Cupra spicca il volo e punta a nuovi modelli a ritmo di padel

Si chiama Cupra ed è il marchio più giovane della galassia Volkswagen. È una costola della spagnola Seat, di cui reinterpreta i modelli in chiave sportiva e sofisticata, donandogli personalità e performance fuori dal comune. Ma presto avrà anche prodotti tutti suoi, per uscire dalla nicchia e spiccare il volo.

Come ad esempio lo sport utility nuovo di zecca che finora abbiamo visto sotto forma di concept: il Formentor, una sorta di manifesto stilistico per il marchio spagnolo ma pure tecnologico, visto che sarà equipaggiato con un powertrain ibrido plug-in che si annuncia particolarmente performante.

Il suo debutto commerciale è previsto per l’ultimo trimestre del 2020, in quello che si annuncia come l’anno dell’offensiva di prodotto Cupra, dal momento che prima (ma sempre nella seconda metà dell’anno) arriverà anche la nuova Leon Sportourer.

Modelli che andranno a sostenere una crescita che comincia ad essere consistente, pur tenendo presente che si tratta di una nicchia per appassionati: “Lo scorso anno abbiamo venduto 14.600 vetture in tutto il mondo, mentre nel 2019 da gennaio a ottobre siamo già arrivati a quota 20.600, con un aumento del 79% rispetto ai primi dieci mesi del 2018”, dichiara il direttore Strategy, business and development di Cupra Antonino Labate: “I mercati di riferimento europei sono Germania e Inghilterra, mentre a livello mondiale va forte il Messico: tra due settimane inaugureremo il primo flagship della marca proprio a Città del Messico”.

E l’Italia? Attualmente da noi la rete commerciale è in fase di costruzione, ci sono solo quattro dealer tutti concentrati geograficamente al nord, che tuttavia presto diventeranno dieci. In totale, Cupra ha 250 concessionari nel mondo.

Per sostenere la propria crescita e farsi conoscere, Cupra ha anche deciso di legarsi come sponsor principale fino al 2021 al World Padel Tour, ingaggiando come brand ambassador i più importanti giocatori del circus e seguendo ben 25 tappe del campionato mondiale.

Il perché di questa scelta lo spiega ancora Labate: “Proprio come noi, anche il padel è uno sport in crescita. E, proprio come noi, è nato a Barcellona”.

Toyota C-HR si rinnova. Il suv coupé alla giapponese

Con i conti del primo semestre dell’anno fiscale (aprile-settembre) che volano, fatturato che cresce del 2,6% a quota 1.270 miliardi di yen (10 miliardi e mezzo di euro) e stime sugli utili confermate, Toyota prosegue nella sua politica di espansione a livello globale. L’ultimo tassello, dal punto di vista del prodotto, è il rinnovamento del suv coupé C-HR, che diverse soddisfazioni commerciali ha dato alla casa giapponese in Europa e in Italia: circa 400 mila gli esemplari venduti dal 2016 nel vecchio continente, di cui 50 mila nel nostro Paese, l’87% dei quali è stato preferito con motorizzazione ibrida.

Una sorta di cavallo di battaglia per Toyota, che sulla nuova C-HR ne propone la quarta generazione con il motore che andrà ad affiancare il già noto 1.8 da 122 cavalli: si tratta del 2.0 da 184 Cv che già equipaggia diversi altri modelli tra cui la Corolla, e che rispetto al 1.8 ha il 41% di efficenza energetica nonché il 50% di potenza in più.

Nonostante questo, i tecnici sono riusciti a contenerne i consumi entro i 4 litri di benzina ogni 100 km e le emissioni di anidride carbonica entro i 118 g/km secondo il nuovo ciclo Wltp. Il nuovo motore è anche in grado di percorrere ampi tratti “veleggiando” in modalità elettrica pura, a una velocità massima di 120 chilometri orari. Quando però c’è da spingere, e ce n’è stata l’occasione durante la prova su strada effettuata in Portogallo nei dintorni di Cascais, la risposta è senza dubbio più pronta e il pacchetto del powertrain meno rumoroso rispetto al passato, nonostante ci sia ancora qualche residuo effetto trascinamento del cambio.

E se il motore è tutto nuovo, l’estetica è senza dubbio conservativa. Non aveva molto senso, del resto, mettere troppo mano a una vettura che viene acquistata proprio in virtù delle sue linee senza compromessi, oltre che per l’anima ibrida. E che, insieme alla Yaris, vale quasi i due terzi delle vendite per la filiale italiana del marchio nipponico.

Ecco dunque una griglia anteriore più grintosa, uno spoiler lungo e fari a Led al posteriore, così come nel complesso una sensazione di maggior dinamismo. All’interno spazi in abbondanza per i passeggeri anteriori, un pizzico meno per chi siede dietro. I materiali sono più morbidi, con la possibilità di avere anche l’Alcantara, e l’infotainment può contare su un sistema multimediale di ultima generazione con aggiornamento automatico delle mappe e piena connessione con gli smartphone grazie ad Apple Car Play e Android Auto. Senza dimenticare la disponibilità di sistemi di sicurezza e assistenza alla guida, raccolti nel pacchetto Toyota Safety Sense: tra questi, di serie un pre-collisione con rilevamento dei pedoni, il Cruise Control adattivo, l’avviso di superamento della corsia con intervento sullo sterzo, il riconoscimento dei segnali stradali e gli abbaglianti automatici.

Il listino, infine. Gli ordini della C-HR equipaggiata col nuovo motore 2.0 hybrid sono già aperti, e il prezzo di attacco parte da 28.500 euro.

Dal panno ai robot Secoli di storia delle bambole sexy

In principio era fatta di panno, usata dai marinai durante i loro lunghi viaggi, dove le uniche alternative erano la masturbazione o la sodomia. Si chiamava dame de voyage, “bambola della fornicazione” o del sesso. Ma le prime, vere, bambole sessuali furono costruite molto più tardi, con la scoperta della gomma (nel 1745), anche se rimasero segrete e malviste fino alla seconda metà del Novecento.

“Era la consorte dei solitari e dei disperati”, scrive Anthony Ferguson nel libro Bambole del sesso. Storia delle donne oggetto e degli altri giocattoli per maschi (Odoya editore), una coltissima enciclopedia dei ginoidi costruiti per il piacere maschile e piena di informazioni curiose: come il pittore Kokoschka che si fece costruire una bambola identica alla sua ex da portare in giro; o il fatto che la prima bambola sul mercato, Bild Lilli, fosse identica alla (postuma) Barbie. O ancora la leggenda secondo cui i nazisti avrebbero rifornito le truppe con bambole del sesso durante il conflitto: naturalmente pallide, bionde e ariane.

Pubblicizzate, fino agli anni ‘50, solo col passaparola o su volantini distribuiti presso i barbieri, taverne e bordelli, più avanti a veicolarne l’esistenza furono le riviste porno, ma anche i quartieri a luci rosse e i sexy shop. Oggi internet ha sdoganato gli appassionati di questi oggetti: sul web, scrive Ferguson, “hanno trovato sia l’anonimato che una pletora di individui affini con cui confrontare le proprie esperienze”, tanto che non mancano siti dove condividere storie e immagini (www.dollforum.com, www.cover-doll.com).

La maggior parte delle aziende produttrici è negli Usa e in Giappone. I costi vanno dai 50 dollari per la bambola tradizionale in vinile, ai 200 per quelle in latex e fino a 8 mila per quelle il silicone. Esistono bambole parziali (parti del corpo erotizzate), ma anche maschili con peni eretti e transessuali o incinte. Si può richiedere un set di piedi in silicone per i feticisti, la vagina staccabile, anche se la vera svolta è la bambola pieghevole, impossibile fino a ieri, che può essere sistemata nelle posizioni più gradite.

Ma perché gli uomini scelgono le bambole del sesso? Hanno di fronte una donna perfettamente controllabile, silenziosa, obbediente, incapace di criticare. La bambola sessuale rappresenta la donna “nella sua forma più oggettivata”, inoffensiva, accomodante e “soprattutto muta”. Persino la prostituta ha il dono della voce, può esprimere il suo no, andarsene. Ma il problema per questi amanti dell’androidismo e delle bambole del sesso (atteggiamenti simili, secondo Ferguson, a parafilie come l’eccitazione per statue e manichini, o per partner addormentati o morti) è proprio il futuro.

Sempre più, infatti, nei prossimi anni tecnologia e biologia si fonderanno, sempre più avremo a che fare con robot sofisticati, realistici e attraenti e che addirittura, secondo alcuni, impareranno a coltivare i sentimenti copiando il comportamento umano. Ecco che allora gli uomini che oggi si rifugiano nelle sofisticate bambole di gomma si troveranno, ironia della sorte, al punto di partenza: cioè di fronte a partner sessuali genoidi talmente senzienti da essere simili a quelle donne sostituite da bambole. Androidi femminili capaci persino di rivendicare la parità. O di lasciare il partner per un altro, che poi è il vero incubo di chi, per non essere mai abbandonato, si rifugia nel silicone.

“Tua” di nome e di fatto: tutte le consulenze di mogli e mariti

Tra moglie e marito non mettere il dito. Magari una consulenza sì: eccolo qua il centrodestra made in Abruzzo che da quando si è insediato alla Regione distribuisce incarichi e contentini a piene mani.
Tiene famiglia, e una famiglia molto allargata visto che le prebende ci sono per tutti, anche per compagne e fidanzate e a volte, per gli amici.

Per esempio. Due consulenze nuove di zecca sono state assegnate al sindaco di Pianella Sandro Marinelli, ex azzurro e ora leghista, trascinato nel Carroccio dalla moglie Carla Ricci ai tempi delle regionali. Per lei ad aprile scorso un posto di consolazione (per la mancata elezione) in un cda, per lui due consulenze, una a luglio l’altra in questi giorni, dalla Tua, la società dei Trasporti a guida leghista. In tutto 6 mila euro, un buon avvio. Peccato poi che la storia sia venuta fuori con tanto di denuncia in Consiglio regionale: la carriera di avvocato-consulente per Marinelli finisce qui.

Sì, il cuore più grande ce l’ha la Lega ma anche gli altri non scherzano. Al Comune dell’Aquila, per esempio, il sindaco Pierluigi Biondi, stesso partito del governatore Marco Marsilio, ha assunto Sara Palumbo, la compagna del consigliere comunale di FI Marcello Dundee, e il coordinatore di Forza Italia giovani Carlo Ferdinando de Nardis, figlio dell’Avvocato del Comune: due incarichi a tempo determinato fino alla fine dell’anno. Due mesi scarsi ma senza bandi e concorsi: gli incarichi ad personam e rinnovabili. Ci vuole la faccia, ma la faccia ce l’hanno eccome: basta pensare che neppure un mese fa il governatore Marsilio aveva piazzato la moglie del suo assessore Piero Fioretti alla commissione per le adozioni internazionali: per giustificarsi disse che manco la conosceva, ma c’erano foto che lo ritraevano con lei e il marito in viaggio a Medjugorie. Finì che a rimetterci la poltrona fu il coordinatore della Lega Giuseppe Bellachioma, visto che Fioretti era il suo braccio destro. Ma appunto, era.

Un paradosso, quasi un’ingiustizia: lui, Bellachioma, pare che alla fine abbia pagato per colpa di una fidanzata esuberante che gli chiedeva troppo, e in quel troppo c’era proprio una “sistemazione” che lui non le ha mai concesso, e che insomma Fioretti sia stato solo un pretesto per farlo fuori. Ma l’imbarazzo della Lega per la bionda Barbara Stellakiss, compagna ingombrante di Bellachioma, non si è avvertito quando il sindaco dell’Aquila Biondi, di un altro partito per carità, ha piazzato la moglie nella segreteria di Marsilio: nessuno ha detto niente, e quel travaso familiare non ha provocato nessuna indignazione nel Carroccio. Nessun fremito neppure quando, sempre da Marsilio, è entrata la moglie di Michele Russo, l’addetto alla comunicazione dello stesso governatore. E insomma, quanto la facciamo lunga: la fedeltà va premiata, ed estesa a familiari e congiunti. In epoca centrodestra va così. “Quelli di prima cose così plateali non le facevano”, ha commentato in aula il consigliere M5S Domenico Pettinari, dove “quelli di prima” sta per il centrosinistra a guida Luciano D’Alfonso, che è tutto dire. Ma anche la forma è sostanza, a volte. Ed è un caso che la Tua, sempre lei, affidi alla Mirus, la società del comunicatore di Marsilio, un servizio di comunicazione, con tanto di gara alla quale però si presenta solo lui, per 225 mila euro.

Maritocrazia, la chiamano in Abruzzo. Con la “a”.

Metà poesia, metà racconto: “Scrivere è come respirare”

Una tempesta è passata, ma non per sempre. Infatti sfogliando e cominciando a leggere le prime pagine di “Lilith” di Davide Nota (editore Sossella) si capisce subito che l’autore sta in guardia. Cerca una via di fuga fra la poesia, che è il suo strumento espressivo e da cui gli è difficile separarsi, e l’impegno di narrare che sembra essere il destino del libro, in un vortice di prove di voce che, fra sospensioni, soprassalti, riprese drammatiche, continuazioni pacate del discorso, mostrano che Nota non rinuncia né alla poesia né al racconto. Lo fa come se avesse lo schema prestabilito di un narratore tradizionale, come se fosse disposto a rispettare quello schema. E al tempo stesso perché Davide Nota è poeta.

Il libro è una splendida creatura iperattiva che, nonostante la voce mite della narrazione, non si ferma, non rimane dentro una forma prestabilita e mostra con inquietudine la ricerca continua di un proprio destino narrativo. Conosce però, e rivela fin dal principio, la sola cosa di cui ha bisogno, di cui è vorace, la scrittura. Nel mondo di questo autore la scrittura è uno spazio di vita indispensabile come la foresta per un esploratore. È un luogo di avventura in cui Nota si inoltra non perché sia spinto a raccontare una trama, ma perchè la scrittura è un modo di respirare, di vivere, di sapere e far sapere che ti rendi conto della vita degli altri, umani e natura.

Ci sono enigmi che restano tali e momenti in cui il cammino sembra interrompersi. Ma Nota, nella sua apparente mitezza, è ostinato. Osservare altro e altri da un suo nascondiglio interiore, ascoltarne le voci, annotare parole e linguaggi, o almeno frammenti, in modo che esista e conti la vita degli altri, al di là della solitudine, rivela la volontà di farti capire e di prenderti a bordo, un desiderio di condividere che, per qualche ragione, non può realizzarsi.

Il contesto è quello di un inventario ansioso di oggetti e persone, che serve a testimoniare che qualcosa esiste, qualcosa con cui si potrebbe convivere, anche nel mondo disastrato e caotico che chiamiamo “la Storia”. “Ho trovato un modo di lasciare liberi i pensieri”, scrive Nota quando è già avanti nel suo testo. E anche: “Il miracolo è in te che ti fai viandante in questo eterno errare dal silenzio a un silenzio più esteso”.

Davide Nota non scrive per testimoniare la vita di altri. Ma perché si senta una voce che forse parla solo a se stesso. Ma non di se stesso. Questo scrittore si occupa di chi non si vede e non si fa sentire. Lo fa da solo ma come se intorno ci fosse una folla. A momenti, si aprono all’improvviso spazi narrativi, come ruote dentate che da sole fanno muovere motori potenti. È come una prova. Però la prova è bella, apre percorsi diversi in questo tramare di Davide Nota, a volte in sequenza, a volte fra livelli diversi di percezione, flash visionari. Non dovrebbero stare insieme, e invece formano una struttura narrativa forte che ti costringe a sostare.

Joseph Beuys: l’artista sopravvissuto alla guerra, ecologista prima di Greta

A Siracusa, nella città di Enzo Maiorca – l’uomo che coglie la luce degli abissi marini – lo scorso fine settimana c’è stato il racconto di Joseph Beuys, il viandante delle profondità del suolo, il demiurgo delle radici, padre dell’ambientalismo, nonché fondatore dei Grunen in Germania. Questo, il tema: “Joseph Beuys in difesa della natura”. Due giornate di studi in vista del centenario della nascita dell’artista tedesco organizzate da Fabbrika Off, Viglienasei Art Gallery, Comune di Siracusa e Ims Giotto Spa. Tra i più significativi personaggi dell’Arte, Beuys (1921–1986), è l’uomo in cui il destino s’innesta nell’avventura: volontario nella Luftwaffe di Hermann Goering, nel marzo 1944, in missione sul Fronte orientale, sorvolando un’area della Crimea tormentata dalla neve, lo Stuka su cui vola si schianta al suolo.

Il pilota muore sul colpo, lui – mitragliere – gravemente ferito è recuperato e salvato da un gruppo di nomadi tartari che lo curano con le antiche pratiche della loro tradizione. Questo suo rigenerarsi dalla tempesta di acciaio e fuoco sancisce la svolta per il suo percorso esistenziale e creativo. Torna alle armi, combatte sul Fronte occidentale inquadrato tra i paracadutisti ma nel 1945 cade prigioniero dagli inglesi.

La guerra – meglio, la sconfitta – segna profondamente la sua interiorità. Gli anni Cinquanta lo fanno preda di una profonda crisi interiore ed è questo suo tormento a svelarsi nel progetto del monumento commemorativo dei caduti in guerra a Brüderich. Cattolico, Beuys sposa l’antroposofia di Rudolf Steiner e si attiva a ricreare il senso dell’arte in rapporto alla sua fruizione sociale, organizzando nel 1963 presso la Kunstakademie di Düsseldorf il Festum Fluxorum Fluxus. Dal 1970 Joseph Beuys inizia la sua stagione italiana e dopo un periodo passato a Napoli e a Foggia, nel 1972 arriva a Bolognano (Pescara) – ospite di Lucrezia De Domizio e Buby Durini – dove inizia a svolgere una serie di attività artistiche tra cui la Fondazione dell’Istituto per la Rinascita dell’Agricoltura (1976), la creazione della Piantagione Paradise per il ripristino della biodiversità (1982)e infine, l’opera Olivestone (1984) ora in mostra al Kunsthaus di Zurigo. Molto noto negli Stati Uniti, Beuys – malgrado il ricordo dell’uniforme indossata in guerra – è amico ed estimatore di Andy Warhol.

Nel 1980, il 3 aprile, incontra Alberto Burri – come lui, un altro dei vinti della Seconda Guerra Mondiale – con il quale scambia sei lavagne poi illustrate durante la performance nella Sala Cannoniera della Rocca Paolina. Nel 1981, in seguito al terremoto in Campania, realizza Terremoto in Palazzo: tavoli da lavoro trovati tra i detriti ai quali aggiunge vetro e ceramica nel segno della precarietà. È parte della collezione Terrae Motus e si trova esposta alla Reggia di Caserta.

L’opera sua più suggestiva è 7000 querce, ovvero 7000 pietre di basalto in vendita. Ogni pietra venduta serve a far piantare una quercia. È l’opera che lo consegna all’eternità. Occorrono infatti 300 anni affinché le 7000 querce diventino il grande bosco voluto da Joseph Beuys che di un’azione ordinaria – la piantumazione – ne fa rito. Ed è sorgente di comunità. Come la quercia piantata a Siracusa venerdì scorso, con la zappa accompagnata dalla melodia dell’antica Grecia cantata da Marta Miccoli. Un’idea di Fabio Granata, assessore alla Cultura. Cose che neppure Greta Thunberg può mai immaginare.

Ps: se vale ancora la distinzione destra/sinistra fa proprio ridere che tutti pensino a Beuys come a un artista di sinistra…

Liliana Segre scortata Milano antifascista è pronta a reagire

Sono le 7.20 di giovedì mattina quando sento il bip dei messaggi su WhatsApp. È un comunicato. Aperto da una richiesta di scuse per la minuscola invasione. Arriva da un piccolo partito di sinistra, circolo di Sesto San Giovanni. Dice: “Apprendiamo con stupore e indignazione che il Comitato per l’ordine e la sicurezza di Milano ha deliberato l’assegnazione di un servizio di tutela per la Senatrice a vita Liliana Segre. Che una donna di 89 anni, sopravvissuta e testimone dell’Olocausto, debba essere protetta ci dice chiaramente come il segno sia stato passato da un pezzo. Un paese senza memoria non ha futuro…”.

Stupisce l’educazione del mittente. Che evidentemente, diversamente da altri, non ritiene che tutti i suoi possibili destinatari abbiano il dovere di ricevere i messaggi degli sconosciuti. E che pensa però, sempre evidentemente, che la questione denunciata sia così grave da giustificare una “trasgressione” ai propri principi. Al punto, ed è la seconda cosa che mi predispone favorevolmente, da mettersi alle sette del mattino a svolgere la propria funzione di sensibilizzazione civile.

La sera stessa vado in metropolitana proprio verso Sesto San Giovanni, dove devo tenere un incontro sulle stragi di mafia. Mi accompagna una amica dei movimenti antimafia, che si è presa il compito di guidarmi all’incontro, praticamente ai bordi della città perché “da quando c’è la nuova amministrazione gli spazi per fare queste cose non ce li danno più”. “Hai saputo che cosa è successo?”, mi chiede a un certo punto con la voce più grave possibile. Ho un sobbalzo. Ci siamo, penso, è morto qualcuno. “Hanno dato la tutela alla senatrice Liliana Segre”. Ho come un moto di sollievo. “E meno male”, rispondo, “meglio così che lasciarla in balia del primo vigliacco che passa”. Ma è un sollievo bugiardo, che nasce solo per contrasto dalla paura precedente. In realtà quel che sta dicendo Laura, così si chiama la mia amica, rivela la gravità profonda, drammatica, dei nostri tempi. Resto impressionato, in proposito, dal fatto che la mia interlocutrice abbia manifestato un rispetto infinito (forse proprio in reazione ai tempi) verso la donna che sta facendo da bersaglio alla feccia d’Italia, indicandola non con nome e cognome o con il solo cognome preceduto dall’articolo, ma con la qualifica di senatrice.

Capisco allora che Laura è l’autrice del comunicato ricevuto alle sette del mattino. Che in qualche misura mi sta parlando l’antica e dignitosa storia dell’antifascismo di Sesto, medaglia d’oro della Resistenza. Mi aggiunge dunque che ha già scritto a tutti quelli che poteva. Ai senatori e ai deputati milanesi, al sindaco di Milano, non ricordo a quali e quanti intellettuali, perché davvero questa storia ha passato il segno, ed è a sua volta segno di tanto altro. Che ha chiesto a Giuseppe Sala di promuovere una manifestazione. Che “la senatrice Segre” deve sentirsi dietro tutta Milano, la sua città. “Dobbiamo fare sentire la nostra voce. E non nel chiuso di un teatro ma con una manifestazione di piazza, che mostri a tutti la solidarietà verso di lei. Glielo dobbiamo”. “Senza aspettare tempi lontani”, aggiunge.

Sotto una pioggia impietosa arriviamo al luogo dell’incontro. Ai margini di Sesto, ma potrebbe essere qualunque punto della Lombardia. Nonostante il tempo da lupi e il deserto intorno, è pieno di gente. Sindacalisti di fabbrica (c’è anche il “vecchio” Pizzinato). Una preside in pensione che conosco: ha 83 anni e oggi insegna tutto il giorno italiano agli immigrati. Un’ex insegnante, ora presidente dell’Anpi: ha per me i volumi con i lavori fatti per anni dai bambini nelle scuole di Sesto. Studenti giovanissimi. Molti gli inviti a intervenire anche in associazioni o scuole. C’è nell’aria un fervore fattivo impensabile nella temperie politica odierna.

Finché Laura Incantalupo appena prima dell’inizio sorprende tutti e dal microfono ricorda la notizia della scorta per la senatrice Liliana Segre. Un cenno di commozione poi l’invito: “Propongo un applauso di solidarietà alzandoci in piedi”. Nessuno se lo fa ripetere. Parte l’applauso indirizzato a un’anziana signora assente, che però è come fosse lì, perché la sua storia rappresenta tutti. Quella di Sesto e di Milano: storia tragica e orgogliosa di un Nord che ha sofferto e combattuto il nazismo. Che in quella sala risorge. Non ci sono taccuini né telecamere a riprenderla. Vuole solo mostrarsi a se stessa. Dirsi che esiste e non si farà piegare.

Giovannino può farcela? “Soffro di ittiosi arlecchino, devo tutto ai miei genitori”

Cara Selvaggia, ti scrivo perché ho letto un tuo post su Giovannino. Anche io sono nata affetta da ittiosi, ma sono stata più fortunata di Giovannino, perché i miei genitori seppur non miliardari non mi hanno abbandonata. Anzi, con sacrificio e amore mi hanno cresciuta, mi hanno curata. Hanno rinunciato per anni alle vacanze, ad una pizza fuori, ma nel mio mobile non mancavano mai emollienti e creme di scorta. Dare alla vita una figlia affetta da ittiosi, 28 anni fa in un ospedale napoletano, non è stato certamente il desiderio di due giovani genitori. Nonostante la poca delicatezza dei medici, i quali pensavano che la mia morte sarebbe stata più semplice per tutti; e malgrado qualche ciarlatano, appena più coraggioso, che si divertiva a studiarmi invece che curarmi, mamma Amalia e papà Carmine (i miei due angeli) non mi hanno mai abbandonata. Dal primo momento hanno lottato con me e per me, mi hanno curato al meglio delle loro possibilità. Mamma era diventata la mia infermiera, papà il mio scienziato alla ricerca dell’ospedale migliore. Non è stato semplice, non lo è ancora oggi e credo non lo sarà in futuro. Ogni mattina ti svegli con un fastidio diverso, che possa essere al cuoio capelluto o alle unghia dei piedi. Devi proteggerti da tutto: talvolta, senza crema, nemmeno gli occhi quando ti svegli riesci ad aprire. Però c’è l’ho fatta! E se ci sono riuscita io può riuscirci anche Giovannino. Certo, anche per lui sarebbe stato più semplice se avesse avuto due genitori come i miei. Anche loro in questi anni hanno avuto paura, non sono scappati ma hanno avuto paura. Mi ricordo che dal mio letto in ospedale durante i miei numerosi e frequenti ricoveri, sentivo mamma piangere al telefono. L’ho sentita preoccupata, avvilita, a volte perdeva le speranze ma mai ricordo di averla sentita stanca di me. Ancora oggi, dopo 28 anni, è sempre pronta ad aiutarmi e a mettermi la crema nei punti dove non riesco da sola. Se oggi conduco una vita quasi normale è tutto merito loro, se oggi sono così forte lo devo a loro, a come mi hanno insegnato ad amare e ad amarmi. Oggi ho anche un uomo accanto a me, un uomo che mi ama e che è sempre disponibile anche lui ad aiutarmi a mettere le mie numerose creme. Un uomo che prima di amare me ha accettato e si è innamorato delle mie difficoltà quotidiane. Non mi sento di aggiungere altro, auguro soltanto a Giovannino di incontrare nel suo cammino almeno uno dei tre angeli che ho incontrato io, perché sarà difficile ma può farcela. Le creme sono e saranno costose: la grande umiliazione arriva quando l’ASL ti nega l’aiuto perché considera ciò che per te è vitale, per sopravvivere, solo prodotti cosmetici di bellezza. Io non ci credo che nessuno può aiutare Giovannino, ai piani alti basterebbe rinunciare a qualche lusso per regalare almeno un anno di beneficio al piccolo. Io nel mio piccolo sarei felice di dividere qualche barattolo di crema con lui.

Margherita

 

Cara Margherita, la tua testimonianza è bellissima. Ma resta bellissima se non la trasformi in un parametro per gli altri genitori che si trovano di fronte a un bivio così complesso. Primo perché è difficile indossare i panni altrui, figuriamoci i pannolini. Secondo perché vedendo le tue foto è evidente che la tua, per fortuna, non è la forma “Arlecchino”, ovvero la forma di ittiosi più devastante. Questo non vuol dire che i tuoi genitori non siano stati stupendi e amorevoli e che la tua vita sia semplice, ma che la forma di ittiosi di cui soffre Giovannino è molto più invalidante e prevede cure molto più costose. Lasciamo i giudizi fuori da una storia bella come la tua.

 

“Troppi compiti a casa: così la scuola boicotta lo sport”

Ciao Selvaggia, ti scrivo quasi disperata. Vivo in un piccolo quartiere nella periferia romana, l’Infernetto, e sono un’insegnante di danza per passione (in realtà mi occupo di marketing). Nell’ultimo periodo, ascoltando le lamentele dei genitori dei miei allievi, sono tornata a casa con una morsa allo stomaco. Gran parte dei professori spinge i ragazzi ad eliminare lo sport, così da avere più tempo per i compiti a casa. Una mole enorme di compiti a casa, aggiungerei. Sono delusa e svuotata, passo le mie lezioni ad insegnare la perseveranza, l’amore, l’impegno, e tutto questo viene vanificato il giorno dopo a scuola. Ho sentito di allievi che devono nascondere la loro partecipazione ad attività extra scolastiche per evitare ripercussioni sui voti. Vedo allievi che anche in periodi importanti, saltano ore e ore di allenamenti perché devono studiare. Per dare voce a tutto questo ho condiviso un post in più gruppi Facebook di quartiere. Ti premetto che io in primis ho affrontat difficoltà per portare avanti la mia passione ma ho studiato, mi sono diplomata e laureata con il massimo dei voti. Non voglio prendere le parti di quei ragazzi svogliati, né andare contro tutti i professori. Voglio però fare un appello ai presidi delle scuole, sono certa che questo problema esista ovunque. L’attività sportiva porta benefici a 360 gradi, combatte l’obesità e problemi fisici come la scoliosi, aiuta i bambini nelle relazioni facendogli affrontare le prime sfide contro sé stessi e verso altri bambini. Non togliete a questi ragazzi l’amore, la passione per lo sport! Non impeditegli di diventare la prossima Tania Cagnotto, il prossimo Totti o Carla Fracci!

Ilaria

 

Cara Ilaria, ti anticipo la risposta dei presidi: “Non impediamo a questi ragazzi di diventare i prossimi Umberto Eco, la prossima Elsa Morante, il prossimo Andrea Camilleri!”.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Migranti come “pellegrini della vita”: l’utile e umile lezione di Galantino

Monsignor Nunzio Galantino, oggi al vertice dell’Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica), fu scelto da papa Bergoglio nel 2014, all’alba del pontificato francescano, per normalizzare la Chiesa italiana dopo le macerie politiche della gestione Bertone, a sua volta erede dell’interventismo ruiniano.

E così da segretario generale della Cei, monsignor Galantino, già parroco di Cerignola indi vescovo in Calabria, si trovò a declinare la svolta sociale della misericordia di Francesco, lontano dai salotti romani del potere. Come dimenticare, per esempio, il primo approdo solitario del papa a Lampedusa, senza alcun rappresentante istituzionale al suo fianco? A distanza di un lustro da quella nomina a sorpresa – e che diede la cifra rivoluzionaria di questo pontefice – l’attuale presidente dell’Apsa ha raccolto in un bel volume oltre due anni di articoli scritti per il Sole 24 Ore, “riflessioni di natura politica, religiosa, sociale e personale”.

Il titolo del libro è lontano anni luce dalla destra clericale che sostiene il neo ateo devoto Matteo Salvini (copy La Civiltà Cattolica): Sul confine (Piemme, 280 pagine, 18 euro, prefazione di Paolo Ruffini, prefetto per la Comunicazione nella curia vaticana). Però a differenza degli oppositori di Bergoglio, monsignor Galantino non fa una narrazione manichea.

Semmai tenta di sviscerare, una per una, tutte le contraddizioni anche buoniste sul dramma epocale dei migranti. In ogni caso a prevalere è una profonda e colta riflessione umanista, che include l’uso delle parole, l’informazione allarmistica e lo scarto decisivo tra percezione e realtà. Ma Galantino è soprattutto un prete che conosce la fatica dell’ascolto e del cammino: ha visitato parecchi dei posti nel mondo dove vengono “raccolti” ma non accolti gli ultimi dei nostri giorni: “I pellegrini della vita, quelli che approdano sulle nostre rive, chiedono ascolto, raccontano, a volte anche solo con lo sguardo, storie in cui il dolore e la fatica hanno preso il sopravvento; chiedono che si riempia la loro ciotola di un senso”.

È un libro che parla a tutti, non solo ai credenti.

Libro senza lagne: quote rosa contro l’internazionale del maschilismo

“Da troppo tempo siamo governati dall’internazionale del testosterone: Trump, Putin, Xi Jinping, Bolsonaro, Erdogan, Johnson. Una ciurma di maschi sbracati che sta imperversando nelle stanze dei bottoni da troppo tempo, e il risultato sono un’emergenza migratoria non gestita, una crisi economica infinita, un pianeta in fiamme e un clima di arroganza e di odio”. È la tesi del libro di Lilli Gruber Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino editore). Ovunque nel mondo, racconta l’autrice, le donne sono più povere, ovunque la violenza domestica le colpisce, ovunque sono più vittime, rispetto agli uomini, anche dei disastri naturali. Per non parlare dell’Italia, dove stipendi e pensioni sono più bassi del 16% e del 32% e le donne sopra i cinquant’anni vivono una scandalosa morte sociale. Ma Basta! non è un libro di lagne femminili. Piuttosto è un saggio diretto e coinvolgente che non si fa troppi scrupoli né a dire qual è davvero la situazione né che, sinceramente, fa schifo (ed è liberatorio). Le soluzioni ci sono, eccome. Anzitutto, “basta autocrati con più panza che sostanza”, dice Gruber, poi tolleranza zero verso la violenza ma anche la volgarità e quote rosa, “vere e ovunque”. Le donne non sono necessariamente migliori, ma la squadra maschile, semplicemente, ha fallito, e lo ha fatto così miseramente che è ora di cambiare: da Nancy Pelosi a Milena Bartolini, da Greta Thunberg a Christine Lagarde, le nuove protagoniste non mancano. Alle più giovani la Gruber dispensa utili consigli: compratevi una giacca, non abbiate paura del potere, imparate a dire no agli uomini, uscite molto in gruppo, studiate tanto. Ma non per dovere, molto più furbamente per mettere a tacere in due minuti, anche in tv, il bifolco misogino, forte unicamente della sua millenaria tradizione di prevaricazione. Che per fortuna, oggi, vacilla.