Simenon: erotomane, egoista e avido. Eppure era un genio

A settembre hanno fatto trent’anni dalla morte di Georges Simenon. Era un uomo egoista, avido, erotomane, per certi versi sordido. Il suo primo rapporto sessuale lo ebbe in un cortile, a Liegi, all’impiedi: dodici anni lui, quindici la ragazza. Non mutò mai stile. Le donne le usava e le buttava via. Ebbe ragione solo quando ruppe con Josephine Baker: “Non voglio diventare il signor Baker!” Era un genio della letteratura.

Si dura fatica ad ammetterlo, se per noi il modello del genio è Proust, o Gadda, o Landolfi, o Borges, o Céline. Proprio se pensiamo a quest’ultimo, tuttavia, dietro la magia sintattica e lessicale, la visione netta e spietata della realtà li unisce. Simenon aborre dal virtuosismo letterario, ma Voyage au bout de la nuit e Mort à crédit sono, li abbia letti o meno, quanto di più prossimo a lui abbia raggiunto la letteratura del Novecento. In Céline v’è la profondissima pietà verso le vittime, verso i poveri. Simenon è spietato. Almeno così sembra. Ma raccontare la realtà più miserabile, occuparsi degli ultimi – vittime o colpevoli non importa – non è una forma profondissima di pietà, pur se involontaria?

E veniamo al commissario Maigret, nato alla letteratura nel 1930. Gli ha portato guadagni immensi, ma, naturalmente, il disprezzo dei letterati e dei colti. Letteratura facile, letteratura d’appendice. Ve l’immaginate Proust, se fosse vissuto dieci anni di più, che cosa avrebbe detto dei romanzi di Maigret?

Come quasi tutti, ho fatto conoscenza con Simenon per il tramite di Maigret. Posseggo ogni romanzo che gli è dedicato, oltre molto altro Simenon. Li rileggo spesso. Questi romanzucci che si vendevano in edicola senza nemmeno passare in libreria sono pur essi dei capolavori. Le trame sono sovente ripetitive: il Quai des Orfevrès, la squadra dei poliziotti collaboratori del Commissario, le birrerie circonvicine, la moglie. È un tratto d’arte riuscire a non stancarti mai ripetendo tutto ciò, e gl’interrogatorî, gli appostamenti, i pedinamenti. I superiori invidiosi e a volte persecutori. Un essere totalmente privo di umanità come Simenon inventa un uomo carico di umanità come Maigret. Il Commissario non riesce a odiare il criminale, l’assassino. La vita è fatta così: per un caso l’uno si trova dalla parte giusta, l’altro dalla parte sbagliata. Non riesce a odiare nemmeno i sordidi confidenti, gli eroinomani, i morfinomani che magari fanno la fila davanti al suo ufficio per dargli una “soffiata”.

Il genio di Simenon consiste in una rappresentazione perfetta della realtà: che non è fotografia, pur forse pretendendo di esserlo. Egli proveniva dal milieu della minima borghesia, e aveva passato la vita a osservarlo: insieme con quello della povertà più sventurata, e con quello della ricchezza. Nulla gli è alieno. Riesce a farti sentire l’odore di certe scale immonde, di certe portinerie nelle quali la portiera quasi sempre cucina la zuppa di cavolfiore. (Le portiere di Maigret: un capitolo a sé!). L’odore dei letti sfatti di certe camere “a ore”, l’alito degli avvinazzati con le manette, l’odore della paura della prostituta arrestata perché sa qualcosa che non dovrebbe sapere. E così via. Non è un caso che uno dei genî del cinema, Jean Renoir, s’impadronì immediatamente di Maigret, dando il suo volto a Jean Gabin. Infine la moglie: quieta e non sciocca casalinga. Il merito principale della quale è di non interrogare il marito sulle inchieste.

Molti dei romanzi indipendenti dal commissario, Il testamento Donadieu, Ceux de la soif, La neige etait sale, Lettre à mon Juge, sono capolavori della letteratura. La conoscenza che Simenon ha del- l’uomo si distende su più ampio spazio. Ed è, come nei romanzi “piccoli”, d’un invincibile pessimismo.

Il caso Simenon è singolare anche sotto un altro profilo. Egli era costretto a creare da qualcosa di più forte di lui. Entrava in una sorta di trance, e dalle quattro del mattino era alla macchina da scrivere almeno per otto ore. Non lasciava il romanzo, grande o piccolo che fosse, nemmeno un giorno. In tutto, ne impiegava undici. Questa sorta di ebrietà dionisiaca combinata con una vita da borghese, a volte piccolo, a volte massimo, è uno dei più grandi misteri della letteratura: tenuto conto della qualità del prodotto. È come se fosse in lui un daímon che l’obbligava a inventare e narrare. Scriveva persino durante i giri in canoa che fece per conoscere l’interno della Francia; e poi negli Stati Uniti, in Canada, a Papeete… Il paragone più ovvio è quello con Balzac. Ed è ovvio solo in apparenza: Honoré era posseduto dallo stesso daímon, e ha una capacità di raccontare gl’interni miserabili, piccolo borghesi, aristocratici, che certo Simenon ha preso da lui. Ma la cosa più importante era il fatto che ambedue sapevano aprire la porta all’inconscio e lasciarlo libero.

Né Céline né Borges né Simenon hanno vinto il Premio Nobel. Paragonateli ai vincitori.

“Da Depardieu a Rubini, il cinema è dei pericolosi E che paura con Moretti”

Polistena, alba di un giorno nei primissimi anni Sessanta: “Con la mia famiglia ero in macchina, dopo tanto discutere diventavamo emigranti. Destinazione Torino. Ho ancora la sensazione di quello stato d’euforia, misto al dolore di lasciare la mia terra, e di vedere dal vetro posteriore nonna salutarci e diventare sempre più piccola. Anche quella mattina era scalza. Lei non aveva scarpe”.

Da quel giorno, Mimmo Calopresti ha scoperto l’altra trequarti del mondo, le luci inaspettate (“lo stupore è arrivato quando ho visto il primo semaforo”), il pericolo (“vivevo in mezzo ai banditi, e mi piaceva. E mi piace”), la politica, Lotta Continua, le botte, gli assalti, il cinema grazie a Nanni Moretti (“quando mi ha convocato ho provato paura”).

Rispetto a quell’alba, Mimmo Calopresti è diventato un uomo di 65 anni che ama stupirsi, non necessariamente stupire; un uomo che conosce il valore e (a volte) la necessità dei compromessi, ma non crede sia obbligatorio abbracciarli (“c’è sempre un’altra via”); un uomo che è tornato nella sua terra per girare Aspromonte – La terra degli ultimi, un film poetico, di lotta e sopravvivenza senza tempo, ieri come oggi e domani; di fango e pietre, di dolore, morte e sopravvivenza.

A quasi tutti gli attori ha tolto le scarpe, proprio come sua nonna. “Nessuno si è lamentato, anzi: c’è stata una condivisione rara, senza paura”.

E come mai quei timori ai tempi di Moretti?

Quando iniziai a lavorare con Nanni per La seconda volta, la fidanzata di allora mi guardò e decise: “Ce l’hai fatta, sei riuscito a entrare nell’Olimpo”. E io: “No, sono arrivato all’inferno, e adesso la mia vita cambierà completamente e per sempre”; in testa avevo già la stesse scelte portate avanti da Moretti.

Cioè?

È un mito per la sua coerenza: chi lavora con lui si mette nei guai, da quel momento non puoi tradirlo.

E quindi…

Quella strada non è semplice: oltre alla coerenza devi restare indipendente, con la tua testa, e poi centrato, conoscere cos’è la responsabilità; ero terrorizzato all’idea di dovermi assumere delle scelte importanti, perché poi sono quelle che ti determinano.

Il regista esercita una forma di leadership?

Devi aver carattere, e oggi ce n’è poco tra i registi, gli sceneggiatori e gli stessi interpreti; il Moretti attore aveva una tale forza da poter stravolgere un film, e tu dovevi farti trovare pronto al confronto, lottare e perdere. Qui sta la grandezza.

E lei com’è da attore?

Ultimamente ho ricevuto dei grandi complimenti e delle proposte, però mi sono fermato davanti a quest’idea: rischio di diventare troppo critico.

Con il regista o con se stesso?

Anche con il regista e può tramutarsi in un dramma per chi deve sopportarmi; però ho un certo desiderio di cimentarmi.

“Aspromonte” ha un cast con attori di carattere.

Sergio Rubini è uno con il quale è difficile confrontarsi: è tosto, bravo sia come interprete sia da regista, e con un percorso artistico importante; una sera, durante le riprese, ci fermiamo a cena e in tv passa un’immagine di un film di Fellini, con il quale ha lavorato.

In “Intervista”.

Esatto, e mi dice: “Federico in Italia è un uomo dimenticato”. Ci ho pensato, così la notte ho cambiato una scena, ho portato un’idea di circo in Aspromonte, proprio in omaggio a Fellini e Rubini.

Perché è difficile confrontarsi con lui?

Quando incontri uno come Sergio, non hai davanti uno qualsiasi, ma un attore protagonista di film di spessore e anche in questo sono stato fortunato ad aver iniziato la carriera con Moretti: dopo non puoi farti addomesticare dalla paura.

Poi ha lavorato con Depardieu.

Con lui ci ho messo del tempo prima di uscire da uno stato di soggezione; la sera del nostro primo incontro, mi invita a cena a casa sua: si piazza in cucina, prende una enorme pentola, la riempie d’acqua e la poggia sui fornelli.

E fino a qui tutto bene.

Guardavo ammirato la sua plastica decisione nei movimenti, poi però estrae dal frigo un pollo sano, lo eviscera e smembra con le mani, e lo butta nell’acqua

Lo ha mangiato?

Buonissimo, alla francese.

Quante bottiglie di vino ha bevuto Depardieu?

Tante, e allora professava un metodo: preferiva non vivere perennemente con dei limiti, ma si lasciava andare, ingrassava senza misura, per poi dimagrire radicalmente.

Oramai la seconda fase non c’è più…

È bulimico di tutto, dal cibo, al vino, fino alla vita: quando stai con lui vieni coinvolto in molteplici situazioni e contemporaneamente; hai la sensazione di aver di fronte uno in grado di gestire più esistenze; (ride) un giorno all’improvviso è partito per Cuba convinto di trovare il petrolio, e lì ha acquistato una trivella e ne ha parlato con Fidel. Lui è così. Non si ferma mai.

E sul set?

Tra un ciak e l’altro è al cellulare: un giorno mi chiama, chiacchiera con calma, poi sento qualcuno che dall’altra parte gli chiede qualcosa, e lui a me: “Un minuto e torno”; durante l’attesa sento “ciak, azione”, Gerard che pronuncia le battute, e dopo due minuti ricomincia a parlare al telefono.

Non ha bisogno di entrare nel personaggio.

Recita all’impronta perché lui è cresciuto in mezzo alla strada, esattamente come Al Pacino: quando li conosci, percepisci la loro storia; però Depardieu è uno tanto sregolato nella vita, quanto preciso e disciplinato nella scena.

Disciplinato?

Quasi in maniera mistica: parla di Sant’Agostino come fosse suo fratello. Lo recita. Ma conosce talmente tanto la vita da potersene fottere di tutto.

È uno pericoloso?

Molto. Una sera sotto casa sua, azzardo: “Gerard, fai troppa tv, basta”. E lui serio: “Se lo dici un’altra volta ti spacco la faccia: trovami quattro registi importanti in grado di coinvolgermi in altrettanti film, e all’anno”.

Valeria Golino definisce “pericoloso” Rubini.

Può essere. Sergio ha la cazzimma di chi vuole vincere, non ha paura a battersi, mentre spesso il cinema è da fighetti, esattamente l’opposto della visione di uno come Abel Ferrara, secondo il quale è un’arte in mano ai criminali.

E lei?

Sono nato in mezzo a una strada di Polistena, poi sono emigrato con i miei a Torino, e lì da adolescente sono finito tra le lotte operaie, la politica e le botte con la polizia.

Quindi…

Sono cresciuto con i peggiori, gli ultimi mi accompagnano da allora e ho amici finiti in carcere; sì, gli ultimi mi affascinano.

Marcello Fonte è nel cast: lui è tra gli ultimi?

È un poeta della vita, come nel film; se stai tra i disgraziati, e sei un poeta, elevi i disgraziati stessi.

La Palma d’Oro vinta è un caso?

Ha un potenziale enorme, può diventare un numero uno a livello mondiale, e ha una passione, una curiosità e un desiderio di imparare non comuni: finite le riprese è rimasto un’altra settimana per aiutarmi con i bambini, e il set lo ha voluto condividere con la mamma ottantenne; la prima volta che ci siamo conosciuti era arrivato dalla Calabria e si è presentato con dei dolci cucinati in casa.

Radici.

Quel gesto mi ha ricordato l’infanzia, di quante volte siamo tornati dal paese con la macchina piena di odori e sapori; non solo: durante le riprese Marcello portava le melanzane e i pomodori sott’olio preparati dalla mamma e chiusi nei barattoli. Era il cibo più conteso tra i presenti.

Ricorda la Calabria che racconta nel film?

Ho negli occhi mia nonna a piedi nudi, con un cesto in testa, mentre va a vendere le uova. Teneva le galline in casa. E spesso mi portava in campagna o a Rosarno.

A piedi nudi.

Sempre, e camminava per dieci chilometri, e tutti i giorni riusciva a garantire da mangiare alla famiglia.

Le è dispiaciuto lasciare la Calabria?

Oggi sì, allora no, la vivevo come una grande avventura.

Del nord, cosa l’ha colpita?

Il semaforo: non ne avevo mai visto uno; poi siamo andati a vivere in un quinto piano e per me era un sogno, e giocavo con gli altri bambini del piano.

Chiuso nel palazzo?

Io? A sei anni già stavo per strada, e lì bivaccavano e presidiavano il territorio una serie di meridionali delinquenti e cattivi, dei rapinatori: non entrava neanche la polizia.

Suo padre sapeva delle frequentazioni?

Si incazzava da morire, era uno straperbene che andava a lavorare alla Fiat con giacca e cravatta e il giornale in tasca.

Ha scritto un libro su Torino, la Fiat e Gianni Agnelli.

L’avvocato l’ho incontrato e gli piaceva l’idea che fossi amico di Carla Bruni: era pazzo di Carla; ma in realtà gli si illuminavano gli occhi appena l’argomento era incentrato sulle donne.

Niente calcio.

Sono tifoso del Toro.

Chi arrivava dal sud era spesso juventino.

Mio zio era approdato a Torino nei primi anni Cinquanta ed era diventato il sarto dei calciatori granata, quindi andavo allo stadio con lui e da grande ho seguito la squadra in trasferta.

Scontri?

A Milano era impossibile evitarli, e allora il confronto fisico aveva un che di teatrale, una messa in scena con protagonista pure la stessa polizia.

Torniamo al film: Valeria Bruni Tedeschi è pericolosa?

Come tutti gli attori ha la necessità di avere un mondo particolare dentro cui navigare, dentro cui vivere (ci pensa) questo è un mestiere pericoloso, e basta vedere Joker: Joaquin Phoenix ha interpretato la parte di un matto vero, e per restituirtelo, qualche pensiero, qualche azione di avvicinamento a quel personaggio è necessaria.

Allora…

Non dico che devi entrare completamente dentro il ruolo, ma alcune avventure intellettuali o fisiche è obbligatorio affrontarle.

Il calore degli inferi.

Poco tempo fa ho parlato con un magistrato calabrese, e gli ho chiesto: “Ma se nel mio prossimo film coinvolgo un bambino, figlio di uno ’ndranghetista al 41-bis, rischio?”

Risposta?

“Mimmo, sei un regista e devi conoscere, poi sta alla tua coscienza decidere come raccontarlo”; a volte mi domando dove sarei finito.

E…

Per uscire da un mondo di disgraziati è stato importante lo studio.

Come andava a scuola?

Bravo alle elementari, ho vinto un premio per un tema sulla Resistenza; male alle medie perché non riuscivo a integrarmi, ero molto solo, poi alle superiori è arrivata la politica ed è stato un dramma dal punto di vista dello studio.

Con i bambini del film, c’è stato il “rischio-Bellissima”?

Con tutti, in particolare con uno di loro che poi non ho preso perché troppo piccolo; lui viene da una famiglia di ‘ndranghetisti, e la mamma preoccupata mi ha pregato: “Per favore gli dia un contratto, magari è la sua salvezza”.

Con i minori coinvolti, com’è andata?

All’inizio si sono presentati con dei tagli di capelli mutuati dai calciatori; appena li ho visti mi ha avvolto lo sconforto, poi ho affrontato la questione: “Se c’è tempo, li dovete far crescere, altrimenti vi rado”.

E loro?

Volevano rinunciare, vivono solo d’immagine, e temevano di mandare in giro foto non adeguate alla loro idea di vita.

Tra gli interpreti c’è Elisabetta Gregoraci, ex di Briatore.

È stata brava a non mollare un colpo, a buttarsi nel fango, sporcarsi, camminare tra le pietre e a piedi nudi. Senza alcun timore. E alla fine delle riprese era talmente presa dal contesto da rammaricarsi per non aver portato il figlio; altro che Montecarlo.

Perché questo film, perché ora?

Quando l’ho girato non avevo ben chiaro l’obiettivo, avevo solo una necessità di narrare questa storia del passato, una vicenda vera quanto utopica; poi ho capito che stavo pensando all’oggi, a quanto è complicata questa esistenza.

Da giovane promessa, oggi è diventato un grande maestro?

No, voglio restare una giovane promessa: per me è chiaro il passato, è chiaro chi sono, ma non ho raggiunto il punto finale di quello che voglio realizzare.

(Ps. Chi scrive ha partecipato al film con un piccolissimo ruolo da giornalista. Alla fine delle riprese l’aiuto regista si è complimentata: “Bravo, molto credibile, e la camminata, un po’ zoppa, ha caratterizzato il personaggio. Bell’idea”. In realtà avevo un problema alla gamba…).

@A_Ferrucci

“Turchia, contro i curdi una guerra inutile”

È un fan dell’Europa Mustafa Tunç Soyer, neo sindaco di Smirne, seconda metropoli della Turchia per numero di abitanti e importanza economica, oltre che roccaforte del partito laico repubblicano Chp, il maggiore rivale del partito di ispirazione islamica Akp guidato dal presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan. Ospite di Transeuropa festival, organizzato a Palermo dal filosofo Lorenzo Marsili nell’ambito della Biennale Arcipelago Mediterraneo, Soyer ha concesso al Fatto un’intervista esclusiva.

La deriva dittatoriale del capo dello Stato che ha aggravato la crisi economica nazionale turca facendo fuggire gli investitori stranieri, non è riuscita a danneggiare Smirne quanto altre, città perché la municipalità di questa località costiera è da sempre nelle mani dei repubblicani. Anche Soyer, laureato in Legge ad Ankara e specializzato in diritto internazionale a Ginevra, è un esponente del Partito repubblicano e prima di diventare sindaco della città più occidentalizzata della Turchia aveva già guidato con grande successo una delle sue più vaste circoscrizioni. Assieme al collega di partito Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul, Soyer rappresenta una speranza per i milioni di turchi contrari alla concentrazione di poteri nelle mani del Sultano e alla sua aggressività in patria e all’estero. Le ultime elezioni municipali dello scorso marzo sono state un vero e proprio smacco per Erdogan: il suo partito dopo 20 anni ha perso, a favore del Chp, tutte le città più importanti.

Soyer rispetto ai vertici del Partito repubblicano ha espresso pubblicamente una posizione ancora più critica circa la cosiddetta operazione “Fonte di pace” dell’esercito turco nel Rojava curdo siriano. “Non si può risolvere la disputa con i curdi attraverso la guerra, né dentro i confini turchi né dentro a quelli di altri Stati sovrani. La violenza alla lunga non paga. Bisogna dialogare e integrare permettendo che ognuno possa frequentare anche la propria cultura”. A proposito della carcerazione preventiva a cui è sottoposto da tre anni esatti il parlamentare e fondatore del partito filo curdo democratico dei Popoli, Hdp, Selahattin Demirtas, Soyer dice: “È molto triste e ingiusto che questo leader nonché parlamentare venga perseguitato con accuse false di terrorismo. Ma spero ancora che la magistratura alla fine mostri la propria indipendenza” . La costa di Smirne è quella da cui è salpata la maggior parte dei profughi nel 2014 per raggiungere la Grecia fino a che l’Unione europea ha stipulato con Ankara l’accordo per trattenere i migranti in cambio di 6 miliardi di euro. Dopo le critiche mosse da Bruxelles contro l’operazione dell’esercito turco nel Rojava curdo, Erdogan ha minacciato di riaprire la frontiera marina, e in parte l’ha fatto. Il sindaco di Smirne ritiene che i profughi siano una fonte di arricchimento e vadano accolti e integrati anche se la maggior parte dei turchi non la pensa così . “Non sono sicuro che i miei cittadini siano d’accordo con la mia visione, ma devo fare del mio meglio per convincerli che la cosa più preziosa è la nostra umanità e non dovremmo dimenticare chi siamo e ciò che accomuna le culture”.

Molti attivisti hanno proposto il boicottaggio della Turchia, a partire dal turismo, per punire Erdogan, ma Soyer non è d’accordo . “Non credo che il boicottaggio indebolirà il regime, sarà dannoso solo per la popolazione”. Il sindaco non teme l’ira del Sultano che ha già fatto finire dietro le sbarre funzionari pubblici, sindaci compresi, con accuse prefabbricate. “Non posso barattare le mie idee. Prima o poi tutto ciò passerà”.

“Spagna, che memoria corta: hai già dimenticato la dittatura”

Un lauto bottino quello che oggi potrebbe conquistare il partito di ultradestra spagnolo Vox alla ripetizione elettorale dopo il fallimento dell’investitura del governo socialista di Pedro Sánchez pur uscito vincente dalle urne di aprile.

Cinquanta parlamentari di ispirazione neo-franchista potrebbero sedersi sugli scranni della Cortes, mentre i dati che arrivano dai sondaggi parlano di un déjà-vu dei risultati precedenti. Se così fosse, non soltanto sarebbe difficile per Sánchez formare un governo per la seconda volta in un anno, con quello che significa per l’economia del Paese, già in frenata, ma si assisterebbe a un’ulteriore polarizzazione del voto verso l’estrema destra. “Nei paesi come la Spagna, in cui la dittatura non è ancora un ricordo così lontano, bisogna portare avanti un lavoro serio con la memoria storica perché la storia non torni a ripetersi”. Così commenta il ritorno dell’estrema destra la scrittrice spagnola Carmen Romero Dorr, autrice de L’ultimo regalo di Paulina Hoffmann. Nel suo libro, uscito in Italia per Sperling&Kupfer, Dorr racconta la storia di Alicia, una giovane donna che segue le tracce lasciate da sua nonna, Paulina appunto, morta a Madrid, ma di origine tedesca. La vicenda di Paulina si snoda attraverso i regimi del secolo scorso: dopo aver vissuto la Berlino nazista e quella sovietica, scappa in Spagna proprio negli anni della dittatura di Francisco Franco.

Paulina, la nonna della protagonista è vissuta in due Paesi: nel 1945 fuggì dalla Germania, dove passò da Hitler all’occupazione sovietica, per finire in Spagna sotto Franco. Cosa l’ha spinta a raccontare questa storia?

Il motivo principale è che la storia è ispirata alla vita reale di mia nonna. Come Paulina nel romanzo, anche lei è cresciuta a Berlino negli anni del nazismo e la Seconda guerra mondiale, e anche lei arrivò con la sua famiglia a Madrid nel 1945, durante gli anni più duri post-guerra spagnola. La mia intenzione è stata ricreare questa storia familiare e, allo stesso tempo, rendere un omaggio letterario a molte donne di quella generazione che – pur avendo vissuto quegli anni terribili da bambine e da adolescenti – furono capaci di andare avanti e creare le basi perché le proprie figlie e le proprie nipoti potessero avere una vita serena.

Nel libro si svelano molti segreti. In Spagna si discute di tutte le cose che si ‘seppellirono’ durante la Transizione dalla dittatura alla democrazia, soprattutto con l’ascesa di Vox. Crede che andrebbero riesumate così come è stato per i resti di Franco?

Sembra una frase fatta, eppure è così: conoscere la storia è l’unico modo per non ripeterla. Soprattutto nei Paesi in cui conflitti e dittature non sono avvenuti in epoche così lontane.

Come diceva, lei racconta una storia in cui il coraggio delle donne così come il loro ruolo è importante. Ma al dibattito elettorale principale hanno partecipato solo uomini. Crede che in Spagna esista una reale parità tra uomini e donne?

Ho raccontato il coraggio delle donne perché questo compare molto meno di quanto dovrebbe nei libri di Storia. Sappiamo tutto degli uomini che hanno combattuto al fronte, al contrario sappiamo molto poco delle donne che restavano a casa ad assistere a come il proprio mondo andasse in frantumi. In Spagna, sicuramente abbiamo fatto dei grandi passi avanti sulla questione dell’uguaglianza tra uomini e donne rispetto ai tempi in cui è ambientato il mio romanzo, ma siamo ancora lontani dalla piena uguaglianza. Basta guardare i dati sulle differenze salariali tra uomini e donne o le notizie sulle violenze di genere di cui parlano ogni giorno gli organi di informazione”.

Dalla ex Ddr alla AfD: “Oggi democrazia finta, buona solo a dirci nazi”

“Portare a termine la svolta” (Vollende die Wende): è questo lo slogan con cui Alternative für Deutschland, il partito di destra tedesco nato nel 2013, ha sbancato alle ultime tre elezioni regionali nella ex Ddr, tra settembre e ottobre. La Wende (“la svolta”) è il termine con cui i tedeschi chiamano gli eventi del 1989 che hanno portato alla caduta del Muro di Berlino. Come ha fatto l’Afd in questi anni a radicarsi nei cuori degli ex cittadini della Ddr? Lo abbiamo chiesto a loro, a chi è sceso in strada nell’89 e ora vota o fa politica per l’Afd.

Lars Huenich, 48 anni, è fresco di nomina tra le file dell’Afd nel Parlamento regionale del Brandeburgo, la regione che circonda Berlino. Ci parliamo dopo la seduta plenaria di Potsdam, dove l’Afd ora è presente con 23 deputati su 88. “Sono di Dresda e nell’89 avevo 18 anni e facevo una formazione professionale come operatore di macchine e impianti – racconta Huenich –, ma ero molto attivo nei circoli giovanili della Ddr come l’Fdj (la federazione giovanile comunista della Ddr). Bisogna dire che vissuta da giovani la Ddr andava bene”. “Sono sempre stato impegnato a sinistra – continua Huenich – fin da quando ho votato il Pds nel ’90 (il partito socialdemocratico dell’Est nato dalle ceneri del Sed). Per me era importante che ci fosse una rappresentanza politica dei tedeschi dell’Est dopo la svolta. Poi ho votato Linke (la Sinistra) e nel 2014 si può dire che ho cambiato all’Afd dall’oggi al domani. Perché qui c’era rispetto anche delle opinioni diverse, mentre nella Linke non mi sentivo più a mio agio”, dice. “Oggi la Linke non rappresenta i tedeschi dell’Est come dovrebbe. Il suo tema principale è essere contro la destra, non ha più altro contenuto, nemmeno la giustizia sociale. O meglio, la giustizia sociale è un tema importante, ma non è applicata ai tedeschi, ma ai più deboli”. Cosa significa “portare a termine la svolta?”, chiediamo. “Le persone che sono scese in strada nella Ddr non chiedevano di entrare subito in una grande Repubblica federale, chiedevano solo una Ddr più democratica, con più libertà di pensiero e con libertà di viaggiare”, risponde. “Dopo l’89 la Repubblica federale invece ha sconvolto il nostro sistema. Nei primi anni dopo la ‘svolta’ ci sono stati molti passi in avanti riguardo a democrazia e libertà di espressione, ma negli ultimi dieci anni siamo tornati indietro. E Vollende die Wende significa questo, riprendersi quello che non c’è più. Oggi chi chiede più democrazia e più libertà di espressione viene chiamato nazi”. Vuole dire che oggi non c’è democrazia? “Anche la Ddr ha finto la democrazia – prosegue Huenich – e non dico che siamo a questo punto, ma la democrazia di oggi è sotto-rappresentata. Le persone sono coinvolte troppo poco. Le comunità così come i consigli comunali dovrebbero avere più potere perché sono più vicine alle persone rispetto ai consigli regionali o al Parlamento”. “Noi dell’Afd a Est siamo così forti perché le persone hanno la sensazione che la democrazia non sia quella che avevamo sperato nell’89. Oskar Lafontaine nel 1990 avrebbe agito meglio di Kohl. Lui sosteneva che dovevamo avvicinarci passo passo e decidere insieme come andare avanti. Sarebbe stato meglio di questa fretta indiavolata. Anche se d’altra parte capisco la precipitazione, c’era la paura che i russi tornassero indietro sulle loro posizioni”.

Con Christina Baum ci sentiamo al telefono domenica sera, mentre sta tornando a casa dopo aver fatto da babysitter al nipotino, vicino Würzburg. “I rappresentanti del popolo non conoscono fine-settimana” ci dice la deputata dell’Afd nel Parlamento del Baden-Württemberg. Baum è una deputata locale a Ovest ma è nata a Est, a Kleingrabe, un minuscolo paesino della Turingia. “Ho lasciato la Ddr nel giugno 1989, poco prima della caduta del Muro, per sposare mio marito e lavorare nel suo studio dentistico all’Ovest” racconta. “Sono nell’Afd dall’inizio, dal 2013, prima votavo per i liberali”. “Il mio impegno nell’Afd non ha tanto a che vedere con la svolta dell’89, ma con la mia socializzazione nella Ddr e con i suoi ‘effetti collaterali’: so che cosa significa quando uno non si può esprimere liberamente” racconta la deputata. “Questo lo ritrovo anche oggi a Ovest. Certo, c’è la possibilità di esprimersi, ma socialmente si viene esclusi o insultati. Le faccio un esempio: mentre stai chiacchierando in un locale, dici la tua, a quel punto arriva qualcuno che si intromette e ti insulta dicendo “Nazi raus!” (“Nazi fuori!”). Capisce che intendo? I cittadini dell’Est non vogliono certo tornare ai tempi della Ddr, ma vedono che la loro libertà è limitata e si sentono sotto tutela. C’è paternalismo nel dire loro che auto guidare o nel dire cosa devono imparare a scuola i bambini. Noi abbiamo le antenne per certe cose”. “C’è un po’ di ostalgie (nostalgia dei tempi dell’Est, ndr), certo, prima c’era più il senso della comunità, ci si aiutava l’uno con l’altro, anche se questo era anche sintomo di una carenza”.

La signora Claudia Timm lavora in proprio come intermediario finanziario a Erfurt, il capoluogo della Turingia dove l’Afd ha raccolto il 23,4% alle ultime elezioni. Uno dei voti è il suo. “Avevo 30 anni nell’89. Lavoravo come dipendente di banca e dopo la ‘svolta’ mi sono messa in proprio come consulente finanziario, trovare lavoro sarebbe stato più difficile”. “A 60 anni nella Ddr si andava in pensione e a questo punto sarei stata una felice pensionata, ma ora il governo ha deciso che mi tocca lavorare fino a 66 altrimenti la mia retribuzione viene decurtata e dovremmo vivere con 1.600 euro al mese”, ci racconta. “Questa è una delle ragioni principali per cui ho votato Afd: le mie tasche”. “Speravo che dopo l’89 il governo sostenesse i piccoli imprenditori, per aiutarli invece sostiene solo i grandi. A un certo punto lo Stato ha dimenticato il ceto medio. Abbiamo dovuto fare tutto da soli, mentre quando arriva un migrante gli danno tutto: gli regalano l’assicurazione sanitaria, la casa, i corsi. Questo è il punto”.

Iniziativa popolare, gli infiniti ostacoli per partecipare

Gli scatoloni contenenti le firme raccolte per la Legge di Iniziativa Popolare (LIP) presentata dal Comitato Stefano Rodotà per la difesa dei beni pubblici e comuni (www.generazionifuture.org) sono stati depositati presso la Camera dei deputati. È un buon momento per aprire una discussione sulla partecipazione democratica, il che speriamo avvenga in modo serio oggi in un’Assemblea organizzata dal Comitato Rodotà presso l’Università Valedese in Piazza Cavour a Roma con esponenti dei partiti, delle istituzioni e dell’accademia. Alla LIP la Costituzione dedica il capoverso dell’art. 70: “Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi mediante la proposta, di ameno 50 mila elettori, di un progetto redatto in articoli”. Nella storia repubblicana sono state presentate centinaia di LIP. Ben oltre la metà di queste non sono mai giunte alla discussione in Commissione, mentre si contano letteralmente sulle dita di una mano quelle giunte in plenaria. In quei pochissimi casi in cui una LIP ha modificato il diritto, ciò è avvenuto non tanto per ragioni formali, quanto per aver attivato un processo politico poi confluito in strumenti di maggior efficacia, come il referendum abrogativo (è il caso della LIP sull’acqua bene comune) o la recezione da parte di un governo sensibile (legge del 1983 su adozione e affido minori). L’istituto è debole e andrebbe rafforzato. Infatti, l’iniziativa diffusa è essenziale per motivare partecipazione e dunque legittimità democratica. La legge del 1970 che disciplina in Italia la raccolta delle firme, dopo mezzo secolo di sviluppo tecnologico, conserva una concezione del rapporto fra cittadino e Stato ottocentesca. Le firme vanno apposte su moduli cartacei vidimati dalla Corte d’appello o dagli uffici comunali. La vidimazione determina l’estensione territoriale della raccolta. Gli uffici dovrebbero vidimare in 48 ore, ma non lo fanno mai. Le firme vanno apposte in presenza di un notaio (giurisdizione regionale) o di un consigliere comunale (giurisdizione locale) delegato dal sindaco. Non è ammessa l’autocertificazione. A raccolta avvenuta il Comitato promotore deve procurarsi i certificati elettorali di ciascun firmatario da allegare ai moduli vidimati, autenticati e sottoscritti… Un incubo che spreme in inutile attività burocratica le energie dei militanti. Nell’era in cui tutto o quasi tutto avviene online e in cui si teorizza un rapporto orizzontale fra cittadino e Pubblica amministrazione, una tale disciplina è del tutto arbitraria (si potrebbe perfino argomentare l’illegittimità costituzionale). Perché il militante che raccoglie ai banchetti non deve poterlo fare sotto la propria responsabilità? La necessità dei certificatori frustra la raccolta oltre lo spirito della Costituzione. Alle porte del 2020, i cittadini non comprendono più che alcune cose non si possono fare online. Questa situazione di obsolescenza tecnologica che allontana sempre più i cittadini dalla politica si è accentuata negli ultimi anni soprattutto a causa dell’impatto dei social media sulla partecipazione politica. Alla convinzione dei più che partecipare in politica sia mettere un “mi piace” su Facebook, occorre rispondere con una infrastruttura per la democrazia diretta che ne incoraggi piuttosto che impedirne l’esercizio. Vedere la rete Internet come un bene comune (e la sua infrastruttura come un bene ad appartenenza pubblica necessaria nei termini della Proposta Rodotà) significa pensarne un accesso non solo commerciale, propagandistico o ricreativo, ma politico-istituzionale.

I beni comuni sono nel programma del governo Conte bis.

Il Comitato Rodotà ha raccolto le firme per ottenere un dibattito parlamentare ampio su questi temi. Nel farlo abbiamo constatato quanto malata sia la democrazia diretta nel nostro Paese.

Il mistero della morte eterno e angoscioso: “In Dio troviamo il senso”

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: “Maestro, Mosè ci ha prescritto: ‘Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello’. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli.

Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie”. Gesù rispose loro: “I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: ‘Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe’. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”. “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. Dio non è dei morti, ma dei viventi perché tutti vivono per Lui” (Luca 20,27-38).

Come non possiamo sfuggire alla morte, così nessuno si esime dal domandarsi su quello che ci attende dopo. Non pochi rispondono “niente”; alcuni ritengono che il bene compiuto sia utile per una reincarnazione. I greci non negano una certa esistenza immortale oltre l’ombra della morte. I sadducei, che interrogano Gesù perché si esprima sul caso del paradossale apologo descritto nel Vangelo odierno, non credono alla risurrezione dei morti. La loro eternità è miseramente carnale, temporale! Eppure, tutti cerchiamo la promessa di un futuro felice, un amore che ci conforti, per compiere sensatamente e con fiducia il bene che dà pace all’umanità. San Paolo raccomanda la buona speranza di Dio, conforto ai cuori e conferma di ogni opera e parola di bene (cfr. 2Ts 2,17). La testimonianza del martirio dei Maccabèi, nella prima lettura, ci fa cogliere come la profonda fiducia nella risurrezione sia in grado di mantenere i sette fratelli fedeli al Signore pur nel tempo terribile della persecuzione: “È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati” (2Mac 7,14).

L’intervento di Gesù, sulla questione postagli dai sadducèi, ci porta su un piano diverso, più profondo, autentico e originario. La questione non è più la seguente: “La donna, dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie?”. Non è un’immortalità biologica a spese della povera vedova. L’uomo, ricorda Gesù, nella realtà terrena non trova alcun rimedio plausibile alla morte. Nel Signore Gesù siamo diventati figli di Dio, gli apparteniamo. Nel suo Amore, ogni nostro amoroso desiderio di vita può trovare definitività, significato, continuità e consistenza contro la voracità insaziabile della morte. In Gesù Cristo, Dio si presenta per sempre come Padre. Anche quando Dio cambia nome ad Abramo, vi mette dentro qualcosa della sua stessa Radice eterna.

Gesù, nel Vangelo, ci dice che la risurrezione è fondata sulla fedeltà di Dio, di cui Lui è il compimento. L’offerta della sua vita per redimere la nostra è legata alla certezza che Dio è il Dio di tutti ed è con noi in ogni istante della nostra esistenza, persino nella morte. Il nome di Dio Padre non può essere pronunciato senza pronunciare legati insieme i nomi di tutti gli uomini che Egli ama. A Lui apparteniamo, a Lui torniamo, in Lui dimoriamo per sempre. La speranza che scaturisce da Gesù Risorto di fronte all’esperienza della morte fa esclamare Tommaso: mio Signore e mio Dio! (Gv 20,28). Non si può dimenticare la certezza fiduciosa e riflessiva, magnificamente espressa da San Francesco ne Il cantico delle Creature: “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ scappare”.

Antifascismo e buone maniere

Sto per confrontarmi con due testi appena pubblicati (un articolo, un libro). Entrambi entrano nel cerchio di attenzione, tensione, derisione provocata dal testo Segre presentato al Senato: una commissione che affronti e interpreti, prima ancora di combatterla, la bolla di razzismo che ogni giorno si gonfia di più, fra bambini e bambini (con la partecipazione accanita delle mamme bianche), fra fascisti e rom, fra tifosi e giocatori, fra padri di famiglia e migranti, fra pattuglie di CasaPound o di Forza Nuova e passanti di razza sbagliata, negli stadi, sui treni, nella metro, nelle scuole, a volte a cura delle maestre, nei Comuni, a volte a cura dei sindaci. E accade che si mandi in fiamme una libreria antifascista (è la seconda volta. La prima il 25 aprile scorso). Allora ci sono due risposte. La prima è non far troppo caso a chi brucia (anzi, forse sono i pusher che vogliono buio, benché si sa che fanno ottimi affari nella movida illuminatissima di Trastevere). La seconda è ammonire gli antifascisti a non bruciare i libri o anche solo le opinioni un po’ eccessive degli altri, come ci insegna lo scrittore di sinistra Orwell. Ciascuno impari a liberarsi dall’odio (che è un sentimento, e dunque non si può proibire) e dia l’esempio con la buona educazione nei talk show. I lettori del Fatto si saranno accorti che sto citando Massimo Fini, amico e collega ammirato, al quale mi oppongo quando scrive, citando la Commissione Segre: “Neanche i peggiori totalitarismi si erano spinti fino a questo punto: punivano le azioni, le ideologie, le opinioni ma non i sentimenti.”

Si è dimenticato delle giovani donne incinte arrestate perché incinte, dal fascismo argentino, al fine non politico di rubare e distribuire ai loro camerati i bambini partoriti in prigione, per poi gettare in mare, dagli aerei militari, centinaia di giovani donne vive, sane, coscienti, che non avevano mai potuto vedere il loro bambino. E si è dimenticato dell’uso deliberato dei sentimenti come la più odiosa delle armi, proprio mentre il discorso si riferiva a Liliana Segre, bambina che ha dovuto attraversare Milano in una marcia di ebrei, cittadini italiani circondati e spinti da soldati fascisti e tedeschi fra il disinteresse dei passanti, verso il treno di Auschwitz. La piccola Segre era aggrappata al padre, ma alla fine del viaggio indicibile (partenza dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano affollata di “normali” viaggiatori) la mano della bambina è stata strappata dalla mano del padre, perché il padre è stato ucciso subito. Dove metterebbe Fini il confine fra l’odio-sentimento che non può essere proibito e il momento in cui il fascista, debitamente motivato dal sentimento praticato e nutrito, butta in mare la ragazza che ha appena partorito, o la bambina costretta a lasciare per sempre la mano del padre, sentimento o atto politico spaventosi? Dov’è il punto di separazione e di differenza? Ma questo tipo di riflessione-assoluzione (il pensiero non si censura mai) continua in un saggio (Libri al rogo, la politica e la cultura di Pierluigi Battista, La Nave di Teseo editore). Siamo di nuovo ai piani alti dello scrivere giornalistico contemporaneo. Come nella visione di Massimo Fini, ma nella forma più elaborata, del saggio ricco di approfondimenti e citazioni, Battista sostiene che tutti siamo parte di un paesaggio che dovremmo imparare a riconoscere. Osservate bene. In alto c’è il liberalismo, dove i buoni e i saggi presidiano un territorio, non importa se di destra e di sinistra, che ha per valore assoluto rispetto e libertà, e dunque anche la bibliografia di Hitler e le numerose, recenti imitazioni devono essere ammesse e rispettate E pazienza se i destinatari delle vecchie e nuove pagine sono scampati alla morte programmata da quelle idee e alcuni sono ancora qui a raccontare che cosa accadeva quando l’odio-sentimento di Fini diventava azione. C’è stata una linea di confine? Qualcuno l’ha prevista?

Dell’odio come sentimento prima dell’azione sappiamo molto. Ce lo ricordano le piazze piene che vogliono più razzismo, il sindaco di Predappio che nega i soldi del viaggio a ragazzi che vorrebbero andare ad Auschwitz, spiegandogli che “è un viaggio di parte”, la mamma del piccolo giocatore di calcio che grida al bambino avversario “negro di merda”, i saluti coloniali da tutte le curve degli stadi di calcio a tutti i giocatori neri. Tutto ciò è stato definito con esattezza dal Presidente Mattarella “odio concreto” che è cosa diversa dal confronto di opinioni. Come non potrà mai essere diversa e rispettabile l’opinione del capo curva del Verona secondo cui “Balotelli non potrà mai essere interamente italiano”. Non c’erano due parti ad Auschwitz, o alle Fosse Ardeatine o in via Tasso. Solo carnefici e vittime. Ma i carnefici sono stati battuti. Non possiamo trattarli come interlocutori rispettabili perché non si può cambiare la storia. Solo la voce, i principi, i valori, gli eventi veramente accaduti dell’Antifascismo hanno diritto di essere la nostra storia. Il resto è imbroglio.

Mail box

 

Tutta la solidarietà per gli operai dell’Ilva

Il mio pensiero va agli operai metalmeccanici di Taranto colpiti in questi anni da una grave crisi. Era nell’aria, ma la notizia di Arcelor Mittal ha notificato ufficialmente ai commissari straordinari dell’Ilva la volontà di recedere dall’accordo di un anno fa.

Mi auguro che si possa amplificare la voce di questa realtà e delle persone che grazie a essa vivono per un posto di lavoro dignitoso.

Massimo Aurioso

Il presidente Conte merita rispetto: è andato a Taranto

Giuseppe Conte si sta rivelando un uomo coraggioso: di fronte a Salvini non arretrò di un passo, lo sfidò pubblicamente in Parlamento, non cercò compromessi per difendere la poltrona.

Quanti “onorevoli” di carriera hanno venduto, rivenduto e stanno ignominiosamente ancora rivendendo l’onore di essere stati eletti e il conseguente impegno morale della disciplina dovuta alla parte politica sotto la cui bandiera hanno chiesto i voti.

Il premier ha rispettato Taranto ed i suoi cittadini in grande sofferenza con una presenza addirittura ovvia per la più alta carica di governo ma, nella storia, consueta solo per gravissimi disastri naturali.

Conte, non eletto dal popolo, non è mancato ai suoi doveri verso una popolazione straziata da troppi anni: merita rispetto.

Giampiero Buccianti

 

Arcelor Mittal, forse l’unica strada è la nazionalizzazione

I richiami sia di Giuseppe Conte sia di Nicola Zingaretti all’unità e compattezza del governo e alla coesione del Paese per risolvere l’affaire ex Ilva, ovvero ArcelorMittal, i quali vogliono ritirarsi dagli impegni senza pagare i danni, né subire sanzioni, sono giusti perché in questo momento le critiche al governo o a quelli precedenti non servono a risolvere il problema e del minacciato recesso da parte di Arcelor Mittal, nonché del licenziamento di 5.000 operai. E, allora, forse l’unica strada, anche se non semplice, potrebbe essere quella della nazionalizzazione dell’ex Ilva in attesa di tempi migliori per reperire acquirenti più capaci e disposti ad accollarsi il peso del colosso siderurgico italiano. Nonostante i giusti richiami, l’opposizione becera insiste nelle critiche al Conte-2, e Salvini spicca come sempre per i suoi insulti al governo. Ma perché quando c’era lui al governo erano tutti bravi?

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Il sindaco di Predappio vada ad Auschwitz per capire

Sindaco di Predappio, lei ha negato i soldi a uno studente per un viaggio ad Auschwitz, perché giudica questa sensibilizzazione unilaterale e non bilanciata dalla memoria di altri crimini, come le foibe e il comunismo.

Condivido la pari dignità delle vittime degli eccidi, ma non le motivazioni che li hanno provocati. Lo sterminio pianificato di un intero popolo è di una gravità assoluta.

Eppure il nazismo e il fascismo – al contrario del comunismo – stanno tornando a contaminarci. Vediamo sempre più spesso squadristi ostentare simboli e pose aggressive, pronunciare parole d’odio per chi non è della loro religione e carnagione, usare una tale violenza anonima da costringere alla scorta una persona anziana e autorevole come Liliana Segre. Che non vuole tacere e continua a testimoniare l’orrore, che molti chiamano onore.

Sindaco Canali, se lei fosse andato da giovane a visitare Auschwitz, non avrebbe negato questa profonda esperienza al suo studente. Ripensi al suo divieto e colga l’occasione per andarci insieme.

Massimo Marnetto

 

Treni, sono quasi scomparsi gli agenti ferroviari

La violenta aggressione avvenuta nel Frecciarossa Torino-Roma subita da una signora, ci lascia alcune amare riflessioni. Durante i ripetuti atti di violenza sulla vittima, solo la presenza di un coraggioso passeggero ha evitato una sicura tragedia. Una prima domanda riguarda la quasi scomparsa degli agenti della polizia ferroviaria nei treni: sino ad alcuni anni fa si poteva infatti notare la loro presenza specialmente nei convogli a lunga percorrenza molto utile anche sotto un profilo psicologico nei confronti dei passeggeri. Si preferisce invece tagliare in tutti i settori compreso quello primario delle ferrovie i cui risultati purtroppo negativi sono sulla bocca di tutti mentre, guarda caso risultano assai positivi i bilanci economici di Trenitalia.

Nicodemo Settembrini

 

Calabria ed Emilia, il M5S non deve mollare

Grave errore farebbe il M5S abbandonare gli elettori pentastellati al probabile ritorno dello squallido passato.

Mi è sempre stato detto che quando si è dalla parte della ragione non si deve mai disertare la lotta anche se si rischia di perdere, per non rinunciare a quei diritti che ci permettono di continuare la lotta.

Omero Muzzu

 

I nostri errori

In riferimento all’articolo “Soros, gli Agnelli e Sindona jr, chi finanzia la galassia Radicale” uscito sul Fatto di ieri, si precisa che i dati relativi alle 5.807 tessere e ai circa 900 donatori del 2018 non sono riferiti ai Radicali Italiani, ma a Più Europa, il movimento politico in cui sono confluiti molti esponenti degli stessi RI prima delle scorse elezioni politiche. Ci scusiamo con gli interessati e con i lettori.

Salvini stia attento, i suoi elettori chiederanno il conto

 

“Emilia, quel paese in rivolta per 35 migranti, che non si fida più nemmeno della Lega”.

Repubblica

 

Considerata la cospicua produzione su tutto ciò che piace al loro amatissimo Matteo (Salvini), non saprei dire se i tenutari dei talk che pascolano sulla paura spazzatura si siano già occupati di Ravalle, frazione di Ferrara. Dove, malgrado il partito del mojito abbia il 70 per cento dei consensi, gli abitanti si esprimono in termini piuttosto irritati con i nuovi regnanti visto che della città estense è sindaco Alan Fabbri, leghista col turbo. Tanto che, racconta Brunella Giovara, si lasciano sfuggire frasi del tipo: mesi di campagne sui porti chiusi e ci mandano gli stranieri? Certo, potrebbero (i tenutari) rigirare la frittata scaricando la colpa sull’attuale governo abusivo, comunista eccetera. Però si ha come l’impressione che la cosiddetta pancia del Paese abbia bisogno di nuovi sostanziosi nutrimenti avendo già addentato, masticato, ingurgitato, digerito tutto l’odio e il disprezzo possibile verso la sinistra buonista, calabraghe, asservita allo straniero eccetera. Domanda: e dopo che avrai espugnato una regione dietro l’altra, e magari fai strike e quindi ti prendi Roma con tutto il cucuzzaro ok, ma poi esauriti gli hurrà e lo champagne a tutta quella gente che ti ha portato in trionfo ai seggi cosa gli racconti di bello? Che i porti non puoi chiuderli col catenaccio perché nessuno può farlo, o che non puoi neppure rispedire centinaia di migliaia di clandestini a casa perché subito te li rispediscono indietro. E che nemmeno puoi uscire dall’Europa e dall’euro poiché per tornare alla vecchia, amata liretta (e all’olio della nonnina per curarti l’orzaiolo) non sai neppure come si fa. Tutto infatti già visto quando il grande capitano sedeva (si fa per dire) al Viminale. Forse fu per questo che sulla famosa spiaggia gridò alla luna che voleva i pieni poteri, preciso a Ciccio Ingrassia che in “Amarcord” gridava: voglio una donnaaa! Se (per modo di dire) potessimo dargli un consiglio, gli diremmo che questo è un Paese che prima o poi ti presenta il conto. E che puoi anche gonfiarti di voti come la famosa rana, ma poi se mille Ravalle si mettono in testa che li hai presi per i fondelli, bada che il popolo sovrano te li fa sputare tutti, uno a uno (chiedi al tuo nuovo sodale Renzi e ai 5stelle). E, sempre per non farmi i fatti miei, occhio ai fascisti del Terzo millennio e a tutte le teste rasate a cui cerchi di lisciare il pelo nero quando per esempio con i soliti, ributtanti dico e non dico fai lo slalom con Liliana Segre e con l’immenso dolore che essa rappresenta. Occhio perché sono voti che se fai il furbo ti tornano sui denti, quella è gente che poi vuole mano libera contro ebrei, zingari e negri. Quelli menano. Ha scritto sul Foglio, Alfonso Berardinelli, che Salvini “è solo una mosca sul cappello di chi guida il carro”. Che “non fa paura lui, fa paura chi lo vota”. Ecco, appunto.

Antonio Padellaro