Utri al processo d’appello sulla trattativa Stato-mafia come indagato (con l’amico) di reato connesso a Firenze per le stragi del 1993 a Firenze, Milano e Roma e per i falliti attentati a Maurizio Costanzo a Roma, ai carabinieri fuori dallo stadio Olimpico della Capitale e al pentito Totuccio Contorno a Formello, s’è cucito la bocca “su indicazione dei miei legali”. Poi è tornato a Roma, sul luogo del delitto, anzi della strage – il teatro Parioli – per un’imperdibile puntata del Costanzo Show (la n. 4.445). E lì se n’è uscito con una raggelante battutona delle sue: “Ma è vero che questa puntata è la numero 4.445? Non ci sono riuscito a far smettere Costanzo. Ho anche organizzato un attentato, con una bomba. Ma niente, non ce l’ho fatta a farlo scappare…”. Chissà le risate del giornalista, scampato per miracolo all’autobomba il 14 maggio ’93 che i pm di Firenze collegano alla nascita di Forza Italia, allora contrastata da Costanzo. E figurarsi se, anziché in tv, B. l’avesse fatta nell’aula bunker dell’Ucciardone. Per questo, saggiamente, i suoi legali gli hanno suggerito il silenzio: conoscendolo, mancava solo che gli scappasse detta la verità in forma di freddura.

Cosa Nostra, ai picciotti e agli amici che parlano, di solito riserva una brutta fine. E B. l’ha già irritata abbastanza, a giudicare dagli sfoghi furibondi contro di lui del boss Giuseppe Graviano, captati in carcere qualche anno fa dalle microspie della Procura di Palermo. Non che si sia risparmiato, nei nove anni dei suoi tre governi: di leggi pro mafia ne ha fatte varie e tentate altre, per non parlare dei messaggi amichevoli inviati: continui attacchi ai pentiti, al 41-bis, al 416-bis, all’ergastolo ostativo, panegirici a Vittorio Mangano (“un eroe” perché non aveva parlato), campagne denigratorie contro magistrati, investigatori, giornalisti, scrittori, programmi tv antimafia (“Basta con questa Piovra”). Ma le attese dei mafiosi per le promesse fatte da lui o chi per lui erano ben più ambiziose dei risultati ottenuti. Meglio non farli incazzare vieppiù, non si sa mai. E poi mettetevi nei suoi panni: un conto è raccontare frottole giocando in casa, nei propri studi tv davanti ai propri impiegati. Un altro è raccontarle ai giudici togati e popolari di una Corte di assise d’appello, ai Pg e agli avvocati. Quelli dei boss e dei carabinieri che condussero la Trattativa.

E quelli dell’amico Marcello, condannato a 7 anni definitivi per concorso esterno e ad altri 12 in primo grado per “violenza o minaccia a corpo politico”. Cioè al primo governo B.. In pratica Dell’Utri, se la condanna fosse confermata anche in appello e in Cassazione, tornerebbe in galera per altri 12 anni per aver aiutato la mafia a minacciare il primo governo B. a suon di stragi. Dunque B. è vittima della joint venture Dell’Utri-Cosa Nostra, anche se non s’è mai costituito parte civile, né mai lo farà: altrimenti Dell’Utri potrebbe incazzarsi ancor più di quanto già non lo sia dopo la scena muta. I suoi legali hanno anche tentato di far proiettare in aula un’intervista dell’amico Silvio sulla sentenza Trattativa: quella in cui B. assicura che “non abbiamo ricevuto nel ’94 né successivamente nessuna minaccia dalla mafia o dai suoi rappresentanti”. Ma i giudici si sono accontentati della trascrizione, per quel che vale la parola di un bugiardo matricolato, anzi abituale. Nei processi, purtroppo, funziona così: se un teste racconta balle, si assume tutti i rischi penali del caso, ma soprattutto magistrati e avvocati possono fargli contro-domande per sbugiardarlo. E, fra domande e contro-domande, a B. non sarebbe bastato un mese di udienze.

Chi era per lui Mangano: uno stalliere o un mafioso? No, perché negli anni 70 e 80, ogni volta che subiva un attentato, B. lo attribuiva a Mangano, mostrando di sapere benissimo chi fosse. E allora perché s’è tenuto accanto per 45 anni Dell’Utri, prima in azienda e poi in Parlamento, visto che era stato proprio lui a raccomandargli e a mettergli in casa fra il 1974 e il ’76 quel bocciolo di rosa? Perché, ogni volta che sospettava di un delitto di Mangano, non lo denunciava ai carabinieri? Perché dal 1974 al 1994 (quand’era già premier) – come si legge nella sentenza Trattativa (ma anche, fino al ’92, in quella definitiva della Cassazione su Dell’Utri) – pagò semestralmente fior di milioni a Cosa Nostra, sempre tramite Marcello? Perché nel ’94 il suo primo decreto, firmato dal ministro Biondi e passato alla storia come “Salvaladri”, conteneva una norma che aboliva l’arresto obbligatorio per i mafiosi e una che obbligava i pm a svelare agli avvocati dei mafiosi se i loro clienti erano indagati? Chi le infilò in quel decreto? Fu per caso Dell’Utri a suggerirle, visto che – in base alle sue agende e alla sentenza Trattativa – fra il ’93 e il ’94 incontrò spesso il vecchio Mangano (nel frattempo condannato per mafia e droga al maxiprocesso) fra Milano e Como? Ecco: provate voi a rispondere a domande del genere e a continuare a fare politica: potrebbe essere impossibile persino in Italia. Meglio tacere e sperare in bene. Nel 2002 i pm del processo per mafia a Marcello andarono a Palazzo Chigi per interrogare B. che, già allora, si avvalse della facoltà di non rispondere. E Dell’Utri si beccò 7 anni di galera. Ora, onde evitare di tornarci per altri 12, gli ha chiesto lui di testimoniare: altra scena muta. Manca solo che si incazzi Dell’Utri e parli, o faccia parlare qualche compare. Non l’augureremmo neppure al nostro peggior nemico. Figurarsi a un amico come Silvio.

Tosca e la sua giostra intorno al mondo

Per conoscere l’incanto e la sofferenza del mondo devi partire. Non sai mai chi tornerà, ma avrà la tua faccia e il tuo nome. Morabeza è un viaggio di inestimabile ricchezza, un Eden dell’integrazione: “Unisce tutti gli emigrati che sognano di rientrare a casa”, dice Tosca, che si è imbarcata in un tour globale di tre anni, lontana da ogni logica che non fosse la protezione della propria virtù artistica. E ne ha ricavato un album tra i più luminosi degli ultimi anni, un “melting pot” di anime elette che andrebbe inoculato come un vaccino ai bambini in età scolare, per immunizzarli dalle nefandezze degli ottusi alzamuri. Morabeza è termine creolo che indica qualcosa tra blues e spleen, con un’ombra in più di nostalgia e dolcezza. Non c’è mai solitudine o disperazione, nelle dodici canzoni del progetto: dove si celebra la cerimonia dell’incontro e del dialogo tra lingue e culture.

Con il sostegno del produttore-arrangiatore Joe Barbieri, di musicisti virtuosi come Giovanna Famulari e Massimo De Lorenzi e la troupe di Emanuela Giordano (che dall’avventura ha tratto il documentario Il suono della voce) Tosca vaga tra Parigi e il Brasile, Capo Verde e il Portogallo, la Tunisia e Roma, circondandosi di amici dal cuore aperto. Ecco Luisa Sobral, co-interprete dell’inedita Un giorno in più e autrice di Per ogni oggi che verrà, struggente versione italiana del brano con cui il fratello Salvador vinse l’Eurofestival; ecco l’altra voce di usignolo di Awa Ly nella sublime Sérénade de Paradis, rilettura francese-romanesca del capolavoro trasteverino di Romolo Balzani; ecco il vento del Nordafrica in Ahwaz al fianco di Lofti Bouchnak; e una delle perle sanremesi di Tosca, Le troisieme artificier trasformata in un valzer musette con la jazzista Cyrille Aimée. C’è naturalmente il soffio impalpabile della bossa nova in Joao, brano che Cezar Mendes ed Arnaldo Antunes avevano dedicato a Joao Gilberto. E qui e là in Morabeza fanno capolino voci o strumenti di Ivan Lins, Lenine, Gabriele Mirabassi, Nicola Stilo, Vincent Ségal. Una contaminazione di esperienze per una necessaria purificazione musicale.

Van Morrison, a 74 anni resta la solita certezza

Kanye West avrebbe dovuto ascoltare più spesso il flow blues di Van Morrison prima di incidere Jesus Is King. Nessuno come l’artista di Belfast sa condensare in musica il sacro, senza mai essere didascalico o supponente. Il prolifico compositore irlandese – sei album in quattro anni, quarantuno in tutto – si ripresenta alle scene con il nuovo lavoro Three Chords And The Truth, ispirato a una frase di Harlan Howard sulla musica country. Una lunga carriera nel solco di una coerenza invidiabile, sempre alla ricerca della scintilla magica da far brillare in un folk blues per nulla maudit. Morrison non predica, avvolge; le sue ballate – al pari di quelle di Dylan – sono intrise di vita, di rabbia, di dolore, di gioia, di speranza. Nei testi non c’è la soluzione del problema ma la radice di un dubbio o l’esempio tratto da un racconto, senza mai forzare la mano. A 74 anni la sua voce è notevolmente più marcata, più densa e matura, una evoluzione capitata recentemente anche a Springsteen. Nell’era di internet e della musica digitale l’urgenza di esprimersi ha giovato all’artista, con una sequenza di uscite superiori addirittura all’instancabile Neil Young: e parliamo di inediti o di cover e non di live pubblicati come prodotti di fabbrica. Tutte le canzoni sono scritte da The Man esclusa If We Wait For Mountains con l’ausilio di Don Black. Nell’album collabora con Jay Berliner – chitarrista storico di Astral Weeks, il suo capolavoro – e in Fame Will Eat The Soul duetta con Bill Medley (The Righteous Brothers), quasi una sorta di anatema contro lo stereotipo del music business. Dai tempi di Oh Happy Day (Edwin Hawkins) il gospel è entrato prepotentemente nel pop e nel rock: Morrison l’ha integrato perfettamente nel suo sound, a volte creando atmosfere reggae (In Search Of Grace) o sfiorando i fasti del pop perfetto di Pet Sound (Read Between The Line). Il suo tocco è leggero, i testi sono whispers, soffi: come solo i grandi sanno fare – Johnny Cash, Robbie Robertson – le sue parole di fede sono semplici e si adattano a una bevuta da pub piuttosto che a un sermone in chiesa. Del misticismo di George Harrison – tra My Sweet Lord e i brani dedicati a Paramahansa Yogananda (Dear One) – non c’è traccia; c’è il racconto della quotidianità, del detto e non detto, del racconto sublimato. L’episodio più giocoso è Early Days, l’inno alla giovinezza della sua generazione, quasi un omaggio al rock di Elvis di Suspicious Mind. Malinconia e riflessione prendono il sopravvento nella ballad Days Gone By e nella struggente Does Love Conquer All?. “La cosa che amo di questo genere è che non devi esaminarlo, solo suonarlo” ha detto in una recente intervista, rincarando la dose con questa frase “Per me è come immergermi in un flusso”. Dai tempi di Astral Weeks The Man ha finalmente chiuso un ciclo tornando alla partenza del percorso, con una vitalità davvero rara.

Fellini, De Sica e la parte mancata del “frocio”

Da ragazzo Federico Fellini credeva di “somigliare un po’ a Harold Lloyd, mi mettevo gli occhiali di mio padre, per assomigliargli di più, gli toglievo le lenti”. Del resto, prediligeva i comici, che considerava “dei benefattori dell’umanità. Regalare spensieratezza, divertimento, buon umore, far ridere, che mestiere meraviglioso: avrei voluto nascere con un destino così simpatico”. Ne discendeva che “Stan Laurel, Keaton, Oliver Hardy, Chaplin erano i miei idoli. Macché Greta Garbo, Gary Cooper, Clark Gable”.

Parole in libertà, confessioni ardite e riflessioni meditate: Fellini si lascia andare, e sintomaticamente quando questo lungo monologo – incalzato e contrappuntato dal critico Giovanni Grazzini – viene pubblicato per la prima volta è il 1983 e sta uscendo E la nave va. Il maestro non guarda solo Oltreoceano, ci mancherebbe. Roberto non l’ha ancora incontrato, La voce della luna arriverà solo nel 1990, ma ha già le idee chiare: “Benigni è un personaggetto”. No, non come quelli avversati dal Vincenzo De Luca di Maurizio Crozza, bensì “stimolante, lo Stenterello toscano, arguto e irriverente, un Pierrottino scanzonato, lunare e terrestre”. Con un occhio alla luna, Federicone – copyright Olmi, di converso ribattezzato “Ermannino” – soppesava “gli attori comici della nuova generazione” e individuava in Benigni “il più originale, il più dotato”.

La grande bellezza del memoir Sul cinema, rieditato dal Saggiatore (in libreria da giovedì), è che erano tutti, protagonisti e comprimari, grandi, e così la nostra nostalgia di quel mondo antico senza essere piccolo, di vite che erano da film anche quando i film non si realizzavano, di aneddoti rubati al copione e viceversa.

È il caso del rendez-vous tra Federico e Vittorio De Sica. Il primo viene dal “disastro commerciale” dello Sceicco bianco, il secondo farebbe da abbrivio ai Vitelloni: non per volontà del regista, ma del produttore Lorenzo Pegoraro, che “Sordi fa scappar la gente. Leopoldo Trieste non è nessuno! Mi venga incontro almeno in questo: prenda De Sica per quella parte! Lo convinca, vada lei a parlarci, non mi rovini!”. I punti esclamativi si sprecano, i singhiozzi pure, “così, una notte d’inverno, andai a cercare De Sica, che stava girando Stazione Termini”, poi approdato in sala il 2 aprile del 1953.

Tre Oscar per il miglior film straniero, Le notti di Cabiria (1958), 8 ½ (1964) e Amarcord (1975), e uno onorario nel 1993, Fellini ricevette anche ben otto nomination per le sue sceneggiature, e qui si capisce perché: “L’appuntamento era per dopo la mezzanotte, in un vagone di prima classe, situato su un binario morto, lontanissimo dalle banchine; bisognava camminare faticosamente sui sassi bagnati, le rotaie umide di nebbia, con il terrore che ogni lucetta nel buio potesse essere un treno in arrivo”. E ancora, “De Sica, come Totò, riusciva a mantenere, anche nella vita, quella sfumata, impalpabile qualità, che rende certe creature come viste nella profondità magica di uno specchio, qualcosa di fatato, di irraggiungibile. Era simpaticissimo, la simpatia come professione, come filosofia: siate simpatici, e molto vi sarà perdonato”. Federico ha una missione da compiere, al “poeta dell’Italia della guerra, delle macerie, della miseria” già obbligato a “immobilità pensose e toni di voce densi di amara consapevolezza”, recita il soggetto, anzi, il ruolo inteso per lui, quello di un grande, celebre attore drammatico “che ora la vita aveva obbligato a compromessi pesanti”, ovvero una piccola compagnia d’avanspettacolo.

Il sommo De Sica pare gradire, sicché “incoraggiato” Fellini va “avanti nel racconto fino alla scena dove il vecchio libidinoso rivela le sue intenzioni all’ingenuo vitellone commediografo”. Forse assopito, poi sorpreso, quindi perplesso, il gigante del Neorealismo chiede: “‘Tu vuoi dire che aveva altre mire, un altro scopo?’. Poi, dopo una piccola esitazione, quasi a bassa voce: ‘Frocio?’. Dissi di sì con la testa, un po’ imbarazzato”. Quella parte sarebbe poi andata ad Achille Majeroni, ma quella notte, in quella carrozza nessuno ancora lo sa, forse: “Cadde un silenzio abbastanza lungo. De Sica guardava fuori dal finestrino, non si sentiva nessun rumore. ‘Però’ disse infine guardandomi con serietà ‘umano?’. ‘Umanissimo’ mi affrettai a dichiarare”. De Sica si mordicchia le labbra, annuisce, dalla produzione stanno per chiamarlo in scena, ma non ha finito, la “sua bella voce cantata” rimbomba nel vagone: “Perché ci può essere molta umanità nei froci, più di quanto sospettiamo”.

 

Lo schiaffo di Edimburgo: via i petrolieri dal museo

Grazie alle poche righe dettate ieri dalla National Gallery of Scotland, l’11 novembre 2019 potrebbe essere ricordato come una data spartiacque nella storia dei musei. Annunciando la prossima apertura del “BP-Portrait Award” del 2019 – un concorso per il miglior ritratto dell’anno che è popolarissimo tra i giovani artisti di tutto il mondo – il museo nazionale scozzese ha comunicato che “riconosciamo che abbiamo la responsabilità di fare tutto quello che possiamo per uscire dall’emergenza climatica. Da molte persone, l’associazione di questo premio con BP-British Petroleum è considerata in contrasto con quell’obiettivo. E dunque, dopo attenta considerazione, i Trustees delle National Galleries of Scotland hanno deciso che questa sarà l’ultima volta che ospiteranno questa mostra nella forma attuale”. Parole sobrie e misurate: ma così clamorose da far subito il giro del mondo.

Si tratta di un successo importante della campagna di artisti che Angelo Molica Franco aveva raccontato su questo giornale nel luglio scorso. In una lettera diffusa allora da 78 protagonisti del mondo dell’arte inglese (tra cui Anish Kapoor e Gary Hume), si chiedeva alla National Portrait Gallery di Londra di troncare i rapporti con BP, accusata di “investire il 97% del suo capitale disponibile nello sfruttamento di combustibili fossili e il 3% in energie rinnovabili”.

Il museo londinese, che organizzava come partner l’evento scozzese, si ritrova così ora più solo nella difesa della sponsorizzazione petrolifera. La National Galleries of Scotland ha “rinunciato” al corrispettivo di 74mila sterline l’anno (il Portrait Award è alla 30º edizione). In ottobre i soldi BP erano stati già abbandonati dalla Royal Shakespeare Company, e ora i prossimi destinatari delle campagne anti-fossili saranno nientemeno che il British Museum e la Royal Opera House.

Da parte sua, BP ha ieri risposto senza troppo fair play: “Ironicamente, questa crescente polarizzazione del dibattito e la tendenza a escludere le compagnie impegnate a fare progressi concreti rappresentano esattamente ciò di cui non abbiamo bisogno”. Una dichiarazione tesa e debole: perché rivela ancor più chiaramente che ciò di cui sentono il bisogno i petrolieri è ormai molto lontano dalle attese della pubblica opinione. Perché è evidente che la “polarizzazione” – questa benedetta e fin troppo tardiva polarizzazione! – è il frutto della presa che il movimento mondiale ispirato dalla fragile e forte Greta Thunberg sta avendo sulle coscienze. Il suo grido all’Onu di due mesi fa ha detto meglio di mille saggi e ponderosi studi perché non è più possibile aspettare: “Le persone stanno soffrendo, stanno morendo. Interi ecosistemi stanno collassando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui parlate sono soldi e favole di eterna crescita economica? Come vi permettete?!”.

I riflessi italiani della coraggiosa scelta del museo scozzese possono essere su un duplice livello. Da una parte è sperabile che essa agisca in senso letterale: e cioè che ai colossi petroliferi (a partire dalla nostra Eni) sia interdetta la possibilità del greenwashing (cioè della “ripulitura ambientalista”) attraverso la sponsorizzazione di musei, mostre e restauri.

Si può rammentare, per esempio, il restauro della Basilica di Collemaggio all’Aquila, finanziato dall’Eni, che comportò l’intitolazione a Enrico Mattei del parco antistante.

Far comprendere l’inopportunità di una scelta del genere è un’impresa piuttosto ardua, in un Paese in cui i premi dell’Eni Award vengono consegnati direttamente dal presidente della Repubblica al Palazzo del Quirinale, nonostante che uno dei principi fondamentali della Costituzione obblighi la Repubblica a tutelare l’ambiente (così, ha stabilito con molte sentenze la Corte Costituzionale, va inteso il “paesaggio” dell’articolo 9).

E, d’altra parte, sempre Eni è il principale sponsor della benemerita Biennale della Democrazia di Torino: con una contraddizione che l’impegno di Greta e dei suoi giovanissimi seguaci rende sempre meno sopportabile.

Ma c’è anche una chiave di lettura più larga: e insieme più problematica e ancora più promettente. E questa chiave riguarda il rapporto tra i musei e il mercato: che negli ultimi anni in Italia si è così cementato da fare proprio del petrolio la chiave della più abusata metafora pronunciata da ministri e assessori ai Beni culturali. Il patrimonio culturale come “petrolio d’Italia”.

Ora, il divorzio tra patrimonio e petrolio annunciato a Edimburgo dovrebbe dar da pensare a chi continua a ritenere “moderna” la via “sviluppista” alla valorizzazione dei musei (così Il Foglio ha definito, con l’entusiastica approvazione dell’interessato, la politica di cui è alfiere Dario Franceschini e cantori pressoché tutti i giornali italiani). Se i musei e i curatori di mostre iniziassero a prendere le distanze dall’industria e dalla retorica del lusso, dai marchi di moda, e da tutti gli interessi che usano l’arte per alimentare i bisogni indotti e la suicida crescita infinita, forse sarebbe più semplice far passare l’idea che l’unico sviluppo a cui serve la cultura è il “pieno sviluppo della persona umana”.

Parabola Morales: chi troppo volle finì senza potere

Come un Trump qualsiasi, Evo Morals twitta la sua verità sul complotto, il “golpe” e i “cospiratori” incendiari. Il presidente indio-boliviano (e bolivariano) dimessosi nel fine settimana dalla carica che detiene da quasi 14 anni (dal 22 gennaio 2006) spiega attraverso i social che “i golpisti che hanno assaltato la mia casa e quella di mia sorella, che hanno incendiato varie residenze, minacciato di morte ministri e loro figli e torturato una donna sindaco, ora mentono e cercano di incolpare noi del caos e della violenza che loro hanno provocato. La Bolivia e il mondo sono testimoni del golpe” e chiede ai nemici “Mesa e Camacho (i due leader dell’opposizione, ndr)” di “assumersi la responsabilità di pacificare il Paese e garantire la stabilità politica e la convivenza del nostro popolo”.

L’ex popolarissimo Morales ha prima annunciato che la polizia stava per eseguire il mandato di arresto nei suoi confronti, per poi smentire (come ha fatto anche la polizia) la notizia. Nel fine settimana il presidentissimo pareva quasi braccato dalle forze di sicurezza – le quali avrebbero in custodia anche l’aereo di Stato – che evidentemente gli hanno tolto l’appoggio, ma Morales e il suo partito (il Mas, Movimento per il socialismo, con un’ampia maggioranza in Parlamento) restano arbitri del destino personale e di quello generale del Paese.

Dopo le accuse di brogli alle elezioni generali del 20 ottobre e le proteste sempre più generalizzate, i vertici delle forze armate hanno fatto capire a Morales che l’assunzione dell’ennesimo mandato presidenziale, non sancito dalla Costituzione, era eccessivo (come sostenuto anche dalla Chiesa e dall’Organizzazione degli Stati americani). La situazione è rapidamente precipitata e l’ex idolo delle masse si è trovato isolato al punto da dover annunciare le dimissioni, denunciando i tentativi di destabilizzazione dell’opposizione, sapendo di poter contare su leve politiche a lui favorevoli.

Dopo le dimissioni di Morales, si sono succedute quelle del vicepresidente Alvaro Garcia Linera e prima quelle dei presidenti delle Camere. Un vuoto di potere che crea una complessa impasse, poiché secondo l’articolo 170 della nuova Costituzione si hanno a disposizione 90 giorni per indire nuove elezioni: in questo lasso di tempo, la presidenza ad interim dovrebbe essere assunta, per decisione dell’Assemblea nazionale dalla vicepresidente del Senato Janine Agnes Chavez, dell’alleanza di opposizione Unidad Demócrata. Sempre la Costituzione prevede che la lettera di rinuncia di Morales debba essere accettata o respinta dal plenum del Parlamento, in una riunione che avrebbe dovuto essere convocata dal vicepresidente Garcia Linera, che però si è dimesso. La Carta prevede che nella riunione del Parlamento dovranno essere immediatamente eletti i nuovi presidenti di Senato e Camera, e poi convocate nuove elezioni.

Il Mas ha la maggioranza di due terzi alle Camere (25 dei 36 senatori e 88 dei 130 deputati): senza la presenza dei suoi parlamentari non sarebbe possibile ottenere il quorum per aprire una sessione. Tecnicamente, senza la votazione del Parlamento di accettazione o rigetto della lettera di dimissioni, Morales rimarrebbe capo dello Stato a tutti gli effetti (perciò ieri a La Paz si ipotizzava un governo d’accordo nazionale guidato da un magistrato). La procedura scontenta i tanti che in Bolivia si oppongono a Morales, ma non dispiace ai sostenitori esterni come Russia, Cina e, in Italia, ai 5Stelle.

“Poveri noi, nelle mani di politici infantili”

“Sono degli irresponsabili. L’ultima cosa di cui gli spagnoli avevano bisogno erano nuove elezioni. I politici non si rendono conto che qui si rischia la rottura sociale. Avrebbero dovuto trovare un modo per mettersi d’accordo. Bisogna farlo, è necessario. La gente comune non lo capisce”. È indignato lo scrittore ed editorialista spagnolo Antonio Muñoz Molina non solo per i risultati di domenica, quanto per il fallimento dei negoziati precedenti.

Siamo di fronte allo stesso blocco di aprile, ma qualcosa è cambiato.

Ad aprile abbiamo assistito a una importante mobilitazione dei cittadini che sono andati a votare pieni di speranza, per poi essere delusi con delle frivolezze dai partiti che non sono stati capaci di raggiungere un patto qualunque: avevamo l’esempio del Portogallo o dell’Italia. Ci sono centinaia di possibilità diverse di mettersi d’accordo. È incredibile che non ci siano riusciti. È stata la cosa più infantile del mondo.

Di chi è stata la colpa?

Ritengo che la responsabilità maggiore sia stata di chi ha portato nell’arco costituzionale un partito anti-democratico come Vox. Popolari e Ciudadanos dovevano mantenere le distanze. Credo che Ciudadanos abbia pagato un prezzo adeguato per questo: si è praticamente suicidato governando in Andalusia e a Madrid con l’estrema destra e dandole legittimità.

Quindi fa bene secondo lei Sánchez a voler trattare con tutti tranne che con Vox e con gli indipendentisti?

Credo che con questa gente non si possa parlare. Di cosa potrebbero discutere? Di espellere i migranti? O di come mettere fuori legge i partiti democratici? È anticostituzionale. Altro discorso vale per l’indipendentismo. La situazione è difficile, ma che lo si voglia o no rappresentano il 42% dei catalani. Bisogna per forza di cose parlare con loro, fare uno sforzo gigantesco. Il sistema è in pericolo, in grave pericolo.

In uno dei suoi ultimi editoriali ha criticato quei separatisti catalani che “giocano a volere tutto”.

Sì, esattamente. Alcuni pretendono tutto, senza fare nessuno sforzo di pragmatismo, in un momento come questo in cui è necessario invece per lo meno non creare più problemi di quelli che già esistono.

A proposito di questioni territoriali, un dato che è uscito dalle urne è un seggio a “Teruel existe”. Cosa ci dice?

È un indizio del fatto che visto che la politica si concentra solo su questioni frivole che non hanno niente a che vedere con i problemi esistenti, nascono movimenti di questo tipo che rivendicano l’esistenza di posti e questioni reali. In tutti questi mesi non si è parlato né di disoccupazione, né di economia o del timore di una nuova recessione. È legittimo che venga fuori chi dice: ‘ci siamo anche noi, i più poveri’.

Quanto ha influito sull’ascesa di Vox la questione catalana e quanto l’esumazione di Franco?

Ciò che ha influito di più è l’inasprimento della situazione in Catalogna, unito al fatto che i partiti di centrodestra hanno giocato agli estremisti, agevolando così l’ascesa di Vox.

I socialisti hanno ribadito che non vogliono un governo con il Pp. È vero come dice Rivera che la Spagna è tornata alla divisione tra rossi e blu?

Tutto questo è noioso. Da mesi ci ripetono ciò che non vogliono fare, ma non di dicono cosa faranno per formare un governo. Dovremmo ribellarci. Rivera parla delle sue frivolezze. Spesso in Spagna quando si dice che si è tornati a qualcosa del passato, non si sa di cosa si sta parlando. Se avesse studiato, saprebbe cosa ha voluto dire per il Paese la divisione tra rossi e azzurri.

Ora è Rivera il passato.

Se fosse stato razionale, avrebbe capito che poteva rappresentare qualcosa di importante: un ponte per una rigenerazione democratica. Gli estremisti non servivano, già c’erano.

Sánchez ci riprova senza Pp. Rivera costretto alla fuga

Sono iniziate già ieri, subito, all’indomani del voto di domenica, le telefonate del premier socialista spagnolo uscente Pedro Sánchez con i leader degli altri partiti. “Escluso Vox e gli indipendentisti”, cioè le formazioni “che non rispettano l’ordine democratico”. Eppure ancor prima di cominciare il nuovo “balleto” per trovare una maggioranza di governo o chi la voti, ad appena sei mesi da quello che aveva portato allo stallo, un dato è già più chiaro: “Il Psoe esclude una grande coalizione con i conservatori del Pp così come non ci aspettiamo un eventuale appoggio esterno o astensione per facilitare l’investitura di Sánchez” da parte del partito di Pablo Casado, ha chiarito in conferenza stampa il presidente del partito socialista, José Luis Ábalos Meco ricordando che non è mai accaduto in 22 anni di democrazia, e non avverrà certo ora.

E quindi, ahora que? Ci si chiede scimmiottando lo slogan socialista. “L’obiettivo è quello di dare un governo alla Spagna nel più breve tempo possibile”, ha assicurato Ábalos, che tradotto significa entro dicembre, in modo da poter scrivere la manovra economica entro gennaio e approvarla entro marzo.

Ma con chi? Con Podemos di Pablo Iglesias? “È possibile, siamo ben disposti a capirci e aperti ad ascoltare per riuscire a trovare un accordo”, assicurano dal Psoe reduce dai tanti “fraintendimenti estivi”. Ma 120 seggi socialisti più 35 voti di Up non bastano ad arrivare alla maggioranza di 176 scranni: per questo il Psoe – convinto di puntare “a un governo di forze progressiste” – continua a guardare a sinistra, dalle parti del Partito nazionalista basco, di Mas Pais del fuoriuscito podemista Inigo Errejon e – necessariamente, anche di Ciudadanos. La formazione arancione, infatti, si presenta ora nella veste di orfana del leader Albert Rivera che contro un possibile patto di governo con Sánchez si è giocato la testa e l’ha persa dovendo dare le dimissioni a poche ore dall’alba post-elettorale. “Come abbia fatto un partito in ascesa a lasciare per strada 47 seggi in soli 6 mesi”, se l’è domandato anche Ábalos, e non a caso. Sia come sia Rivera ha lasciato non soltanto la sedia del leader di Ciudadanos, ma anche il seggio di deputato che gli spettava in quanto uno dei 10 eletti a las Cortes. “Permettetemi di essere felice e di sentirmi libero in privato”, ha dichiarato in un ultimo guizzo di retorica populista ieri in mondovisione. L’unico rammarico è semmai è per la fine di un centro moderato in Spagna, a fronte dell’avanzata implacabile dell’ultradestra di Vox che con il leader Santiago Abascal promette di entrare in Parlamento con i deputati necessari per fare ricorso al Tribunale Costituzionale contro le “leggi liberticide e anticostituzionali”. La verità è che dopo 13 anni al fronte della formazione dei cittadini nata a Barcellona – e perdente proprio in Catalogna contro i tanto contrastati indipendentisti – nessuno pensava di trattenere Rivera, a cui molti attribuiscono la responsabilità di aver appoggiato Abascal. Dalla foto nella piazza madrilena di Colón con il leader di Vox e quello del Pp Casado, che a febbraio aprì la strada alla caduta del governo socialista, per continuare con i ‘no’ anche a un appoggio al governo socialista, per finire con la guerra al leader del Psoe in diretta tv. Il risultato è che ora i 10 seggi di Ciudadanos non bastano a Sanchez per avere la fiducia. Il dramma è che nuove elezioni a febbraio potrebbero peggiorare la situazione, oltre che stizzire Bruxelles che ha minacciato che questa instabilità mette a rischio il ruolo della Spagna in Europa. A Barcellona continua la protesta contro le condanne ai leader indipendentisti e già si vede la scalata dell’ultradestra che li vorrebbe al bando.

Impeachment, vigilia rovente: caccia alla talpa e guai per Rudy

La settimana delle prime audizioni pubbliche di fronte alla Commissione Intelligence della Camera, nell’indagine sull’impeachment di Donald Trump, si apre in un clima di litigiosità tra democratici e repubblicani, con il presidente che getta benzina sul fuoco. E c’è uno spartiacque anche tra i social: Google e Facebook si rifiutano di rivelare l’identità della talpa che con la sua denuncia ha avviato l’Ukrainegate, Twitter non la tutela. I primi testi compariranno domani; oggi saranno forse diffusi documenti inediti. “Se i democratici si rifiutano di chiamare a testimoniare alla Camera la talpa, l’indagine arriva morta al Senato”, avverte il senatore Lindsey Graham: “È impossibile che il caso vada avanti se non sappiamo chi è la talpa e se non possiamo contro-interrogarla”. Ma il capo della Commissione, Adam Schiff ha già detto che l’audizione della talpa è superflua. E Trump reagisce così su Twitter: “Il politico corrotto Adam Schiff vuole che persone della Casa Bianca testimonino nella vergognosa caccia alle streghe sua e della Pelosi, ma non consente la presenza di un avvocato della Casa Bianca né ammetterà alcuno dei testimoni da noi richiesti”. Will Hurd, deputato del Texas, ex agente della Cia, proprio come la talpa, è contrario all’audizione: “Penso che dobbiamo proteggere i “whistleblower”, cioè gli informatori che denunciano le irregolarità dove lavorano. S’aggrava, intanto, la posizione di Rudy Giuliani, l’avvocato di Trump. Uno dei suoi sodali arrestati un mese fa lo denuncia: “Mi mandò a Kiev per dare un monito al presidente, niente aiuti e nessuno alla cerimonia d’insediamento senza l’indagine sui Biden”. L’altro lo smentisce; e Giuliani nega.

Hong Kong, fiamme e spari alla folla: addio alle proteste pacifiche

Il video di un uomo dato alle fiamme a Hong Kong diventa virale sui social media, com’era già successo alla clip del poliziotto che sparava dritto su un manifestante, ferendolo gravemente. L’uomo torcia è in condizioni critiche per ustioni di secondo grado sul 28% del corpo, concentrate soprattutto su braccia e torace. Questa volta, non si tratta di un contestatore del regime pro-Pechino, ma di un contestatore dei contestatori: la sua vicenda viene anche sfruttata dalla propaganda cinese. La governatrice di Hong Kong Carrie Lam, la cui uscita di scena è stata più volte annunciata, ma non è finora avvenuta, ha detto che dare fuoco a una “persona è un atto totalmente inumano e imperdonabile”. Ma si registrano atti di violenza anche da parte delle forze dell’ordine: un ragazzo di 21 anni, tutto in nero, raggiunto da un colpo di pistola di un agente è in condizioni critiche, dopo avere subito un intervento chirurgico. Alla stampa, il sovrintendente capo della polizia John Tse assicura che l’agente che ha sparato “non aveva cattive intenzioni”, ma temeva che il giovane gli volesse sfilare la pistola. “Ha tirato fuori l’arma come avvertimento, ma il ragazzo continuava a cercare d’impossessarsene”. Sul caso, indaga la Regional Crime Unit. È stata invece disposta la sospensione immediata per un agente che con la sua moto ha tentato più volte d’investire i manifestanti. Segnali di nervi a fior di pelle e di esasperazione, in capo a mesi di proteste, tensioni, scontri, violenze, da una parte come dall’altra. Il clima a Hong Kong favorirebbe – secondo un reportage della Cnn – casi di radicalizzazione integralista, con domestiche musulmane indonesiane reclutate qui e a Singapore dal sedicente Stato islamico e pronte a diventare kamikaze. Sull’episodio dell’uomo in fiamme vi sono diverse ricostruzioni, non sempre coincidenti: sarebbe avvenuto nel primo pomeriggio alla stazione della metropolitana di Ma On Shan. Nelle immagini, non nitide e montate, la vittima, un uomo di mezza età, è ferito alla testa, si muove barcollando, indossa una maglietta verde e urla contro un gruppo di giovani attivisti, accusandoli di essere “britannici” e non cinesi. La piccola folla radunatasi gli risponde “Siamo tutti di Hong Kong” e gli intima di non colpire nessuno degli astanti. All’improvviso, si fa avanti una persona, che non si vede, versando sull’uomo del liquido infiammabile e dandogli poi fuoco. Il rogo divampa subito, ma non è poi chiaro che cosa succeda alla vittima: c’è un fuggi fuggi generale e l’uomo resta a terra a bruciare come un cencio.

È stato il momento più drammatico di una giornata di scontri tra manifestanti anti-Pechino e forze dell’ordine. La Lam, chiedendo “quanto prima il ritorno della calma”, ha lamentato due persone che versano “in condizioni critiche”: il ragazzo in nero colpito da un proiettile sparato da un agente – ma ci sarebbe pure un secondo ferito – e l’uomo dalla maglietta verde dato alle fiamme. Giorni fa, aveva destato emozione il decesso di un giovane caduto da un edificio mentre cercava di sottrarsi alla polizia. Le scene della giornata “insurrezionale” sono impressionanti: per la terza volta in cinque mesi agenti hanno colpito con armi da fuoco manifestanti; e la polizia ha pure tirato raffiche di gas lacrimogeni e usato i cannoni ad acqua; i dimostranti hanno appiccato incendi – uno a un ufficio dell’Amministrazione in un condominio residenziale – e causato devastazioni.

La governatrice di Hong Kong ha smentito le voci, diffusesi su Internet, dell’imminenza del varo di misure d’urgenza straordinarie: una sorta di serrata della città, con la chiusura di scuole, Borsa e luoghi di lavoro, dopo i violenti scontri delle ultime ore con scenari da guerriglia. La Lam ha prima diffuso un comunicato e ha poi fatto una conferenza stampa, “per smentire le misure straordinarie. Dobbiamo solo tornare alla calma, la violenza non porta alcuna soluzione”. Per l’Amministrazione, “i rivoltosi sono nemici del popolo” e hanno ormai superato ogni limite, ma “non vedranno le loro richieste soddisfatte”.