Le spese pazze di Ruby: “50 mila euro in contanti per le vacanze alle Maldive”

Spendeva, Karima El Mahroug detta Ruby Rubacuori. “Mi ha consegnato una busta piena di banconote. È stata sicuramente una situazione unica per me: ha pagato tutto in contanti, ed era un viaggio che costava molto, oltre 50 mila euro”.

Così ha raccontato ieri la titolare di un’agenzia di viaggi, chiamata a testimoniare nel processo milanese Ruby 3 in cui Silvio Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari, con l’ accusa di aver pagato il silenzio di Ruby e di un gruppo di testimoni dei processi Ruby 1 e Ruby 2. Non dovevano raccontare quello che nel 2010 succedeva nelle “cene eleganti” di Arcore. La titolare dell’agenzia ha raccontato di una vacanza di dieci giorni in un resort alle Maldive, cinque anni fa, con viaggio in business: Ruby, sua figlia Sofia, la baby sitter e il compagno di allora, Luca Risso, prenotarono una vacanza che fu pagata, in contanti, “tra i 55 e i 60 mila euro; volevano avere tutti i comfort”.

Un’altra testimone, titolare di un ristorante a Milano, ha raccontato invece la festa di compleanno avvenuta nel suo locale. “Ruby la pagò 6 mila euro, in contanti”. Il preventivo agli atti del processo era più alto: cena da 8.876 euro per 74 ospiti, una torta di cake design da 750 euro, champagne rosé da 1.500 euro. Conto totale: 9.236 euro, poi ridimensionato a 6 mila rinunciando allo champagne e ripiegando su un dolce più economico. “Non ricordo di averle mai visto usare una carta di credito”, testimonia ai giudici la ristoratrice, poi diventata amica della ragazza. Ruby le chiedeva prestiti: “Anche la sera del compleanno, mi ha chiesto 300 euro più 70 per il taxi. Un’altra volta mi ha telefonato chiedendomi aiuto per pagare, dicendo che aveva dimenticato il portafoglio”.

Ci sono poi i pernottamenti all’Nh Hotel di piazza della Repubblica a Milano. Quattro, secondo le fatture in mano ai magistrati: da 150, 300, 435 e 500 euro. E le cene consegnate direttamente a casa da un ristorante, con conti da 100, 200 euro per volta.

“Come si guadagnava la vita? Mi ha raccontato che faceva la ragazza immagine, degli spot pubblicitari”, dice l’amica ristoratrice. “Era una ragazza molto riservata, con me si è sempre mostrata molto attenta alla figlia. L’ho ospitata spesso a casa mia, è capitato che mia madre si occupasse della bambina. Mi dispiaceva che al ristorante la gente la additasse e dicesse: ‘Ecco Ruby Rubacuori, è una prostituta’. È capitato più di una volta. Lei ci soffriva: l’ho vista tante volte piangere, diceva che la sua vita era bruciata. Voleva cercarsi un lavoro, ricominciare da capo, ripulire la sua immagine. Voleva fare la mamma e avere un lavoro normale, le piaceva l’idea di lavorare in un ristorante. Quando i colloqui andavano male era depressa: ‘Purtroppo ho addosso una brutta etichetta’, mi diceva”. Secondo i pm del Ruby 3 – il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il sostituto procuratore Luca Gaglio – Berlusconi ha dato almeno una decina di milioni, oltre ad auto, case, regali, ai 30 che in questo processo sono imputati di falsa testimonianza; 21 di loro sono accusati anche di corruzione in atti giudiziari. Dovevano mentire ai giudici, secondo l’accusa, negando che ad Arcore “si svolgesse attività sessuale”.

Molte delle ragazze invitate alle feste, che secondo gli atti giudiziari “non svolgono alcuna attività lavorativa”, avrebbero accettato “come prezzo” della falsa testimonianza soldi e “ulteriori beni”, come auto, abitazioni, ville di lusso. La cifra più alta arriva a Ruby, minorenne all’epoca delle feste, che in una telefonata intercettata dice: “Con il mio avvocato gli abbiamo chiesto 5 milioni di euro in cambio del fatto che io passo per pazza”.

“Si danno i permessi in base a dati teorici, servono più controlli”

Sebastiano Ardita è il presidente della Commissione Csm sulla magistratura di sorveglianza ed esecuzione pena. È stato direttore dell’ufficio detenuti del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria).

Consigliere Antonio Cianci, l’ergastolano che ha accoltellato un uomo all’ospedale San Raffaele di Milano, era in permesso premio per far visita alla sorella. La decisione è stata presa dal giudice di Sorveglianza dopo aver ricevuto la relazione dal carcere di Bollate. Nel documento si diceva come Cianci avesse avuto “un cambiamento reale nei comportamenti”. Peraltro era stato escluso che fosse ancora “socialmente pericoloso”. In effetti per due volte si era comportato bene. È il sistema di concessione dei permessi premio che non funziona? O è un caso a sé?

Non funziona un sistema in cui la previsione circa il pericolo che si torni a delinquere si basa solo su dati teorici. In altri sistemi, dove le misure alternative funzionano, esiste una verifica quotidiana, con controlli mirati di polizia, sul comportamento tenuto da coloro che ottengono un beneficio. È venuto il momento di puntare sulla polizia penitenziaria, l’unica forza di polizia che può fare funzionare le misure alternative, ma deve avere nuovi compiti sul territorio. Le misure dovrebbero essere concepite come dinamiche, graduali e sottoposte a costante controllo. Se saranno riscritte così la loro incidenza si moltiplicherà e il carcere – come è giusto – sarà destinato prevalentemente ai detenuti più pericolosi. Sarebbe l’attuazione vera e non retorica del principio di pena rieducativa.

Qual è il ruolo di chi opera in carcere e stila relazioni determinanti per le decisioni dei giudici di Sorveglianza?

È un ruolo importante di responsabilità, mi risulta svolto in modo professionale, quindi non va demonizzato. Ma se rimane un’attività basata solo su dati cartacei e sulla formale buona condotta interna del detenuto, purtroppo non basta.

Cosa pensa, in generale, del ruolo del giudice di Sorveglianza?

È una funzione altrettanto delicata e va tutelata perché esistono anche i casi di detenuti che hanno cambiato vita e per costoro non sarebbe giusto pregiudicare la concessione dei benefici. Vorrei far notare che nel caso citato il giudice aveva espressamente richiesto nel provvedimento un qualche accompagnamento del condannato per le prime concessioni . Quindi, si era reso conto di questa necessità di controllo e di gradualità. Peccato che ciò che è suggerito dalla logica non è previsto espressamente dalla legge. E soprattutto manca una fase normata sul controllo di polizia.

Questo caso ha fatto parlare di nuovo della sentenza prima di Strasburgo e poi della Corte costituzionale a favore dei permessi premio, su decisione del giudice di Sorveglianza, agli ergastolani che hanno il carcere ostativo, nel caso in cui abbiano rotto con l’associazione criminale.

Infatti è quello il problema. Immagini quanto sia più difficile essere sicuri che qualcuno non ritorni a delinquere quando si tratta di una organizzazione mafiosa dal cui vincolo si può liberare solo con la morte. E non bisogna neppure dimenticare i debiti che si possono maturare nei confronti di Cosa Nostra, specie se questa, durante la detenzione, ha provveduto ad alcuni bisogni della famiglia.

È un’altra faccia della stessa medaglia o sono cose distinte?

Distinte, perché tra i detenuti comuni le possibilità di cambiamento di vita dovrebbero essere più ampie. Ma, quando c’è qualcuno più debole che potenzialmente può avere diritto a un beneficio, chi è più forte tende ad assicurarselo per prima.

 

La Scheda
Il passato di Cianci
Antonio Cianci è stato condannato all’ergastolo per aver ammazzato quattro persone: tra il 1974 e il 1979 uccise un metronotte e tre carabinieri
Il presente
Venerdì scorso durante un permesso di 12 ore – il terzo ottenuto durante la detenzione – Cianci, 60 anni, ha tentato di rapinare un uomo di 79 anni; lo ha accoltellato all’interno dell’ospedale San Raffaele di Milano. Chiesta la convalida dell’arresto e la custodia in carcere per “pericolo di reiterazione del reato”

Berlusconi non risponde su Dell’Utri e Cosa Nostra

L’elenco delle domande era pronto in una cartella sul banco del pubblico ministero: oltre a quella principale (“ha mai ricevuto minacce mafiose veicolate da Marcello Dell’Utri quando presiedeva il suo primo governo nel ’94?’’) che sarebbe stata posta dalla difesa dei Marcello Dell’Utri, i pm avevano preparato una raffica di quesiti (“come mai ha presentato nel ’94 un ddl per modificare la custodia cautelare interrompendo l’automatismo tra reato e galera?”), per valutarne l’attendibilità, in parte ricavati dalle sentenze passate in giudicato che ne dipingono il ruolo di vittima pagante di Cosa Nostra, per oltre 24 anni. Ma nell’aula bunker dell’Ucciardone presidiata quasi come ai tempi del maxiprocesso, Silvio Berlusconi ieri ha confermato che, per lui, sui rapporti con Dell’Utri ai tempi del suo primo governo, nel ’94, la parola migliore, come recita un detto siciliano, “è quella che non si dice”.

L’uomo di Arcore ha impiegato pochi secondi per pronunciare davanti al presidente Angelo Pellino la formula di rito, dopo essersi schiarito la voce e avere imposto alle telecamere di non riprenderlo: “Su indicazione dei miei avvocati intendo avvalermi della facoltà di non rispondere”, ha detto al processo d’appello per la Trattativa Stato-mafia. Dopo una prima convocazione andata a vuoto il 3 ottobre scorso, Berlusconi sceglie il silenzio sui suoi rapporti con Dell’Utri, condannato in giudicato per mafia, come aveva già fatto 17 anni fa a Palazzo Chigi, interrogato nel processo Dell’Utri sul reclutamento ad Arcore del fattore mafioso Vittorio Mangano. L’esito della deposizione è apparso scontato, essendo già stato anticipato nei giorni scorsi dal deposito, da parte dei suoi avvocati Francesco Centonze e Niccolò Ghedini, del certificato di iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Firenze per le stragi del ’93, che poneva Berlusconi nella posizione di indagato, in grado di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande dei difensori del suo amico palermitano. Decisione che aveva fatto infuriare la moglie di Dell’Utri, Miranda Ratti, che aveva espresso “sorpresa, rabbia, incredulità e una grandissima amarezza: qui c’è la vita di Marcello in gioco. È meglio che non parlo, meglio che non dico quello che penso”.

Per superare lo scoglio del silenzio, i difensori di Dell’Utri hanno giocato una carta a sorpresa, chiedendo alla Corte di proiettare in aula un’intervista in cui Berlusconi, il giorno della sentenza sulla Trattativa, negava di avere ricevuto minacce da Cosa Nostra. Ma i pm si sono opposti (Giuseppe Fici: “Quest’aula non è uno studio televisivo’’, Sergio Barbiera: “È un modo per eludere la testimonianza diretta”), poiché a quel punto sarebbe bastato chiedere a Berlusconi “è lei il soggetto che parla nell’intervista?’’, per introdurre nel processo la sua smentita alle accuse costate la condanna a Dell’Utri. La Corte ha negato la proiezione (“La visione da parte del giudice non costituisce attività diretta di acquisizione della prova”) disponendo la trascrizione dell’audio, per la quale è stato incaricato un perito.

Rimangono nell’ombra i misteri legati ai ricatti mafiosi della stagione stragista ’93-’94 al governo Berlusconi, citati dalla sentenza di primo grado sulla Trattativa e recentemente alimentati dalle parole del pentito Francesco Squillaci, secondo il quale dal carcere Mangano “scriveva telegrammi a Berlusconi, gli chiedeva aiuto per non essere più massacrato, solo che tornavano tutti indietro e lui poi li stracciava”, come ha raccontato il pentito ai giudici della Trattativa, sostenendo che Mangano diceva a suo padre (Giuseppe Squillaci, ndr) che “Berlusconi era l’unica persona che poteva aiutare i mafiosi”.

Due anni e 8 mesi a Lara: “Seguì il marito e il jihad”

Secondo l’accusa aveva dato “un apporto determinato e consapevole al fronte jihadista”. Secondo la Corte d’assise di Alessandria è colpevole di aver fiancheggiato l’Isis in Siria. Per questa ragione Laura “Khadija” Bombonati, 28enne di Tortona (Alessandria), è stata condannata ieri a due anni e otto mesi di carcere più un anno di libertà vigilata in una comunità.

La giovane si trova nel carcere della Vallette a Torino ormai dal 23 giugno 2017, giorno in cui le Digos di Alessandria e Torino l’hanno fermata nella casa della sua gemella a Tortona. Oggi 28enne, stava progettando il suo ritorno in Siria, dove aveva già vissuto tra il 2014 e il 2016 insieme al marito, Francesco Cascio detto “Mohamed”, foreign fighter trapanese, ritenuto morto sul fronte intorno al 26 dicembre 2017.

Si erano conosciuti nel 2010 tramite Internet, in un forum per appassionati di autolesionismo e poi si erano radicalizzati nel 2011. Insieme avevano deciso di raggiungere la Siria: “Cercavamo soltanto un posto per professare la nostra fede senza essere derisi”, ha detto Bombonati durante il processo. Qui però le cose andarono male: stando a quanto la donna ha riferito ai giudici, sarebbe stata imprigionata e violentata. È tornata in Italia dopo esser stata arrestata in Turchia, mentre cercava di passare la frontiera siriana con documenti falsi. Rientrata dalla sua famiglia è stata poi monitorata dalla polizia che è riuscita a bloccarla prima di un viaggio in Belgio, dove avrebbe dovuto sposare un altro musulmano per poi ripartire. Il sostituto procuratore antiterrorismo Enrico Arnaldi di Balme aveva chiesto la condanna a due anni e otto mesi e due anni di libertà vigilata.

“Lara è estranea ai fatti, ha dei disturbi di personalità che vanno curati – ha ribadito alle agenzie di stampa l’avvocato Lorenzo Repetti, ricordando le conclusioni dei periti psichiatrici sentiti nel corso del processo –. La sua unica colpa è di aver seguito il marito in Siria, a lui non sapeva dire di no”. Sarebbe stato Mohamed Cascio a frequentare “ambienti radicalizzati”.

Per il difensore, comunque, “l’epilogo è sicuramente deludente in quanto nel corso del dibattimento l’impianto accusatorio è stato smontato: l’accusa di aver prestato supporto logistico e assistenziale alle famiglie di persone decedute in combattimento non poteva sussistere dato che la mia cliente non solo non sa l’arabo, ma è affetta, come hanno dimostrato le perizie, da un disturbo di personalità dipendente. Il fatto di aver collaborato alla creazione di un’associazione con finalità terroristiche non è possibile perché questa è stata costituita dopo che la mia cliente era stata arrestata in Turchia”.

Bombonati potrebbe presto lasciare il carcere per una comunità protetta in cui potrebbe essere seguita.

Sulle alture di Kirkuk, la “tana” dei tagliagole

“Me lo aspettavo. Per colpa di Trump ed Erdogan, l’Isis è resuscitato, anche se qui in realtà non è mai morto. Stava solo facendo finta in attesa dell’occasione giusta per tornare a colpire in modo eclatante”, ci dice al telefono Layla, insegnante di Inglese di Kirkuk, di religione sunnita ed etnia araba. Il giorno dopo l’attacco agli italiani, ecco le voci di chi in quelle zone è costretto a vivere. Via Facebook parliamo con Fatima, anche lei di religione sunnita, ma di etnia curda, che abita a un paio di chilometri da Layla ed è sua collega, ma in un’altra scuola media. “Abbiamo paura che i criminali dell’Isis tornino ad attaccarci, magari di notte, mentre dormiamo. Noi donne siamo le loro prede preferite, ci vogliono ridurre a schiave sessuali come hanno fatto con le yazide. Ma speriamo che i peshmerga e l’esercito iracheno sappiano difenderci”. Parvin invece è sciita e vive nel quartiere dove da decenni si è riunita la maggior parte dei suoi correligionari di Kirkuk. Gli sciiti sono il bersaglio per antonomasia dell’Isis e pertanto questa signora quarantenne, casalinga e madre di 6 figli, è ancora più impaurita delle concittadine sunnite. Le parliamo via whatsapp attraverso il numero del figlio Mahmud che studia Informatica. Anche lui non è tranquillo. Dopo l’attentato di domenica, a pattugliare le strade del nord dell’Iraq ci sono decine di veicoli militari e pick up zeppi di paramilitari sciiti-iracheni, che rispondono direttamente agli ordini della Guida Suprema iraniana Ali Khamenei, oltre ai soldati del debole esercito nazionale iracheno. Ma i convogli si fermano a Kirkuk. È lì che finisce la giurisdizione del governo centrale iracheno e inizia quella della regione autonoma curda, i cui guardiani sono i peshmerga.

Questi costituiscono di fatto l’esercito della regione autonoma del Kurdistan, situata nel nord dell’Iraq, con capitale l’antichissima Erbil, nota nella Bibbia con il nome di Arbela. Fino al referendum sull’indipendenza dal governo centrale indetto nel 2017, il cui risultato a favore della separazione venne subito respinto da Baghdad, la località più strategica della regione autonoma curda era tuttavia Kirkuk. Ed è proprio nell’omonima regione che l’Isis ha colpito i nostri addestratori militari e i colleghi curdi. Kirkuk è considerata da tutti i curdi, non solo quelli che vivono all’interno dei confini iracheni, la propria Gerusalemme in termini identitari e religiosi (la maggior parte dei curdi professa l’Islam sunnita) nonché la propria riserva di petrolio e gas. La strada tra Erbil e Kirkuk è punteggiata di pozzi petroliferi le cui fiamme altissime illuminano perennemente i giorni e le notti. La regione di Kirkuk è di fatto un unico enorme giacimento ed è la zona in assoluto più ricca di oro nero di tutto l’Iraq. Per questa ragione è contesa tra la regione autonoma e il governo centrale. Con il pretesto dell’esito “ribelle” del referendum, Baghdad l’ha riportata sotto il proprio governo dopo anni di gestione curda. Nel 2014, quando i peshmerga erano impegnati con la coalizione internazionale a combattere l’Isis a Mosul, i jihadisti attaccarono a sorpresa Kirkuk dove vivono in quartieri rigidamente separati sciiti, sunniti, turcomanni sciiti e turcomanni sunniti e cristiani aramaici. I peshmerga intervennero in ritardo ma, alla fine, riuscirono a scacciare i tagliagole del Califfato islamico che si ritirarono, nascondendosi sulle alture circostanti.

E lì sono rimasti, pronti a tornare in azione la notte specialmente lungo l’arteria che porta a Baghdad. Rapiscono e taglieggiano non solo chi si arrischia a percorrerla, ma attaccano anche i villaggi circostanti. Anche a causa dei disordini in corso in tutto l’Iraq, tumulti che tengono impegnati le forze di sicurezza irachene e le milizie sciite alleate sostenute dal confinante Iran, i jihadisti sopravvissuti alla disfatta di Mosul e quelli nascosti sui monti di Kirkuk hanno mostrato di essere di nuovo capaci di rientrare in azione. Ai danni anche dei nostri soldati.

L’Isis rivendica, l’Italia: “Noi restiamo in Iraq”

L’Isis rivendica l’attentato nei pressi di Kirkuk, contro i militari italiani e i peshmerga curdi. “Con l’aiuto di Dio, soldati del Califfato hanno colpito un veicolo 4×4 con a bordo esponenti della coalizione internazionale crociata ed esponenti dell’antiterrorismo peshmerga nella zona di Kifri, con un ordigno, causando la sua distruzione e ferendo quattro crociati (i soldati italiani, ndr) e quattro apostati (i militari iracheni, ndr)”. I terroristi del Daesh hanno utilizzato un ordigno improvvisato, uno Ied (Improvised explosive device). L’esplosivo è scoppiato al passaggio di un team misto di forze italiane e irachene, ferendo 5 militari italiani (tutti dei reparti speciali: due parà del nono reggimento d’assalto Col Moschin dell’Esercito e tre del Comsubin, incursori di Marina). Tre di loro sono in gravi condizioni e hanno dovuto subire amputazioni, ma nessuno è in pericolo di vita e appena le loro condizioni si stabilizzeranno verranno riportati in patria.

Sull’attentato si è concentrato il Consiglio supremo di Difesa che si è svolto al Quirinale, alla presenza del capo dello Stato, Sergio Mattarella, del premier Giuseppe Conte e dei ministri Luciana Lamorgese, Stefano Patuanelli, Luigi Di Maio, Lorenzo Guerini e Roberto Gualtieri e del Capo di Stato Maggiore della Difesa, il generale Enzo Vecciarelli, che ha spiegato: “L’attacco conferma che il terrorismo transnazionale resta la principale minaccia per l’Italia e per tutta la Comunità internazionale. È necessario continuare a garantire la nostra presenza nelle principali aree di instabilità e contribuire con decisione alle strategie tese a sviluppare un efficace sistema di contrasto comune al fenomeno”. Dura la condanna del governo italiano. “Giovedì sarò a Washington proprio per la riunione della coalizione anti-Isis. Il messaggio che porterò sarà molto chiaro: l’Italia non indietreggia e mai indietreggerà di un centimetro di fronte alla minaccia terroristica. Lo Stato italiano reagirà con tutta la sua forza di fronte a chi semina terrore e colpisce persone innocenti, tra cui donne e bambini”, ha scritto su Facebook il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Dall’Ue la solidarietà dell’Alto rappresentante per gli Affari esteri Federica Mogherini, che insiste sulla “necessità di continuare a mantenere un livello di attenzione molto alto e continuare a impegnarci per la stabilizzazione dell’Iraq. Non dobbiamo mai dimenticare che ci sono paesi, l’Iraq ma non solo, che devono essere accompagnati nel loro percorso incidentato e di consolidamento”.

“Auguriamo pronta guarigione a tutti i feriti”, ha affermato ieri un alto funzionario Nato interpellato dall’agenzia AdnKronos, specificando che i 5 militari “non stavano operando nel quadro Nato, dato che l’Alleanza non è presente nell’area in cui questo incidente si è verificato. Apprezziamo il continuo contributo dell’Italia al nostro sforzo collettivo contro tutte le minacce terroristiche in Iraq”.

Il presidnete americano Trump ha poi affermato che il successore di Abu Bakr al-Baghdadi, il fondatore dello Stato Islamico (Isis) ucciso in un raid nel nord della Siria poco più di 2 settimane fa, “è nel mirino degli Usa”. “Grazie ai guerrieri americani, al-Baghdadi è morto, il suo vice è morto, abbiamo gli occhi sul numero tre – ha proseguito Trump – Il suo regno del terrore è finito e i nostri nemici stanno correndo molto, molto spaventati. Chi minaccia il nostro popolo non ha alcuna possibilità contro la giusta potenza dell’esercito americano”.

Astaldi, i dubbi sull’indipendenza dell’uomo dei conti finito a Intesa

Scendono in campo i luminari del diritto nella questione chiave del caso Astaldi.

Il professor Guido Alpa per Astaldi e i professori Niccolò Abriani e Andrea Zoppini per l’attestatore del piano Astaldi (Corrado Gatti) hanno fornito ben tre pareri pro veritate per sostenere le tesi di Astaldi e del suo uomo dei conti. Per tutti e tre, il professore di economia Corrado Gatti, nominato attestatore di Astaldi un anno fa, poi nominato nel Cda di Intesa, resta indipendente. Però Gatti è indagato per corruzione in atti giudiziari con i Commissari giudiziali Francesco Rocchi e Stefano Ambrosini perché (in cambio della prevision di compensi più alti nel piano di Astaldi) i due non avrebbero sollevato il problema dell’incompatibilità di Gatti che ora i tre super-professori chiudono con un tratto di penna.

I pareri dei professori, tra i più importanti nel settore del diritto civile e commerciale d’Italia, sono stati resi quando nessuno sapeva che il loro collega fosse indagato: lo abbiamo svelato venerdì 8 novembre. Quei pareri sostengono in soldoni che Corrado Gatti, attestatore del piano di risanamento di Astaldi, è rimasto indipendente, come richiede la legge, anche dopo la sua nomina nel Cda di Banca Intesa, importante creditore di Astaldi, interessata al concordato preventivo asseverato da Gatti.

Per i pm, da un lato due dei tre commissari di Astaldi, cioé Rocchi e Ambrosini (il terzo è estraneo all’inchiesta) “si facevano promettere compensi sulla base dell’aliquota media (circa 36 milioni di euro) e non minima (circa 21 milioni) che Gatti in quei termini indicava nella relazione di attestazione” e dall’altro la to i commissari “omettevano di rilevare le cause di incompatibilità dell’attestatore Gatti essendo stata da subito loro nota la nomina del Gatti a componente del Cda di Intesa”.

I pareri dei tre super-professori sono finiti sul tavolo dei giudici. Alla fine infatti sarà il presidente della sezione fallimentare Antonino La Malfa con il giudice delegato Angela Coluccio a dire una volta per tutte se il consigliere di Intesa Gatti è indipendente per Astaldi o no. E da questa scelta discenderanno molte conseguenze. Non tanto sul piano penale ma sul piano del salvataggio di Astaldi asseverato proprio dall’attestatore (indipendente?) Gatti. La materia è complessa e bisogna spiegare tutto dall’inizio.

Astaldi, secondo gruppo italiano delle costruzioni non riesce a far fronte a un debito di 3 miliardi e mezzo e a ottobre 2018 chiede il concordato preventivo al Tribunale di Roma che nomina tre commissari giudiziali. Il piano di risanamento che passa nella sua seconda versione solo il 5 agosto 2019 si basa sui conti ‘attestati’ per Astaldi dal professor Gatti.

Il 17 ottobre l’associazione dei consumatori Aduc solleva il problema della mancata indipendenza del consigliere di Banca Intesa Gatti. Il Tribunale e i commissari decidono finalmente di fare una verifica. In quel periodo, Astaldi e Gatti si rivolgono ai tre luminari per puntellare Gatti ma in ultima analisi anche il piano di risanamento che ha asseverato. Il 30 ottobre però la Guardia di Finanza si presenta a casa dei due commissari e dell’attestatore a sequestrare i loro telefonini. I commissari Francesco Rocchi e Stefano Ambrosini e Gatti scoprono di essere indagati per corruzione in atti giudiziari. Rocchi si dimette subito, Ambrosini che è indagato anche per istigazione alla corruzione in un secondo filone, resiste.

A prescindere dai presunti reati, molto complicati e tutti da dimostrare, il problema è l’impatto dell’inchiesta sulla procedura di concordato più grande d’Europa. La questione più delicata riguarda proprio il ruolo dell’attestatore Corrado Gatti e la sua indipendenza. I giudici fallimentari hanno chiesto alla Procura le carte dell’indagine e le stanno studiando. Nelle 17 pagine del decreto di perquisizione i pm romani dedicano un paragrafo alla ‘incompatibilità sopravvenuta di Gatti’ e riportano i contenuti di due telefonate.

La prima tra Rocchi e Gatti del 10 aprile 2019 è così sintetizzata: “Gatti spiega che domani dovrà essere a Milano per firmare dei documenti inerenti alla sua candidatura nel CdA di Intesa San Paolo. Rocchi si congratula per l’importanza dell’incarico. Gatti riferisce che presso Intesa hanno voluto la presenza di una persona di Roma ‘per tutto un giro che poi magari quando avremo tempo ti dirò’. Rocchi – proseguono i pm – domanda se ci possano essere delle incompatibilità con il ruolo di attestatore di Astaldi, dato che Intesa è uno dei creditori”.

Insomma il proverbiale caso del cliente che chiede all’ oste se il vino è buono. “Gatti – scrivono i pm – risponde che secondo lui non ci sono problemi, visto che lui è attestatore e non advisor. Rocchi concorda, dicendo che, peraltro, ha già firmato la relazione (attestazione, ndr). Rocchi chiede “quando ci sarà l’assemblea (di Intesa). Gatti risponde che si terrà il 30 aprile”.

Il Fatto ha sentito Corrado Gatti che spiega in sintesi la tesi che i tre pareri argomentano meglio: “Nel CdA di Intesa sono un consigliere non esecutivo indipendente e componente del comitato di controllo, per legge devo avere requisiti di indipendenza rafforzati, come quelli del sindaco delle società. Sono entrato in Intesa il 30 aprile. Il primo piano di Astaldi risale a febbraio e, dopo la nomina in Intesa, è stato fatto solo un aggiornamento a giugno”.

Stefano Ambrosini e l’altro commissario che non è indagato, Vincenzo Ioffredi, secondo La Stampa “avrebbero presentato una relazione sulla non indipendenza di Gatti”. Però nel decreto è citata una sintesi stringata di una telefonata di Ambrosini del 19 ottobre, due giorni dopo l’esposto Aduc: “Ambrosini afferma di essersi già speso per Gatti, nel tentativo di sterilizzare e smorzare sul nascere la questione della incompatibilità”. Ora spetta al Tribunale decidere se Gatti è incompatibile e se Ambrosini debba restare al suo posto.

Giunta Raggi: ritardi, errori e cose fatte a 19 mesi dalle urne

Il sindaco di Roma è un po’ come l’allenatore della Nazionale: accetti il ruolo, ma sai che ti crocifiggeranno. La Capitale è una città malata, su cui si abbattono sfighe tragicomiche che finiscono nei titoli dei tg e, ora, pure nei testi di cantautori più o meno impegnati. Siano nevicate inedite, nubifragi mai visti o branchi di cinghiali infestanti. Dietro le cover-story ci sono 3 milioni di persone, che nel 2016 si sono rivolte al M5S per provare a guarire le metastasi portate a galla dall’inchiesta Mondo di Mezzo.

“Cosa resterà di Virginia Raggi in Campidoglio?”, ci si comincia a chiedere a 19 mesi dalle Comunali del 2021, incalzati dalla propaganda salviniana che vorrebbe (ri)consegnare Roma a chi la definiva “ladrona” fino all’altroieri. Di certo un lungo periodo di assestamento, con soli 2 assessori sui 24 nominati che sopravvivono dal primo giorno e tanti errori nelle nomine dei manager, rivelatisi non adatti, non in linea o a volte serpi in seno. In alcuni casi si è agito con coerenza per la via più difficile, come con il concordato preventivo di Atac o puntando testardamente (solo) sulla raccolta differenziata; in altri con colpevole ritardo, come con la riforma delle partecipate. Senza contare il valzer dei fedelissimi: Raffaele Marra, subito messo kappaò dalla Procura, o Luca Lanzalone, consigliato dai vertici M5S, diventato l’indagato chiave nell’inchiesta sullo stadio dell’As Roma. La stessa Raggi per un anno intero è stata condizionata da un’inchiesta su una nomina, per poi sentirsi dire che “il fatto non costituisce reato”. Come la sua prima assessora all’Ambiente, Paola Muraro.

Nel frattempo cosa è stato fatto alla guida della Capitale? “Quel che si può”, perché le risorse, da elemosinare presso Regione e governo, sono sempre troppo poche per una città che ospita il 5% della popolazione italiana. Su ogni macro-ambito, Il Fatto Quotidiano propone un fact checking necessariamente sintetico delle cose fatte e non fatte in questi tre anni e mezzo. Tenendo presente che in queste ore in Campidoglio gira la bozza del ddl su Roma Capitale, che potrebbe trasformare la Capitale in una città-regione, con poteri ed economie mai viste. Il regalo più importante per il prossimo sindaco di Roma.

 

 

Strade
Buche: appalti più efficienti, ma restano 80 milioni di euro per 5.500 km di vie

Le buche stradali rappresentano una delle piaghe romane. Nell’ultimo anno e mezzo c’è stato un miglioramento. L’obiettivo del Campidoglio, a fine 2019, è di arrivare a 1 milione di metri quadri di strade riasfaltate in 24 mesi, il 9% degli 11 milioni di competenza del Dipartimento Lavori pubblici, è vero, ma solo l’1,5% del totale considerando tutti i 5.500 km di strade romane, municipi compresi.
Merito di appalti più efficaci, poiché i fondi stanziati sono sempre gli stessi: nonostante la promessa di un “piano Marshall” da parte dell’ex assessora Margherita Gatta, l’importo non ha mai superato gli 80 milioni di euro l’anno. La manutenzione stradale va avanti a due velocità. Le strade comunali contano 800 km (il 20% del totale), quelle municipali 4.700 km. E ai 15 municipi sono destinati solo 30 milioni l’anno (2 milioni ciascuno) per la manutenzione, con la Procura che indaga su possibili “distrazioni” di fondi nei parlamentini locali. In ultimo il tema della pulizia di tombini e caditoie. Il bando è fermo da 3 anni e ci sono 5 milioni di euro inutilizzati: la sindaca Virginia Raggi ha annunciato lo stanziamento di altri fondi per l’assegnazione di una gara in vista della prossima estate.

 

Ambulanti
Lotta a bancarelle e “tavolini selvaggi”, tra delocalizzazioni e abusivismo cronico

L’attività sulle bancarelle che intasano marciapiedi e parcheggi si sta dimostrando efficace. La prima delibera del 2017 ha portato a delocalizzare nei municipi oltre 100 ambulanti, risolvendo tre criticità chiave come quelle di Tiburtina, Tuscolana e viale Regina Elena. Va peggio nel centro storico ma, bisogna dirlo, non per colpa del Campidoglio: il presidente della commissione commercio, Andrea Coia, aveva pronta una delibera che avrebbe portato al contingentamento e alla delocalizzazione negli altri municipi, ma il provvedimento è stato bloccato dai vertici nazionali del M5S che avevano visto montare la rabbia dei bancarellari a ridosso delle elezioni europee di maggio. Critica la situazione derivante dalla lotta al cosiddetto “tavolino selvaggio”, iniziata ai tempi di Alemanno, che in realtà sta privando ristoratori storici di preziosi spazi all’aperto. Fin qui i dehors sono stati vietati in 166 strade su 1600 per ritardi burocratici, pescate a caso dai cassetti degli uffici dipartimentali, condizione che ha fatto esplodere l’abusivismo. Chissà se il settore verrà aiutato dalle pedonalizzazioni, da sempre pallino del M5S romano: dopo le polemiche su via Urbana e via dei Castani, l’ultima proposta è la chiusura parziale di piazza Venezia.

 

Rifiuti
Raccolta, differenziata e trattamento: il vero tallone d’Achille di “Virginia”

Èil tallone d’Achille di Virginia Raggi. Se c’è un ambito in cui si rischia la bocciatura è proprio quello dei rifiuti. Perché, al di là di tutte le attenuanti del caso – che esistono – la città è sporca e la raccolta non funziona (i cittadini, interpellati dall’Agenzia capitolina per il controllo del servizio pubblico, hanno assegnato il voto di 2,6 su 10). Fin qui sono stati cambiati 3 assessori e 7 vertici dell’azienda pubblica Ama, società il cui risanamento non è mai partito. La crescita della raccolta differenziata ha subìto una frenata dai tempi di Ignazio Marino, salendo in media di un solo punto percentuale l’anno. Il rogo del tmb Salario – probabilmente doloso – non ha portato nuovi investimenti sugli impianti di trattamento, costringendo Roma a essere dipendente dalle società del re di Malagrotta, Manlio Cerroni, per circa 1.500 tonnellate al giorno di indifferenziato su 2.700 totali. La flotta dei camion che raccolgono i rifiuti è funzionante al 50%. Ama vorrebbe che l’ordinanza dell’estate 2019 firmata da Zingaretti fosse resa permanente, perché avrebbe dimostrato che gli impianti laziali esistenti sono (appena) sufficienti. Va detto che Virginia Raggi è stata lasciata sola, in un settore dove s’intrecciano interessi legali e non: lei l’ha denunciato e probabilmente ha ragione.

 

Sicurezza
Le ville dei Casamonica abbattute e la commissione sulle case occupate

La sicurezza nelle città è di competenza delle prefetture, ma un sindaco può comunque fare tanto, sia partecipando al comitato per l’ordine e la sicurezza, sia mostrando vicinanza fattiva ai propri cittadini. A livello simbolico e sostanziale, Virginia Raggi – nel limite dei suoi poteri – si sta muovendo tanto contro la criminalità organizzata. La demolizione nel 2018 delle case abusive dei Casamonica porta anche la firma della presidente del Municipio VII, la pentastellata Monica Lozzi, che ha trovato i fondi e avviato pratiche ferme anche da 20 anni. Poi c’è l’operato del comandante dei vigili, Antonio Di Maggio, che ha creato una commissione ad hoc sulle case occupate e ha avviato una serie di blitz contro i clan, portando avanti operazioni simboliche come la cancellazione del murales dedicato al boss Cordaro di Tor Bella Monaca. Anche la coraggiosa solidarietà espressa alla famiglia di Casal Bruciato è un segnale di legalità. Si va a rilento su Ostia, dove si sta procedendo alle revoche delle concessioni balneari – molte incastrate al Tar – ma sul lungomuro e sugli accessi al mare si registra una certa inerzia. Perplessità desta l’idea di acquistare dalla famiglia Armellini le “case di sabbia” di Nuova Ostia, quartier generale degli Spada, dove abitano circa 1.200 persone.

 

Bilancio e partecipate
Non migliora il recupero di Tari e multe. E il Comune incassa solo il 50% dei crediti

Iconti sono in ordine, i documenti finanziari approvati nei tempi previsti e il ricorso ai debiti fuori bilancio è ridotto al lumicino. Resta la difficoltà nel rimediare risorse. I dati sul recupero dell’evasione di Tari, multe stradali e tariffe comunali varie, ad esempio, non sono in miglioramento. Il Campidoglio, come in passato, riesce a incassare solo il 50% dei propri crediti, come si evince dal rendiconto di bilancio 2018 e in particolare dal fondo svalutazione crediti. La grande questione resta quella dei 12 miliardi di debiti pregressi, iscritti alla gestione commissariale, per la quale Virginia Raggi ha ottenuto la ridiscussione dei tassi bancari con un risparmio di 2,5 miliardi. Ma la vera “bomba” sui conti riguarda le aziende municipalizzate, che a causa dei loro 3 miliardi di debiti rischiano di compromettere le casse capitoline. Particolare attenzione va fatta ai crediti che queste società hanno con l’amministrazione, ben 1,4 miliardi di euro: le 9 municipalizzate ottengono circa 2 miliardi di euro dal Comune in contratto di servizio, di cui 1,2 miliardi vengono spesi per pagare i 24.000 dipendenti (dati riferiti alle 9 municipalizzate al 100% del comune). È un cane che si morde la coda, dove perde sempre il Campidoglio.

 

Cultura
Il grande balzo di musei e spazi espositivi. E poi cinema, street-art e Capodanno

L’operato del vicesindaco Luca Bergamo in questi tre anni e mezzo è tangibile. In città si sta rivitalizzando il ruolo dell’azienda PalaExpo, sotto la guida del presidente, l’artista Cesare Pietroiusti, e del dg Fabio Merosi. Nel 2018 i visitatori totali del Palazzo delle Esposizioni sono arrivati a toccare quota 265.000, cui bisogna aggiungere i 142.000 del Macro Asilo di via Nizza e gli 87.000 del Macro Testaccio. Il Macro Asilo, secondo le stime di Federculture, è passato dal 52° al 32° posto fra gli spazi espositivi più visitati d’Italia, nonostante il curatore uscente, Giorgio De Finis, che ha tentato di replicare l’esperienza autogestita del Maam, non si sia detto del tutto soddisfatto: a lui succederà a breve Luca Lo Pinto. Buone recensioni ha ottenuto l’ultimo Roma Film Fest all’Auditorium Parco della Musica, che si appresta a rinnovare i propri vertici. Restano le difficoltà del Teatro dell’Opera, che vede aumentare i debiti nonostante abbia attinto nel 2014 ai finanziamenti della legge Bray. Grande fermento sul fronte della street-art (a Torraccia da poco inaugurato il Miglio d’Arte) mentre da qualche anno Roma è tornata ad avere un Capodanno di piazza più che discreto, con Skin degli Skunk Anansie che si appresta ad accompagnare l’arrivo del 2020.

 

Emergenza abitativa
Nella città dei poteri forti del mattone in 20 mila hanno bisogno di un tetto

L’emergenza abitativa è da sempre uno dei temi caldi a Roma, una città dove i big dell’economia locale hanno fortissimi interessi nel mattone. A Roma in 12 mila avrebbero diritto a un tetto, un totale di 20 mila ne avrebbe bisogno. Questo è il dato, al di là delle competenze divise fra Comune e Regione. Fin qui qualcosa è stato fatto. Le assegnazioni delle case popolari fino al 2018 erano di 500 all’anno: sono raddoppiate, ma il ritmo resta basso. La Regione Lazio ha a disposizione 194 milioni di fondi ex Gescal, di cui soltanto 40 milioni sono stati impegnati per la divisione dei vecchi alloggi (la gran parte troppo grandi rispetto ai nuovi nuclei familiari, formati al massimo da 3 persone). Ma serve l’impegno del Comune che fin qui si è fatto trascinare dall’inerzia regionale. Sono 110 le strutture dismesse o sottoutilizzate in attesa di programmi di rigenerazione urbana che tardano ad arrivare e manca totalmente il dialogo con i costruttori. Anche perché nei residence (che vengano chiamati Caat come fecero Veltroni e Alemanno o Sassat come ha voluto Raggi) ci sono ancora 1.100 persone, a carico del Comune. Proseguono le operazioni di uscita dai campi rom nel rispetto dei trattati europei, qualcosa in più rispetto al passato, ma la scadenza del 2020 è troppo vicina.

 

Trasporti
Bilancio Atac in pareggio: aumentano i bus nuovi, però pesa il disastro Metro

Il concordato preventivo dell’Atac ha restituito un lumicino di speranza all’azienda pubblica, che per la prima volta dal 2009 è in pareggio di bilancio. Il servizio resta però pessimo, come certifica il voto di 4,6 su 10 assegnato dai romani secondo l’Agenzia per il controllo dei servizi pubblici del Campidoglio. Si alternano buoni risultati sul fronte della lotta all’evasione tariffaria (+50% di sanzioni rispetto all’anno precedente) e qualche iniziativa simpatica (pos ai tornelli come a Milano o la macchinetta mangia plastica), a disastri totali. La vicenda delle scale mobili è la più recente e quella più attuale: a parte le fermate di Repubblica e Barberini dove indaga la Procura, sono decine gli impianti di traslazione chiusi ogni giorno sulle metro A, B e C. Una programmazione superficiale porterà alla chiusura per ben 3 mesi delle fermate Cornelia e Baldo degli Ubaldi. Bene l’arrivo di 227 nuovi autobus che via via stanno prendendo servizio (al 31 ottobre siamo a quota 206, cui vanno aggiunti 38 a noleggio e 13 minibus elettrici). Ma il saldo rispetto a ottobre 2018 è di 50 bus in circolazione in meno. Il servizio reale rispetto a quello programmato è ancora al 91%. L’azienda ad oggi utilizza contemporaneamente 1.100-1.200 vetture delle 1.936 totali.

 

 

La “grande famiglia”. Maglie sbarca su Rai 1

Maria Giovanna Maglie in Rai c’è, anche se resta fuori dall’inquadratura. Nella sua vita è stata molte cose: comunista, craxiana, berlusconiana. L’ultima maschera è il salvinismo. Intellettuale dal vivace gusto della provocazione – una “simpatica stronza”, copyright di Giuliano Ferrara – Maglie assume la forma che le rende massimo il profitto: per tornare in tv ha puntato sul cavallo sovranista.

È fatto noto che sia stata vicinissima ad avere un programma tutto suo: una striscia quotidiana dopo il Tg1 delle 20, lo stesso spazio che fu di Enzo Biagi. Succedeva a febbraio, molti mesi prima dell’implosione del governo gialloverde. Allora si misero di traverso i Cinque Stelle: pare sia stato personalmente Rocco Casalino a combattere perché quel progetto fallisse.

Malgrado questo la Maglie in Rai conta eccome. Intanto perché è stata lei a ispirare la nomina di Teresa De Santis a direttrice di Rai Uno: Mgm in persona avrebbe sussurrato il suo nome all’orecchio di Salvini. I due non nascondono la loro frequentazione: “Ci siamo conosciuti su Twitter dove ci seguiamo a vicenda – ha detto lei in un’intervista a La Verità –. Abbiamo iniziato a sentirci. È il leader più grande dopo anni senza grandi leader”.

Quello tra Maglie e De Santis (ripescata dopo anni di stagnazione alla guida del Televideo) è un rapporto di ferro, cementato da una terza donna: Francesca Immacolata Chaouqui (quella dello scandalo Vatileaks, amica e collaboratrice della giornalista). Un triangolo femminile che a Rai Uno conta parecchio. E qui torniamo alla partenza: Maglie c’è anche se non si vede. In video invece va suo marito Carlo Spallino Centonze, nuovo giudice de La Prova del cuoco. Venti anni più giovane della moglie, Spallino è marchese per grado nobiliare; designer di gioielli, pittore e artista per vocazione. Ma pure cuoco autodidatta e “storico di cucina”: così almeno è stato inquadrato in Rai Uno.

Non è l’unico del “Team Maglie” ad aver trovato spazio sulla prima rete. Come riporta La Notizia, anche l’amico di Mgm Andrea Velardi è stato chiamato a lavorare da autore al Caffè di Rai Uno. E Cesare Rascel, frequentatore delle feste di Maria Giovanna, è riuscito a far trasmettere su Rai Uno la serata-premio in onore di suo padre Renato, il comico scomparso. Un evento la cui comunicazione – ça va sans dire – è stata curata dalla società di Francesca Chaouqui.

Il dubbio emiliano: non è che i giallorosa giocano a perdere?

“La vita punisce chi arriva in ritardo”: la frase con la quale Michail Gorbaciov ammonì il leader della Ddr, Erich Honecker, alla vigilia della caduta del Muro di Berlino, si attaglia a Pd, M5S e ai loro alleati che brillano per assenza nella campagna elettorale delle Regionali in Emilia Romagna.

Voto che Matteo Salvini considera il suo personale Muro di Berlino da abbattere prima di marciare su Roma, tanto d’aver piantato con largo anticipo le tende nella regione, non più rossa come un tempo e che oggi considera terra di conquista. Ciò che colpisce non è certo l’attivismo del Matteo verde (che per il 14 novembre ha requisito il Paladozza di Bologna il cui sold out verrebbe garantito dalle truppe cammellate leghiste mobilitate da tutto il nord) bensì la scomparsa degli altri.

Per esempio, sabato scorso, il cosiddetto capitano arringava 200 attivisti proprio al centro di Reggio Emilia (Galleria Broletto) e proprio all’ora della movida. Posizionamento strategico che trasmetteva ai numerosi passanti una sensazione di padronanza politica, di sicurezza come se il risultato del prossimo 26 gennaio fosse soltanto una formalità.

Vero è che alla domenica l’ex vicepremier in tour in quel di Carpi e di Ferrara si beccherà qualche corposo dissenso ( “Salvini, sei solo un mezzo Mussolini”), ma la domanda di fondo non cambia: perché i suoi avversari lo lasciano, senza minimamente mobilitarsi, padrone della piazza? A sostegno, tra l’altro, di una candidata dall’immagine politica piuttosto debole e controversa come Lucia Borgonzoni? Tre le ipotesi possibili.

È troppo presto. Ottanta giorni dal voto è vero sono parecchi, ma se Salvini gioca con tanto anticipo è perché ha capito che alla fine decisivo potrà essere il voto dei numerosi incerti. Per cui seminare nella loro testa l’idea che in fondo lui è molto meglio di come viene descritto è un buon investimento sul futuro. Infatti, ad ascoltarlo non ci sono le teste rasate, ma tante persone che dichiarano di aver sempre votato a sinistra. Che oggi, leggiamo nei resoconti dei giornali, apprezzano di Salvini, “l’umiltà”, la “disponibilità a farsi selfie”, i “toni per niente estremisti”. Anche la carta dell’antifascismo non funziona, disinnescata da frasi come questa: “Qui non ci sono fascisti o nazisti o sovranisti, qui ci sono italiani orgogliosi di essere italiani”. Applausi.

Gli altri sono troppo divisi. Esiste un qualunque elettore emiliano-romagnolo convinto di aver capito se e quali partiti sosterranno la rielezione di Stefano Bonaccini? No, per la semplice ragione che, a parte il Pd, ad oggi non esiste nessun elemento di fatto che garantisca la nascita di una coalizione di maggioranza compatta attorno al nome del presidente che si ricandida. Un cartello di cui resta assai improbabile faccia parte il M5S, orientato nel migliore dei casi alla desistenza (il che vorrebbe dire lasciare liberi i grillini di votare anche Salvini).

Un personaggio, Bonaccini, che nei giudizi prevalenti non ha governato male, anzi. Un nome non improvvisato, come accaduto in Umbria, che non avrebbe bisogno di iettatorie foto di Narni, ma di una presenza attiva sul territorio degli apparati di partito. E dei loro leader: Zingaretti, Renzi, Bersani, Di Maio. Magari impegnati a tampinare Salvini metro per metro, piazza dopo piazza, come avveniva nel dopoguerra tra democristiani e comunisti. Vasto programma, come diceva De Gaulle a proposito dell’abolizione dei cretini.

Vogliono per forza perdere. È la terza ipotesi, incredibile, pazzesca. Ma ce la stanno mettendo tutta.