I giallorosa in Toscana pronti alla legge “anti-Salvini”

Matteo Salvini venerdì mattina ha lanciato da Firenze la campagna elettorale per conquistare la Toscana ma in Regione si sta venendo a creare un asse inedito Pd-M5S-Italia Viva per cambiare la legge elettorale, quel Toscanellum secondo cui la coalizione che ottiene almeno il 40% avrebbe la maggioranza dei seggi in consiglio regionale senza passare dal ballottaggio.

L’idea, che negli ultimi giorni è balenata più vote nelle chat del Pd e tra i renziani di Italia Viva, sarebbe quella di alzare la soglia del ballottaggio dal 40% al 50% proprio in funzione anti-Lega, data avanti nei sondaggi: nel centrosinistra toscano, infatti, sono convinti che in caso di ballottaggio, nella (ex) regione più rossa d’Italia si verrebbe a creare un argine anti Carroccio in grado di fermare l’ondata salviniana.

Nessuno ne parla apertamente perché intestarsi la modifica della legge elettorale a sette mesi dal voto non sarebbe facile da giustificare di fronte agli elettori e verrebbe letta come paura del centrodestra. Ma l’idea nelle ultime ore è diventata sempre più concreta: “Non serve nemmeno tanto sforzo – dice al Fatto Quotidiano un dem di primo piano in Toscana – basterebbe presentare una legge regionale di un articolo modificando da 40 a 50% la soglia per accedere al secondo turno. E la maggioranza sarebbe trasversale”. I numeri in consiglio regionale ci sono: ai tre voti di maggioranza del centrosinistra, si potrebbero aggiungere i due consiglieri grillini che, pur non volendo un’alleanza organica con i dem, sarebbero più portati a sostenere il candidato di centrosinistra al ballottaggio. E che il rischio sia concreto, lo sanno anche gli esponenti del centrodestra: “Cambiare la legge elettorale su misura non ha mai portato bene – dice Giovanni Donzelli, segretario regionale di FdI – ma comunque noi in Toscana vinciamo lo stesso, con qualunque legge”.

Fiaccole Udc contro i vitalizi “mesozoici”

È in tutta evidenza il primo caso di transgender politico. È successo in Sicilia, ed è accaduto nelle file dell’Udc, storico e glorioso partito da poltrona e che con la poltrona sviluppa il suo senso della sua missione. Invece Vincenzo Figuccia, giovane deputato dell’assemblea regionale, chiama inopinatamente alla lotta tutti i siciliani per questa sera. “Facciamo una fiaccolata contro i vitalizi, contro la casta, contro i dinosauri della politica. Facciamo vedere chi siamo!”.

Il partito che fu di Totò Cuffaro, immortale governatore dall’empatia unica, al punto da essere conosciuto come il re del vasa vasa, un bacio dietro l’altro per i cittadini clienti che lo riverivano; il partito del tenacissimo Lorenzo Cesa campione del negoziato perpetuo per ogni singola seggiola che si trovasse libera; il fortino indiscutibile di Pier Ferdinando Casini quando era ai vertici dello Stato, si ritrova, proprio a Palermo in questo testacoda.

Figuccia, il cui slogan – “mangia sano, mangia siciliano” – tratteggia una devozione gastronomica ma anche, sottinteso, amore limpido per la Trinacria, si ribella alla tradizione, al costume secolare, all’immagine dei politici siciliani come portatori sani della casta, emblemi assoluti, ineffabili protagonisti delle stagioni più buie. E ora che l’assemblea siciliana ancora si contorce nel dibattito per il taglio dei vitalizi, che le altre regioni hanno da tempo provveduto ad approvare, Figuccia chiama l’Udc alla lotta di classe, lo convoca in piazza, lo vuole battagliero e soprattutto anticasta.

Un transgender, dunque. “Finalmente i siciliani hanno deciso di reagire all’onta mesozoica (sic! ndr) dei vitalizi”. Perciò il timore fondato è che Figuccia non abbia carne né ossa, non sia lui insomma, ma un diavoletto di avatar che si è impossessato delle sue credenziali per prodursi in questo piccolo ma indubitabilmente meraviglioso scambio delle parti.

Poche finora le reazioni, e forse perché il grande teatro della politica siciliana non è abituato alle scenate pubbliche e conosce i vizi che si nascondono dietro le virtù. È certo però che Gianfranco Miccichè, il presidente dell’assemblea, l’ultimo potente che Forza Italia ha nei suoi ranghi, rende il quadro ancor più teatrale: “Visto che il governatore Musumeci ritiene che è troppo modesto il taglio del vitalizio della metà, sapete che c’è? Proporrò l’abolizione completa. Via tutto!”.

Naturalmente è una provocazione, figurarsi se Miccichè, che dal primo minuto ha voluto salari più alti per i salariati di lusso dell’assemblea, e più dirigenti, più cravatte nei corridoi, più benessere materiale a palazzo d’Orleans, la bellissima dimora dei potenti siciliani, può mai accedere a un’azione compulsiva, persino dissennata, dettata dal rancore e non dalla ragione.

Il timore adesso però è che di provocazione in provocazione l’assemblea siciliana veramente si trovi a fare i conti con i soldi, che non si è mai negati, e anche con la previdente valutazione che la vita continua anche nell’ipotesi nefasta della trombatura, perché si è nelle mani di un elettorato scapricciato e volubile.

Il vitalizio è dunque, secondo la dottrina maggioritaria, una grande necessità. Da qui il balletto, interminabile, del taglio che diviene raglio collettivo ma mai delibera definitiva.

E oggi a complicare le cose, a rendere tutto più incredibile, la chiamata alle armi, vera? falsa?, di questo Figuccia, giovane e ardimentoso democristiano: “Vi aspetto stasera alle dieci in via Palagonia a Palermo. Vogliamo rompere le catene”.

Alla Camera balla un seggio: è sfida Gualtieri-Cuperlo

Nell’intrico di variabili complesse che toccano i destini della Commissione europea, la difficile vita del governo italiano e gli equilibri interni al Pd, si inserisce anche un seggio. Si tratta di quello conquistato alla Camera da Paolo Gentiloni, dopo la vittoria alle elezioni del 2018 nel collegio uninominale di Roma 1 (che comprende i quartieri centrali della Capitale: Trevi, Monti, Testaccio, Trastevere e Prati). E che deve essere riassegnato tramite elezioni suppletive (reintrodotte dal Rosatellum). Un seggio per il quale Pd pareva deciso a candidare il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri. Ma che le difficoltà di Ursula von der Leyen a formare la Commissione potrebbero far assegnare a un altro. In cima alla lista, Gianni Cuperlo.

Secondo la legge, le elezioni suppletive devono svolgersi entro 90 giorni dal momento in cui la Camera voterà le dimissioni di Gentiloni da deputato. Dimissioni che non ci sono ancora state: non per inadempienza del Commissario agli Affari Economici, ma perché ufficialmente l’ex premier ancora non è stato proclamato (come tutta la sua Commissione). In ogni modo, dal momento della proclamazione, Gentiloni ha 60 giorni per dimettersi: se non dovesse farlo, la Giunta per le elezioni di Montecitorio ne deve dichiarare l’incompatibilità e il seggio torna a essere contendibile.

Quando accadrà tutto questo? Difficile prevederlo. La Commissione a guida Von der Leyen doveva insediarsi il primo novembre, ma sulla sua strada è arrivata la bocciatura di tre Commissari (László Trócsányi, candidato del partito ungherese Fidesz di Viktor Orban, Rovana Plumb, candidata socialista rumena, Sylvie Goulard, candidata francese di Emmanuel Macron). Ora questi sono stati rimpiazzati (da 3 Popolari, Thierry Breton per la Francia, Adina Valean per la Romania e Oliver Varhelyi per l’Ungheria). Per loro, audizioni previste il 14 novembre. Se tutto va bene, la plenaria di Strasburgo dovrebbe votare la squadra di Ursula il 27 novembre. E – sempre se tutto va bene – tale squadra dovrebbe insediarsi il primo dicembre. Ma il percorso è tutt’altro che scontato. L’insediamento potrebbe arrivare a gennaio. O chissà, forse mai, come qualcuno arriva ad ipotizzare.

Nel frattempo, il seggio di Gentiloni è a disposizione, ma anche no. La candidatura di Gualtieri faceva parte dell’accordo complessivo che ha portato il Pd al governo. Il ministro, per venire in via XX Settembre, ha lasciato non solo un incarico di grande prestigio (era appena stato rieletto presidente della Commissione Problemi economici e monetari del Parlamento europeo), ma si è anche dimesso da europarlamentare. Lasciando il posto al renzianissimo Nicola Danti. Altro dettaglio da non sottovalutare in questa partita. Gualtieri, tra i vari incarichi a disposizione dell’Italia, potendo contare su uno sponsor non di poco conto come Mario Draghi, avrebbe forse preferito un portafoglio da Commissario europeo. Gli era stato garantito almeno un paracadute sicuro: un posto da deputato, in caso di fine precoce dell’esecutivo. Ora, al Nazareno raccontano che quel posto invece spetta a Gianni Cuperlo, che aveva rinunciato al seggio sicuro a Sassuolo nel 2018 ed è fuori dal Parlamento. Essenziale il fattore tempo: comunque vada non si voterà prima di marzo. In mezzo, Gualtieri potrebbe risentire sia dell’impatto negativo della manovra, che diventare uno dei volti di punta di un esecutivo perdente. E il seggio di Roma 1 non è affatto una sfida facile: Gentiloni non fu molto felice di vederselo assegnare da Matteo Renzi (fu lui a fare le liste nel 2018), anche se poi conquistò il 42% dei voti, sbaragliando i candidati di centrodestra e del Movimento 5 Stelle (che raccolsero rispettivamente il 30 e il 16 per cento dei consensi).

Nuovo tesoretto per Conte: altri 2 miliardi da Quota 100

Il presidente del Consiglio lo aveva accennato ieri nell’intervista al Fatto Quotidiano: “Stiamo valutando con la Ragioneria dello Stato risparmi da voci sovrastimate”. Il riferimento era a possibili fondi non previsti finora per poter risolvere l’ultima grana interna alla maggioranza relativa alla “plastic tax” e alla tassa sulle auto aziendali.

Quei risparmi, almeno 2 miliardi per il 2020, sono stati già trascritti su un foglio Excel, che il Fatto ha potuto consultare, dell’Inps e riguardano, ancora una volta, “quota 100”, la riforma pensionistica che consente l’uscita anticipata dal lavoro.

In quel file vengono stimati anche ulteriori risparmi per il 2019: 1,487 miliardi contro 1,81 stimati a luglio, quindi 400 milioni supplementari. Che probabilmente non potranno essere utilizzati nei saldi 2019 ormai già definiti.

Ma sono i risparmi per gli anni a venire che potrebbero offrire una novità non di poco conto per i destini della manovra di Bilancio. Nel 2020, infatti, a fronte di costi originari pari a 7,860 miliardi, il consuntivo segna la cifra di 5,641 con un risparmio di oltre 2,2 miliardi. Anche nel 2021 si dovrebbero risparmiare 1,75 miliardi.

La spiegazione sta nel rapporto che l’Inps ha redatto per la Commissione europea e illustrato il 4 e 5 novembre scorsi. Una radiografia dei beneficiari di quota 100, di coloro che sono andati in pensione anticipata con 42 anni e 10 mesi di contributi e di Opzione donna. Nel caso di quota 100, il documento mostra un andamento delle domande presentate all’Inps nettamente discendente rispetto ai picchi iniziali.

Se infatti negli ultimi tre giorni di gennaio 2019, quando la norma è stata applicata, si è avuta una media di 4.060 domande accettate al giorno, e a febbraio si è viaggiato su una media di 3.144, a giugno la media era scesa a 588 che, dopo il picco negativo di 288 domande accettate ad agosto, si è mantenuta a settembre e ottobre con 591 e 562 domande in media.

Il totale fino al 20 ottobre è di 193.058 rimanendo quindi al di sotto dei 205.000 che pure erano stimati a luglio con il “salva-conti”. All’Inps si dicono certissimi di questi risparmi e addirittura ci si spinge a ritenere che nel 2020 si potrebbero risparmiare anche 3 miliardi.

Ce n’è abbastanza per offrire a Giuseppe Conte uno strumento di mediazione nei confronti di chi, vedi Italia Viva, ma anche il M5S, non sopporta le nuove forme di tassazione che pure vanno sotto la voce “Promuovere una maggiore sostenibilità dell’ambiente”.

Matteo Renzi ha già attaccato duramente il governo per la tassa sui prodotti inquinanti, l’aumento della base imponibile ai fini Irpef “del reddito ritraibile per le auto aziendali più inquinanti” fino all’imposta sugli imballaggi di plastica. L’insieme di queste misure è stimato dal Documento programmatico di Bilancio 2020 in 1,7 miliardi per il 2020 (1,08 solo per la plastic tax) e in 2,4 miliardi nel 2021 (1,78 per la plastic tax). Se si procederà a questo scambio, ovviamente, dipende da scelte politiche e parlamentari.

La legge di Bilancio ha appena avviato il proprio iter al Senato e sarà quella la sede in cui saranno definite queste misure. Tra l’altro l’ufficio Studi del Senato ha già definito “sorvastimate” le cifre degli introiti previsti dalla “plastic tax”. Come potrà intervenire però il governo, visto che ha già stimato i risparmi Inps nella Nota aggiuntiva al documento finanziario? La soluzione potrebbe essere la stessa già attuata a luglio in occasione del decreto “salva-conti”. Allora furono individuati i risparmi e poi collocati nella “missione” di bilancio n. 33, cioè i “Fondi da ripartire”. Un congelamento in attesa di “provvedimenti successivi adottati in corso di gestione”.

Ma questi sono aspetti tecnici, quello che sarà decisivo è il quadro politico. Ieri Dario Stefano, vicepresidente del gruppo Pd al Senato e relatore di maggioranza della legge di Bilancio ha auspicato la modifica anche della “sugar tax” e sullo stesso tasto ha battuto il direttore generale di Confindustria, Marcella Panucci, in audizione al Senato: “Tre misure a nostro giudizio sbagliate e, dunque, da cancellare”.

A sostenere il governo, soprattutto per le misure contro l’evasione fiscale, è stata la Cgil mentre un supporto importante è venuto ieri dalla Corte dei Conti secondo cui “la limitazione dell’uso del contante, lungi dal costituire la soluzione dei fenomeni di illegalità e di evasione fiscale, può tuttavia contribuire alla riduzione di tali fenomeni”, quali l’evasione fiscale.

Agli ex commissari già liquidato un acconto totale da 2,1 milioni

Due milioni e mezzo di euro. Secondo un collaboratore di Enrico Laghi sarebbe questo il compenso per l’ex commissario dell’Ilva. La circostanza emerge da un’intercettazione del 4 febbraio scorso agli atti dell’inchiesta della Procura di Roma su alcuni commissari di Astaldi. È scritto: “Antonio Santi (completamente estraneo all’indagine romana, ndr), collaboratore di Laghi, chiama Gatti (l’attestatore del piano di risanamento di Astaldi, ndr)”. Parlando dei compensi per i commissari di Astaldi “Santi commenta che si tratta di una cifra troppo alta, infatti dice che loro (studio Laghi), per il concordato (in realtà un’amministrazione straordinaria, ndr) Ilva, per il momento hanno percepito 600 mila euro e, se tutto va bene, arriveranno a un compenso di 2,5 milioni”. Laghi si è dimesso con gli altri due commissari straordinari di Ilva, Corrado Carrubba e Piero Gnudi, ad aprile scorso. Sentito dal Fatto Laghi spiega: “Non hanno ancora liquidato il compenso e quindi non so quanto sarà (…) Evidentemente Santi avrà fatto una stima, non la cifra perchè non è stata ancora liquidata”. E l’acconto? Sul punto Laghi non ricorda precisamente: “È passato molto tempo”. Fonti del ministero dello Sviluppo economico contattate dal Fatto chiariscono che l’acconto ammonta a 720 mila euro, probabilmente comprensivi di Iva: “A favore dei Commissari Gnudi, Carrubba e Laghi – spiegano dal Mise – sono stati liquidati compensi in acconto pari a 720 mila euro ciascuno per il periodo triennale dal 21 gennaio del 2015 al 20 gennaio 2018. Il decreto di liquidazione compensi è stato firmato dal ministro pro-tempore in data 4 maggio 2018”. Insomma agli ex commissari è già stato dato un acconto che in totale ammonta a oltre 2,1 milioni di euro. A maggio del 2018 il Mise era guidato da Carlo Calenda (governo Gentiloni). A settembre scorso è stato nominato Stefano Patuanelli. Adesso toccherà quindi alla direzione delle amministrazioni straordinarie del ministero dello Sviluppo fare una valutazione sulla liquidazione finale dei tre ex commissari Ilva.

Renzi, due emendamenti per lo scudo “Azione di disturbo, sono inammissibili”

Presto, forse già questa mattina, il presidente del Consiglio che prova a tenere assieme tutto e tutti incontrerà i parlamentari a 5Stelle pugliesi, per rassicurarli e magari anche per capire quanto sia insuperabile la loro resistenza a un eventuale scudo penale per Mittal che “ad oggi è l’ultimo dei problemi ma domani chissà” come riassume una fonte di governo del Movimento.

Però alla porta bussa di nuovo quello che gioca sempre a sparigliare, verbo che fa rima con sfasciare, cioè Matteo Renzi. Perché giorni fa Luigi Di Maio aveva avvertito: “Un emendamento con lo scudo per Mittal sarebbe un problema per il governo”. Così ieri ecco non uno, ma due emendamenti dei renziani di Italia Viva con dentro l’immunità, presentati al decreto fiscale ora alla Camera. Uno contiene uno scudo soft, un’immunità estesa a tutte le aziende in applicazione di quanto già previsto dall’articolo 51 del codice penale: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità esclude la punibilità”. L’altro invece ripristina il vecchio scudo, scaduto il 3 novembre, ed è una provocazione perfino peggiore per i 5Stelle. Infatti Lega e Forza Italia accorrono: “Siamo pronti a votarli”.

Invece la consegna, nel Movimento come a Palazzo Chigi, è non fare il gioco di Renzi, quindi non rispondere. “Tanto quei due emendamenti sono palesemente inammissibili, non prevedono oneri e quindi non c’entrano con il dl fiscale” giurano dal M5S, sicuri che la presidente della commissione Finanze Carla Ruocco non possa che bocciarli: e figuriamoci l’eventuale, ultima istanza, il presidente della Camera Roberto Fico.

Per i grillini quella di Italia Viva è solo “un’azione di disturbo”, evidente tanto più perché il Pd aveva rinunciato a presentare emendamenti: un po’ perché persuaso della loro inammissibilità, ma soprattutto per evitare lo scontro con Di Maio. “Non forziamo” aveva ordinato Dario Franceschini. Perché il M5S in Aula si spaccherebbe come una mela sullo scudo penale, almeno ad oggi, con gran parte dei 39 parlamentari pugliesi che direbbero no. E non solo loro. “Tutti i senatori erano contrari all’immunità per Mittal, non ho dovuto convincerli” rivendicava ieri a Stasera Italia Barbara Lezzi. Renzi ovviamente lo sa e morde. Non solo per cercare visibilità, sospettano nel M5S. “Italia Viva sta tornando a pressare i nostri” racconta un senatore. Non a caso hanno dato fastidio le parole del deputato tarantino Nunzio Angiola: “Sono senz’altro del parere che gli emendamenti di Iv vadano votati”. Tanto che a stretto giro il vicecapogruppo a Montecitorio Francesco Silvestri lo ha censurato: “Angiola parla a titolo personale, il lavoro del governo va rispettato”. Però servirebbe innanzitutto capire cosa fare dell’Ilva. Così va notato che il partito a favore della nazionalizzazione cresce sempre di più nel M5S. Ma è presto. Prima bisogna risedersi al tavolo coi Mittal, che pure cercano di sfuggire. “Ma un nuovo incontro ci sarà da qui a pochi giorni”, dicono fonti da Palazzo Chigi. Da dove assicurano: “Il presidente vuole prendersi il tempo per ragionare su tutte le possibili soluzioni”.

Proprio per questo oggi o al massimo domani mattina (dipende dall’incrocio delle rispettive agende) Conte farà un punto con i parlamentari pugliesi. “La gente a Taranto gli ha fatto capire che lo scudo non può tornare, e che bisogna anche finirla con Mittal” è il pensiero diffuso tra gli eletti locali. E ancora Lezzi rilancia: “Ci vuole una partecipazione pubblica per fare gli investimenti e mettere in sicurezza l’impianto, per esempio con Cassa depositi e prestiti”. Se ne parlerà, con Conte.

Impianti al minimo, Mittal fa viaggiare l’Ilva verso la fermata

Entro giovedì, l’amministrazione commissariale dell’Ilva di Taranto depositerà al Tribunale di Milano il ricorso cautelare urgente, ex articolo 700 del Codice di procedura civile, per spingere i giudici a pronunciarsi con urgenza (in una decina di giorni) sull’esistenza delle cause di recesso del contratto evocate da Arcelor Mittal. La linea dei commissari è che le condizioni giuridiche del recesso non ci sono e quindi Mittal deve andare avanti e gestire l’impianto in ossequio al contratto d’affitto. Il guaio è che il colosso franco-indiano sta di fatto già portando gli impianti alla fermata, come annunciato la scorsa settimana quando ha avviato la restituzione dell’azienda e dei dipendenti allo Stato (articolo ex 47 della legge 428/90) da completare entro 30 giorni. Le notizie dal siderurgico sono infatti pessime. Una serie di decisioni, giunte fino al ministero dello Sviluppo, che indicano come la multinazionale si starebbe comportando come se fosse proprietaria degli impianti.

La prima mossa è la decisione di fermare una delle due “linee di agglomerazione”, confermata ieri anche da fonti sindacali. È l’area dove vengono preparati i materiali, tra cui i minerali ferrosi, per gli altiforni che producono la ghisa. La fermata è la diretta conseguenza del fatto che il minerale e le altre materie prime non vengono più scaricate. Almeno da sabato scorso sarebbe sospeso lo scarico sulla banchina del molo polisettoriale del porto di Taranto. ArcelorMittal aveva iniziato a usarlo dal luglio scorso, dopo il sequestro del quarto sporgente (adibito allo sbarco dei minerali) ordinato dalla Procura dopo la morte in un incidente sul lavoro del gruista Mimmo Massaro, avvenuta il 10 luglio scorso. Da allora si era provato in un primo momento a far arrivare i materiali necessari al ciclo integrato dell’area a caldo al porto di Brindisi per poi essere trasportati con i camion a Taranto. Tentativo però bloccato sul nascere dalle istituzioni locali. Di fatto al momento è in piedi solo un piccolo scarico al molo di Italcave e si provvede allo svuotamento definitivo dei parchi minerari.

In questo modo la produzione di Ilva, già tagliata da Mittal a 4,5 milioni di tonnellate l’anno invece delle 6 promesse nel piano industriale, è stata ulteriormente ridotta. “Sono ormai arrivati a circa 11 mila tonnellate al giorno – spiega il segretario della Uilm Rocco Palombella – così si scende a 4 milioni di tonnellate l’anno o anche meno. Di fatto lo stabilimento è fermo al 70 per cento”. I tre altiforni (Afo 1, 2 e 4) lavorano a ritmi “ridottissimi”. Le due acciaierie si alternano (una a turno si ferma), solo 3 su 5 delle colate continue sono in marcia e solo un treno nastri è attivo, quelli lamiera sono fermi come i tubifici longitudinali. Senza approvvigionamenti il siderurgico tarantino è destinato a fermarsi entro fine mese o a inizio dicembre.

È in questo quadro che oggi Mittal depositerà al Tribunale di Milano l’atto con cui chiede di recedere dal contratto di affitto e che è già stato notificato alla gestione commissariale martedì scorso alle quattro di mattina. La linea dei commissari è che le condizioni di recesso non ci siano. Anche perché le motivazioni addotte in diversi casi non reggono.

L’ultimo in ordine di tempo riguarda il sequestro proprio del quarto sporgente dove cadde la gru causando la morte dell’operaio Massaro. Il sequestro ha creato non pochi problemi di approvvigionamento degli impianti ed è stato sollevato come causa di sopraggiunta onerosità da Mittal nell’atto di citazione consegnato ai commissari e al tribunale. Il 26 ottobre scorso, però, il tribunale di Taranto ha concesso la facoltà d’uso in continuità di sequestro, come chiesto dalla gestione commissariale, non coinvolta nel procedimento penale che riguarda solo la gestione di Mittal. Il colosso avrebbe potuto ricominciare a usarlo ma, anche qui, c’è una stranezza non da poco. La gru è caduta colpendo anche le altre due attive. In questo momento non ce n’è una funzionante, ma la multinazionale – a cui spetta la manutenzione straordinaria – non ne ha ordinata una nuova (il costo supera i 40 milioni).

La proposta del governo c’è, ma adesso è sparita Arcelor

Per ora si aspetta, ma il campo da gioco è chiaro. Il governo, o almeno il premier e i ministri interessati alla pratica Ilva, hanno deciso la strategia: bastone e carota, volendo ricorrere a una metafora pre-industriale. Il bastone delle azioni tanto legali (il ricorso d’urgenza) che di controllo che portino allo scoperto la debolezza delle argomentazioni di ArcelorMittal e alcuni suoi comportamenti curiosi, per così dire, nella gestione degli impianti; la carota di una proposta che segnala un’apertura di fondo.

L’apertura, d’altra parte, è quasi obbligata: tra regole Ue sugli aiuti di Stato e controcanto “franco-indiano” di pezzi del Pd e dei renziani, una guerra aperta non è possibile. Quel che manca, ad oggi, è la posizione della multinazionale: dopo aver sparato col cannone della rescissione del contratto, ora pare non aver chiaro fin dove può spingersi. La reazione tutto sommato compatta di quello che un po’ pomposamente va sotto il nome di “sistema Paese” (a partire dall’azionista di minoranza dell’ex Ilva, Banca Intesa) ha tolto un po’ d’abbrivio alla strategia predatoria iniziale. Solo oggi, ha rivelato l’Ansa, verrà depositato in Tribunale a Milano l’atto di recesso già notificato ai commissari Ilva.

Si aspetta, insomma. Ma le proposte in campo sono chiare. I Mittal sostengono che gli impianti ex Ilva gli costano oltre due milioni al giorno e hanno fatto sapere alla controparte, pur senza esporsi direttamente, che potrebbero restare a queste condizioni: oltre a una qualche forma di esimente penale, 5mila esuberi e un dimezzamento del prezzo d’acquisto proposto da loro stessi due anni fa (1,8 miliardi). Si tratta di una riscrittura del contratto firmato nel 2018 in cui sarebbe lo Stato ad assumersi il rischio d’impresa: il dimezzamento del prezzo corrisponde, all’ingrosso, alle perdite di un paio d’anni.

La proposta del governo non è di chiusura a una riscrittura del contratto, ma ovviamente è di tenore assai diverso. Intanto niente esuberi, ma cassa integrazione più estesa rispetto ad ora (a “zero ore” sono già in circa 1.300 da luglio). Quanto al prezzo, la posizione del governo è stata esplicitata ieri su Repubblica dal ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia: “Ci può essere anche uno sconto sull’affitto, ma solo se Arcelor si impegna a nuovi investimenti” (sul piano ambientale). Solo allora si potrebbe parlare dell’esimente penale. Così Giuseppe Conte ieri al Fatto: “Soltanto se Mittal cambiasse idea e dicesse che rispetterà gli impegni previsti dal contratto, potremmo valutare una nuova forma di scudo”.

In sostanza, se c’è un accordo complessivo allora si farà un “decreto Ilva” per riscrivere il contratto e, in quella sede, si inserirà anche la tutela rafforzata per le aziende strategiche ex articolo 51 del codice penale (non è punibile chi sta rispettando un obbligo di legge). Questa operazione ha persino l’appoggio di una sorta di pasdaran No-Ilva come il governatore pugliese Michele Emiliano (rinegoziare il contratto “non è impossibile”, ha detto ieri) e per questo gli emendamenti per reintrodurre subito l’immunità presentati dai renziani sono parsi a Palazzo Chigi un tentativo di sabotaggio.

Resta solo una domanda: e se Arcelor dice di no? Nonostante le perplessità di alcuni ministri (“no alla nazionalizzazione”, ha ribadito ieri Roberto Gualtieri), la strada è obbligata e si torna all’amministrazione straordinaria con la nomina immediata di un commissario in grado di gestire gli impianti e il via libera a un prestito ponte. Se, alla fine, si venderà a un altro privato, dovrà essere accompagnato dal braccio pubblico (guardando allo Statuto più Invitalia che Cdp).

A quel punto, coi Mittal l’appuntamento sarebbe in tribunale e senza esclusione di colpi a giudicare dal pizzino del ministro Boccia: “Bisogna capire se sono vere quelle perdite. Capire da chi sono state comprate materie prime con prezzi fuori da mercato. Se, per dire, fossero state comprate da altre aziende del gruppo Arcelor…”.

Lupi per agnelli

La nota faccia da renzi che risponde al nome di Renzi ci accusa di censurare un’archiviazione: quella dell’indagine nata a Firenze nel 2015, poi trasferita in parte a Milano su vari appalti sospetti, famosa perché costò il posto al suo ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi (Ncd). Lupi non era indagato, dunque con l’archiviazione non c’entra. Ma i giornali di destra e dunque Renzi frignano per il povero innocente perseguitato dall’ennesimo complotto mediatico-giudiziario. Forse è il caso di rammentare perché Lupi diede le dimissioni e Renzi le accettò, visto che non lo ricordano nemmeno loro. Dalle intercettazioni venne fuori che: Lupi aveva chiamato Ercole Incalza, capostruttura del suo ministero, per dirgli: “Deve venirti a trovare mio figlio” (Luca, neolaureato in cerca di lavoro); Incalza e l’imprenditore e abituale appaltatore Stefano Perotti si erano interessati a incarichi professionali per Lupi jr.; Perotti aveva regalato al giovanotto un Rolex da 10 mila euro. Lupi, cuore di papà, fece benissimo a dimettersi e Renzi ad accompagnarlo alla porta. Per quei fatti che, a prescindere dalla rilevanza penale, ponevano un’evidente questione morale e di opportunità: un ministro non può accettare favori o regali da dirigenti e clienti del suo ministero. L’essere indagato o meno non c’entra: c’entrano i fatti, mai smentiti neppure dall’archiviazione. Che riguarda gli indagati, dunque non Lupi, e non parla di lui.

Eppure il Giornale titola: “‘Dimissionato senza motivo’. L’amara rivincita di Lupi” . E Libero: “Archiviata l’inchiesta sui Rolex. Chi ripaga il male? Lupi si era dimesso per nulla senza essere indagato. Prosciolto nel 2018” (parola di Renato Farina, ciellino come Lupi ma pregiudicato a differenza di Lupi, convinto che si indagasse sul Rolex e che si possa prosciogliere uno che non è mai stato inquisito). E il Riformatorio: “Lupi e i suoi fratelli vittime innocenti dei tagliagole a 5Stelle” (per Tiziana Maiolo il pm era Di Maio). Renzi però li supera e strilla contro “i gazzettini del giustizialismo che fischiettano e fanno finta di nulla davanti all’ennesimo scandalo che scandalo non era”, anziché “scusarsi” con Lupi. Che, rivela Renzi, “era totalmente estraneo alla vicenda ma decise di dimettersi lo stesso”. Ma tu guarda: era estraneo e lui, anziché respingerne le dimissioni, le accolse al volo. Perché non si scusa lui? Sarebbe una bella scena: un politico che si vergogna di una delle poche cose giuste fatte in vita sua, cioè far dimettere un non indagato in nome della questione morale, poi corre a rimediare imbarcando una dozzina di indagati e condannati in nome della questione immorale.

Irma, la tata vergine, solo casa e lavoro

“Aquei tempi le famiglie erano numerose” racconta mia nonna. “Costava tutto meno, per cui era normale avere grandi appartamenti, con molte stanze e con una bella zona di servizio dove le domestiche vivevano per anni. E poi c’era la tata, che si occupava dei bambini, li allevava e li cresceva. Le tate spesso erano del nord perché il Trentino Alto Adige e il Veneto allora erano regioni povere. Irma era di Cavarzere, ricordo che i suoi racconti turbavano la mia anima infantile, raccontava antiche storie di paese e di montagna, aveva un gran cuore di donna povera, vedeva le cose in modo semplice e a tratti rozzo. Era alta, magra e un po’ barbuta, aveva dei ciuffetti seminati a caso in un volto pieno pieno di rughe. Diceva di essere stata una bellissima ragazza, gli uomini le correvano dietro, ma lei non si era mai voluta fidanzare, era vergine. Aveva 58 anni portati male e una dolcezza negli occhi disarmante. Questa storia destava ilarità in famiglia, non le credevamo. Un giorno si presenta a casa Aristide, un suo antico corteggiatore. Emigrato in Argentina, da semplice operaio aveva fatto fortuna con il commercio dei bottoni. Era diventato ricco, ma non si era mai dimenticato di Irma, era tornato in Italia per sposarla e mettere su famiglia. La partenza era prevista per il giorno dopo. Alle otto Aristide era già fuori dal portone con una gran macchina americana, ma di Irma nessuna traccia. “Irmaa, dove sei? Il tuo futuro marito ti aspetta. Guarda che se ne va e sposa un’altra!”, e così è stato. Dopo ore di attesa Aristide se ne è andato via, dopo poco tempo abbiamo saputo che aveva sposato una ballerina di Salerno. Irma si era nascosta nello sgabuzzino della cucina, non voleva lasciare la casa dove era cresciuta. Queste erano le tate di una volta, vergini e fedeli”.