La conduttrice impeccabile si rivela “strega” femminista

Confesso che ce l’ho sempre avuta un po’ con Lilli Gruber. Per una ragione squisitamente politica: era il sex symbol del mio fidanzato dei tempi dell’università, sia nell’originale sia nella deliziosa parodia che ne faceva Alessandra Casella alla Tivù delle ragazze. A distanza di tre decenni, è arrivato il mio turno di tifare Lilli. Perché ho l’impressione che con il suo Basta! Contro la dittatura del testosterone si tolga un bel po’ di sassolini dalle scarpe tacco 12, rinunciando all’aplomb austroungarico che faceva sbavare il mio moroso e che la contraddistingue da sempre. L’impeccabile signora del salotto politico più blasonato della tivù ha deciso di saltare sulla scopa e rivelare senza paura la sua natura di strega, col rischio di spaventare i suoi ospiti e buona parte dei suoi telespettatori. Basta leggere le recensioni al suo saggio su Amazon: “Tesi vecchie”, “disco rotto”, “libro inutile”. Spiacente, ma se le cose per le donne non cambiano, non gli si può cambiare nome. Sono sempre quelle: invisibilità, esclusione, sopraffazione. Ed è disperante per chi ha la sua, la mia età, che si sia giornaliste famose o madri di figlie femmine, vedere che niente sembra cambiato, o sta cambiando in peggio. Solo un appunto: perché demonizzare il testosterone? È un ormone trasversale, ce l’abbiamo anche noi e ci fa un sacco di bene, all’umore e alla salute. Non è la causa della patriarchia e della prepotenza maschile, è un attivatore dell’intraprendenza sessuale e dell’attrazione reciproca. La natura l’ha inventato proprio per far venire voglia a uomini e donne di saltarsi allegramente addosso con giovanile ardore. A quello serve, non a sparare gradassate sui social, a stalkerare e maltrattare le donne o a tenerle fuori dai governi e dai consigli di amministrazione. Quello non è il testosterone, ma il testadicazzone. E, quello sì, ce l’hanno solo i maschi.

Ribellione a Napoli, preludio di sconfitte

“A schifìu finisce!”. Lo ripeteva Franco Franchi nella colonna sonora di “002 Operazione Luna” (1965) e con le dovute correzioni d’accento, dal siculo al napoletano, “a schifo finisce” è quel che si troveranno a dire, tra non molto, tutti i tifosi del Napoli. Perché la storia dell’ammutinamento post Napoli–Salisburgo 1–1, coi giocatori che si rifiutano di tornare in ritiro e fanno ritorno alle loro case, con Ancelotti, l’allenatore, scavalcato e delegittimato e De Laurentiis, il presidente, che adisce le vie legali nei confronti dei ribelli e ordina al tecnico l’adozione di nuovi ritiri, è una storia col finale già scritto: quella delle insubordinazioni del Pianeta Pallone che lasciano sul campo solo macerie. E a Napoli lo ricordano benissimo.

“Premesso che siamo professionisti seri e che nessuno questo può negarlo…”. Cominciava così, in un italiano un po’ stentato, il comunicato–stampa che l’11 maggio 1988 il portiere Garella, uscito in ciabatte dallo spogliatoio, lesse d’un fiato ai cronisti. Il Napoli aveva buttato al vento lo scudetto, scavalcato dal Milan di Sacchi, dopo un crollo improvviso e inaudito (1 punto nelle ultime 5 partite). “La squadra – continuò Garella – è sempre stata unita e l’unico problema è il rapporto mai esistito con l’allenatore. Nonostante questo gravissimo problema, la squadra ha risposto sul campo sempre con la massima professionalità. Di questo problema la società era stata preventivamente informata”. A buoi scappati, chiudere la stalla non servì a nulla. Anzi, lo strappo tra la società (che si schierò con l’allenatore) e i giocatori divenne insanabile e quattro titolari, Bagni, Ferrario, Giordano e Garella, considerati i capipopolo, furono epurati. Intanto, lo scudetto se n’era andato.

Un “ammutinamento con comunicato” avvenne anche nel ritiro della nazionale di Francia durante i mondiali in Sudafrica del 2010. In segno di protesta contro la Federazione che aveva rispedito a casa Anelka, reo di aver insultato il c.t. Domenech nell’intervallo di Francia–Messico 0-2, i blues all’indomani si rifiutarono di sostenere la seduta d’allenamento e chiesero proprio al c.t. di leggere ai media il loro comunicato. “Tutti i giocatori della nazionale francese, senza eccezione – recitava l’incipit – vogliono affermare il loro dissenso con la decisione presa dalla Federazione di escludere Nicolas Anelka”. Morale della favola: le cose peggiorarono, il capitano Evra venne alle mani col preparatore Duverne, considerato la spia del c.t., e la Francia perse anche l’ultimo match col Sudafrica finendo ultima e tornando a casa tra le pernacchie.

Ai mondiali 2018 furono i giocatori dell’Argentina, capitan Messi in testa, ad ammutinarsi contro il c.t. Sampaoli considerato dal gruppo inetto e inadeguato; l’Albiceleste giocò così in sostanziale autogestione fino all’eliminazione negli ottavi per mano della Francia (4–3); un po’ quel che capitò alla sventurata Italia di (S)Ventura che ai mondiali 2018 non si qualificò nemmeno. Dalla riunione tecnica post–Macedonia fatta dai giocatori senza la presenza del c.t., alla formazione di Italia–Svezia spedita da Ventura agli azzurri via WhatsApp fino a De Rossi che in panchina si rifiuta di entrare e dice: “Non fate entrare me, mandate dentro Insigne”, la storia di un c.t. allo sbando e di un ammutinamento, anche questo, finito a schifìo.

Propaganda dei media contro l’Inps ma non c’è nessun rischio per il Tfr

Fondo è parola dai molti significati e in finanza bisogna essere precisi. Invece proprio sull’imprecisione o peggio sui confronti volutamente fuorvianti, si fonda una recente campagna contro l’Inps. Negli ultimi tempi si assiste infatti a continui attacchi all’ente di previdenza pubblico, che partono dai quotidiani sedicenti autorevoli e sono poi ripresi in Rete da siti di fatto in mano a venditori del risparmio gestito.

Il bersaglio è un fondo dell’Inps assimilato ai fondi pensione. Esso avrebbe reso pochissimo e per giunta rischierebbe il crac, mettendo a repentaglio i risparmi previdenziali dei lavoratori interessati.

Ebbene, non è vero niente. Già in partenza è falso che il Fondo di Tesoreria istituito con la Legge Finanziaria 2007 sia un fondo pensione. Definito come fondo per l’erogazione del Tfr, obbedisce a meccanismi del tutto diversi, vedi la circolare Inps n. 70 del 3-4-2007. Le aziende con almeno 50 dipendenti vi versano gli accantonamenti per il Tfr e ne riceveranno le somme da pagare quando dovute, logicamente garantite dallo Stato.

È falso che esso debba investire in titoli. È falso che renda, poco o tanto: non esistono valori delle sue quote né quindi performance, alte o basse che siano, perché proprio non esistono quote di tale fondo. Insomma in sé non c’entra nulla con la previdenza integrativa, anche se venne istituito per favorirla surrettiziamente.

Comunque si capisce facilmente dove vogliano andare a parare certi articoli, perché dagli attacchi all’Inps si passa subito a pressanti inviti ad aderire alla previdenza integrativa.

Dal che seguono alcune buone notizie. Primo, nessun danno e nessun rischio per i lavoratori interessati, ossia col Tfr trasferito dalle aziende all’Inps. Secondo, nessuna indicazione negativa sulle capacità dell’Inps di gestire fondi pensione veri e propri. Questo vale per il cosiddetto Fondinps, destinazione residuale per chi non ha espresso la scelta per il Tfr, ma anche per il progetto di un suo fondo, in concorrenza con quelli privati. Non sarà un caso se gli attacchi all’Inps si sono intensificati dopo l’annuncio di tale progetto col nuovo presidente dell’Inps (Pasquale Tridico) e la nuova ministra del Lavoro (Nunzia Catalfo). Esso dà molto fastidio, perché ridurrebbe la torta che si spartiscono sindacati, padronato e risparmio gestito.

La vera ipoteca sui fondi pensione è un’altra. È il livello intorno allo zero dei tassi d’interesse, situazione in grado di dare il colpo di grazia al senso stesso del cosiddetto secondo pilastro previdenziale.

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Tasse sulla casa, in pensione la Tasi: arriva la super Imu

Negli scorsi giorni è iniziata al Senato la discussione sulla prossima manovra che dovrà ricevere il via libera entro la fine dell’anno. Tante le misure che impatteranno dal 2020 sulla vita quotidiana, a partire dai risvolti che avranno sui proprietari di casa. Del resto gli immobili sono uno dei bersagli preferiti dalla politica, da sempre considerati un facile bancomat visto che otto famiglie su dieci possiedono la casa in cui abitano.

Così tra il debutto del “bonus facciate” al 90%, che va ad affiancare le confermate detrazioni per ristrutturazioni, risparmio energetico e acquisto di mobili e grandi elettrodomestici, alla messa a regime della cedolare secca al 10% sulle locazioni a canone concordato, farà il suo ingresso anche l’unificazione di Imu (imposta municipale unica) e Tasi (tributo per i servizi indivisibili) – dal 2016 si applicano solo sulle seconde case e sugli immobili di lusso – che vengono pagate due volte l’anno da 25 milioni di italiani. Tanto che nel 2018 nelle casse dei Comuni sono entrati 34,3 miliardi di euro di cui 21,983 miliardi per l’Imu/Tasi, 4,6 miliardi per l’addizionale comunale Irpef e 9 miliardi per la Tari. Balzelli che, secondo il dossier della Uil sulla tassazione locale, portano il gettito medio pro capite dei contribuenti a 1.340 euro annui, con l’esborso che sale a 2.267 euro a Roma, 1.952 euro a Torino, 1.923 euro a Genova; 1.888 euro a Milano 1.888 euro e 1.791 euro a Napoli.

Il ritorno della tassa unica sul mattone è uno degli snodi della legge di Bilancio. Se ne parla da un paio di anni. Nel governo gialloverde della nuova Imu se ne è occupata a lungo la Lega che puntava a unificare le tasse sul mattone non per fusione, ma per abolizione secca della Tasi. Ipotesi però accantonata perché sarebbe costata 1,1 miliardi di euro. Ora, invece, i giallorosa hanno deciso di dire addio al paradosso della doppia tassa sullo stesso immobile con l’accorpamento dei due balzelli in chiave anti-evasione e semplificazione delle aliquote. In altre parole, dovrebbe essere concessa la possibilità di far partire davvero il modello precompilato da spedire ai contribuenti, promesso fin dal 2011 ma finora impantanato nelle circa 300mila variabili che caratterizzano l’Imu-Tasi.

Ma il rischio che, anche attraverso questa nuova formulazione, ci scappi la possibilità che i proprietari paghino di più è assai probabile, come ha denunciato la proprietà edilizia. “Non è mai successo, nella storia della fiscalità, che quando è stata data ai Comuni la possibilità di aumentare le tasse sulla casa, abbiano resistito a questa tentazione. Succederà anche questa volta. E sarà una nuova patrimoniale”, tuona Corrado Sforza Fogliani, presidente del Centro Studi di Confedilizia. Timori che il governo ha però smentito, perché in effetti non ci saranno nuovi balzelli nascosti, ma solo un gioco di aliquote che potrebbe tentare molti Comuni a fare cassa.

Facciamo un po’ di chiarezza. Attualmente l’Imu massima ha un’aliquota è al 10,6 per mille e la Tasi all’1 per mille. Ma il massimo di Imu e Tasi può arrivare, con la maggiorazione speciale dello 0,8 per mille, solo all’11,4 per mille, cioè esattamente l’aliquota massima fissata per la nuova Imu. In manovra è, infatti, previsto che l’aliquota base dell’imposta venga fissata all’8,6 per mille, ma i sindaci potranno ridurla fino a zero ma anche aumentarla fino a un massimo dell’11,4 per mille. Quindi, potrebbero esserci eventuali aumenti da parte dei Comuni che ancora non hanno toccato il massimo livello di tassazione, mentre chi già c’è arrivato – è il caso di Roma, Milano, Bologna e Firenze – non può ricorrere a ulteriori aggravi. Non è quindi possibile prevedere cosa succederà l’anno prossimo, ma le tentazioni si moltiplicheranno per i Comuni, sia per quelli in buono stato economico (che comunque beneficeranno dell’aumento dell’aliquota minima Imu dal 7,6 all’8,6 per mille se la applicavano), sia per quelli in crisi che troveranno certo più semplice un innalzamento generale senza ricorrere all’istituzione della Tasi con relativa indicazione di specifici servizi.

Ad essere penalizzate saranno le poche abitazioni principali che oggi pagano (ville, case storiche e abitazioni signorili), perché l’aliquota passa dal 4 al 5 per mille, salva la possibilità di esenzione da parte dei Comuni. E andrà a carico del proprietario anche quella parte di Tasi (dal 10 al 30% dell’imposta decisa dai Comuni) che attualmente è a carico di chi utilizza gli immobili, come nel caso dell’inquilino nei contratti di locazione.

Sul fronte delle scadenze, le date restano due: a metà giugno e dicembre. Ma per la prima rata si dovrà versare la metà di quanto pagato nel 2019 in attesa che i sindaci, con apposite delibere, decidano se aumentare o diminuire l’aliquota base (all’8,6 per mille).

Un tuffo per la medaglia: “Voglio battere le cinesi”

È difficile immaginare che Noemi Batki da piccola fosse una fifona, lei che – per adesso è la sola – rappresenta l’Italia nelle rassegne internazionali tuffandosi dalla piattaforma dei 10 metri (e dieci metri, come i papaveri della canzone, “son alti, alti, alti”). “Ho iniziato da bambina, poiché mia madre è stata una tuffatrice della nazionale ungherese, e poi è diventata allenatrice, anche la mia. In pratica, in piscina ci sono nata. Ma fino ai quindici, sedici anni ero molto paurosa.” Racconta Noemi, la voce ancora argentina e squillante, nonostante siano passate le 7 del pomeriggio di un ordinario giorno di allenamento ad Acquacetosa, nel centro sportivo olimpico dell’Esercito in cui trascorre tutte le sue giornate. La routine quotidiana di Noemi segue gesti ritmati: si sveglia alle 7,15 e, dopo una colazione energica, alle 8,30 è già in piscina dove si allena fino alle 11,30. Alle 12,30 pranza – “è l’ultimo pasto in cui ho a che fare con dei carboidrati, perché la merenda poi è un frutto,” confessa ridanciana – alle 15 riprende gli allenamenti fino alle 18, alle 20 cena – “leggera, nemmeno a dirlo: carne e verdure, o pesce e verdure” – e alle 23 si consegna a Morfeo, diciamo noi, mentre lei più letteralmente precisa “svengo a letto”. E di nuovo il giorno dopo, con uno sgarro a settimana, di solito la pizza.

Per comprendere perché sia così importante avere tali attenzioni per il corpo del tuffatore, bisogna inoltrarsi sulla difficoltà della disciplina, che ha a che fare soprattutto con l’atavica paura del vuoto, o meglio con l’ancestrale sogno umano del volo. L’atleta è lì sospeso, a volte in verticale a testa in giù, altre volte dà le spalle allo specchio d’acqua della piscina e si tiene in piedi solo sulle punte, oppure è a viso aperto. Dovrà compiere delle evoluzioni in aria – ai commentatori più esperti, sentiamo pronunciare giaculatorie del tipo “rovesciato” (il tuffatore salta guardando la piscina ma ruota indietro.), “carpiato” (con le gambe tese ma le braccia piegate), o ancora “teso” (con gambe e braccia distese) – in 2 o 3 secondi, mentre cioè sta subendo la legge di gravità e cade, cade, cade fino all’ingresso in acqua, con l’atleta (di norma) perpendicolare alla superfice blu.

Il tuffo è definito “scarso” se l’angolazione è inferiore, “abbondante” se è superiore ai 90 gradi. “Per essere un tuffatore,” dice Noemi, “occorrono molti requisiti: resistenza fisica, dinamica e linee da danzatore, scioltezza da ginnasta, spericolatezza da bambino. E poi, molta testa, molta.”

Mentre si è in aria, quindi, o mentre si è sospesi prima di tuffarsi, è la testa a governare il corpo, a dirgli in ogni attimo cosa fare mentre lotta contro la rovina. “Tutte queste cose,” rivela Noemi, “le ho capite quando avevo mollato. A sedici anni, mi ero stufata. Iniziai a fare ginnastica, nuoto e per un anno smisi di tuffarmi. Non riuscivo a vincere quella maledetta paura. Poi, assistendo a una gara, capii che quello era il mio destino. Nella prima settimana in cui ripresi ad allenarmi, portai a compimento tutti i tuffi che mi ero sempre rifiutata di eseguire”. Di lì in poi, le medaglie dalla piattaforma dei 10 metri di Noemi non si contano, tra cui spiccano l’oro agli Europei di Torino nel 2011 e – 8 anni più tardi – a Kiev: in mezzo, una cascata di medaglie d’argento e di bronzo.

Per le Olimpiadi di Tokyo 2020 è ambiziosa, vuole la finale, e – contro ogni pronostico – magari anche una medaglia contro lo strapotere delle cinesi, da sempre imbattute in questa disciplina. “In cinque tuffi, ti giochi 4 anni di preparazione. È una lotta psicologica con se stessi. Adesso, a 32 anni, ho la maturità di gareggiare contro le mie paure. Non penso alle pressioni e alle aspettative. Certo, mi fa piacere essere seguita e stimata, ma io ogni volta che salto dai dieci metri, lo faccio per me, per sentirmi viva”. E questo sport è passione pura per Noemi, talento azzurro nato in Ungheria (a Budapest) nel 1987 e trasferitasi in Italia ad appena tre anni. Gambe flessuose e piedi arcuati da ballerina, ascolta Lady Gaga, Madonna e tutto il pop, e le piace andare al cinema: “L’anno scorso, dopo aver visto il film Bohemian Rapsody, ascoltavo i Queen a loop”.

Ma la stabilità Noemi la riceve anche dal rapporto speciale con la madre, Ibolya Nagy che per vent’anni è stata la sua diretta allenatrice. “Cambiare allenatore è stata una decisione difficile da prendere, ma avevamo capito entrambe che per continuare a migliorare, occorreva fare qualcosa”, spiega senza nascondere un che di sollievo nel riportare una scelta condivisa, anche per amore. “Il nostro legame non è cambiato, e questo mi dà tanta forza”.

La vita avventurosa del partigiano torinese che spiava per Stalin

Si è celebrato l’anniversario del crollo del Muro di Berlino. Forse è il caso di ricordare anche chi intorno a quel Der Mauer, da una parte e dall’altra, si battè. Uno di loro era un torinese. Scriveva La Stampa del 4 novembre 1988: “Giorgio Rinaldi Ghisilieri, ex agente segreto russo, ex campione europeo di paracadutismo, e ultimamente valente pittore, è morto mercoledì sera verso le 21 in ospedale dove era stato trasportato due ore prima. I medici hanno diagnosticato che il decesso è dovuto ad ischemia cerebrale. Aveva 60 anni”. Così il quotidiano torinese dava la notizia della morte ad Asti di Giorgio Rinaldi, ex partigiano con il nome di battaglia di “Neri” nelle formazioni Matteotti e poi agente del Gru, il servizio segreto militare dell’Unione Sovietica. Negli anni Sessanta, assieme alla prima moglie Angela Maria Antoniola detta “Zarina”, ex repubblichina di Salò, era stato al centro di una clamorosa spy–story.

Arrestato dai carabinieri a Torino, su ordine del nostro servizio segreto, nel marzo del 1967, dopo una missione in Spagna dove era stato tradito da un agente franchista che faceva il doppio gioco, venne processato e condannato in appello a oltre dieci anni di carcere per “procacciamento a scopo di spionaggio politico–militare di notizie che devono rimanere segrete nell’interesse dello Stato”. Per lui, invece, lo spionaggio, esercitato principalmente nella Spagna di Franco, aveva significato “soltanto una fine posticipata della guerra iniziata in Italia nelle file partigiane e proseguita in Spagna come agente segreto contro gli stessi avversari” . Nell’agosto del 1973, dopo sei anni di prigione, l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone gli concesse la grazia, richiesta dal suo difensore Bianca Guidetti Serra, anche in virtù dei suoi trascorsi nella Resistenza.

Rinaldi, torinese, figlio di un conte ufficiale del Nizza Cavalleria, se ne andò un anno e qualche giorno prima della caduta del Muro di Berlino, che avrebbe segnato la fine della Guerra fredda, mandando in pensione le spie di ieri, da Torino al Checkpoint Charlie. L’ex tenente colonnello del Gru, come si presentava, che ancora oggi sul sito della Cia (Central Intelligence Agency) è presente sotto la dicitura “Rinaldi case”, in ogni caso già da parecchio tempo si era allontanato dal suo passato degno di un romanzo di Len Deighton o di John Le Carré. Un passato fatto di fotografie di installazioni militari e di basi aeree, di buche delle lettere “morte”, come una vecchia cassetta postale dismessa o un tronco cavo di un albero, in cui infilava i microfilm per i suoi referenti di Mosca. “Oggi tutto è cambiato”, affermava nel 1984, “ci sono i rapimenti dei bimbi, c’è il terrorismo”.

Nell’ottobre del 1978, intervistato da Mario Bariona di Stampa Sera , che gli domandava se dopo le sue disavventure non avesse avuto più noie, Rinaldi gli rammentò: “Tre anni fa mi sono trovato la casa piena di carabinieri. Il giudice Violante voleva interrogarmi sulle ‘trame nere’. Gli dissi subito che erano trame di Stato. Lui era convinto che ne sapessi qualcosa perché sono amico di Garcia Rodriguez in Spagna”. Questo Rodriguez, un fascista spagnolo, lo aveva incontrato quando “avevo aperto una scuola di paracadutismo in Spagna. Conosco molti là. Poi 3 anni fa cercavo di tirare fuori dal carcere un amico, anche lui ex agente sovietico e mi sono rivolto a Rodriguez. Ma mi è subito arrivato addosso Violante. Ho dovuto testimoniare anche al processo ad Edgardo Sogno. Ma Sogno lo conosco poco”. Il cronista gli chiese ancora: “Che genere di spia era lei? A sentirla si direbbe che ha solo giocato. In fondo ha passato un bel po’ di anni in carcere”. Rinaldi rispose: “Non era un gioco, erano altri tempi”.

Ci teneva pure a chiarire di non avere mai spiato ai danni dell’Italia. Nel 1999, quando scoppiò l’affaire del dossier Mitrokhin sulle molto presunte spie italiane al servizio dell’Urss, il suo nome non comparve nelle carte, ma se ne parlò lo stesso. “Il dossier delle 261 ‘spie’ che avrebbero operato in Italia”, scrisse La Stampa , “ha riportato a galla una vicenda ormai dimenticata: la storia di Giorgio Rinaldi, ex partigiano, paracadutista, informatore per conto del ‘Gru’, arrestato nel 1967 con la moglie”. Rinaldi, continuava il quotidiano, “ha sempre negato di aver ‘spiato’ contro l’Italia, ammettendo invece la sua attività in Spagna. Una vita avventurosa, che Rinaldi raccontò in un libro uscito nel 1976”. Isabella Carretto, la seconda moglie, dichiarò: “Mi dispiace che ci sia chi, ultimamente, legandolo alle vicende del dossier Mitrokhin, abbia fatto il nome di mio marito con riferimenti del tutto fuori luogo. Forse non è mai stato veramente comunista: ma veniva dalla lotta partigiana, aveva 20 anni e sentiva che gli ideali della Liberazione erano stato traditi”.

Nella “strana avventura di vita della spia–paracadutista”, narrò Roberto Patruno su La Repubblica, nel novembre 1988, “c’è un buco nero, sembra architettato ad arte dal generale De Lorenzo (quello del Sifar, ndr): Rinaldi fu accusato di aver fornito ai russi le fotografie del nascente aeroporto di Avola, in provincia di Siracusa. Durante il processo quest’accusa fu la prova–principe, fra tante altre, secondo la quale il nostro uomo a Torino era un agente sovietico. In realtà anni dopo si è saputo che quelle foto non furono mai scattate da Rinaldi perché quell’aeroporto non è mai esistito. Un giallo? Sembra l’unico, vero e serio, nella storia di quest’omaccione che si lanciava da novemila metri senza bombola ad ossigeno”.

Resort e parcheggi nel rione: “Ci prendono per il cool”

“Il rione di Sanfrediano è ‘di là d’Arno’, è quel grosso mucchio di case tra la riva sinistra del fiume, la Chiesa del Carmine e le pendici di Bellosguardo; dall’alto, simili a contrafforti, lo circondano Palazzo Pitti e i bastioni medicei; l’Arno vi scorre nel suo letto più disteso … Quanto v’è di perfetto, in unaciviltàdiventata essa stessanatura, l’immobilità terribile e affascinante del sorriso di Dio, avvolge Sanfrediano, e lo esalta. Ma non tutto èoroquel che riluce. Sanfrediano, per contrasto, è il quartiere più malsano della città; nel cuore delle sue strade, popolate come formicai, si trovano il Deposito Centrale delle Immondizie, il Dormitorio Pubblico, le Caserme. Gran parte dei suoi fondaci ospitano i raccoglitori di stracci, e coloro che cuociono le interiora dei bovini per farne commercio, assieme al brodo che ne ricavano”. Risale a quasi 70 anni fa, all’incipit delle Ragazze di Sanfrediano di Vasco Pratolini, questo meraviglioso ritratto del cuore popolare dell’Oltrarno, oggi forse l’ultima parte del centro storico di Firenze a tentare di resistere alla galoppante gentrificazione, che è poi l’espulsione dei residenti sostituti da ricezione turistica più o meno ufficiale, e dalle seconde case di facoltosi stranieri.

Così, quando, nell’agosto 2017, Lonely Planet decretò che San Frediano era il “quartiere più cool del mondo”, nelle botteghe del quartiere la battuta più gettonata era che “ci stanno prendendo per il cool”. Se lo spiritaccio sanfredianino non cede, le preoccupazioni per la tenuta civile del quartiere si moltiplicano. Mentre, in alto, si prepara lo sventramento di Costa San Giorgio, il cui grande complesso ospedaliero militare è finito nelle mani di una famiglia di imprenditori argentini del turismo di lusso, in basso sta per essere sfrattata e cancellata la storica e amatissima farmacia di San Felice in Piazza, difesa con i denti dai residenti ma destinata a diventare la hall dell’ennesimo resort a mille stelle. Si mormora che la Curia (il più grande proprietario immobiliare della città, alla faccia di sorella povertà) valuti la trasformazione in alberghi di lusso di parte del complesso della Calza e di parte del Seminario Maggiore, che si affaccia sulla piazza del Cestello. Dall’altra parte della piazza, al di là della chiesa di San Frediano, sorge la Caserma Cavalli, elegantissimo granaio tardobarocco dove generazioni di fiorentini hanno fatto la visita militare, e che ora lo Stato ha svenduto, attraverso la ghigliottina di Cassa Depositi e Prestiti, alla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, che la sta trasformando in un “hub di incubazione di startup” (qualunque cosa voglia dire).

Proprio sotto quella piazza, che si affaccia sull’Arno (con quel che ciò comporta in termini di acque ipogee) il Comune starebbe pensando di far scavare l’ennesimo parcheggio sotterraneo. Il condizionale si deve al fatto che, ad ogni protesta dei cittadini di San Frediano, l’amministrazione guidata da Dario Nardella si trincera dietro un curioso “è solo una ipotesi”.

Il 4 novembre scorso si è tenuta una affollatissima assemblea di quartiere convocata dal basso in cui è emerso che quell’ipotesi è profondamente incompatibile con l’idea di città di chi San Frediano lo vive ogni giorno. Durante il giorno i parcheggi a pagamento sono mezzi vuoti (come si evince dal loro monitoraggio online), mentre le auto girano senza posa per trovare un posto libero: segno che i problemi sono il prezzo della sosta, l’inadeguatezza del trasporto pubblico, la permeabilità e l’insufficienza oraria della zona a traffico limitato. Naturalmente il Comune fa sapere che una parte dei posti sarebbe riservata ai residenti, ma proprio in quell’assemblea Antonio Fiorentino ha letto la sconcertante definizione di ‘residente’ contenuta nelle Norme tecniche di attuazione del Regolamento Urbanistico fiorentino, che comprende anche “alloggi volano per il turismo, case e appartamenti vacanze, bed and breakfast, affittacamere, residenze storiche”. Questo è il punto: l’ennesimo parcheggio così concepito servirebbe solo ad aumentare i flussi turistici, la cui equiparazione per legge ai residenti è il cavallo di troia per cancellare anche solo la memoria del quartiere descritto da Pratolini.

Il combattivo popolo dell’Oltrarno non è capace di dire solo di no: il più applaudito intervento all’assemblea è stato quello di Grazia Galli che (insieme a Massimo Lensi) ha appena scritto un libro che ogni fiorentino dovrebbe leggere: La filosofia del trolley. Indagine sull’overtourism a Firenze (Carmignani editore 2019). In quelle pagine, documentatissime e assai godibili, si spiega come le maggiori città del mondo (da Londra a San Francisco a Berlino) abbiano messo in campo politiche serissime ed efficaci per salvare la loro anima da un turismo predatorio e senza governo, e si formula una serie di serissime proposte per “costruire un futuro sostenibile per tutti, anche per il turismo”. Uscirne si può, spiegano Galli e Lensi: destinando “una consistente parte dello spazio pubblico a una nuova stagione di progettualità abitative, culturali, di servizio alla cittadinanza”. Tutto, insomma, tranne che scavare l’ennesimo parcheggio da vendere in parte alle strutture ricettive e ai ricchi residenti, e da destinare nell’altra parte ai ‘residenti’ negli airbnb. Anche da come finirà la storia del parcheggio del Cestello si capirà se Firenze avrà la sorte di Venezia, o se ha ancora una possibilità di rimanere una città.

Musica&mafia: così nasce lo stile “neomelodico”

Corsi e ricorsi “neomelodici” direbbe Giambattista Vico. Purtroppo la storia si ripete, cambiano i cantanti ma la musica è sempre la stessa, quella neomelodica, che continua a far parlare (male) di sé. Questa volta a far discutere è il matrimonio, in pompa magna, tra il cantante Tony Colombo e Tina Rispoli, vedova del boss Gaetano Marino ucciso nel 2012 a Terracina. Sulle nozze che, il 25 marzo scorso, con tanto di fanfara, giocolieri e carrozza bianca trainata da cavalli, hanno bloccato piazza Plebiscito a Napoli, è stata aperta un’inchiesta per capire se c’erano i permessi per l’evento. Un matrimonio che dà la misura della spettacolarizzazione delle mafie, non a caso Tina Rispoli seguitissima sui social, dove ostenta la sua ricchezza lasciandosi fotografare con pistole, ricorda Claudia Ochoa Félix, la “Kim Kardashian” dei narcos, morta di overdose due mesi fa, moglie del braccio armato di El Chapò.

Un’ossessione quella di Tina Rispoli per lo spettacolo. Nel 2010, con l’ex marito, portò la figlia Mary a cantare a Canzoni e Sfide trasmissione di Rai2. A sollevare il caso fu Roberto Saviano che, su Facebook, si domandò come fosse possibile omaggiare un boss in Rai. Invece nel 2016, Nicola, ultimo figlio della coppia, comparve addirittura in Gomorra, la serie tv di Sky tratta dal libro dello scrittore anti-camorra, creando un vero e proprio corto circuito tra fiction e realtà. Fino ad arrivare alle ospitate con l’attuale marito, Tony Colombo, da Barbara D’Urso su Canale 5.

Per lo storico Marcello Ravveduto in libreria con Lo spettacolo della mafia (Edizioni Gruppo Abele), “la spettacolarizzazione della camorra è diventata un brand patinato in cui il benessere derivante dal narcotraffico si trasforma nello stile di vita glamour di un mondo che si presenta come una moda trendy da seguire attraverso lo storytelling narcisistico del selfie, l’ostentazione del lusso e gli hashtag mafia, narcos, cartel e così via. Come lo slogan de labellamafia.com: ‘Labellamafia è più di un marchio; è uno stile di vita’”.

Uno stile che entra anche nelle canzoni neomelodiche, essendo la malavita parte integrante della quotidianità di chi produce, esegue e ascolta questa musica, anche se le canzoni di mala sono poca cosa. E a parte quelle dedicate a latitanti, killer e capoclan – sempre giustificati con la scusa che nella vita sono stati sfortunati – il vero contatto tra musica e camorra nasce dall’esigenza di trovare l’impegno, ovvero il lavoro, un posto dove esibirsi: cerimonie e feste di piazze. E il matrimonio è spesso la festa più importante, a volte l’unica, di una misera vita.

Per esibirsi un cantante deve avere un manager che spesso appartiene ai clan o gravita in quell’ambiente. Un business che ha risentito della crisi del mercato discografico. “Ormai si campa la giornata – dice, Sergio Donati, tra i maggiori produttori di musica neomelodica, tra cui Mary Marino – È chiaro che c’entra la camorra, chi può spendere tanti soldi? Ma oggi il business musicale è poca cosa. Un giovane sulla cresta dell’onda può prendere 500 euro, per guadagnarne netti 300 a impegno e in un anno può fare anche 200 impegni”. E il riciclaggio? “Come fa ad esserci se non c’è tracciabilità? A parte i casi di usura – spiega Donati – dove sono i cantanti a rivolgersi ai clan, a spingere i camorristi a produrre è lo sfizio di poter chiamare il proprio cantate alle cerimonie”. Un modo per atteggiarsi e creare consenso. Ma i neomelodici cantano soprattutto l’amore e lo fanno in modo semplice, sentimentale e banale proprio come tutte le canzoni pop in circolazione. Una musica glocal a “chilometro zero” che spesso non esce dai confini campani o addirittura del quartiere. Canzoni a uso e consumo di un’intera fascia sociale che quasi mai ha la possibilità di studiare e, che spesso, sopravvive a limite della legalità.

Oggi le mafie si stanno adeguando ai nuovi media, aggiornando codici e simboli mafiosi. Creano consenso ostentando il loro potere attraverso i social e facendo musica. Nuovi linguaggi criminali che, alimentati e legittimati da fiction, film e canzoni, fanno tendenza. Un continuo andirivieni tra fiction e realtà che ha sancito il passaggio dalla giustificazione all’esaltazione, come nel caso dei (t)rapper ‘ndranghetisti che, sulla scia degli antichi canti di ‘ndrangheta, oggi raccontano la mafia calabrese. Giovani che si lasciano ritrarre con mitragliatrici, cantando che a loro “non li fotte nessuno” perché sono i numeri uno, titolo della canzone di Glock 21 – nome preso dal modello di una pistola – come si fa chiamare Domenico Bellocco, nipote e cugino dell’omonima cosca. Poi ci sono i neomelodici siciliani che vedono Napoli come La Mecca. Sono tantissimi dagli storici Carmelo Zappulla, Natale Galletta e Gianni Celeste fino ad arrivare a Tony Colombo. Ma, il 5 giugno scorso, a fare scalpore è stato Leonardo Zappalà, alias Scarface, per aver offeso la memoria di Falcone e Borsellino durante la puntata di Realiti su Rai2, dove è stato ospite assieme a, Niko Pandetta, nipote del potente boss catanese, Salvatore Cappello, da lui omaggiato con, Dedicata a te, canzone che in rete ha superato i 3 milioni di visualizzazioni. Pandetta ha raccontato di essersi prodotto il primo disco facendo rapine e ha poi minacciato in un video su Facebook il consigliere regionale Francesco Borrelli, che lo aveva criticato durante la trasmissione. Per il regista Franco Maresco “Ci troviamo di fronte all’azzeramento di qualsiasi morale. Non esiste più un confine ed è obsoleta anche la distinzione tra realtà e finzione. La tecnologia ha annullato la fatica del pensare esponendosi e le fiction sono diventate i modelli culturali di riferimento. E indietro non si torna”. Ma tutta questa spettacolarizzazione non è altro che la sovrastruttura di un determinato modello economico fondato sul denaro e l’apparire. A far paura è la loro capacità di penetrare, con l’intimidazione e il potere economico, in qualsiasi ambito e strato sociale. Viviamo una crisi morale senza precedenti, siamo tutti corresponsabili di ciò che sta accadendo: istituzioni, politica, mezzi d’informazione, produttori e artisti. Sta a noi scegliere in quale mondo vogliamo vivere.

La storia segreta del disco. Tra Chiesa e servizi segreti

Un corno, un diaframma elastico, una setola di maiale, un cilindro a manovella cosparso di nerofumo. Con infinita testardaggine, il libraio franco–scozzese Edouard Scott de Martinville riuscì a fissare la voce umana su quella diavoleria. Era il 1860: ma doveva passare un secolo e mezzo prima di poter ascoltare, grazie alla rielaborazione del computer, quel primo canto registrato, il verso Au clair de la lune, Pierrot repondit, intonato dallo stesso inventore. Che non immaginava di aver compiuto un esorcismo laico: il suono diventava “fisico”, si potevano progettare apparecchiature sempre più sofisticate che avrebbero riproposto a piacimento canzoni, sinfonie, discorsi, performance. Un’epopea durata più di 150 anni: la pietra angolare fu il fonografo di Edison, e in sequenza il grammofono, il giradischi, l’Hi-Fi, le musicassette, le cartucce Stereo8, il Walkman, il Cd, il minidisc.

Infine la resa, appena dentro il Terzo Millennio, alla dittatura degli smartphone, delle app che ti vendono un brano o te lo piazzano sotto il naso via streaming, e se sei un adolescente di oggi, con le cuffiette perennemente nelle orecchie e una concentrazione di 7–8 secondi (parola di scienziati) non puoi sapere cosa significasse per i nonni e i padri vivere il feticismo dell’ “oggetto” musicale: di quando correvi al negozio per l’ultimo long playing dell’idolo e poi ti precipitavi a casa dopo aver studiato una copertina che faceva arte a sé, e il fruscio caldo della puntina ti esponeva al rito laico, spesso condiviso con gli amici, di un ascolto lungo e verticale, perché gli album erano concepiti per essere opere articolate. Guai a predisporsi a un approccio effimero, come accade a troppi teenager post–Duemila che le canzoni se le fanno scivolare addosso, l’orecchio invaso da quisquilie trap, un rumore di fondo che non vale più di una distratta attesa alla fermata del bus e di un “mi piace” sull’account della star. Irrimediabilmente trascorso, ormai, il tempo del possesso inconsciamente erotico e fieramente tattile del prodotto–disco. O quasi: perché il vinile potrebbe tornare in auge, oggi è ancora scelta di nicchia ma i giovani si incuriosiscono attorno al modernariato pop che induce a nostalgia i più vecchi.

L’era della “Musica Solida” (adesso è “liquida”, o secondo altre definizioni vagamente ironiche “gassosa”) merita un’esplorazione appassionata. Se n’è fatto carico Vito Vita, in un esaustivo volume edito da Miraggi (23 euro) per quella che nel sottotitolo è precisata come una “Storia dell’industria del vinile in Italia”. E tale è, dagli albori ai giorni nostri. Nella costruzione dello scenario nulla sfugge alla puntualizzazione dell’ostinato Vita, un passato nelle radio torinesi e nella band di rock demenziale “Powerillusi”.

Nel suo “Musica Solida” una sorta di baedeker per studiosi del settore, ci trovi tutti, dagli impresari ai discografici e agli artisti che abbiano inciso almeno un singolo di qualche rilevanza. Ma la sua non è una mera elencazione di nomi, date, indirizzi di etichette e cambi di scuderia: nel volo del suo drone, Vita disegna quella che è stata, per buona parte del Novecento, l’avventurosa parabola delle fortune discografiche nazionali. Una galleria di volti, circostanze, strategie imprenditoriali, brani rimasti nella memoria collettiva. E, a leggerli in filigrana, riscopri gustosi paradossi. Come quello della Rca Italiana: nacque per volontà di Pio XII, che agli americani chiedeva un “risarcimento” per i bombardamenti di San Lorenzo e li indusse a costruire a Roma una decisiva filiale europea del colosso Usa. Dopo una prima sede provvisoria, quella mitologica fu a via Tiburtina, che oggi è solo un desolato magazzino di scarpe all’ingrosso ma negli anni d’oro era stabilimento, mausoleo e fucina di talenti sotto la guida dell’illuminato Ennio Melis, anch’egli uomo del Vaticano.

Insomma, il cantautorato ribelle e scapigliato era nato per iniziativa del Vicario di Cristo, così come la rivoluzione hippie era stata incubata al “Piper” di Giancarlo Bornigia, che aveva militato nella fascistissima Decima Mas. E che dire degli inquietanti incroci tra servizi segreti e canzonette? L’oscuro proto-rocker Jerry Puyell, che ronzava nel coté del primo Celentano, era seguito come un’ombra dal padre, il capitano dell’esercito Giuseppe Puglielli, 007 sotto copertura con la missione di vigilare sugli scapestrati teddy-boys che movimentavano la scena milanese di fine anni Cinquanta. Mentre nota è la vicenda di Enrico Rovelli, manager di Vasco fino al giorno del ’97 in cui Dario Fo, con una lettera sull’Unità, fece luce sui suoi trascorsi da talpa dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale. Nel ’69, in cambio della licenza per un locale, Rovelli aveva fornito alla questura meneghina informazioni sul circolo anarchico frequentato da Pinelli. E poi, accanto ai big, ecco le figure perse nel buio della cronaca: il non chiarito suicidio (per amore di una famosa attrice, forse) di un interprete di successo come Rossano. O l’omicidio mai punito della cantante Lolita, orrendamente massacrata da chi osteggiava una sua love–story. O l’apparizione della cometa Donato, che non sfondò come artista, ma da politico sì: il suo vero nome è Umberto Bossi.

Storie, nascoste o accennate tra i solchi dell’irripetibile epoca della “Musica Solida”. Che dai cilindri ai V-Disc degli Alleati, passando per i 78 giri, i 45 e i 33, alla fine si è fermata, per lasciare il passo al gas di Internet. A meno che qualcuno non rimetta sul piatto la puntina inceppata.

Prendi i soldi e scappa: 50 aziende finite all’estero

Italia, terra del “chi ha dato ha dato, chi ha avuto avuto”. Un ritornello difficile però da accettare per i quasi 365mila lavoratori che dal 2002 a oggi, secondo il database compilato dall’ufficio Eurofound dell’Unione Europea, sono stati “dismessi” in una delle 734 crisi aziendali di grandi dimensioni che hanno colpito il nostro Paese, il 5% di quelle dell’intera Ue nella quale, durante lo stesso periodo, le ristrutturazioni maggiori hanno cancellato 6,87 milioni di posti di lavoro. È vero che dal 2002 a oggi in 9.590 vicende aziendali in Europa sono stati creati 4,07 milioni di posti di lavoro (153 i casi in Italia, con 102mila 860 nuovi occupati), ma il saldo resta negativo, con l’aggravante che spesso a licenziare è chi ha ricevuto aiuti pubblici.

Sono cinquanta i casi italiani registrati da Bruxelles negli ultimi 18 anni nei quali la riduzione della forza lavoro è stata decisa per delocalizzare gli impianti: i dipendenti colpiti sono stati 11.517, in apparenza solo il 3,16% di quelli coinvolti nelle crisi maggiori. Una lunghissima via crucis quella del database comunitario: i trasferimenti all’estero hanno colpito International Rectifier, Rolam, Antonio Merloni, Irca, De’ Longhi, Agv, Wella, Olivetti, Cofra, Acerbi Viberti, Donora Elettrodomestici, Marzotto, poi ancora Marzotto, Cablelettra, Dorel, Gasfire, Invensys, Chemtura, Beiersdorf, Alstom, Sogefi, Riello, Elica, Johnson Electric, Indesit, Omsa, Bialetti, Gambro, Amcor, Global Garden Products, ancora Bialetti, Bessel, OM, Medtronic, ancora Indesit, ancora Riello, Invensys, Sertubi, Coccolino, Brembo, Husqvarna, Whirlpool, Roland Europe, Bundy Refrigeration, Carrier, Cisa, Landi Renzo, Honeywell, Embraco, Bekaert e ABB Italia. Solo le vicende di Candy, Zoppas, K Flex, Whirpool, Honeywell, Micron Technologies, Videocon, Unilever, Vibac, Bekaert, Magna e Lazzaroni hanno dominato le cronache.

Ma i dati Ue sulle delocalizzazioni non mappano tutto il fenomeno. Innanzitutto per motivi di campionamento: per essere registrata da Eurofound, una ristrutturazione deve comportare la perdita annunciata di almeno 100 posti di lavoro o deve avere effetti sull’occupazione che colpiscano almeno il 10% di una azienda con oltre 250 addetti. Dunque tutte le crisi di aziende minori o le ristrutturazioni che hanno coinvolto meno di un decimo degli occupati non sono state registrate. In secondo luogo, sono registrate come delocalizzazioni solo le ristrutturazioni annunciate come tali. Ma molte operazioni non vengono etichettate così, in particolare quelle delle multinazionali.

Il caso dell’Alcoa di Portovesme è un esempio. Il gigante mondiale dell’alluminio dopo lunghe difficoltà a gennaio 2012 annuncia l’intenzione di chiudere il suo impianto sardo e tagliare 500 addetti. A quasi dieci anni dall’inizio della crisi e a cinque dall’apertura del presidio permanente dei lavoratori la vertenza non si è ancora chiusa. Il 2 ottobre Gianni Venturi, segretario nazionale della Fiom Cgil per la siderurgia, ha chiesto per Portovesme “i decreti attuativi di ripartizione delle risorse del fondo per la riduzione dei prezzi dell’energia (decreto Crescita) e soprattutto di una soluzione strutturale al tema dei costi energetici”, cioè gli aiuti pubblici. Lasciata l’Italia però Alcoa non ha certo smesso di produrre: conta sei miniere, otto impianti di raffinazione e 14 fonderie in otto Paesi. La chiusura in Sardegna non è stata catalogata dalla Ue come delocalizzazione perché Alcoa all’estero c’era già.

Al danno si assomma poi l’ingiuria quando i tagli della forza lavoro, non solo per delocalizzare, arrivano dopo contributi europei, statali, provinciali, regionali e a volte anche comunali, senza dimenticare quelli di agenzie e società pubbliche, erogati sotto forme diversissime. Una cascata di denaro che nessuno è riuscito sinora a mappare. Un tentativo di trasparenza è stato introdotto dalla legge 124 del 2017 ed esteso dal Decreto Crescita, in vigore dal primo maggio 2019 con effetto dal 2018: tutte le imprese, anche quelle che non redigono il bilancio, devono rendere note sovvenzioni, contributi e vantaggi economici di qualunque genere ricevuti dalla pubblica amministrazione se superiori a 10mila euro. Un altro strumento è il Registro nazionale degli aiuti di Stato, gestito dal ministero dello Sviluppo economico ma accessibile solo alla pubblica amministrazione a scopo di controllo.

L’entità delle risorse erogate si può solo stimare per difetto. I fondi europei destinati all’Italia per il periodo 2014-2020 assommano a circa 44 miliardi e Roma non riesce nemmeno a spenderli tutti (deve cofinanziarli) rischiando di perderne una fetta. Quanto ai fondi nazionali, secondo l’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica i trasferimenti pubblici alle imprese stanziati dal bilancio dello Stato per il 2019 ammontano a oltre 41,6 miliardi dei quali 19,3 sono oltretutto dannosi per l’ambiente. Tutti gli altri fondi non sono censiti. Percepiscono fondi statali le Fs e le “altre ferrovie private”, il settore aeronautico (Alitalia in testa) e dell’autotrasporto, l’editoria, le banche, TV e radio, il cinema, l’agricoltura e la pesca, scuole e università private, le società del settore ippico, imprese turistico alberghiere. Altri contributi di Stato vanno alle società delle energie rinnovabili, spesso anche a quelle delle fonti fossili, e pure alle società che consumano grandi quantità di energia.

Sono proprio questi i settori dove dal 2002 a oggi, secondo il database della Ue, si è licenziato di più. Solo per restare ai casi di gruppi industriali e dei servizi che negli ultimi 18 anni hanno registrato stati di crisi con pesanti tagli occupazionali, nella classifica svettano gruppo Fs (18.050 lavoratori in meno), Telecom (-16.400), Alitalia (-13.904 con Meridiana che ne segna altri 987 in meno), gruppo Fca (-10.864), Ilva (-5.650), Poste (-4.529), Natuzzi (-3.825), Whirpool (-3.285), Electrolux (-3.213), Indesit (-2.925), gruppo Enel (-2.400), Almaviva (-2.326). Ma l’elenco è molto più lungo.

Eppure, senza considerare gli ammortizzatori sociali, solo tra il 1977 e il 2013 il gruppo Fiat ha ricevuto contributi pubblici a vario titolo per oltre 7,6 miliardi. Fs e Alitalia sono stati per decenni (la compagnia di bandiera lo è ancora) un pozzo senza fondo per le casse dello Stato (dal 1908 le Fs hanno pure un fondo speciale all’Inps). L’Ilva ora vede la fuga di ArcelorMittal perché è in perdita ma quand’era Finsider di Stato dal 1974 al 1986 non ha mai chiuso un bilancio in pareggio (e spesso nemmeno dopo).

Forse è per questo che si sono perse le tracce della proposta di legge avanzata nel 2014 da Sinistra e Libertà che chiedeva il rimborso dei contributi pubblici erogate alle aziende che delocalizzano. Così l’Italia resta la terra dello scurdammoce ‘o passato.