La legge che finanzia al 110% le spese sostenute per ridurre i consumi energetici degli edifici eliminando gli sprechi e le inefficienze, può dare un contributo determinante all’obiettivo, stabilito dall’Unione europea, di ridurre le emissioni di gas serra del 55% entro il 2030. Tuttavia le modalità con cui si prefigge di raggiungerlo sono troppo costose per il bilancio dello Stato e accrescono l’ingiustizia sociale, perché questa spesa, sostenuta dalla collettività col prelievo fiscale, è andata prevalentemente a vantaggio dei più abbienti ed è stata pagata prevalentemente dai meno abbienti che non ne hanno ricevuto alcun beneficio. Si è aperta pertanto un’accesa polemica tra chi ritiene che la durata della legge non vada rinnovata al termine della sua scadenza temporale, perché è insostenibile per il bilancio statale, e chi sostiene che la sua validità debba essere invece prolungata perché possa dare un contributo significativo alla riduzione delle emissioni di gas climalteranti.
Ma è davvero impossibile introdurre in questa legge alcune modifiche che consentano di ridurre il peso della spesa pubblica e l’ingiustizia di far pagare ai meno abbienti un vantaggio economico per i più abbienti, evitando di perdere le grandi potenzialità, non solo ecologiche, ma anche economiche e occupazionali insite nella ristrutturazione energetica del patrimonio edilizio?
Per esplorare questa possibilità è importante ricordare due dati. Secondo la Commissione europea gli edifici assorbono il 40% dei consumi energetici globali e sono responsabili del 36% delle emissioni di gas a effetto serra. Secondo i dati raccolti dall’Enea soltanto sugli edifici per cui è stato presentato l’attestato di certificazione energetica necessario a effettuare atti di compravendita, il 34% appartiene alla classe G, la meno efficiente, con consumi energetici superiori a 180 kilowattora al metro quadrato all’anno, e appena il 6,6% alla classe A, con consumi energetici inferiori a 15 kilowattora al metro quadrato all’anno. La massima efficienza energetica viene raggiunta dagli edifici in classe NZEB (nearly zero energy building), che annullano quasi del tutto le emissioni di gas con effetto serra. Poiché questi dati non si riferiscono al patrimonio edilizio nazionale, ma solo alle case di cui è stato registrato l’atto di compravendita, è lecito supporre che gli edifici in classe A siano quelli costruiti negli ultimi anni e quindi la loro percentuale sulla media nazionale sia più bassa, mentre sia più alta la percentuale sulla media nazionale degli edifici in classe G, che l’Unione europea aveva addirittura proposto di escludere dalla possibilità di essere messi in vendita se prima non fossero stati ristrutturati in modo da poter essere inseriti in una classe di efficienza energetica superiore. Ha senso non rinnovare una legge che favorisce la riduzione delle emissioni climalteranti in un settore ampio come il patrimonio edilizio, caratterizzato da una diffusione così ampia di edifici così inefficienti e da margini così ampi di miglioramento? Invece di scontrarsi sulla durata, più o meno lunga della legge, non sarebbe meglio mantenerla introducendo correttivi che ne riducano le distorsioni?
Il punto di partenza da prendere in considerazione è un’ovvietà che può sfuggire solo a chi non la vuol vedere. La riduzione dei consumi energetici che si può ottenere riducendo le dispersioni degli edifici e producendo con più efficienza l’energia di cui hanno bisogno, riduce in misura direttamente proporzionale le emissioni di gas serra e i costi delle bollette energetiche. I vantaggi ecologici e i vantaggi economici vanno di pari passo. A partire da questa considerazione basterebbe vincolare i finanziamenti pubblici alla restituzione allo Stato di una percentuale dei risparmi sui costi mensili di gestione energetica che consentono di ottenere. L’importo e la durata della restituzione dovrebbero essere calcolati sulla base di parametri stabiliti per legge. L’utente avrebbe comunque dei vantaggi economici rilevanti senza sostenere spese d’investimento. Il valore commerciale del suo immobile crescerebbe, le sue bollette energetiche si ridurrebbero e verrebbero tenute al riparo dagli aumenti dei prezzi, di cui quest’anno si è avuta un’avvisaglia molto pesante. L’elemento nuovo, significativo politicamente ed economicamente, sarebbe il fatto che lo Stato avrebbe un introito costante e crescente da destinare a ulteriori ristrutturazioni energetiche. Inoltre, l’eliminazione di una scadenza temporale della legge eliminerebbe una delle cause che hanno fatto impennare i prezzi dei materiali edili, si eviterebbe che la ripresa dell’edilizia fosse un fuoco di paglia destinato spegnersi di colpo con la cessazione dei finanziamenti, l’occupazione nel settore rimarrebbe stabile, la platea dei beneficiari si potrebbe estendere alle classi sociali che fino ad ora hanno contribuito a pagare i costi di vantaggi da cui sono rimaste escluse, la riduzione delle emissioni di CO2 sarebbe significativa.
Oltre a offrire un punto di vista alternativo ai due che si contrappongono nel dibattito sul superbonus, questa proposta potrebbe avere una valenza più ampia. Sino ad ora le tecnologie ambientali sono state finalizzate prevalentemente a integrare o sostituire l’offerta di merci prodotte con tecnologie che accrescono la produttività a prescindere dai danni ambientali che causano. Ed essendo meno concorrenziali non potevano svilupparsi senza contributi di denaro pubblico. Se, invece, fossero finalizzate a ridurre la domanda riducendo gli sprechi e aumentando l’efficienza dei processi di trasformazione delle risorse in beni, comporterebbero una riduzione dei costi di produzione tanto maggiore quanto maggiore è la riduzione dei consumi a parità di benessere che riescono a ottenere. Forse per realizzare una conversione ecologica dell’economia, più che di sussidi di denaro pubblico ci sarebbe bisogno di una conversione economica dell’ecologia.