Il Check-point Ezio e la festa del Muro dei conformisti

Una cappa di festoso conformismo ha avvolto il trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Tutti a brindare alla libertà e all’Europa ritrovata, d’accordo, nessuno però a ricordare che con il Muro crollarono le ultime illusioni del Novecento, quanto quelle macerie abbiano spianato la via a globalizzazione e neocapitalismo (infatti Ronald Reagan ha brindato più di tutti).

Detto questo, quante cose nella nostra vita non sarebbero accadute se il Muro non fosse caduto! Per esempio, su Sky non avremmo visto lo speciale di Renato Coen Berlino 89, dove si racconta come un’aspirante eternità sia stata rasa al suolo in 24 ore. Non avremmo visto Ezio Mauro, un uomo nella notte sullo sfondo della Porta di Brandeburgo, aggirarsi guardingo per il quartier generale della Stasi, prendere la metropolitana a colpo sicuro, senza sbagliare linea, nel corso del documentario Cronache dal Muro di Berlino. Lì a Rai3 si sentiva un po’ la mancanza di Paolo Mieli, ma fino a un certo punto; in fondo gli è stato affiancato il suo successore naturale, era già successo alla Stampa. Lo stile è simile. Sobrio, conciso, autorevole. Più compassato e curiale Mieli nelle sue ricognizioni sul Ventennio; più scattante e sgarzolino Mauro, che ara un passato più recente e preferisce scendere in campo: il racconto in esterna, l’incontro con i protagonisti al Check-point Ezio. Quante cose non sarebbero accadute nella vita di Ezio Mauro, e anche nella nostra, se non fosse caduto il Muro di Berlino.

Mail Box

Simenon, non è stato Renoir a dirigere Gabin-Maigret

Cari amici del Fatto, nell’articolo di domenica di Paolo Isotta, ho trovato un errore grossolano. Jean Gabin ha interpretato tre film in cui recita la parte del commissario Maigret. In nessuno di questi film è stato diretto da Jean Renoir. Renoir ha girato un Maigret nel 1932 con suo fratello Pierre nella parte del commissario Maigret.

Antoine Nardella

Mi duole dell’errore, indottomi dall’abitudine di associare il volto di Gabin a quello di Maigret.

P. I.

 

Ma è così difficile rendere Taranto una città sana?

Povera Taranto, la sua tragica storia inizia quando diventa capoluogo siderurgico. Una svolta interessante se tutti avessero fatto il loro dovere. Dopo tanto lavoro pagato anche con la vita, ci troviamo con una città malsana. È così difficile sistemare questa tragica situazione in cui latita da anni la Costituzione a difesa della salute del lavoratore?

Omero Muzzu

 

Treni stracolmi e senza servizi, l’Italia non sembra Europa

In una città europea, i mezzi di trasporto hanno regolamenti interni o norme di buon senso che permettono un uso adeguato e sicuro. Il primo novembre il treno delle 11.25 da Milano Centrale a Verona Porta Nuova era stracolmo all’inverosimile. Con i posti a sedere tutti occupati la gente era in piedi in tutti i corridoi delle carrozze. Altro esempio. Stazione Passante ferroviario di Milano Porta Vittoria e Porta Venezia: mancano i servizi igienici. O meglio, la chiave viene data a discrezione del controllore.

Giuseppe Napoletano

 

DIRITTO DI REPLICA

Scrivo per conto e nell’interesse del Dott. Marco Venturi residente a Caltanissetta e che qui pure si sottoscrive. Con riferimento all’articolo a firma di Alan David Scifo dal titolo “Agrigento Processo per i rifiuti Ilva, Enimed, Fincantieri, Rfi – La discarica dei big tra i vigneti e i paesi del barocco siciliano” comparso giorno 2 novembre a pag. 20, occorre precisare quanto segue:

la posizione processuale del Dott. Marco Venturi – pur inserita nel più ampio e complesso contesto di indagine che bene è stato descritto trae spunto unicamente da due analisi effettuate su altrettanti campionamenti di materiali che, per le evidenze chimiche riscontrate presso il Laboratorio Sidercem, sono stati ritenuti “rifiuti non pericolosi” e per tale ragione conferibili in discarica. Vi è che tuttavia tale classificazione è stata considerata non corretta dalla Informativa Conclusiva curata dai Carabinieri del Noe di Palermo, non già sulla scorta di una Consulenza Tecnica ma per effetto di una opposta valutazione scaturita da due precedenti analisi, analisi effettuate da altro Laboratorio privato parecchie settimane prima in ordine a campionamenti formati all’epoca da materiali diversi da quelli che successivamente verranno esaminati dalla Sidercem. Quanto contestato al Dott. Marco Venturi non riveste, pertanto, alcuna attinenza con la categoria dei rifiuti citati dall’articolo e provenienti “…fanghi e residui dei fiumi dell’Ilva di Taranto, gli scarti della bonifica dei terreni dell’ex raffineria di Gela, di proprietà di Enimed del gruppo Eni (7 mila tonnellate di scarto in 18 mesi) così come quelli del Polo Petrolchimico di Priolo Gargallo, ma anche 790 tonnellate di rifiuti speciali provenienti dai lavori effettuati dalla Rfi, Rete Ferroviaria Italiana, per la realizzazione della piattaforma del ponte Petrace di Gioa Tauro”. Per le superiori precisazioni la sintesi della vicenda giudiziaria che ha offerto l’articolo di stampa introduce una visione distorta dei fatti e suggerisce la necessità di una duplice rettifica dal momento che:

– le analisi effettuate dal Laboratorio Sidercem hanno riguardato semplicemente due campionamenti di rifiuti provenienti rispettivamente dallo Stabilimento di raccolta sito a Termini lmerese (Pa) e da quello sito a Campofelice (PA);

– l’accostamento del Dott. Marco Venturi alla accertata compilazione di “certificati falsi, alcuni dei quali modificati ad arte anche dalla Sidercem” in relazione alle categorie di rifiuti richiamati è del tutto inesatta ed inappropriata, oltre che mediaticamente assai penalizzante e fuorviante.

Avv. Giacomo Butera, legale del Dott. Marco Venturi

 

Come già scritto il 2 novembre, l’ex assessore della Regione Siciliana, Marco Venturi, così come Vincenzo Venturi, quali legali rappresentanti della Sidercem s.r.l., sono imputati di traffico illecito di rifiuti in concorso con i gestori della discarica. Secondo la Procura, “per lo meno dall’aprile 2015 smaltivano abusivamente presso la discarica per rifiuti non pericolosi sita in Camastra, quantitativi non determinati di rifiuti pericolosi provenienti dal trattamento meccanico dei rifiuti, provenienti dagli stabilimenti di LVS, siti in Termini Imerese e Campofelice di Roccella, accompagnati da certificazioni di comodo eseguite dal laboratorio ‘Ecologica Buffa’ e dai rapporti di prova per l’accettazione in discarica artatamente redatti su incarico di ‘A&G’ da Sidercem”. Nell’ipotesi d’accusa, le analisi indicavano dati che non avevano nulla a che vedere con i rifiuti destinati alla discarica: le aziende risparmiavano e i laboratori di analisi percepivano un compenso per la falsificazione dei dati. Naturalmente sarà il processo a stabilire come stanno le cose.

Alan David Scifo

Gramsci. Lo sfregio del murales a Turi non è solo fascista, ma anche omofobo

Gentile redazione, ogni giorno si segnala, non solo in Italia, un atto di deplorevole vandalismo: ieri è toccato a Gramsci, il cui murales – a Turi – è stato sfregiato con la scritta “gay”, come se l’omosessualità fosse di per sé un insulto. Mi chiedo però come giudicare questo gesto vergognoso: una goliardata stupida per mano di un ignorante o, viceversa, uno scempio antidemocratico, omofobo e fascista?

Ornella Marino

Ci sono, raccolti in quella traccia rossa fatta con una bomboletta spray per scrivere la parola “gay” sul volto di Antonio Gramsci, nel murales che lo ricorda a Turi in provincia di Bari, più insulti e più segnali di un profondo e unico razzismo. Al personaggio innanzitutto e al luogo. Lì, infatti, nel carcere della cittadina pugliese, l’intellettuale e politico antifascista, fondatore del Partito comunista italiano, fu detenuto dopo la condanna a oltre 20 anni di carcere inflittagli dal Tribunale speciale fascista nel giugno del 1928. In quel processo, il pubblico ministero pronunciò la frase che era ancora più tremenda di un verdetto iniquo: “Bisogna impedire a questo cervello di funzionare”. Da quella cella Gramsci uscì cinque anni dopo, per le sue gravi condizioni di salute, e morì il 27 aprile 1937: aveva appena 46 anni. C’è poi l’uso del termine “gay”, la parola che vuole indicare un orientamento sessuale, trasformato invece ancora una volta in uno strumento di omofobia: per colpire Gramsci, la sua testimonianza e il suo martirio antifascista (chissà se l’ignoto insultatore conosce le sue riflessioni sulla parità di genere, a partire dalle condizioni e dal ruolo femminile nella sua epoca), ma soprattutto la libertà sessuale di tutti. Un insulto accostato infine, nelle intenzioni di chi ha vergato quella scritta, a un vecchio armamentario della cialtroneria e della rabbia anticomunista (e omofoba) che era di moda all’epoca delle persecuzioni fasciste e naziste nei confronti degli oppositori, ma che poi non ha mai smesso di essere usato da chi continua a professare gli schemi di un eterno razzismo politico, sessuale e sociale. Un nuovo e brutto episodio, in quest’Italia dove ogni giorno si rinfocola la predicazione dell’odio verso i deboli, i diversi, gli stranieri e chi, allora come oggi, continua a battersi per la dignità dell’uomo.

Ettore Boffano

Conte a Taranto: la sincerità è rivoluzionaria

Mi è capitato, ieri, di imbattermi in un post dell’attore Massimo Wertmüller. Faceva così: “Noi rimpiangeremo amaro, secondo me, lo rimpiangeremo tutti, pure quelli che oggi credono agli asini che volano, quelli che lo offendono o lo deridono, questo governo. (…) Rimpiangeremo questo premier che è andato non come istituzione, ma come uomo, ad affrontare le sacrosante ragioni degli operai dell’Ilva senza avere nemmeno responsabilità nella storia passata dello stabilimento”. Fatico a dargli torto.

Wertmüller ha poi parlato del Cazzaro Rosé: “Intanto Renzi si palesa oggi come uno che cerca consensi a destra, spostandosi a destra. E allora io vi chiedo, lo chiedo soprattutto a quelli, anche amici cari, che lo difendevano se non come un possibile ‘meglio’ certamente come un ‘meno peggio’, uno che ha SEMPRE avuto un DNA così, anche quando non fece, come invece ha fatto oggi, un partitino che opera all’interno di un governo di cui fa parte e contro di esso (!!!), cioè Viva Italia, o Italia Viva, non cambia, ma quando era lì a dirigere la sinistra, che disastri può aver fatto all’interno di essa? E ci si chiede ancora perché ci fu una emorragia di voti, perché tanti andarono via delusi da quella sinistra?”. E anche qui fatico proprio a dargli torto, anche se sparare su Renzi è tanto giusto quanto facile (oggi; ieri, quando era potente, se osavi non essere renziano ti facevano la guerra in ogni dove. Lo so io, lo sa questo giornale. Un tempo osceno e tremendo).

Torniamo però a Giuseppe Conte. Chi tra voi ha buona memoria, e già solo per questo appartiene a una minoranza vieppiù sparuta, ricorderà quante gliene dissero quando si affacciò alla politica. Non aveva neanche cominciato, e vai di mitraglia: millantatore e mitomane (per via del curriculum “gonfiato”). Burattino telecomandato (da Di Maio, Salvini e credo pure Stocazzo). Fascista sotto mentite spoglie poiché prono alla peggiore destra razzista squadrista nazista (e bla bla bla). Un fuoco di fila continuo che arrivava spesso (non sempre) dalla stessa gente che fino a ieri aveva celebrato proprio Renzi, ovvero il punto più basso nella storia della sinistra (ehm) italiana. Chi osava dire che il Salvimaio era bruttino parecchio, ma che in mezzo a quel mazzo moscio si stagliasse il miglior presidente del Consiglio (per distacco) dai tempi di Prodi, veniva macellato dalle solite firme stantie. Poi è successa una cosa che avrebbe dovuto rendere felici quei (non di rado a ragione) critici feroci: Conte ha demolito Salvini in un agosto dove il primo sembrava Maradona nell’86 e il secondo Nardella nei 3mila siepi con le Crocs verdi ai piedi. Solo che, invece di trovare a quel punto coraggio e decenza per dire “Ops, forse lo abbiamo sottovalutato!”, alle bombe di ieri si è sostituita la galleria dei musi lunghi e dei malmostosi a caso.

L’astio per Conte – nel frattempo nei sondaggi il politico più amato dagli italiani, a conferma di come certi “intellettuali” abbiano il polso del Paese di un criceto morto – e per i 5 Stelle ha continuato a guidarli. E dunque accecarli. Persino dopo la visita a Taranto di Conte, quasi rivoluzionaria per la sincerità esibita nel mettere a nudo la drammatica impotenza della politica di fronte a certi rovesci devastanti della Storia (e dell’uomo), nulla è cambiato. Opinionisti e opinioniste, va da sé senza lettori né idee, ma con posto fisso in tivù, continuano ad abbaiare alla Luna. Alimentando quella stessa destra che dicono di voler contrastare. Eccome se lo rimpiangeremo, e lo rimpiangeranno, questo presidente del Consiglio. Ma sarà troppo tardi.

Video-processo a Dell’Utri? Sì, ma completo

La proposta di trasformare il dibattimento sulla Trattativa in un ‘videoprocesso’ è stata respinta dalla Corte d’assise d’Appello di Palermo.

La difesa di Marcello Dell’Utri, smaltita la delusione per il gran rifiuto di Berlusconi di testimoniare in difesa del suo vecchio amico, ieri ha fatto una richiesta alla Corte: proiettare in aula l’intervista rilasciata da Berlusconi il 20 aprile del 2018 subito dopo la sentenza di condanna a 12 anni in primo grado contro Dell’Utri. “Non abbiamo ricevuto nel 1994, né successivamente – diceva il leader di Forza Italia – nessuna minaccia dalla mafia o dai suoi rappresentanti”, L’obiettivo degli avvocati dell’ex senatore era smontare un passo della motivazione della sentenza Trattativa.

La Corte di Assise nel 2018 ha ritenuto Dell’Utri colpevole di avere trasmesso nel 1994 la minaccia della mafia al governo Berlusconi mediante l’ex fattore della villa di Arcore negli anni settanta: Vittorio Mangano. Per smontare la tesi che il canale di comunicazione Bagarella-Brusca-Mangano fosse giunto davvero fino a Dell’Utri e soprattutto fino a Berlusconi, per la difesa, sarebbe stato fondamentale sentire l’ex premier. Per la Corte di primo grado “Dell’Utri continuava a informare Berlusconi di tutti i suoi contatti con i mafiosi anche dopo l’insediamento del governo” e dunque ‘il destinatario finale della pressione o dei tentativi di pressione’ (Berlusconi) era informato.

La sentenza però ammetteva di disporre solo di una prova indiretta e logica, non diretta. Il sogno dei legali di dell’Utri era dunque sentire una sonora smentita della tesi dei pm recepita nella sentenza del 2018, dalla viva voce dell’ex premier. Se Berlusconi avesse detto ieri: “A me Marcello non ha mai riferito la minaccia di Mangano e dei suoi amici”, i giudici in sentenza ne avrebbero dovuto tenere conto. Purtroppo per Marcello l’amico Silvio (in carne e ossa) è rimasto zitto e allora gli avvocati hanno pensato di ripiegare sulla versione televisiva.

La difesa di Dell’Utri allora ha chiesto di proiettare sullo schermo dell’aula bunker dell’Ucciardone il faccione di Berlusconi che diceva nell’aprile 2018 di non avere mai ricevuto minacce.

La Corte ha detto no anche perché per i giudici basta la trascrizione di quell’intervista. Peccato. I giudici avrebbero potuto invece aderire alla richiesta ma con una postilla. Sì all’intervista video in cui Berlusconi – versione 2018 – nega le minacce della mafia ma subito dopo sì anche all’ascolto in aula di un audio più datato: la telefonata intercettata nel 1986 dopo un’esplosione dolosa che aveva fatto saltare in aria il cancello della villa milanese del Berlusconi.

Subito dopo, l’allora 50enne imprenditore televisivo chiamò Dell’Utri. Il Cavaliere in quella conversazione accusava ingiustamente il suo ex fattore: “Allora è Vittorio Mangano che ha messo la bomba”. Dell’Utri gli chiedeva perché e Berlusconi si rivelava ancora poco garantista allora: “per il rispetto che si deve all’intelligenza… È fuori (…) e questa cosa qui, da come l’hanno fatta, con un chilo di polvere nera, fatta con molto rispetto, quasi con affetto. Ecco: un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo una bomba”. Poi Dell’Utri richiamava e rassicurava Silvio: Mangano non c’entrava nulla perché stava dentro, inoltre Marcello aveva fatto una serie di accertamenti che escludevano un suo qualunque ruolo. La bomba alla villa è del 1986 mentre le minacce al governo Berlusconi – secondo la sentenza Trattativa – arrivano a Berlusconi otto anni dopo tramite il canale Dell’Utri-Mangano. A quel punto, visto il video del 2018 ma sentito anche l’audio del 1986, la Corte di appello potrebbe avere un’idea più completa.

Ergastolo ostativo: condivido l’appello

Il Fatto del 7 novembre ha pubblicato una documentatissima inchiesta di Vincenzo Iurillo che racconta di un boom di “dissociazioni” fra i camorristi detenuti. Tema che (è lo stesso Iurillo a rilevarlo) rimanda alla recente sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo.

Da sempre, proprio i detenuti costituiscono un problema complesso per l’intero pianeta mafia. In una intercettazione un boss di Cosa Nostra ammonisce che “i nostri in carcere li dobbiamo cercare in qualunque maniera di accontentarli… di portargli il più rispetto possibile”. Per parte loro i detenuti hanno spesso lanciato segnali di inquietudine e insofferenza. Mafiosi di rango (tra cui i Ganci, i Graviano e Pippo Calò), nel corso di una udienza del “Borsellino ter”, comunicano di avere intrapreso uno sciopero della fame contro il regime carcerario speciale. Leoluca Bagarella legge una lunga dichiarazione contro il 41 bis “a nome di tutti gli altri imputati… stanchi di essere umiliati, strumentalizzati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche” e “presi in giro (con) promesse non… mantenute”. Pietro Aglieri chiede con una lettera “un ampio confronto tra detenuti… per trovare soluzioni intelligenti e concrete che producano dei frutti positivi…”. Una iniziativa finalizzata all’emanazione di nuove norme che consentano, anche ai condannati al carcere a vita, di nutrire qualche speranza di revisione dei processi. Tutti segnali cui corrisponde il periodico riemergere di iniziative per il riconoscimento legale della “dissociazione” (che significa misure premiali grazie a una dichiarazione di distacco dal clan senza alcuna collaborazione, se non una generica ammissione dei fatti per cui si è stati condannati), da sempre una pedina fondamentale della scacchiera su cui ancora oggi – come dimostra l’inchiesta di Iurillo – giocano le organizzazioni criminali. Un riconoscimento che consentirebbe di sanare la ferita mai chiusa dei boss condannati a pene pesanti fino all’ergastolo, con la prospettiva di intravedere una via d’uscita dal carcere, salvare i propri beni e acquisire nuovamente il proprio ruolo nell’organizzazione contribuendo al suo riconsolidamento.

Nello stesso contesto si inserisce una vicenda raccontata da Alfonso Sabella nel libro autobiografico Cacciatore di mafiosi. Nel maggio 2000 la Dna ( Direzione nazionale antimafia), all’esito di colloqui investigativi con 5 detenuti, chiese al ministro della Giustizia Fassino di valutare la possibilità che costoro incontrassero in carcere altri 4 boss al fine di concordare una pubblica dissociazione da Cosa nostra. Nel contempo si chiedeva di valutare– in sede politica – la possibilità di estendere ai mafiosi dissociati benefici simili a quelli già previsti per chi – senza collaborare – si dissociava dal terrorismo. Fassino inoltrò la questione a chi scrive questo articolo (allora capo del Dap, Dipartimento amministrazione penitenziaria), che a sua volta interessò Sabella, capo ispettorato del Dap. L’iniziativa fu immediatamente stoppata. Qualche tempo dopo (secondo governo Berlusconi) a capo del Dap fu nominato il procuratore di Caltanissetta Tinebra. Sabella, rimasto a dirigere l’ispettorato, scoprì che Salvatore Biondino (fedelissimo di Riina) era stato incaricato di trattare nuovamente la dissociazione con lo Stato, ma stavolta per conto di tutte le organizzazioni mafiose: Cosa nostra, Camorra, ’Ndrangheta e Scu (Sacra corona unita, pugliese). Biondino stava cercando di incontrare in carcere gli stessi boss oggetto della richiesta rivolta a Fassino dalla Dna. Sabella (dopo un segnalazione scritta a Tinebra, che il giorno dopo soppresse l’ispettorato) comunicò ogni cosa a Roberto Castelli (nuovo Guardasigilli), illustrandogli il forte interesse delle mafie a ottenere importanti benefici in cambio di una pubblica presa di distanza dall’organizzazione, inutile in quanto esclude ogni forma di collaborazione processuale. Per tutta risposta, l’ingegner Castelli lo “licenziò” dal Dap – struttura dipendente dal ministero – e lo mise a disposizione del Csm.

Ora, anche alla luce di tali significativi “precedenti”, è facile prevedere che la sentenza della Consulta sull’ergastolo ostativo potrà obiettivamente prestarsi a iniziative pensate con riferimento ad “aperture” ricollegabili alla dissociazione. Infatti, per l’estensione della possibilità di futuri benefici ai mafiosi ergastolani irriducibili, in quanto non “pentiti” cioè non collaboranti, si richiede l’acquisizione di “elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata”. E di sicuro qualcuno vorrà sostenere che la semplice dissociazione integra detta acquisizione. Così ispirandosi, per altro, a una sorta di “distacco dalla realtà” per quanto riguarda gli scopi – chiaramente emergenti dalla storia della mafia – che con la dissociazione si vogliono ottenere, ben al di là della mera apparenza: trattandosi di un atteggiamento fortemente ambiguo e facilmente strumentalizzabile per dissimulare il persistere di una sostanziale adesione al clan. Una realtà che non è consentito ignorare a cuor leggero e che – in ogni caso – rappresenta un altro ottimo motivo per aderire all’appello che il Fatto ha lanciato il 31 ottobre affinché il Parlamento approvi, per decreto o per legge (sperabilmente all’unanimità), una norma che impedisca ai mafiosi di “truffare lo Stato (…) ottenendo permessi e altri benefici senza meritarli”.

Il pm: “Da Spea pochi controlli e voti ricopiati da vecchi report”

“Gli autori” dei report sulla sicurezza dei viadotti “hanno attestato, falsamente, di avere svolto le ispezioni su tutta l’opera… Così facendo hanno emesso atti falsi che attestavano notizie false… sulla sicurezza di parti di strutture che non avevano controllato. Per anni!… A volte hanno copiato i vecchi voti”. È scritto nelle 20 pagine con cui il pm genovese Walter Cotugno ha chiesto e ottenuto dal Tribunale del Riesame misure interdittive (in precedenza respinte dal gip) nei confronti di dieci dirigenti di Spea, la società controllata che svolgeva analisi sulla sicurezza per conto di Autostrade.

È il fascicolo sui falsi nei report che dovevano attestare le condizioni dei viadotti. Scrive il pm: “È emerso che almeno dal 2013 gli ispettori Spea non ispezionavano l’impalcato nelle opere costruite con i cosiddetti ‘cassoni’. Si tratta di opere nelle quali l’impalcato è sorretto da una struttura a forma di scatola… opere che devono essere obbligatoriamente ispezionate per verificarne lo stato di conservazione”. Il dubbio di partenza è che anche il crollo del Morandi possa essere stato causato da cassoni privi di manutenzione. Cotugno si concentra su alcuni viadotti in particolare, come il Veilino (A12, Genova-Livorno): “Il rapporto di ispezione evidenzia, falsamente, l’accertamento e la verifica di difetti”. Il pm riconosce che ultimamente qualcosa è cambiato: “Le attività ispettive paiono effettuate con maggiore correttezza e comprendono l’esame dei cassoni e delle altre strutture cave. Tale esame, che non ha ancora riguardato tutte le strutture, ha comunque determinato un deciso aumento dei voti (a volti più alti, bisogna ricordarlo, corrisponde una maggiore pericolosità, ndr), comportando addirittura 4 voti 70 con immediata limitazione della circolazione”.

È la Giustizia dei potenti che colpisce il dissenso

Nicoletta Dosio, professoressa di Latino in pensione, dovrà andare in carcere: ha deciso di non chiedere una misura alternativa. È stata condannata a un anno per violenza privata e interruzione di pubblico servizio in concorso con altri, colpevole di aver costretto alcuni automobilisti ad attraversare le barriere autostradali di Avigliana non pagando il pedaggio (con danno di 777 euro alle Autostrade); il processo ha accertato che durante una manifestazione NoTav (durata circa un’ora) la Dosio aveva tenuto con altri uno striscione al bordo dell’autostrada, mentre alcuni manifestanti aprivano le sbarre dei caselli e invitavano gli automobilisti a passare. Ma un problema se una donna di 73 anni finisce in carcere per quei fatti c’è: la contestazione del reato e la condanna a quella pena.

In primo luogo c’è l’accanimento con il quale la Procura di Torino ha perseguito tutte le condotte tenute nell’ambito del movimento No Tav. Si dirà che l’azione penale è obbligatoria, ma in realtà una scelta c’è: nella decisione (non solo tecnica) di contestare l’uno piuttosto che l’altro reato e di portare avanti questi processi (decine i processi, centinaia gli indagati); nelle richieste di pena (la Procura aveva chiesto tre anni). In secondo luogo il problema è nella pena inflitta. La pena per violenza privata va da 15 giorni a 4 anni; la condanna a un anno è trattamento particolarmente duro. Il perché è scritto nella sentenza: il carattere organizzato dell’azione dimostrerebbe “il collegamento degli imputati con l’ala più radicale e violenta del movimento No Tav e, di conseguenza, la pericolosità sociale”.

La Dosio e gli altri sono, dunque, condannati a una pena così alta non per la gravità del fatto ma perché sono loro. A Torino si ripete da anni che non si processa il movimento NoTav e si perseguono solo reati e violenze; la frasi della sentenza disvelano che in realtà il problema è proprio il movimento NoTav. Allora anche la manifestazione pacifica deve essere punita in modo esemplare, affinché si comprenda da che parte sta la Giustizia; perché i potentati politici, economici e finanziari hanno delegato alla Giustizia il compito di fermare il movimento, trasformando il dissenso in illegalità e additandolo come un male che deve essere isolato, estirpato.

La decisione della prof. Dosio è, allora, un gesto di coerenza. Se ciò che l’ha mossa era l’urgenza di lottare contro quella che molti ritengono una grande opera inutile, di urlare inascoltata la volontà di difendere principi costituzionali (il diritto all’ambiente ed alla salute, ma anche un modello di sviluppo che tenda a rimuovere le ragioni delle diseguaglianze, come recita l’art. 3 della Costituzione), anche la sua accettazione del carcere è un atto di denuncia, di ribellione non violenta. Assecondando la decisione della Giustizia senza chiedere nulla, permettendo che una professoressa di latino in pensione vada in carcere per una manifestazione ci dice (con il suo tono cortese, un po’ da professoressa attenta alla forma oltre che alla sostanza) che il sistema è disposto a passare sopra una valle e le vite di chi la abita, e usa la Giustizia e il carcere come regolatore dei conflitti. Ci dice che il Re è Nudo.

 

“In cella a 73 anni per dire no Tav”

Aveva partecipato a una protesta del movimento No Tav nel 2012, come molte altre volte. Stava dietro a uno striscione con su scritto “Oggi paga Monti” mentre altri militanti, dopo aver oscurato le telecamere, obbligavano i casellanti ad alzare le sbarre del casello autostradale di Avigliana, sulla Torino-Bardonecchia, permettendo agli automobilisti di passare. La società autostradale Sitaf aveva lamentato un danno di 777 euro. Ora Nicoletta Dosio, 73 anni, professoressa di Latino in pensione, si prepara a entrare in carcere per scontare la condanna a un anno di reclusione per violenza privata (sugli automobilisti) e interruzione di pubblico servizio. Ieri scadevano i termini per chiedere di scontare la pena con misure alternative (ad esempio i domiciliari o l’affidamento in prova al servizio sociale), ma la pasionaria di Bussoleno ha chiesto ai suoi avvocati, Valentina Colletta ed Emanuele D’Amico, di non ricorrere al Tribunale di Sorveglianza.

“Ho scelto liberamente – ha spiegato ieri mattina davanti al Palazzo di giustizia –. Sono anziana e posso permettermelo, ma da parte mia chiedere le misure alternative vuole dire chiedere scusa e adeguarsi al verdetto”. Altri 11 condannati dei circa 300 manifestanti hanno chiesto misure alternative perché la sentenza non prevede la sospensione condizionale nonostante molti siano incensurati.

“Io credo che noi, io e gli altri undici condannati, abbiamo fatto il nostro preciso dovere, che rivendico fino in fondo”, ha aggiunto Dosio. Le sue parole e il suo pensiero sembrano un discorso di altri tempi. “Il carcere non è un luogo di riscatto, ma un luogo di pena e quindi ho timore, ma più forte del timore sono la rabbia e l’indignazione per l’ingiustizia. Proprio per questo ho deciso di mettere a disposizione la mia vita – ha detto ai presenti –, ma ho deciso di portare avanti la mia lotta con serenità. Questa è una resistenza”. Non si sente una martire: “Noi siamo antieroi per eccellenza”.

Non è la prima volta che si mette contro la giustizia. Nell’estate 2015 Dosio, in passato candidata con Rifondazione Comunista e Potere al Popolo, aveva protestato contro alcune misure cautelari imposte in seguito alla partecipazione a un’altra protesta: le era stato imposto l’obbligo di firma, ma l’ha violato non presentandosi mai ai carabinieri, ragione per cui poi le fu dato un obbligo di dimora, altro ordine violato che portò a un inasprimento, i domiciliari mai rispettati, motivo per il quale era poi stata condannata in primo grado a otto mesi con la condizionale. Neanche adesso vuole interrompere la sua protesta radicale. “Anche in prigione troverò la solidarietà tra detenuti. Come scrisse Rosa Luxemburg: ‘Mi sento a casa mia in tutto il mondo, ovunque ci siano nubi, e uccelli, e lacrime umane’”. Questa serie di condanne definitive sono il preludio di una situazione che si aggraverà nel 2020, quando arriveranno davanti alla Cassazione molti altri processi nel corso dei quali i militanti No Tav sono stati condannati.

M5S all’attacco di Lega e Fd’I: “Rivorrebbero B. al governo”

Matteo Salvini e Giorgia Meloni tacciono, ma l’imbarazzo è palpabile. Perché anche loro finiscono sulla graticola per la decisione di Silvio Berlusconi, uno dei tre azionisti della coalizione di centrodestra, di non rispondere alle domande dei giudici nel processo di appello sulla trattativa Stato-mafia. “Sarebbe soltanto un nuovo capitolo della solita triste storia, se non fosse che Salvini e Meloni se lo continuano a portare in giro per le piazze dicendo di voler governare assieme”, commenta via twitter il deputato questore del Movimento 5 Stelle alla Camera, Francesco D’Uva. A cui fa eco il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, sempre dei 5 Stelle: “Salvini lo vuole al governo con sé e, perché no, magari un giorno presidente della Repubblica. Questa è la destra italiana”.

Ma il principale bersaglio resta ovviamente l’ex Cav, il cui silenzio all’Ucciardone “fa rumore”, secondo il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra. Per l’intero gruppo pentastellato rappresentato nell’organismo di Palazzo San Macuto infatti “non è mai irrilevante quando un ex presidente del Consiglio decide di non parlare di un argomento così delicato: le possibili minacce recapitate da Cosa Nostra a Palazzo Chigi, dove lui era premier in carica. Da chi rappresenta le istituzioni della Repubblica ci aspettiamo piena collaborazione verso l’accertamento della verità in tribunale e per l’affermazione della legalità, sempre e comunque. Berlusconi ha scelto di fare diversamente e non è la prima volta”. Attacca a palle incatenate anche il capo politico del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio, che tenta l’affondo: “Questo Paese non chiuderà mai i conti con il passato, se una persona che ha fatto per tre volte il presidente del Consiglio si avvale della facoltà di non rispondere in un processo per mafia. Sono veramente senza parole”.