“White list”, l’escamotage per partecipare ai bandi

Per far passare il messaggio molti boss usano la locuzione trasi munnizza e nesce oro, ovvero entrano rifiuti ed esce oro. E non solo al Sud Italia. Sono molte le aziende del settore trasporto e gestione rifiuti, o fornitura di calcestruzzo e bitume, ormai perno di un business che non conosce crisi: quello dello smaltimento illecito. Ma come riescono queste aziende poco pulite a sopravvivere così a lungo e a rinnovarsi ogni volta? Fuori dagli iter illegali, le aziende in questione molto spesso risultano nella lista delle società in possesso della certificazione di legalità delle varie Prefetture italiane, la cosiddetta White list. Ebbene sì: società ombra per i figli dei mafiosi, imprese bandite all’estero, aziende che operano fuori della legalità, sono tutte nell’elenco. O meglio, la maggior parte non è in possesso di questa certificazione, ma galleggiano comunque nella zona “richiesta iscrizione”. In altre parole, attendono di essere esaminate, con la prerogativa però, a differenza di chi il certificato se lo suda dimostrando l’estraneità criminale, di poter partecipare alle gare per gli appalti pubblici. Questione non di poco conto.

Sopratutto se l’azienda in questione si chiama F. Mirto srl, attiva nella raccolta e smaltimento dei rifiuti e in attesa per la lista da marzo 2018. Il Consiglio comunale di San Cipirello, comune dove ha sede l’azienda, nell’estate è stato sciolto per mafia. Tra i motivi l’affidamento del servizio di rifiuti da parte dell’amministrazione. La gestione dell’impresa, inoltre, sarebbe nelle mani di una figura ai tempi intercettata mentre era al telefono con l’esponente di Cosa Nostra Balduccio Di Maggio. Dopo l’ultima ordinanza del Tribunale amministrativo, la F.Mirto srl potrà comunque proseguire gli appalti con i comuni, almeno fino all’udienza fissata per il 19 novembre del 2020.

Stessa storia per la Co.ge.si. di San Giuseppe Jato, che dopo l’interdittiva antimafia della Prefettura e un incendio sospetto che ha distrutto 22 nuovi mezzi per la raccolta dei rifiuti, ha registrato il sequestro di beni per un milione e 500 mila euro. Rimane comunque nelle White list, con la dicitura “aggiornamento in corso” dal 26 febbraio 2018.

Scorrendo si può trovare anche “Pietre del Golfo” srl, i cui proprietari Antonio Caleca e Antonio Severino Caleca sono stati arrestati a fine 2018, con l’accusa di corruzione riguardante il Comune di Castellammare del Golfo. La loro azienda è in agenda dal 28 settembre 2017.Cambiando altitudine, c’è il caso della Energeticambiente srl: società con sede a Rozzano che si occupa di raccolta di rifiuti, in attesa dal 1 giugno 2016, e vincitrice lo scorso agosto di un bando per la raccolta dei rifiuti nel comune di Monopoli, con durata fino al 31 luglio 2020. Per non tradire le aspettative, Energeticambiente si scopre essere una controllata dalla Aimeri Ambiente S.r.l., società nota a Monopoli, dove dal 2013 al 2014 aveva gestito la raccolta di rifiuti concludendo in anticipo il contratto per gravi inadempimenti.

La normativa antimafia, in sostanza, ha una porta sul retro dove tutti passano senza neanche troppo nascondersi. Stando alla legge, la sola richiesta di iscrizione alla White list vale come certificazione di legalità. Il che oltre a essere paradossale, lascia campo aperto a quelle società considerate pulite, basandosi (forse) su una fiducia che, a memoria, trova difficilmente giustificazioni.

Veleni sotto l’asfalto: le strade a rischio

Basta solo scavare più affondo, appena sotto la crosta superficiale di asfalto, per scoprire uno dei nuovi esercizi delle organizzazioni criminali. Le chiamano “strade al veleno”, in quanto il nucleo sotterraneo dei conglomerati bituminosi è composto da aggregati tossici: metalli pesanti, fluoruro, bario, piombo, arsenico, mercurio, diossine o sostanze altamente cancerogene, come il cromo esavalente, sono impastati nel cemento e nel calcestruzzo.

Lingue grigie che covano in seno scorie nocive, con particolare affluenza nelle aeree industrializzate del Nord Italia. Tra Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna sono oltre 120 i comuni su cui sono stati sversati, sepolti o incapsulati, tra il 2014-2016, oltre 720 mila tonnellate di conglomerato miscelato con sostanze tossiche utilizzato poi come sottofondo stradale. Il processo giudiziario, iniziato nel 2019, arriva come primo segnale di un’operazione promossa dalla procura Distrettuale antimafia di Venezia che, come si evince dagli anni presi in considerazione, è solo agli albori.

“Questo fenomeno ha conosciuto un primo momento di incredulità, al solo pensiero che i criminali potessero arrivare ad avvelenare interi pezzi di territorio dove loro stessi vivevano e vivono – commenta Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia – Oggi è una terribile realtà conclamata che vede i rifiuti essere una risorsa economica per le mafie attraverso il loro smaltimento illegale. Molte volte grandi opere pubbliche hanno avuto il sospetto di interramenti di rifiuti di ogni genere. Lo stesso nel privato: bisogna procedere serrando i controlli ma aiutando le piccole imprese nello smaltimento corretto dei rifiuti”.

Nella gara delle colpevolezze, sono molte le arterie dell’Italia a nascondere irregolarità. E anche se ad Acerra, secondo la Dda di Napoli, la camorra avrebbe costruito una scuola materna con cemento miscelato ad amianto e scarti di acciaierie, la questione dello smaltimento selvaggio dei rifiuti, dopo il maxi processo “Aemilia” ai danni della ‘ndrina Grande Aracri, sembra ormai aver messo le radici nel settentrione. Nel caso dei 120 comuni tra Lobardia, Elia Romagna e Veneto, il materiale sotto accusa è il concrete green: un conglomerato cementizio che in teoria dovrebbe essere un calcestruzzo composto da almeno il 10% di materiali riciclati e soprattutto prodotto in impianti al 100% di energia rinnovabile. Quello utilizzato, viceversa, di green ha ben poco, come del resto indicava il prezzo cui veniva venduto: 17 euro al metro cubo contro i 247 dei conglomerati ecologici.

Precisamente tra le province di Rovigo, Ferrara, Bologna, Modena, Mantova, Verona e Padova, la miscela impiegata non solo non era stata trattata con i giusti criteri, ma al posto di materiale riciclato sono state occultate sostanze tossiche che le aziende hanno smaltito illecitamente. Il risultato? Se gli stessi istituti ambientali, tra cui l’Arpa, minimizzano sull’impatto degli inquinanti presenti nei conglomerati e su una possibile contaminazione per lisciviazione in falda, la fragilità strutturale del sottofondo, impropria a certi stress e a determinati carichi, ha già prodotto i primi risultati: numerose strade dell’Alto Mantovano, negli ultimi mesi sono state squarciate da voragini improvvise nell’asfalto.

Strade interpoderali ma anche opere di rilievo poggiano le loro radici sul frutto del tritarifiuti abusivo. È emersa anche l’apertura di una procedura di controllo da parte degli enti regionali di Mantova, – di cui il Fatto può dare conto – in merito ai materiali impiegati per la costruzione del ponte sul fiume Po, tra i comuni di Bagnolo San Vito e San Benedetto Po. Un sospetto che se confermato, alzerebbe il livello di gravità e andrebbe a ingrassare la già colma lista di grandi opere dalla livrea candida e il cuore contaminato. Dalle scorie rinvenute nella rampa d’accesso dell’autostrada Serenissima a Roncade e in un parcheggio dell’aeroporto Marco Polo di Venezia. Per poi passare al trasporto su rotaia, con un tratto dell’Alta velocità talmente inquinato da dover essere bonificato (evento più unico che raro in questi casi), e infine arrivare allo smaltimento illecito della Brebemi (l’autostrada A35) dove le enormi concentrazioni di cromo esavalente hanno portato Roberto Pennisi, sostituto procuratore della Direzione nazionale antimafia, ha definire il varco una discarica sotterranea “servita solo per interrare rifiuti”.

Sempre per i rifiuti interrati, processo in corso per l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano e per la Valdastico sud, con relative aziende coinvolte. Sono migliaia le tonnellate tossiche trovate nei sottofondi del troncone compreso fra Rovigo e Vicenza della Valdastico. Proprio per quest’ultima il prossimo 17 dicembre inizieranno le fasi finali del processo: i responsabili legali di quattro aziende (due lombarde e due venete) rischiano fino a sette anni e mezzo per smaltimento abusivo di rifiuti e frode in commercio. Come conferma il legale delle associazioni ecologiste che si sono costituite parte civile, Edoardo Bortolotto: “L’incognita rimane la possibilità di una rigenerazione del tratto a carico delle aziende imputate, troppo costoso e difficilmente realizzabile”.

“C’è bisogno di una collaborazione stretta tra le forze dell’ordine, penso ai carabinieri forestali, e ogni parte dello Stato che ha la protezione dell’ambiente come suo obiettivo primario. Non è solo con la repressione ma soprattutto con la prevenzione che si può venire a capo di problematiche così complesse”, spiega Morra.

Il sistema mafioso, durante questi anni, ha sempre trovato fedeli “teste di legno” nella classe imprenditoriale. Sono infatti le discariche, i capannoni o le cave il fulcro di smistamento e di stoccaggio di quel ciarpame che passa da rifiuto a sottofondo stradale per mero tornaconto.

Tornando all’inchiesta dei 120 comuni del Nord Italia, il suddetto concrete green veniva prodotto dalla Tavellin Green Line srl assieme al Consorzio Cerea spa, società fondata nel 1996 a capitale pubblico-privato, di cui l’omonimo Comune detiene il 20% di quote. C’è poi la Cosmo Ambiente di Noale, dove i carabinieri Forestali di Mestre hanno sequestrato 280mila tonnellate di rifiuti tossici e pericolosi che sarebbero stati mescolati con scarti in regola per ottenere un materiale, chiamato “Ecocem”, da usare per rialzi stradali.

Spostandoci di qualche chilometro, il fumo acre dell’incendio del 14 ottobre 2018 nel deposito di via Chiasserini, a Milano, una volta diradatosi ha scoperto pesanti retroscena. Oltre alle recenti condanne per Aldo Bosina, amministratore della Ipb Italia, società che gestiva il capannone, condannato a 6 anni e 6 mesi, e per gli altri imprenditori coinvolti, il maxi rogo avrebbe dato origine a un’indagine mirata a scovare i siti appositamente affittati, nel veronese e nel milanese, per gestire il traffico illecito di rifiuti, successivamente impastati nei composti, provenienti dalla Campania e della Calabria.

Al di sopra delle ricette tossiche c’è inoltre una sorta di corazza endogena sviluppata nel tempo per mimetizzarsi. “Volendo fare un esempio, prendiamo due aziende: una con un’immagine di alto profilo e un’altra con un’immagine macchiata proprio dal veleno di cui sopra. Spoiler: in sostanza, fra le due c’è poca differenza”, chiarisce Alberto Zolezzi, parlamentare del M5S e componente della commissione Ambiente. “L’azienda virtuosa recupera scorie di inceneritore e, dopo aver separato i metalli grossolani e aver ottenuto delle frazioni granulometriche, vende il materiale a prezzi ampiamente inferiori ai costi di trasporto. Per una terza società del settore il prezzo è di circa 0,5 euro/tonnellata, nonostante la distanza che può dividere gli impianti: il costo di trasporto per un camion di almeno 30 tonnellate infatti è nell’ordine di grandezza di 1,5 euro/km, quindi circa 540 euro, cioè 18 euro/tonnellata. Grazie a questo sconto sulle materie prime, le aziende che si riforniscono sia dalla realtà virtuosa sia da quella indagata diventano estremamente competitive e in grado di acquisire, giocando a ribasso, quasi tutti i lavori per la realizzazione di sottofondi stradali. Il materiale venduto ha un valore negativo a tal punto che entrambe le aziende sono disposte a perdere denaro pur di disfarsene”. Il perché di questa mossa? Gli scarti andrebbero classificati come rifiuto, in quanto il produttore sembra nella posizione di volersene disfare (art. 183, comma 1, D.Lgs 152/2006), mentre con il passaggio di consegne parallelo il materiale esce dal circuito e beneficia della possibilità di essere usato come prodotto. Il tutto, sommerso nelle ombre delle normative vigenti.

L’ossessione per gli elettori di centro condanna a perdere

Un giovane sindaco senza esperienza politica nazionale si candida all’incarico più alto, vuole guidare l’esecutivo, anche se finora ha amministrato senza particolare successo soltanto una cittadina di 100.000 abitanti. Non è Matteo Renzi, ma Pete Buttigieg, “major Pete”: primo cittadino di South Bend, trascurabile località dell’Indiana, uno Stato repubblicano nel Midwest. Major Pete si è illuso per qualche giorno di beneficiare della principale ossessione dei partiti progressisti di tutto il mondo, quella che ha condannato sinistre di ogni sfumatura alla sconfitta negli ultimi vent’anni: l’idea che le elezioni si vincono al centro.

Buttigieg, 37 anni, ha avuto una sua celebrità perché, pur essendo molto religioso, è gay, sposato, ed è pure un veterano dell’Afghanistan. Si presenta come un Obama bianco – anche se non parla mai di omosessualità così come Obama non era mai esplicito sui temi razziali – e fino a giovedì scorso fa sembrava potesse vincere la sua scommessa: offrirsi come l’approdo per quegli elettori Democratici spaventati dai programmi troppo radicali di Elizabeth Warren e Bernie Sanders (che hanno idee bizzarre per gli standard di Buttigieg, tipo tassare i ricchi, estendere la copertura sanitaria pubblica o ridurre il potere delle grandi aziende digitali). Buttigieg ha puntato tutto sull’Iowa, il primo Stato decisivo per le primarie dei Democratici, dove ora un sondaggio lo dà al quarto posto con il 18 per cento. Quello che conta, per lui, è il sorpasso su Joe Biden, l’ex vicepresidente di Obama considerato il predestinato a sfidare Donald Trump nel 2020, che si ferma al 17 per cento (il sondaggio però ha un margine di errore del 4,7 per cento). Buttigieg pensava di essere diventato lui il candidato capace di catalizzare quei fantomatici voti “moderati” che servono per vincere: a 77 anni Biden è appannato, non finisce le frasi, inanella gaffe e, si è scoperto, fa campagna elettorale con un jet privato, non il massimo per parlare ai diseredati. Inoltre l’ossessione di Trump nei suoi confronti – con la richiesta a vari governi di indagare sugli affari dei suoi figli – ha attirato l’attenzione su una famiglia di spregiudicati profittatori: figli e parenti vari che si arricchiscono con ricche “consulenze” pagate da chi vuole tenere buoni rapporti con il vecchio Joe.

Vista l’eclissi di Biden e l’affacciarsi di Buttigieg alle spalle del duo radicale Warren-Sanders, l’ossessione progressista per il centro sta producendo un colpo di scena: l’ingresso nella corsa di Michael Bloomberg, quasi ufficiale. Non ci sono sondaggi recenti, ma l’ex sindaco di New York sembra avere poche possibilità di vittoria: anche nella città che ha amministrato per 12 anni (grazie a un trucco che gli ha regalato un mandato extra) è amato e odiato, per gli altri è un miliardario iperprogressista, famoso per il gruppo di media omonimo e perché crede nelle tasse sulle bibite gasate. La speranza di molti è che Bloomberg abbia abbastanza soldi da comprarsi la Casa Bianca, sfrattando Trump e garantendo a Wall Street e alla Silicon Valley un presidente non ostile.

Magari è giusto il recente sondaggio del New York Times che ad oggi dà Trump vincente in tre Stati decisivi su sei se come sfidante avrà la Warren o Sanders (mentre sarebbe in testa soltanto in uno contro Biden). Però è chiaro che negli Stati Uniti si decide il destino della sinistra, nella prima elezione post-populista. Trump può ancora vincere grazie all’economia che regge, ma ha dimostrato di non saper governare. Come reazione all’onda populista, i Democratici hanno elaborato due risposte: Biden-Buttigieg-Bloomberg, cioè la definitiva trasformazione di una forza progressista in un baluardo dello status quo e della difesa degli interessi dei ricchi e della parte alta della classe medi; oppure il modello Warren-Sanders (fino alla versione più movimentista della deputata Alexandria Ocasio Cortez), un post-populismo di proposte radicali che individuano nella disuguaglianza e nelle grandi aziende il nemico, invece che negli immigrati e negli intellettuali.

La Warren e Sanders, con ricette diverse ma sempre nette, vogliono tassare i ricchissimi, ritirare i soldati da guerre di cui nessuno riesce più a spiegare il senso (Afghanistan), alleggerire il fardello dei debiti universitari per i giovani e garantire un sistema più universale ed equo nella sanità, costringere Google e Facebook a restituire alla politica il potere di cui si sono appropriate, affrontare la globalizzazione con un misto di protezionismo e ricerca di competitività. E vogliono fare tutto questo – per quanto possa sembrare strano in Italia – senza usare la sola leva del deficit, Sanders promette più tasse, la Warren promette che saliranno solo per i miliardari.

Spostarsi verso il centro è una scommessa molto rischiosa per i Democratici: non è affatto detto che basi a vincere la Casa Bianca, di sicuro basterebbe a perdere quell’energia intellettuale e politica che ha prodotto la prima vera risposta di sinistra al populismo. Non è una storia soltanto americana: l’esito della sfida interna ai Democratici avrà inevitabili ripercussioni anche in Italia, sul nostro Buttigieg (Renzi) e sull’evoluzione di Cinque Stelle e Pd, oggi in cerca di una nuova identità da contrapporre alla destra in continua crescita nei sondaggi.

Yemen, torture nella prigione nascosta nel sito Total

“Sono stato rinchiuso in una cella. Poi mi hanno preso a pugni e bastonato, trascinato per la barba e colpito al volto. Mi hanno fatto credere che i miei compagni di cella mi avessero denunciato e accusato di far parte dell’Isis, di Al Qaeda o dei Fratelli Musulmani”. Mohammad (nome di fantasia) è yemenita. Sostiene di essere stato rinchiuso e picchiato dalle forze emirate a Balhaf, costa sud dello Yemen, in un sito industriale gestito dal consorzio Yemen Lng (Ylng) il cui principale azionista è il gruppo francese Total (circa il 40%). La sua testimonianza emerge da un rapporto pubblicato giovedì scorso dall’Osservatorio sugli armamenti e dalla Ong SumOfUs, in collaborazione con Amici della Terra (“Operation Shabwa – La Francia e Total in guerra nello Yemen?”), che Mediapart e Le Monde hanno potuto consultare. Vi sono prove che l’impianto di Balhaf è stato usato dagli Emirati Arabi Uniti come prigione segreta dove i detenuti sarebbero stati sottoposti a trattamenti “disumani e degradanti”.

I fatti risalgono al 2017 e 2018, durante la guerra, ancora in corso, tra i ribelli Huthi, un movimento politico islamico armato, e il governo di ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, presidente riconosciuto dalla comunità internazionale e sostenuto dal 2015 dalla coalizione di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti. Abbiamo contattato sia Total che Ylng, senza risposta. Dall’ufficio del primo ministro Edouard Philippe ci è stato spiegato che se “la Francia ha sostenuto questo progetto industriale, la gestione del sito e la ripresa delle attività spetta al consorzio Ylng”. E hanno aggiunto: “I fatti molto seri che segnalate dovranno essere verificati”. L’impianto, aperto nel 2009, rientrava all’inizio nella strategia della multinazionale francese di sviluppare il gas naturale per il mix energetico. Lo stabilimento di Balhaf, alimentato da un gasdotto collegato ai giacimenti di gas della città di Marib, produceva Lng (Liquefied Natural Gas) che veniva venduto a clienti internazionali via il porto di Balhaf. Lo stabilimento, strategicamente importante per la multinazionale, era e rimane vitale per l’economia yemenita. Con il suo costo di 5 miliardi di dollari, rappresenta il più grosso investimento mai realizzato nel paese. Le esportazioni potrebbero fruttare “quasi un miliardo di dollari all’anno al governo”, secondo Aws Al-Aoud, il ministro del Petrolio yemenita. Un reddito essenziale per il paese più povero del Medio Oriente. Assicurare la protezione del consorzio Ylng a Balhaf è dunque importante. Il sito che, oltre alla zona industriale, comprende anche abitazioni, una moschea e una mensa, è protetto da “torri di osservazione, sensori e telecamere anti intrusione e checkpoint”, notano le associazioni.

Della sua sicurezza si occupano delle società yemenite come Al Maz, G4S Limited o Griffin Limited, ma anche compagnie militari private francesi come Pro-Risk o Surtymar e gruppi militari vicini all’esercito yemenita. Sul posto è presente anche l’esercito francese. “Ylng ha convinto il governo francese a inviare delle pattuglie navali per addestrare i soldati yemeniti basati a Balhaf nel maggio 2009”, scriveva l’ambasciatore americano dell’epoca in una missiva diplomatica rivelata da WikiLeaks. La militarizzazione del sito ha consentito allo stabilimento di funzionare a pieno regime anche a conflitto iniziato, dopo che, nel 2014, il movimento Houthi aveva conquistato la capitale yemenita, Sanaa. Quell’anno la fabbrica aveva persino esportato volumi superiori al previsto, secondo i dati di Bp. Ma, a inizio 2015, per “cause di forza maggiore”, Total ha sospeso le attività e rimpatriato i suoi dipendenti in Francia, grazie ancora una volta alla presenza della marina militare nazionale.

La fabbrica nei fatti non è mai stata completamente ferma. L’impianto va ad attività ridotta per preservare le installazioni, facendo intervenire sul posto 50 “volontari” yemeniti. “Due squadre si alternavano ogni quattro settimane – ha confermato a Mediapart un tecnico presente sul sito da anni -. Avevamo avuto la sensazione di dover agire per il bene del nostro Paese, nonostante i rischi incorsi per attraversare regioni in guerra”. La sospensione dell’impianto è coincisa con l’intervento in Yemen, al fianco del presidente ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, accomunati, oltre che dalla volontà di combattere i ribelli Houthi che occupano lo Yemen settentrionale, anche da interessi privati. “Gli Emirati hanno messo a punto una strategia per controllare il sud dello Yemen e la trafficata rotta marittima che unisce lo stretto di Hormuz allo stretto di Bab el-Mandeb”, ha spiegato Tony Fortin dell’Osservatorio sugli armamenti. “Controllare i porti yemeniti permette di limitarne lo sviluppo e la concorrenza che potrebbero fare ai porti emirati – sottolinea Ali Ashal, deputato del Congresso yemenita per la riforma, partito di opposizione affiliato ai Fratelli Musulmani -. Anche la regione di Shabwa, ricca di petrolio, è di loro interesse”.

Il porto e la fabbrica di Balhaf, all’interno del governatorato di Shabwa, ricco di idrocarburi, è un luogo strategico. “Il sito è una base militare degli Emirati, con armi e logistica. Lo sanno tutti”, afferma una fonte del governo yemenita. Da immagini satellitari le associazioni hanno notato la comparsa di nuove infrastrutture sul posto, tra cui “un eliporto”. É possibile che Total, in quanto principale azionista, ignori la trasformazione del sito in caserma? “Total è al corrente”, ci ha detto un membro del governo yemenita, a condizione di conservare l’anonimato. E il governo francese? “La Francia è un alleato storico degli Emirati Arabi Uniti”, ha sottolineato Tony Fortin, ricordando le ingenti vendite d’armi alla monarchia del Golfo: 3,5 miliardi di euro di ordini tra 2009 e 2018, secondo il rapporto parlamentare 2019 sulle esportazioni di armi. I due paesi hanno recentemente rafforzato la cooperazione, in materia di “pace e sicurezza regionali” e di “lotta contro il terrorismo”. Nel campo dell’energia, il governo francese ha impegnato fondi pubblici per il progetto dell’impianto di liquefazione yemenita attraverso un’assicurazione che copre parte dei rischi assunti dalle banche finanziatrici del progetto. Il ministero dell’Economia ha confermato una polizza assicurativa di 240 milioni di dollari. “Significa che i contribuenti potrebbero trovarsi nella situazione assurda di doversi assumere i rischi finanziari presi da Total in Yemen – denuncia Cécile Marchand, dell’associazione Amici della Terra -. E, peggio ancora, che lo stato francese si ritrova complice delle violazioni dei diritti umani perpetrate a Balhaf”.

Le associazioni denunciano anche la creazione sul sito nel 2017 e 2018 di una prigione segreta, basandosi sulle testimonianze di due yemeniti, tra cui Mohammad. “Tra 5 e 10 detenuti sono ammassati in celle minuscole, di 5-8 metri quadrati. Dormono per terra. Non c’è acqua corrente e si soffoca per il caldo. Vengono segnalati casi di tortura e maltrattamenti: i prigionieri sono picchiati e i malati lasciati senza cure”, si legge nel rapporto. Anche l’associazione Sam di Ginevra per i diritti e la libertà aveva registrato l’arresto nell’agosto 2017 e la detenzione nel sito di Balhaf di diverse persone, tra cui bambini. “Una donna ha descritto la detenzione della sua famiglia, compresi i suoi bimbi, trasportata in elicottero e rinchiusa a Balhaf”, ha detto a Mediapart Tawfik Hamidi, avvocato yemenita che lavora per l’associazione. Più in generale, media e associazioni hanno denunciato l’esistenza, tra 2017 e 2018, di una rete di luoghi di detenzione gestiti dagli Emirati Arabi Uniti situati intorno ai porti di Aden e Mukalla. “Le persone che vi sono rinchiuse sono in genere accusate di appartenere a al-Qaeda nella penisola arabica (Aqap)”, scrivono l’Osservatorio sugli armamenti e SumOfUs. Secondo le testimonianze raccolte da Amnesty International, verrebbe preso di mira anche chi critica la coalizione e i suoi alleati, tra cui attivisti e giornalisti, nonché sostenitori e membri del Congresso di riforma yemenita. “Tuttavia – scrive ancora Amnesty – molti arresti si baserebbero su sospetti infondati e vendette personali”. La Ong reclamava già nel luglio 2018 l’apertura di “inchieste per crimini di guerra”. “In queste carceri si sono verificati atti di tortura“, hanno dichiarato a Mediapart Bonyan Jamal e Ali Al Razzaqi, due avvocati della Ong yemenita Mwatana for Human Rights, che lavorano sulle prigioni segrete. Le associazioni chiedono ora l’apertura di una commissione d’inchiesta per fare luce sulle responsabilità della Francia nella situazione in Yemen. Dopo le rivelazioni di giovedì, Total ha diffuso un comunicato: “Total è stato informato nell’aprile 2017 dalla Yemen Lng, della requisizione, da parte delle autorità internazionalmente riconosciute dello Yemen, di una parte delle installazioni del sito di Balhaf, non in uso, a favore delle forze della coalizione”. Ma che Total “non dispone di informazioni relative all’uso che la coalizione ne fa”.

(traduzione Luana De Micco)

Morales cede: “I boliviani rivoteranno”

“Ho deciso di rinnovare l’intero Tribunale supremo elettorale e convocare nuove elezioni”. Alla fine cede il presidente Evo Morales dopo giorni di proteste contro i risultati che lo davano vincitore alle elezioni presidenziali del 20 ottobre. Morales ha detto di voler così “abbassare la tensione: tutti abbiamo l’obbligo di pacificare la Bolivia”.

Il discorso alla nazione trasmesso in tv del presidente boliviano è arrivato dopo giorni di proteste organizzate dall’opposizione (con l’aiuto degli Stati Uniti) per denunciare brogli elettorali delle elezioni presidenziali del 20 ottobre scorso al termine delle quali Morales si è dichiarato vincitore al primo turno, con la destra che ha gridato allo scandalo per lo stop della pubblicazioni dei risultati che avrebbero reso possibile il ballottaggio. E due giorni fa Morales ha parlato di un tentativo di “colpo di stato” perché la polizia e i militari di diverse regioni del paese avevano dichiarato che non avrebbero risposto più agli ordini di sedare le proteste. Con la sua decisione Morales accoglie il giudizio emesso agli osservatori dell’Organizzazione degli Stati americani che hanno indagato sulle elezioni in cui, si legge in un rapporto pubblicato ieri, hanno riscontrato diverse irregolarità. Tanto da spingere il segretario generale Luis Almagro a chiedere, appunto, nuove elezioni come la destra boliviana.

Che la situazione fosse sfuggita di mano era chiaro dalle parole di Morales: “Rivolgo un invito al rispetto della vita, al rispetto della proprietà privata, al rispetto delle autorità e di tutti i settori della società. Tutto quello che abbiamo in Bolivia è patrimonio del popolo boliviano”. E alla Radio Panamericana di La Paz, Morales ha implorato: “Indire nuove elezioni significa mettere fine a qualsiasi mobilitazione, e che si sospendano gli scioperi e i blocchi”. Addirittura non si è detto sicuro di una ricandidatura: “La priorità è la pacificazione del paese”. Ma al leader dell’opposizione boliviana, il presidente del “Comité pro Santa Cruz”, Luis Fernando Camacho, non basta e continua a sostenere lo sciopero a tempo indeterminato indetto dai comitati civici: unico modo per interrompere la serrata per Camacho sono le dimissioni immediate del presidente Evo Morales e del suo vice Alvaro Garcia Linera.

Al termine dell’Angelus, a Roma, sulla situazione in Bolivia è intervenuto anche papa Francesco: “Desidero affidare alle vostre preghiere anche l’amata Bolivia. Invito tutti i boliviani, in particolare gli attori politici e sociali, ad attendere con spirito costruttivo, e senza alcuna previa condizione, in un clima di pace e serenità, i risultati del processo di revisione delle elezioni, che è in corso”.

Sánchez per il governo dovrà bussare al Pp. Boom di Vox

Ahora sì! O no. La Spagna, ad appena sei mesi dalle elezioni di aprile, rivive l’incubo: neanche dalle urne di ieri è uscita una possibile maggioranza. Lo slogan socialista, dunque, si è avverato, ma non per il premier dimissionario Pedro Sánchez, che ha incassato con il Psoe 120 seggi, tre in meno rispetto al 28 aprile (28% dei voti), restando il primo partito sì, ma senza i voti sufficienti per governare. A ottenere l’exploit tanto atteso – o tanto temuto – è stata l’ultradestra di Vox che raddoppia i parlamentari a las Cortes: 52 da 24 che ne aveva e diventa il terzo partito in Spagna.

Rimonta – seppur senza riuscire a tornare ai vecchi fasti né avverando le previsioni – anche la destra popolare di Pablo Casado a cui, la fuga degli elettori dal centro populista di Ciudadanos regala 88 scranni con il 20% dei voti. Tonfo invece per il leader arancione Albert Rivera che finisce quinto partito e paga con circa 45 seggi in meno e il 6,8% contro il 15,6% del 28 aprile, la colpa di non aver voluto formare il governo con Sánchez. È questo il destino che lo accomuna a Pablo Iglesias. Il leader di Unidas Podemos, infatti, non è riuscito a frenare la perdita di voti neanche con quell’ultima promessa: “Tendiamo la mano al partito socialista. Con il coraggio di Podemos e con l’esperienza del Psoe possiamo fare del nostro Paese un punto di riferimento per le politiche sociali. Da parte nostra ci lasceremo alle spalle i rimproveri”, ha provato ad aggiustare il tiro. Troppo tardi: Up si aggiudica 35 seggi dei 42 che aveva. E non si dica che si è trattato di dispersione di voto: il fratello/rivale Inigo Errejon con il neo-nato Mais Pais entra in Parlamento con soli 3 seggi.

Il risultato? Né una coalizione di sinistra, né una di destra raggiungono i 176 seggi necessari per ottenere la maggioranza de las Cortes. La somma di socialisti, Podemos e Mas Pais insieme darebbe 158 seggi, a meno di non includere nella i partiti regionali, compresa Esquerra Republicana degli indipendentisti catalani che ha confermato i voti di aprile con 13 seggi ed è tornata con il vicepresidente della Generalitat, Pere Aragones, a mostrare i muscoli nel discorso post-risultati. Le destre, pur con l’ottimo risultato di Vox si fermano comunque a 149 seggi. L’unica possibilità per dare stabilità al Paese sarebbe una grande coalizione di Psoe, Pp e Ciudadanos. Ipotesi che i Popolari non prendono in considerazione, con Casado che già dai sondaggi ha avvertito di volersi presentare al re come il leader in grado di ottenere la maggioranza. “È chiaro che gli spagnoli hanno detto di volere o Pedro o Pablo. Ma vista la caduta del Psoe, Sanchez dovrebbe pensare ad andarsene”, aveva ribadito il presidente del Pp, Teodoro Garcia, quando dagli exit poll sembrava che il Psoe perdesse più seggi.

Sulle urne ha pesato certamente la questione catalana con le proteste e la tensione seguite alle condanne ai leader indipendentisti. Vox ha promesso di mettere fuori legge i partiti separatisti e ieri sera ha soffiato sul fuoco nell’euforia dell’impennata elettorale denunciando un inesistente caos durante il voto in Catalogna. Per non parlare dell’esumazione dei resti del dittatore Francisco Franco dal suo mausoleo. Tutte ragioni che hanno spostato l’elettorato conservatore più a destra, mentre quello di sinistra, deluso dalla mancanza di accordo tra Psoe e Podemos per un governo progressista ha evitato le urne, alle quali si è recato ieri un 4% in meno che alle elezioni del 28 aprile.

Contro l’astensione si erano sperticati in accorati appelli tutti i leader durante la mattinata elettorale, da Sánchez a Casado ad Abascal, che aveva ringraziato addirittura alla democrazia, niente male per il leader di un partito post-franchista. Per le analisi approfondite ci sarà tempo, così come per i negoziati elettorali. L’impressione è che si sia avverato quel racconto breve che girava ieri su Twitter: “La formica per odio nei confronti dello scarafaggio, votò l’insetticida. Morirono tutti, compreso il grillo che si era astenuto.

Feriti soldati italiani in Iraq, 16 anni dopo la strage di Nassiriya

Nell’Iraq da settimane attraversato da fermenti sociali, politici, etnici, religiosi, che hanno fatto ben oltre cento vittime, un attentato esplosivo ha ieri ferito cinque militari italiani: tre sono gravi, nessuno – fortunatamente – è in pericolo di vita. Domani saranno passati 16 anni esatti dall’attacco di Nassiriya: 55 morti, di cui 25 italiani. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, avvertito dal capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Enzo Vecciarelli, ha a sua volta informato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Numerosi e immediati gli attestati di vicinanza e solidarietà ai feriti e alle famiglie.

L’attentato, riferisce lo Stato Maggiore della Difesa, è avvenuto intorno alle 11 ora locale, nell’area di Suleymania, nel Kurdistan iracheno, dove i militari italiani stavano svolgendo azione di supporto a una unità delle forze speciali dei peshmerga, i guerriglieri curdi. I cinque feriti sono tre incursori della Marina, appartenenti al Goi, il Gruppo operativo incursori, e due dell’Esercito, appartenenti al 9° Col Moschin.

Uno Ied, cioè un ordigno esplosivo rudimentale, è detonato al passaggio della pattuglia mista, che era a piedi. I cinque militari italiani coinvolti dall’esplosione sono stati subito soccorsi ed evacuati con elicotteri Usa della coalizione e trasportati a Baghdad in un ospedale militare. I tre feriti gravi sono comunque in prognosi riservata. Di loro, il più grave ha un’emorragia interna; un altro ha gravissime lesioni a entrambe le gambe, che sono state parzialmente amputate; il terzo ha perso alcune dita di un piede. Gli altri due militari coinvolti nell’esplosione hanno subito micro fratture e lesioni minori.

L’attentato, che non è stato per ora rivendicato, ricorda la pericolosità e l’instabilità della situazione in Iraq, dove il sedicente Stato islamico è stato territorialmente sconfitto, decapitato con l’uccisione del suo leader, l’autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma continua ad avere migliaia di miliziani mimetizzati fra la popolazione sunnita. Venerdì, alcuni razzi Katyusha erano stati lanciati contro una base aerea a sud di Mosul, Qayyara, dove sono di stanza anche truppe americane – in Iraq, vi sono ancora circa 5000 militari Usa –. Si ignora se la base sia stata colpita e se vi siano state vittime. Mosul è stata la capitale dell’Isis, prima di Raqqa, ed è la città dove al-Baghdadi proclamò il Califfato. E nell’area di Kirkuk vi sono stati 15 attacchi Isis nelle ultime due settimane.

Il fermento iracheno delle ultime settimane riduce le capacità delle autorità di tenere sotto controllo il territorio: venerdì, dieci persone erano rimaste uccise tra Baghdad (sei) e Bassora (quattro); sabato, altre quattro sono morte e oltre cento sono rimaste ferite, in rivendicazioni anti-governative che mobilitano la comunità sciita, mentre quella sunnita ne è sostanzialmente estranea. L’ultimo attentato contro militari italiani all’estero risaliva al 30 settembre, a Mogadiscio, in Somalia, firmati al Shabaab, formazione terroristica legata ad al Qaeda: anche allora era stato uno Ied a ferire due soldati dell’Esercito e un carabiniere.

“Plastica e auto aziendali, tasse più lievi. Poi raduno i giallorosa”

Presidente Conte, partiamo dalla strettissima attualità: l’attentato ai nostri militari in Iraq. Non pensa che, dopo 16 anni di missione militare, sia arrivato il momento di ritirare le truppe italiane?

Anzitutto mi faccia esprimere la vicinanza ai cinque militari feriti e alle loro famiglie, oltre agli auguri di pronta guarigione. Quanto alla missione, rientra nei nostri impegni nel quadro della coalizione anti-Daesh, a fine di contrastare il terrorismo. I nostri uomini sono impegnati in azioni di addestramento delle forze di sicurezza irachene. Ultimamente ne sono rientrati 100 in seguito al ritiro della Task force Praesidium impegnata ad assicurare i lavori presso la diga di Mosul e sul campo ne rimangono circa 500.

La sua visita a Taranto, iniziata con una contestazione, è finita con un lungo ascolto. Operai e cittadini le hanno accordato una fiducia a tempo: si rende conto che quel tempo è poco, poi anche lei passerà per uno che promette e non mantiene?

Sì, infatti non ho promesso nulla. Ho soprattutto ascoltato. Quella visita mi ha toccato nel profondo. Ed è servita specialmente a me per conoscere la realtà e i problemi di Taranto, il ciclo produttivo dell’ex Ilva, ascoltando tutte le componenti di quella comunità: quelli che esprimevano rabbia e disperazione, quelli che manifestavano preoccupazione e malcontento. Questo non allevia, ma aggrava la responsabilità mia e di tutto il governo per le scelte che dovremo compiere nei prossimi giorni e nelle prossime settimane.

É vero che proporrà a Mittal un piano fatto di scudo penale, sconto sul prezzo d’acquisto e cassa integrazione per migliaia di “esuberi”?

Niente affatto. Stiamo acquisendo col ministro Patuanelli tutti gli elementi in vista di eventuali soggetti alternativi, nel caso in cui Arcelor Mittal confermasse la dismissione dell’ex Ilva. Prepariamo la battaglia legale, convinti di avere ottime probabilità di successo al Tribunale di Milano. E intanto lavoriamo per una soluzione globale, che chiameremo “Cantiere Taranto”, per affrontare i vari problemi di quella comunità ferita da decenni di ambiente avvelenato e vite perdute, che non sono soltanto l’ex Ilva. Sto invitando tutti i ministri secondo le loro competenze, le autorità e i comitati locali e tutte le forze produttive del Paese a proporre progetti da inserire in un piano articolato per il rilancio economico, sociale, ambientale e culturale di Taranto. Per essere molto chiaro: i tarantini non saranno mai più soli, né affidati a un solo ministro.

Ma lo sa quante volte, da quanti governi, se lo sono sentito dire senza vedere poi nulla di concreto?

Lo so, ma io lo sto dicendo per la prima volta e chiedo fiducia. Non prometto e non annuncio. Ho detto che la soluzione in tasca non ce l’ho, la dovremo trovare tutti insieme. Il governo fa la sua parte. Stiamo predisponendo misure a sostegno dell’occupazione, della riconversione ambientale, del rilancio dell’Arsenale. E progettando un centro d’eccellenza di ricerca universitario a Taranto specializzato nella prevenzione di infortuni sul lavoro e malattie professionali, nella difesa della sicurezza e dell’ambiente. Chiunque voglia contribuire è il benvenuto.

E con Arcelor Mittal, quale sarà il primo passo?

Un nuovo incontro a breve con i titolari, risolutivo per capire che intenzioni hanno per davvero. Hanno avviato un’iniziativa giudiziaria con tempi lunghi e noi li anticipiamo con un procedimento cautelare ex articolo 700 del Codice di procedura civile per ottenere dal Tribunale di Milano una verifica giudiziaria sulle loro e le nostre ragioni entro 7-10 giorni: non possiamo attendere i tempi lunghi di un accertamento ordinario.

Pd, Iv e sindacati confederali vogliono reintrodurre lo scudo penale per “levare un alibi a Mittal”. E lei?

Per stanare il signor Mittal sulle sue reali intenzioni, gliel’ho offerto subito: mi ha risposto che se ne sarebbe andato comunque, perchè il problema è industriale, non giudiziario. Quindi chi vuole reintrodurre lo scudo per levare un alibi a Mittal trascura il fatto che Mittal non lo usa, quell’alibi. Anche solo continuare a parlarne ci indebolisce nella battaglia legale, alimenta inutili polemiche e ributta la palla dal campo di Mittal a quella del governo. Soltanto se Mittal cambiasse idea e venisse a dirci che rispetterà gli impegni previsti dal contratto – cioè produzione nei termini previsti, piena occupazione e acquisto dell’ex Ilva nel 2021 – potremmo valutare una nuova forma di scudo.

Che peraltro sarebbe sempre a rischio di una bocciatura della Consulta.

Quello non si può escludere. E comunque lo scudo non è affatto dovuto ad Arcelor Mittal: il contratto che hanno siglato nel 2018 non ne parla e l’addendum che vi accenna non lo contempla, in caso di revoca, come causa valida di rescissione per mutamento del quadro normativo; la clausola ragiona sì di modifiche legislative, ma tali da alterare il piano ambientale e rendere impossibile realizzare, tecnicamente o economicamente, il piano industriale. Ma ripeto: parlarne oggi, senza impegni da Mittal, è una disquisizione puramente teorica, inutile e anche dannosa.

La legge di Bilancio inizia il cammino parlamentare e si annunciano raffiche di emendamenti dei partiti in barba agli impegni presi in Consiglio dei ministri “salvo intese”. O malintese?

Il Parlamento è sovrano e, se emergeranno suggerimenti utili per migliorarla, il governo li valuterà con la massima apertura. Ma l’impianto e i contenuti essenziali non possono essere rimessi in discussione: significherebbe stravolgerla. Questa settimana incontrerò i capi delegazione delle quattro forze politiche di maggioranza e i loro capigruppo nelle commissioni parlamentari interessate per accompagnare il percorso di approvazione all’insegna dell’omogeneità.

Renzi annuncia battaglia sulla plastic tax e sull’imposta per le auto aziendali, che non piace neppure al M5S.

Il governo, in particolare il Mef, sta lavorando di suo per anticipare queste obiezioni e rendere ancor più sostenibili quei due interventi.

Con quali coperture?

Non posso sbilanciarmi, ma stiamo valutando con la Ragioneria dello Stato risparmi da altre voci sovrastimate.

Anche per lei ci sono troppe micro-tasse?

Al contrario, abbiamo cancellato un bel po’ di maxi-tasse: anzitutto l’aumento di 23 miliardi di Iva. E chi prevedeva che ci saremmo limitati a questo è stato poi smentito: abbiamo trovato altri miliardi per ridurre le imposte ai lavoratori, aiutare le famiglie e gli asili nido, abolire il superticket sanitario e, sul lato imprenditori, abbiamo confermato la flat tax al 15% per le partite Iva sotto i 65mila euro e gli stanziamenti di Impresa 4.0. Non solo, ma tutti gli strumenti di Welfare dei precedenti governi sono confermati: Reddito di cittadinanza, Quota 100, 80 euro. Aggiungo gli 11 miliardi per il fondo del Green New Deal, il credito di imposta per gli investimenti al Sud e gli incentivi del progetto di imprenditoria giovanile “Resto al Sud”. A fine anno vareremo altre misure per un piano più organico di rilancio del Mezzogiorno.

Molti dicono che il suo governo è senz’anima né identità. Come risponde?

Che in meno di due mesi abbiamo gettato le prime basi per fare dell’Italia un Paese più verde, più digitalizzato, meno burocratico, con infrastrutture più efficienti e tasse meno pesanti. E abbiamo varato il pacchetto più organico e incisivo mai visto finora per la lotta all’evasione e l’emersione dell’economia sommersa: da un lato inasprendo le pene, anche detentive, e allargando la possibilità di confisca; dall’altro stanziando 3 miliardi per incentivare la moneta elettronica, senza penalizzare consumatori ed esercenti che continueranno a usare i contanti. Sono scelte identitarie del governo, non solo dal punto di vista economico-finanziario, ma anche da quello culturale e morale: in questa congiuntura così sfavorevole, col Pil che stenta a crescere, il modo migliore per recuperare risorse e redistribuire ricchezza è contrastare duramente l’evasione: da queste misure ci attendiamo molto, per tagliare finalmente le tasse a chi le paga sempre e tutte.

Sicuro che la refurtiva recuperata andrà tutta ad abbassare le tasse e non si perderà nei soliti mille rivoli della spesa e dello spreco?

Mi impegno a destinare pressochè integralmente le somme recuperate dall’evasione in un fondo per ridurre la pressione fiscale, insopportabile soprattutto per alcune categorie. “Pagare tutti per pagare meno” non è il solito slogan: dall’anno prossimo avremo le risorse per riformare integralmente il sistema Irpef. Una svolta storica.

Messaggio encomiabile, peccato che venga oscurato ogni giorno dalla cacofonia dei partiti giallorosa: se non ci credono loro, alla “svolta storica”, perché dovrebbero crederci gli elettori?

Ci sono già abbastanza polemiche perchè ci aggiunga le mie. Ma una cosa dev’essere chiara: sul fisco ho lanciato un patto con gli italiani e tutta la maggioranza si impegni in questa svolta storica.

Il suo governo ricorda Penelope: lei e i ministri tessete la tela fino a notte, poi l’indomani il solito “alleato” provvede sempre a disfarla.

Alcuni distinguo e accenti diversi sono fisiologici, fra quattro forze politiche che non avevano mai collaborato tutte insieme, anzi si erano spesso combattuti. Ora però bisogna rinunciare a dichiarazioni estemporanee, smarcamenti tattici, rivendicazioni di bandiera marginali. Marciare compatti per questo disegno riformatore è doveroso, perchè è su questi impegni concreti che alla fine saremo giudicati dai cittadini. Non su questa o quell’intervista ai media, dichiarazione, tweet o diretta Facebook.

I quattro leader della maggioranza non si sono mai incontrati tutti insieme. Non è il caso di riunirli perchè si dicano tutto in faccia, perfezionino il programma, finora troppo vago, e poi le facciano sapere che intendono fare?

Sì, è il caso. Dopo il varo della manovra, ho già programmato di invitarli a un week-end di lavoro: tutti parleranno fuori dai denti, poi raccoglieremo i rispettivi obiettivi, metteremo giù un cronoprogramma dettagliato perché tutti si impegnino sul che fare e sul quando farlo nei prossimi tre anni e mezzo.

Si parla di un manipolo di “responsabili” in arrivo dal centrodestra per sostenere il suo governo. Lei ne sa niente?

L’ho letto anch’io sui giornali. Ma per ora nessuno mi ha contattato.

Difficile crederle.

Le assicuro che è così. Se qualcuno lo farà, lo dirò.

Ma mi faccia il piacere

L’intenditore. “… a ‘8 e mezzo’ Bentivogli e Massimo Giannini (santa pazienza) si sentivano impartire una rumorosa reprimenda da Marco Travaglio su Altoforno 2 e operai mutati in torce umane, argomenti ambedue cui il comiziante si direbbe il più alieno in Europa” (Adriano Sofri, Il Foglio, 8.11). In effetti, in tema di omicidi, il massimo esperto è lui.

E adesso come facciamo? “Caro @marcotravaglio la prima pagina del tuo giornale mi fa orrore. E non perché non ritenga gravissima, ripeto gravissima, la vicenda Nicosia. Ma perché deliberatamente getti fango (ad essere garbati) su un partito che è ed è stato altro. E che casualmente dimentichi citare” (Gaia Tortora, giornalista di La7, sul titolo del Fatto “Preso infiltrato della mafia in Parlamento” a proposito del radicale Antonello Nicosia, arrestato a Palermo per associazione mafiosa e favoreggiamento, Twitter, 5.11). Cara Gaia, eri così scandalizzata perchè non ho citato un certo partito, che non l’hai citato neanche tu. Se per caso fosse quello radicale, è vero, ha fatto anche altro: per esempio, battersi per l’indulto del 2006 a Previti, B. e altre migliaia di delinquenti, o avallare le guerre nell’ex Jugoslavia, in Afghanistan e in Iraq.

Non ostativo. “Ergastolano accoltella un uomo alla gola. Milano, quattro omicidi alle spalle, era in permesso premio. Ha aggredito e rapinato un anziano al San Raffaele” (Corriere della sera, 10.11). E’ la famosa funzione rieducativa della pena.

Il passo dell’oca. “Il M5S è morto quando morì Casaleggio. Scusi, ma non ce la faccio più, sono esausta. I grillini sono come le SS!” (Manuela Sangiorgi, sindaca M5S di Imola, dopo le sue dimissioni dal Comune e dai 5 Stelle per passare alla Lega, Il Messaggero, 30.10). La proporrò per il ruolo di ex kapò.

La botte piena e la zucca vuota. “Ho visto Mario Giordano rompere le zucche di #Halloween in trasmissione. Per una volta sono d’accordo con lui. Perché dovremmo festeggiare Halloween? Gli americani festeggiano la Befana? W la Befana. W le feste europee!!!” (Carlo Cottarelli, direttore dell’Osservatorio sui Conti pubblici italiani, Twitter, 1.11). Per curiosità: che cosa si beve in queste famose feste europee?

Classe digerente. “Milano, rischio Casalesi nella security dei lavori della metropolitana” (ilfattoquotidiano.it, 8.11). “Roberto Maroni condannato a un anno anche in appello per i contratti di Expo 2015” (corriere.it, 8.11). Ricapitoliamo: quella che per Raffaele Cantone era la “capitale morale d’Italia” ha l’ex governatore Formigoni condannato a 7 anni definitivi per corruzione e associazione per delinquere, l’ex governatore Maroni condannato a 1 anno in appello per turbativa d’asta, l’attuale governatore Fontana indagato per abuso d’ufficio, il sindaco Sala condannato a 6 mesi in primo grado per falso e i Casalesi alla sicurezza della metro. Non è che Cantone voleva dire “capitale molare”?

Pd, Partito detenuti. “Bella notizia Lula libero! Un grande presidente, simbolo di un Brasile più giusto e più forte” (Nicola Zingaretti, segretario Pd, Twitter, 9.11). “Un grande presidente che ha combattuto contro la povertà e per il riscatto del popolo brasiliano” (Paolo Gentiloni, commissario Ue agli Affari economici, Twitter, 9.11.). Ehi ragazzi, mica l’hanno assolto: Lula è stato condannato in due gradi di giudizio per due casi di corruzione scoperti quando era presidente, cioè dalla “sua” giustizia. Non vi ricorda uno statista italiano e quello che dicevate di lui?

Nuovi intellettuali. “Il disastro giallorosso è nato dai no in Puglia. M5S e Pd hanno bloccato la regione su gas (il Tap è quasi finito, ma fa niente, ndr), Xylella (qualunque cosa voglia dire ‘bloccare una regione su Xylella’, ndr) e acciaio (vedi sopra, ndr). Se il governo va avanti Salvini ci guadagna… Le parole di Ruini su Salvini mi hanno colpito. Per ne resta una delle menti più raffinate nel panorama attuale” (Annalisa Chirico, Libero, 10.11). Ma chi: Ruini o Salvini? Facciamo entrambi, buon prezzo.

Il titolo della settimana/1. “Posa del premier: pur di sedurre gli operai si toglie la pochette. L’esperto di linguaggio del volto: ‘Mostra improvvisazione e scarsità gestionale’” (Enzo Kermol, “psicologo e analista delle espressioni facciali”, Libero, 10.11). Uahahahahahah.

Il titolo della settimana/2. Di Matteo, il pm grillino accusa il Cavaliere col solito teorema sulla mafia” (il Giornale, 4.11). Il famoso teorema della Cassazione.

Pensavo fosse un live dei Pink Floyd. E invece era un grande Bongusto

Palermo Pop 1971. Annunciati i Pink Floyd, i King Krimson, i Van Der Graaf Generator, i Colosseum e magari pure i Rolling Stones. Una sòla pazzesca cui abboccarono gli affamati di rock e musica figa, regazzini che si fiondarono da tutto il territorio nazionale sperando di finire in una Woodstock nostrana. Tra i pischelli che si fecero tredici ore di treno da Roma dormendo per terra in corridoio, il sottoscritto e altri due esaltati, i capelli esagerati e lo zaino pieno di scatolette Simmenthal, contate, non avevamo una lira.

Quella sera, dei miti che ci convinsero a farci strapazzare da una tradotta per 920 Km., ci furono solo i Colosseum. E un gruppo siciliano bravino, ma non al punto di giustificare l’esodo. A seguire, Rosanna Fratello che provò a intrattenere con Vitti ‘na crozza una torma di rokkettari incazzati che la persuasero a desistere mediante lancio di zollone di terra erbosa in faccia (fuggì piangendo), Gabriella Farinon (Orrore! Lacchè del Baudismo!) che cercava di presentare gli artisti (ricordo un “Dai, ragazzi, state buoni” veramente suicida e giù altra pioggia di zolle zuppe di fango e ira, ululati “Nuda! Nuda!” e altra donna in fuga). E poi, poveri, spauriti gruppi locali che facevano quello che potevano, poi scappavano in velocità in quella tre giorni non di pace, d’amore e di musica, ma d’inculata totale. Il popolo era furibondo, il pratone ribolliva, il giramento di palle collettivo e selvaggio rendeva il clima western, uno mezzo nudo affrontò con un coltello uno col cavatappi. In questo furore deluso chiunque usciva sul palco ormai veniva massacrato.

Poi appare un tizio strano, da solo. Con un cappellone western bianco, camicione pure bianco con collettone rialzato sui lati, pantaloni a campana e occhialoni scuri che gli coprivano mezza faccia. E una chitarra. Un attimo di silenzio, la quiete prima del diluvio, poi partono i primi fischioni che si fanno subito uragano, vengono divelte le ultime zollone dello stadio (ormai quasi pelato), quello col cavatappi fortunatamente l’aveva portato via la polizia. E il tizio si mette a cantare un blues. Muddy Waters, mi pare. L’uragano scema piano piano, si fa il silenzio, la gente si siede e lui ne canta un altro, forse di John Lee Hooker, non ricordo, ma quello il blues lo cantava proprio bene. Poi un altro e un altro ancora, finché il pubblico di belve non esplode in un grandissimo applauso e si mette educatamente e attentamente a sentire il tizio che cantava e suonava benissimo, roba che John Lee Hooker gli avrebbe stretto la mano e ci avrebbe fatto la foto insieme. Chi cazzo era, ’sto matto? Ultimo brano, fine, Mr.X si toglie il cappellone, si toglie gli occhiali, fa una pausa poi dice in molisano stretto “E mo’ fischiate”. La platea si alza in piedi ed esplode in un’ovazione. Il tizio era Fred Bongusto, che ci salutò con un inchino elegante e se ne andò in un mare di applausi. Dieci anni fa lo incontro in un Autogrill vicino Pescara. Pigliava un caffè al bancone, vicino a me. Non resisto, gli dico che io ero uno dei pischelli che lo applaudirono a Palermo e mi complimento ancora, con lo stesso entusiasmo. La risposta, meravigliosa, fu “Maronn’, m’ stev’ a cagà sott’, o facev’ così o m’ammazzavano. Mi so’ dett’ ‘O la va o la spacca’. Ed è andata!”. Mi ringrazia (lui!).

Stretta di mano, sorriso mite e gentile e via verso chissà quale rotonda sul mare. Incontro indimenticabile.

Ciao Fred, onore a te. Ma che ne sanno questi. Sì, sì, “Malaga”… ma io lo so che eri un bluesman, io l’ho visto e sentito. Spero che lo incontri, a coso, lì, Muddy Waters e vi fate una bella suonata. Chiamate pure Howling Wolf all’armonica. Magari La rotonda sul mare viene ancora più figa.